Archivio del Tag ‘debito pubblico’
-
Magaldi: senza paura, ecco il “partito che serve all’Italia”
Toh, se n’è accorta anche la televisione: il “partito che serve all’Italia” è entrato nel piccolo schermo grazie a “Coffee Break”, il talkshow mattutino condotto su La7 da Andrea Pancani. Ottima notizia, prende nota Gioele Magaldi, finora tenuto a debita distanza dalle dirette televisive. “Colpa” delle rivelazioni contenute nel suo bestseller, “Massoni”, che mette in piazza l’identità supermassonica di tanti player del massimo potere. Fatto sta che la prima riunione operativa verso il futuro partito, il 22 dicembre, è salita agli onori della cronaca nonostante fosse un incontro informale, neppure annunciato da comunicati stampa. Oltre a Magaldi, all’assise romana c’era Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, nonché Claudio Quaranta, da mesi al lavoro per far convergere su una piattaforma unitaria le tante voci dell’altra Italia, quella che non riesce a vedersi rappresentata politicamente. Con loro c’era l’economista Antonio Maria Rinaldi di “Scenari Economici”, reduce da una visita al ministro Paolo Savona. E c’era Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” e ormai volto televisivo, spesso chiamata – come Rinaldi – a fare da contraltare al pensiero unico neoliberista, quello del rigore santificato da Bruxelles come una sorta di teologia dogmatica imposta da invisibili divinità tecnocratiche. Ma nel caso la nuova formazione politica dovesse davvero sorgere, nei prossimi mesi, l’Italia sarebbe pronta a ricevere l’offerta del “partito che serve all’Italia”?Tutto può succedere, confida Magaldi a Fabio Frabetti di “Border Nights”, in una diretta web-streaming prenatalizia su YouTube. Esponente del circuito massonico progressista internazionale, il presidente del Movimento Roosevelt ha sostenuto a lungo il governo gialloverde: per mesi è stato l’unico, in Europa, a tentare di rompere l’incantesimo dell’austerity. Poi, la prima delusione: troppo timido, il 2,4% di deficit inizialmente previsto per il Def 2019. E ora, la Caporetto del governo Conte: se già il 2,4 era troppo poco per rianimare l’economia, figurarsi il 2,04 cui l’Ue ha costretto l’esecutivo italiano, che alla fine si è piegato al diktat. Sta tutta qui, probabilmente, la tempistica del rilancio del “partito che serve all’Italia”: davanti ai signori di Bruxelles non si può piegare la testa in questo modo. Anche perché – come Magaldi si incarica spesso di spiegare – dietro alla “disciplina di bilancio” non c’è un disegno orientato al benessere europeo, ma solo il piano delle oligarchie finanziarie supermassoniche di segno reazionario, che manovrano i burattini della Commissione Europea. Il vero senso della “punizione” inflitta ai gialloverdi? Dimostrare, davanti a tutti, che nell’Ue non ci si può ribellare all’autocrazia “aliena” di una nuova “aristocrazia del denaro” ben poco nobile, quella degli eurocrati non-eletti, longa manus del potere economico che ha sottomesso la politica.E’ il momento di essere eretici: non sta scritto da nessun parte che il deficit affossi l’economia. Al contrario: di contrazione della spesa si muore. Meno disavanzo vuol dire più tasse, meno consumi, meno lavoro. Come spiega il post-keynesiano Galloni, un investimento oculato in termini di spesa pubblica può “rendere” tre o quattro volte tanto, a partire dall’anno seguente, a patto però che non sia esiguo. Tradotto: già nella prossima primavera l’Italia avrebbe visto effetti benefici, sull’economia, se avesse avuto il coraggio di alzare il deficit almeno al 4%. Al governo Conte, ora che si è sostanzialmente arreso, vengono avanzate «critiche pretestuose e strumentali da parte delle pseudo-opposizioni», dalla Bonino al Pd, fino a Forza Italia. «Il governo Conte suscita simpatia – ammette Magaldi – se addirittura Monti lo rimprovera di essersi fatto scrivere la legge di bilancio dalla Commissione Europea». Aggiunge: «Con malafede e con ipocrisia plateale si contesta al governo Conte quello che hanno fatto tutti i governi della Seconda Repubblica, e in particolare quelli che si sono succeduti da Monti in poi». Governi che, naturalmente, «non facevano la manfrina che ha fatto il governo gialloverde». Non ci provavano neppure, a inscenare la rivolta contro il mortale rigore (ideologico) imposto da Bruxelles.Monti e Letta, Renzi e Gentiloni: nessuno di loro «osava dire che si sarebbe preoccupato di fare l’interesse del popolo italiano, anche scontrandosi coi vertici della tecnocrazia europea». Non hanno mai neppure finto di «fare la voce grossa e assumere atteggiamenti muscolari, per poi calarsi le braghe: se le erano già calate prima». Quindi, aggiunge Magaldi, non hanno titolo, oggi, per contestare il governo Conte. «Questi cialtroni, poi, in Parlamento lamentano presunte mancanze: Emma Bonino ha parlato di esautoramento antidemocratico delle funzioni dell’Aula». Magaldi si dice sbalordito dalla leader di “+Europa”, data la stima nella “vita precedente” dell’ex dirigente radicale: «Sono esterrefatto da questa deriva risibile e ipocrita». La Emma nazionale «è tra quelli che inneggiano a un sistema in cui il Parlamento Europeo non ha i poteri che in un qualunque contesto democratico dovrebbe avere». E, inutile negarlo, «ha fatto il cane da guardia di questa Europa». Tanti sedicenti europeisti, sostiene Magaldi, in realtà sono anti-europeisti: «Nessuno di loro, la Bonino in primis, ha mosso un dito per contestare l’attuale forma di Disunione Europea, antidemocratica o post-democratica che dir si voglia».E ora, «adusi ai meccanismi post-democratici delle istituzioni europee», i nostri finto-europeisti «vengono a fare il pianto greco, in Italia, dove il Parlamento ha comunque una sua sovranità garantita dalla Costituzione», nonostante la camicia di forza dell’Ue. Tutto ciò premesso, ribadisce Magaldi, «è chiaro che il governo Conte se le è calate, le braghe». Salvini dà segnali di malumore e fa trapelare di non essere contento? Lui e Di Maio «lanciano il sasso e nascondono la mano». Hanno preso parzialmente le distanze dallo stesso Conte: «E questo, francamente, è un modo poco dignitoso di agire», sottolinea Magaldi, «visto che Conte non era a Bruxelles per conto proprio, ma in quanto portavoce di una maggioranza parlamentare di cui Salvini e Di Maio sono i leader». Salvini diceva: «Non mi preoccupano i numeri, contano le cose che facciamo». Non è così, purtroppo: «I numeri sono le cose che fai o non fai, perché proprio da quei numeri discende la possibilità di avere risorse per fare le cose che hai promesso».Per Magaldi, questa manovra è «gravemente insufficiente». Non produrrà l’auspicato aumento del Pil, in relazione al deficit e al debito. Non ridarà dinamismo all’economia italiana, né conforto «a tutti quelli che vorrebbero una drastica riduzione delle tasse e un massiccio piano di investimenti pubblici, tale da garantire l’assorbimento della disoccupazione». E la mancanza di lavoro «è una delle cose più gravi che una generazione può subire: siamo pieni di giovani disoccupati, male occupati o rassegnati a un impiego precario». Quindi, intile nasconderselo, «questa manovra è davvero il classico topolino partorito dalla montagna: non c’è proprio di che essere contenti, e non si può certo dire di aver corrisposto alle promesse elettorali». Voltare pagina? Senz’altro: con il “partito che serve all’Italia”. Non per rinnegare gli sforzi comunque prodotti dai gialloverdi, ma per dare risposte più chiare. Imperativo categorico: muoversi a testa alta, senza più piegarsi ai diktat dei soliti noti. Brutto spettacolo, infatti, quello degli elettori delusi. Sondaggi impietosi: Lega in calo, dopo il cedimento a Bruxelles.Tutto cambia velocemente, ormai: Salvini aveva portato il partito al 36%, dopo averlo resuscitato partendo dal 4%. L’importante, dice Magaldi, è che i media non facciano finta di non saperlo: è un errore dare spazio solo a chi oggi ha più voti. «Più che sui numeri, sempre fluttuanti, i media dovrebbero basarsi sulle idee in campo, permettendo al pubblico di ascoltarle tutte. Cosa che invece – segnala Magaldi – continua a non avvenire, ad esempio riguardo ai contenuti di strettissima attualità da me portati all’attenzione del pubblico con il libro “Massoni”, uscito a fine 2014». Una specie di scandalo nazionale: un bestseller “silenziato”, che dopo quattro anni è ancora in testa alla classifica Ibs tra i saggi di argomento politico. «Eppure non c’è stato un cane che ne abbia parlato, in televisione», aggiunge l’autore. Sul piccolo schermo è invitata «gente che scrive libretti e libracci, peraltro poco letti». Sul suo libro, invece, «evidentemente c’è una circolare per tutte le televisioni del regno, in cui si dice: non invitate l’autore e non parlate del libro». Perché fa tanta paura, “Massoni”? Perché fa nomi e cognomi, ma senza scadere nel complottismo: offre un filo rosso, storico, per rileggere il Novecento tenendo conto dell’aspetto meno visibile del potere, quello incarnato dalle 36 superlogge sovranazionali che, di fatto, decidono i destini del pianeta. E oggi più che mai cercano di condizionare anche quello dell’Italia, nello scontro con l’Ue.«Sappiamo che quel libro l’hanno letto in tantissimi: tutti gli addetti al lavori». Perché Magaldi non viene invitato a parlarne nei principali talkshow? «La risposta temo sia questa: anche solo pochi minuti miei, in una qualunque trasmissione di punta, avrebbero conseguenze non digeribili dal sistema. Per cui vengono invitate persone che, anche quando dissonanti, fanno meno paura». Eppure, le idee dell’area attorno al Movimento Roosevelt non passano inosservate, se è vero che La7 ha segnalato l’assemblea del 22 dicembre a Roma: i fatti, annota Magaldi, «sembrano dare ragione al conduttore David Gramiccioli, secondo cui i media mainstream – anche senza citare la fonte – affrontavano spesso i temi toccati il lunedì, con me, nella sua trasmissione radiofonica “Massoneria On Air”». Ora, però, “Coffee Break” sembra aver sdoganato, giornalisticamente, l’ambiente politico nel quale è impegnato Magaldi. Che commenta: «Accolgo con sorpresa e compiacimento questa attenzione, non richiesta, da parte de La7: forse si stanno aprendo le maglie di un certo muro di omertà? Forse qualche giornalista televisivo ritiene di poter avere la libertà di parlare anche di progetti politici legati al sottoscritto?».Magaldi si mostra ottimista: si stanno muovendo «élite al servizio della democrazia» ma anche «molti cittadini, che dal basso vogliono rivendicare la loro sovranità». Anche i media mainstream potrebbero quindi decidersi a smettere di censurare tutto il pensiero sgradito ai padroni del vapore? Innanzitutto servono spiegazioni: se il Movimento Roosevelt è aperto a esponenti di qualsiasi partito, il “partito che serve all’Italia” vuol essere un soggetto plurale, senza protagonismi narcisistici. «Posto che in Italia c’è una crisi dei partiti e dei movimenti, ormai da tantissimi anni, e che anche Lega e 5 Stelle non appaiono più tanto convincenti, ci siamo detti che forse è il caso di perseguire anche la strada della costruzione di un partito». Ma attenzione, avverte Magaldi: non esiste ancora neppure un soggetto giuridico, c’è solo la proposta di iscriversi a una futura assemblea costituente del “partito che serve all’Italia” (nome provvisorio, in attesa che il nuovo soggetto venga poi battezzato dai suoi stessi costituenti). «In questa iniziativa sono coinvolte tante persone di pregio». Per sé, Magaldi non prenota alcun ruolo preminente: «Vogliamo contribuire a una casa comune di cittadini e rappresentati di associazioni, partiti e movimenti preesistenti, che vogliono fondersi in un nuovo progetto unitario».Quella del 22 dicembre è stata un’ottima partenza, assicura Magaldi: molti entusiasmi e parecchia concretezza. Prossima tappa, il 10 febbraio: un altro passo verso l’assemblea costituente del futuro partito. «Sarà una riunione ancora più allargata, dove verrà messa a punto un’agenda più definita». C’è anche chi annuncia l’imminente comparsa di Gilet Gialli all’italiana: «Ottima cosa, specie se tutto fosse fatto con razionalità e sapienza, cioè senza quel caos che in passato ha caratterizzato movimenti come quello dei Forconi». In altre parole: a stimolare il governo potrebbe anche servire «una protesta pacifica, forte e ferma, ma mai violenta», proprio in nome di quella democrazia che si rivendica, lungi dalle convulsioni che, in passato, sono state cavalcate dalla strategia della tensione al servizio di poteri oscuri. Eventuali Gilet Gialli a parte, secondo Magaldi «questa Italia a cavallo tra 2018 e 2019 promette bene: credo si stiano aprendo nuovi margini di manovra, e mi fa piacere che il “partito che serve all’Italia” si vada arricchendo di entusiasmi e di sguardi incuriositi, anche da parte del mainstream». Forse, nell’attuale caos politico, le maglie si diradano.In ogni caso, sul cambio di passo necessario, Magaldi ha le idee chiare: «Io credo che il riscatto democratico – per l’Italia, per l’Europa, per il mondo – nasce se gente la smette di rimproverare semplicemente gli altri, gli oligarchi, i cattivoni, i buratttinai che gestiscono male la globalizzazione e l’Europa, insieme alla casta politica che ammorba l’Italia, e così i ladroni e i corrotti, i banchieri». Lo stesso Magaldi ricorda che la sovranità democratica «è stata costruita, attraverso lotte sanguinose, da avanguardie massoniche alleate di fasce popolari più coraggiose e consapevoli». E dunque «è qualcosa che va sempre mantenuto, difeso, consolidato». Insiste: «Invece di lamentarsi del potere degli altri, forse sarebbe il caso di rendersi conto che la propria impotenza è figlia della propria inconsapevolezza». Ovvero: «Il popolo è molto più forte e temibile di qualunque potere oligarchico. E’ che questo popolo, appunto, “se la fa raccontare”, si illude». Quanto cambierebbe, la situazione, se si acquisisse – a livello di massa – la conoscenza dei temi trattati in libri come quello di Magaldi? «Se milioni di persone si rendessero conto di certe cose, magari acquisirebbero quell’orgoglio che permetterebbe loro di rivendicare la propria sovranità. E invece di piangere sul potere altrui eserciterebbero un potere in proprio. E’ il potere pacifico della democrazia: quello che ti fa capire cosa devi fare tutti i giorni, come singolo cittadino, per indurre chi ti rappresenta nelle istituzioni a fare di più e meglio».Toh, se n’è accorta anche la televisione: il “partito che serve all’Italia” è entrato nel piccolo schermo grazie a “Coffee Break”, il talkshow mattutino condotto su La7 da Andrea Pancani. Ottima notizia, prende nota Gioele Magaldi, finora tenuto a debita distanza dalle dirette televisive. “Colpa” delle rivelazioni contenute nel suo bestseller, “Massoni”, che mette in piazza l’identità supermassonica di tanti player del massimo potere. Fatto sta che la prima riunione operativa verso il futuro partito, il 22 dicembre, è salita agli onori della cronaca nonostante fosse un incontro informale, neppure annunciato da comunicati stampa. Oltre a Magaldi, all’assise romana c’era Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, nonché Claudio Quaranta, da mesi al lavoro per far convergere su una piattaforma unitaria le tante voci dell’altra Italia, quella che non riesce a vedersi rappresentata politicamente. Con loro c’era l’economista Antonio Maria Rinaldi di “Scenari Economici”, reduce da una visita al ministro Paolo Savona. E c’era Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” e ormai volto televisivo, spesso chiamata – come Rinaldi – a fare da contraltare al pensiero unico neoliberista, quello del rigore santificato da Bruxelles come una sorta di teologia dogmatica imposta da invisibili divinità tecnocratiche. Ma nel caso la nuova formazione politica dovesse davvero sorgere, nei prossimi mesi, l’Italia sarebbe pronta a ricevere l’offerta del “partito che serve all’Italia”?
-
Tav, la strana guerra contro i palestinesi della val di Susa
Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza nonviolenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.Nemmeno l’umorismo iperbolico di Paolo Villaggio, forse, sarebbe riuscito a dipingere il carattere lunare, gaglioffo e cialtrone del fantasma ferroviario che insidia da più di vent’anni l’estremo nord-ovest italiano: un ipotetico super-treno pensato negli anni ’80 del secolo scorso per i passeggeri, surclassato in capo a un decennio dall’avvento dei voli low-cost e infine umiliato anche dal traffico merci, defunto pure quello. La globalizzazione “cinese” sbarca a Genova e punta verso Rotterdam, snobbando il Piemonte e le Alpi del Rodano. Dalla Fortezza Bastiani del Tav, a lungo presidiata dall’ineffabile Pd con la collaborazione del centrodestra (leghisti compresi), ormai si guarda con malinconia ai dati, impietosi, sciorinati ufficialmente anche a Palazzo Chigi: il flusso di merci è crollato, e la ferrovia internazionale che già collega Torino a Lione attraversando l’infelice valle di Susa (via Modane, traforo del Fréjus) potrebbe tranquillamente reggere un incremento di traffico del 900%, se solo ci fossero merci da trasportare. Bel guaio: cosa bisognerà inventare, ancora, per spillare soldi euro-italiani da spalmare su appalti e subappalti? Avverte il giallista Massimo Carlotto, vicino ai NoTav: le grandi opere sono perfette per riciclare denaro, nell’immensa “lavanderia a cielo aperto” chiamata Europa. Business is business: non è che si possa smontare così, su due piedi, un grande affare destinato a pompare milioni (miliardi) in una filiera che include industria e indotto cantieristico, studi e consulenze, progettisti, banche e partiti.Se sento ancora parlare di Tav Torino-Lione, scrisse Giorgio Bocca nel 2005, vado a ripescare il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo gettato alla fine della guerra partigiana. Si era documentato, l’ultimo grande vecchio del giornalismo italiano: aveva capito che i palestinesi inermi le avevano buscate in modo selvaggio, riempiti di botte – uomini e donne, ragazzi e anziani – dai robocop venuti da lontano, in piena notte, per sgomberare il prato di Venaus occupato dalle famiglie impegnate in una sorta di sit-in permanente. Ne seguì una sommossa popolare a carattere insurrezionale: qualcosa che in Italia s’era visto soltanto nei moti di Reggio Calabria del 1970. Un popolo sulle barricate, armato solo di indignazione. Scudi umani, i sindaci in fascia tricolore (e le loro auto, quelle dei vigili urbani, spedite a sbarrare le strade, coi lampeggianti accesi). Due giorni di follia collettiva, dopo il pestaggio notturno, fino alla paralisi della tangenziale di Torino e alla capitolazione del governo: progetto sospeso, ritirato, archiviato. Clamorosa vittoria dei palestinesi, che da quel momento cominciarono a credersi invincibili. O meglio: ritennero invincibile la forza della ragione, la sovranità democratica del cittadino, la legittimità della protesta di una comunità coesa e fasciata di tricolore.Durò anni, l’illusione. Una speranza radicata: il governo centrale si sarebbe deciso a cestinare il dossier – poi bocciato anche da 360 tecnici universitari – per concludere che sì, avevano ragione i palestinesi della valle di Susa: quella ferrovia andava dimenticata, gettata nella spazzatura della storia. Ma le trivelle tornarono, dopo un quinquennio di silenzio. Era il 2010. La tensione emotiva era scemata, molti sindaci erano spariti – non rieletti, o semplicemente rimasti a casa, non più disposti a fare da caschi blu. Fu allora che cominciò l’accerchiamento, lento e inesorabile. Senza più i sindaci in prima fila, i NoTav erano nudi. “Siete finiti”, li avvertì cordialmente il sindaco di Torino, Chiamparino. Risposero in quarantamila, con una marcia sotto la neve. I piani di Roma, intanto, erano cambiati: il cantiere per la prima galleria esplorativa, inizialmente programmato nel prato poi “espugnato” a Venaus nel 2005, sarebbe stato reimpiantato a Chiomonte, sopra le gole della Dora Riparia, in posizione militarmente difendibile. I NoTav risposero asserragliandosi proprio lì, tra le loro Termopili. Nacque la Libera Repubblica della Maddalena, il villaggio di Asterix attrezzato – con barricate – per tentare di resistere all’esercito imperiale. I reparti antisommossa, duemila uomini, si presentarono puntuali all’alba del 27 giugno 2011. Agirono con calma, minimizzando la loro forza d’urto. In cabina di regia il ministro Maroni e il capo della polizia Manganelli. Niente più cariche, solo lacrimogeni.Ci rimasero malissimo, i palestinesi: avevano sperato di ripetere il “miracolo” del 2005, quand’erano riusciti – sciamando in 80.000 attraverso i boschi – a sfrattare la polizia da Venaus. Una settimana dopo lo sgombero della “Libera Repubblica”, il 3 luglio 2011 tentarono di riprendersi Chiomonte. Erano in centomila: un corteo lungo chilometri. Pullman da tutta Italia, decine di migliaia di valsusini. E anche giovani dei centri sociali: quelli che poi, nel pomeriggio, avrebbero contribuito a trasformare la protesta in guerriglia. “Volevano il morto”, dichiarò Maroni. Bilancio ufficiale: 200 feriti per parte. E fine di una lunga, gloriosa anomalia: la lotta popolare esclusivamente nonviolenta, nata e cresciuta in mezzo ai monti, che tanto aveva spaventato la politica. Inammissibile che una comunità di sessantamila valligiani riuscisse a fermare le ruspe. Intollerabile, che lo facesse in modo pacifico. Inaccettabile, che imponesse al governo di lasciarsi ascoltare, e lo costringesse a prender nota del fatto che, secondo tutti gli esperti, la linea Tav Torino-Lione era (ed è) una pazzia completamente inutile, destinata a pesare per decine di miliardi sul debito pubblico dopo aver reso invivibile il territorio, cioè i 50 chilometri che separano Torino dalla Francia. Rocce piene di amianto, montagne dove l’Agip scavò decine di gallerie per estrarre l’uranio al tempo del nucleare italiano. Falde acquifere a rischio, salute in pericolo e addio agricoltura. Dissesto idrogeologico irrimediabile, apocalisse urbanistica, catastrofe idrica incombente sulla stessa area metropolitana torinese. Ma perché, di grazia? A beneficio di chi?“Diteci almeno a cosa servirebbe, tutto questo”. Domanda rimasta sempre inevasa. Lo vuole l’Europa, c’è un impegno con la Francia. Davvero? Sì e no. L’Europa ha cambiato idea: ha archiviato l’originaria, fantascientifica direttrice Kiev-Lisbona, di cui la Torino-Lione sarebbe stata il passante alpino. Quanto alla Francia, varie istituzioni parigine hanno via via intiepidito la loro posizione. Analoga retromarcia tattica dal governo Renzi: è vero, la nuova linea costa troppo; meglio limitarsi al solo traforo, facendo poi passare i treni sull’attuale linea (perfettamente idonea, dunque – percorsa, già oggi, dal Tgv francese). Nel frattempo, sui NoTav si è scatenata una campagna di demonizzazione parossistica, da parte della politica istituzionale e dei grandi media. E il movimento valsusino, senza più la tutela diretta dei sindaci, ha fatto miracoli per arginare il pericolo di infiltrazioni da parte delle frange virtualmente violente (un conto è gestire un corteo, un altro controllare manifestanti in ordine sparso, nei boschi). Anni durissimi, rischiosi, in bilico, ma durante i quali – nonostante tutto – la resistenza dei palestinesi ha conquistato piena cittadinanza in larghi strati del paese, anche grazie al generoso impegno di opinion leader di prima grandezza, scrittori e artisti, cantanti, giuristi, intellettuali. Senza con questo riuscire minimamente a scalfire il muro di omertoso silenzio che ancora protegge, misteriosamente, il progetto della grande opera: un dogma marmoreo, quasi mistico, che sembra imposto da una religione sconosciuta, alla quale gli stessi politici (ministri, premier) appaiono sottomessi.C’è altro, poi, che i valsusini sanno e gli altri italiani per lo più ignorano. E’ una storia complicata, tra loro e il governo. Una storia tormentata e opaca, per molti aspetti, che risale addirittura alla Liberazione, quando molti partigiani – in maggioranza comunisti – rifiutarono di consegnare le armi agli alleati, per poi tirarle fuori, occupando fabbriche, in risposta all’attentato a Togliatti. Ha radici antiche, il ribellismo della valle di Susa, industriale e operaia già alla fine dell’800. Dopo il Sessantotto, mentre i padri issavano bandiere rosse sui cotonifici, decine di figli cedettero alla tentazione della lotta armata. La valle di Susa è stata l’unica area non metropolitana, in tutta Italia, ad allevare una colonna di terroristi, arruolati tra le file di Prima Linea. Poi vennero gli anni ’80, con l’autostrada del Fréjus che la valle non voleva. Le solite mazzette e, a seguire, la relativa Tangentopoli, con arresti eccellenti, mentre la commissione parlamentare antimafia denunciava il radicamento della ‘ndrangheta nell’alta valle, il paradiso sciistico che a Sestriere avrebbe ospitato i Mondiali di sci e poi le Olimpiadi Invernali. Quello di Bardonecchia è stato il primo Consiglio comunale italiano, a nord del Po, a essere disciolto per mafia.L’onorata società tornò a occupare la cronaca della valle di Susa poco dopo gli attentati siciliani costati la vita a Falcone e Borsellino, quando la magistratura di Torino scoprì che erano finite a una cosca calabrese le pistole uscite illegalmente, a centinaia, da un’armeria di Susa. Chi avrebbe dovuto vigilare non l’aveva fatto: emerse l’ombra dei servizi segreti. Gli inquirenti avevano scoperto il traffico di armi grazie a un pentito della ‘ndrangheta, che smise di parlare (di colpo) dopo che gli fu ucciso il fratello, proprio in valle di Susa, da un ex agente del Sismi, reo confesso. Uno stillicidio di notizie inquietanti, che il valsusino medio – non ancora palestinese – apprendeva con sgomento, a metà degli anni ’90. A seguire, cominciarono a esplodere bombe: una dozzina di attentati dinamitardi, notturni e devastanti ma tutti incruenti, colpirono le prime trivelle del futuro Tav ma anche centraline Enel, tralicci telefonici, ripetitori televisivi. I giornali, in coro, parlarono di eco-terrorismo anarco-insurrezionalista. Comparve una sigla, “Lupi Grigi”, con rivendicazioni deliranti contro le grandi opere. Finirono in manette tre giovani anarchici, due dei quali (“Sole e Baleno”) poi trovati morti in stato di detenzione, impiccati. L’accusa: banda armata e associazione sovversiva. Lui, Edoardo Massari, un anarchico piemontese. Lei, Maria Soledad Rosas, argentina, giovanissima, venuta in Europa in vacanza premio, dopo il liceo, e poi rimasta in Italia perché innamoratasi del suo “Edo”. Il pm annunciò di avere “prove granitiche”, contro di loro. Salvo poi ammettere il tragico errore, fuori tempo massimo. Scagionati post mortem, alla fine del processo: non erano stati quei ragazzi, a far saltare in aria mezza valle di Susa. Chi, allora?Aveva in testa anche questi pensieri, il valsusino medio (mediamente colto e informato, mediamente scettico) quando cominciò a diventare un po’ palestinese, trascinando la famiglia nei prati di Venaus dove, nel 2005, si era accampata la polizia, spedita lassù da un governo che sosteneva fosse fondamentale far passare proprio di lì, spianando l’intera vallata, la famosa super-ferrovia miliardaria destinata a collegare il Portogallo all’Ucraina. Non può essere, si dicevano i valligiani: avranno capito male, a Roma. E così studiarono, si documentarono, mobilitarono i migliori specialisti. Non sta né in cielo né in terra, conclusero: è un’opera faraonica e devastante, tragicamente inutile. Ne parlavano anche coi poliziotti infreddoliti, inviati a Venaus a presidiare il prato prescelto per accogliere il primo cantiere. Dai NoTav, una protesta formato famiglia: bambini, polenta, bicchieri di tè caldo offerti agli stessi agenti – non quelli che li avrebbero sgomberati (per l’operazione, il reparto presidiario fu avvicendato). Gli incursori notturni colpirono alla cieca, travolgendo tende e sacchi a pelo. Una gradine di manganellate, al buio. Le ambulanze, le urla, i feriti. L’inizio della saga, già l’indomani: i valsusini, a migliaia, nelle strade. La circolazione paralizzata, i treni fermi. Il ministro dell’interno, Pisanu, scomparso dai radar. Imbarazzo, fra i palazzi romani. I palestinesi in rivolta ospitati per la prima volta in televisione, da Gad Lerner, per poi ricevere i primi rumorosi endorsement a reti unificate: Beppe Grillo, Dario Fo. E quei benedetti sindaci, avvolti nel tricolore, a ripetere che la legalità comincia dal rispetto del cittadino, democraticamente sovrano e tutelato da diritti costituzionali.Era solo il 2005, ma sembrano passati cent’anni. Le famiglie di allora avevano una luce particolare, negli occhi. La crisi era ancora lontana. C’era lavoro per tutti, i negozi non avevano ancora cominciato a chiudere, uffici e fabbriche funzionavano. All’ora dell’aperitivo i bar tracimavano di giovani – tutti palestinesi, naturalmente, tra svolazzi di bandiere NoTav. Un clima festoso, di fiducia. “Capiranno, a Roma. Si decideranno a ragionare”. I valsusini: riscopertisi comunità, proprio grazie allo scampato pericolo. Idee politiche forse rudimentali, antiche: la destra, la sinistra. A dire il vero, nella valle ribelle non s’era visto nessuno dei big: tutti spariti, i grandi partiti. La parte del cattivo era toccata a Berlusconi, ma poi Prodi (frenato dai ministri filo-valsusini Paolo Ferrero e Alfonso Pecoraro Scanio) non aveva comunque mai mostrato entusiasmo, per il fervore democratico dei palestinesi garibaldini, alle prese con quello strano risorgimento alpino, montanaro, periferico ma non provinciale. E’ come se si fosse laureato honoris causa, il valsusino medio, in questi anni grami: si è probabilmente conquistato il suo diploma di cittadino di prima classe, quanto a consapevolezza, mentre buona parte dell’Italia dormiva ancora sugli allori, prima di essere svegliata nel peggiore dei modi dal professor Monti, dalla professoressa Fornero.Si racconta che dal massiccio dell’Ambin, nel quale si è andato scavando il dannato tunnel esplorativo, sia disceso Annibale coi suoi elefanti. In direzione opposta avanzò Giulio Cesare alla conquista delle Gallie, facendo base a Susa, dove poi l’imperatore Costantino assediò Massenzio. Poco più a valle, Carlomagno sbaragliò i Longobardi manzoniani di Adelchi e Desiderio per poter fondare il Sacro Romano Impero, il cui erede Barbarossa mise a soqquadro Susa. Napoleone aprì la strada del Moncenisio, Cavour fece scavare il traforo del Fréjus. Quasi ogni sasso, in valle di Susa, ha molti secoli da raccontare, all’ombra dell’imponente Sacra di San Michele, monumento simbolo del Piemonte, eretto prima dell’anno Mille. Sul versante opposto, da una roccia emerge il Giove Dolicheno, scolpito dai soldati mediorientali arruolati da Roma nella Legione Siriana, di stanza nella valle conquistata dai Cesari. I valsusini amano le loro montagne, le frequentano con devozione. Le guardano diventare rosse, e poi viola, quando il tramonto illanguidisce nel crepuscolo lungo la cordigliera transalpina, dalla piramide del Rocciamelone alla mole nevosa del Niblè. Prima di altri, a loro spese, hanno imparato che il nuovo impero ha un’unica legge davvero sacra, quella dei soldi. A loro modo, da palestinesi, sono stati tra gli ultimi difensori di una repubblica di cui tutti gli italiani, oggi, hanno nostalgia.(Giorgio Cattaneo, “Tav, la strana guerra contro i palestinesi della valle di Susa”, dal blog “Petali di Loto” dell’11 dicembre 2018).Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza nonviolenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.
-
Natale sull’abisso: useranno la recessione per annientarci
Inverno 2018: è incominciata una flessione globale dell’economia in un quadro pericolosissimo, e non solo per i 2,2 milioni di miliardi di titoli potenzialmente tossici in giro per il mondo, 33 volte il prodotto mondiale (“Il Sole 24 Ore” del 6 dicembre), ma soprattutto per l’attuale struttura sociopolitica del genere umano nel suo complesso. Da un lato, la popolazione generale avrebbe l’interesse a rilanciare l’economia e uscire dalla recessione, ma non sa come, e nel mondo globalizzato e finanziarizzato il suo peso sociale è divenuto pressoché nullo, come pure la sua forza di contrattazione col potere; essa non ha più alcuna capacità politica di farsi valere, e del resto le istituzioni politiche sono sottomesse ai potentati finanziari apatridi. I leader ‘populisti’ vengono sistematicamente stoppati o piegati. Per giunta, il popolo non ha le basi per capire le dinamiche economico-monetarie e fondamentalmente beve lo story-telling ufficiale; anche le contestazioni dei movimenti sé-credenti antisistema restano all’interno del sistema, che non capiscono, prendendosela soltanto con aspetti marginali di esso.Dall’altro lato, abbiamo una global class che detiene il potere politico reale e possiede gli strumenti per rilanciare facilmente la crescita economica ma non ha alcun interesse a farlo, anzi essa ha l’interesse opposto, essendosi oramai accaparrata le ricchezze e le fonti di reddito primarie del pianeta e avendo oramai indebitato verso di sé in modo indissolubile gli Stati stessi – gli emissari di questi interessi sono i vari Macron, Juncker, Merkel, Moscovici, Draghi. Oggi la global class si concentra piuttosto sul rafforzamento del suo controllo della società e sui relativi strumenti tecnologici, mediatici e legislativi. Per queste ragioni, l’incipiente recessione ha un potenziale distruttivo abissale, senza precedenti per la società e, prima che essa sia finita, potremmo ritrovarci a vivere in condizioni molto diverse dalle attuali, e non solo economicamente: questa recessione potrebbe essere portata avanti e usata, in congiunzione con la montante crisi del cambiamento climatico, per risolvere il problema ecologico e demografico.Questa volta la recessione è cominciata in modo graduale, ma diverrebbe un crollo ingovernabile e dagli effetti imprevedibili qualora esplodesse, per cominciare, la bomba dei circa 6.700 (si stima) miliardi di “junk bonds” e crediti irrecuperabili nei bilanci delle banche dell’Eurozona, soprattutto di quelle francesi e tedesche, e principalmente nella Deutsche Bank. Fino ad ora le crisi sono state governate e ammortizzate, e le rotture di sistema sono sempre state evitate, mediante gigantesche creazioni e iniezioni di denaro (palesi o sottobanco) da parte delle banche centrali. Potenza della sovranità monetaria, elasticità del capitalismo finanziario. Ma non si può dar per certo che lo facciano anche questa volta. Buon Natale.(Marco Della Luna, “Natale sull’abisso”, dal blog di Della Luna dell’8 dicembre 2018).Inverno 2018: è incominciata una flessione globale dell’economia in un quadro pericolosissimo, e non solo per i 2,2 milioni di miliardi di titoli potenzialmente tossici in giro per il mondo, 33 volte il prodotto mondiale (“Il Sole 24 Ore” del 6 dicembre), ma soprattutto per l’attuale struttura sociopolitica del genere umano nel suo complesso. Da un lato, la popolazione generale avrebbe l’interesse a rilanciare l’economia e uscire dalla recessione, ma non sa come, e nel mondo globalizzato e finanziarizzato il suo peso sociale è divenuto pressoché nullo, come pure la sua forza di contrattazione col potere; essa non ha più alcuna capacità politica di farsi valere, e del resto le istituzioni politiche sono sottomesse ai potentati finanziari apatridi. I leader ‘populisti’ vengono sistematicamente stoppati o piegati. Per giunta, il popolo non ha le basi per capire le dinamiche economico-monetarie e fondamentalmente beve lo story-telling ufficiale; anche le contestazioni dei movimenti sé-credenti antisistema restano all’interno del sistema, che non capiscono, prendendosela soltanto con aspetti marginali di esso.
-
Ue sleale con l’Italia, mentre alla Francia perdona il deficit
Lo stallo con i funzionari europei. Ministri che volano a Bruxelles per negoziare un accordo d’ultimo minuto. Grida di tradimento a casa. Oscuri avvertimenti di calamità economiche e di agitazione sociale. No, non è il serial della Brexit a Westminster ma la crisi europea che tutti sembrano avere dimenticato: il confronto tra Bruxelles e Roma sul bilancio italiano. A ottobre, la coalizione italiana di governo, compresa la Lega di estrema destra e il movimento populista Cinque Stelle (M5S) hanno presentato una bozza di bilancio con molte delle promesse elettorali dei partiti come il reddito di cittadinanza per i disoccupati e l’accantonamento di una precedente proposta di aumentare l’età pensionabile. Il bilancio avrebbe aumentato il deficit italiano al 2.4% del Pil, un tasso più alto di quello previsto dal governo precedente ma più basso del limite europeo del 3%. Ciononostante, in una mossa senza precedenti, la Commissione Europea ha bocciato il bilancio per la violazione della regola fiscale. La previsione di crescita di Roma, ha insistito, è fin troppo ottimista e il vero rapporto deficit-Pil aumenterebbe al 3%. L’Italia è stata minacciata di sanzioni.La settimana scorsa il governo a Roma ha ceduto stilando un bilancio più austero. Se sia sufficiente per placare la Commissione rimane ancora tutto da vedere. L’Italia taglia il bersaglio del deficit del 2019 al 2.04% per evitare le sanzioni Ue. La reale difficoltà dell’Italia deriva non tanto dal suo deficit annuo quanto dal suo debito, che ammonta adesso a 2.600 miliardi, circa il 133% del Pil, dietro solo alla Grecia, nell’Eurozona. Se l’Italia dovesse fare default, il fragile sistema finanziario europeo potrebbe cadere a pezzi. Così la Commissione vuole che Roma vada avanti per far quadrare i conti, e rapidamente. In Gran Bretagna, il perseguimento da parte dei Tories di una simile strategia ha squartato il tessuto sociale della nazione. In Italia, dove solo un terzo dei giovani ha un lavoro, e oltre 5 milioni di persone vivono in “povertà assoluta”, l’impatto potrebbe essere devastante. Lo stallo sul bilancio non è solo un argomento economico ma è un dibattito politico, che solleva interrogativi sulla democrazia. Bruxelles sta dicendo a Roma: «Non ci interessa il voto degli italiani. La democrazia importa meno delle nostre regole fiscali». Questo non è solo antidemocratico ma è anche politicamente pericoloso.La coalizione attuale al governo fa parte del prodotto della risposta europea all’ultima crisi del debito in Italia nel 2011. L’Ue chiese allora che il Parlamento italiano approvasse un pacchetto di misure altamente austere, imponendo quasi 60 miliardi di tagli. Il primo ministro Silvio Berlusconi dovette rassegnare le dimissioni per essere sostituito da un tecnocrate non eletto, Mario Monti, che vigilò sul programma di austerity. Venne poi rivelato che l’Ue aveva brigato per mesi per sostituire Berlusconi con Monti. Due anni dopo, quando si tennero le elezioni, la rabbia popolare sia per la sospensione delle procedure democratiche sia per le conseguenze dell’austerity condotte da Monti, respinsero il partito di Monti e fecero pregustare al Movimento 5 Stelle il suo primo successo elettorale. Cinque anni dopo, la rabbia pubblica (che proseguiva) propulsò il M5S e la destra anti-immigrati, la Lega, al potere alle elezioni di marzo scorso. Oggi la Lega è il partito più popolare in Italia. L’Ue sembra non avere imparato niente dalla storia.Il contrasto tra il trattamento europeo dell’Italia e quello della Francia è sintomatico. Fino all’anno scorso, la Francia aveva violato la regola del deficit ogni anno, dal 2008. Non è mai stata sanzionata. La capitolazione del presidente Emmanuel Macron davanti alle proteste dei Gilets Jaunes, promettendo di aumentare lo stipendio minimo e la defiscalizzazione degli aumenti delle pensioni minime, ha reso probabile lo sforamento della Francia della regola del 3% l’anno prossimo. Ai primi del 2003, la Corte europea di giustizia aveva sentenziato che i ministri delle finanze europee erano stati negligenti nel non penalizzare la Francia e la Germania per le violazioni delle regole dell’Eurozona. Quindici anni dopo, i colossi europei rimangono liberi di calpestare le regole mentre le nazioni più piccole (e meno piccole come l’Italia) devono sopportare penalità sociali. Il governo italiano ha varie politiche odiose, in particolare l’attacco brutale ai migranti da parte del ministro degli interni e leader della Lega, Matteo Salvini. Le politiche dei 5 Stelle, sebbene non siano così utopistiche, sono tuttavia tra le più progressiste della coalizione. E così quale è la reazione dell’Unione Europea? Accetta le politiche reazionarie in materia d’immigrazione ma non accetta alcun pacchetto di misure economiche per aiutare gli indigenti?(Kenan Malic, estratto da “Lo spietato trattamento europeo dell’Italia non fa che rafforzare il risentimento popolare”, articolo apparso sul “Guardian” il 16 dicembre 2018 e tradotto da Nicoletta Forcheri per “Scenari Economici”).Lo stallo con i funzionari europei. Ministri che volano a Bruxelles per negoziare un accordo d’ultimo minuto. Grida di tradimento a casa. Oscuri avvertimenti di calamità economiche e di agitazione sociale. No, non è il serial della Brexit a Westminster ma la crisi europea che tutti sembrano avere dimenticato: il confronto tra Bruxelles e Roma sul bilancio italiano. A ottobre, la coalizione italiana di governo, compresa la Lega di estrema destra e il movimento populista Cinque Stelle (M5S) hanno presentato una bozza di bilancio con molte delle promesse elettorali dei partiti come il reddito di cittadinanza per i disoccupati e l’accantonamento di una precedente proposta di aumentare l’età pensionabile. Il bilancio avrebbe aumentato il deficit italiano al 2.4% del Pil, un tasso più alto di quello previsto dal governo precedente ma più basso del limite europeo del 3%. Ciononostante, in una mossa senza precedenti, la Commissione Europea ha bocciato il bilancio per la violazione della regola fiscale. La previsione di crescita di Roma, ha insistito, è fin troppo ottimista e il vero rapporto deficit-Pil aumenterebbe al 3%. L’Italia è stata minacciata di sanzioni.
-
Populisti discesi dai Monti e dalle politiche ammazza-Italia
Egrego professor Monti, senatore a vita e presidente a morte, ed egregi esponenti del Fronte Impopolare che sbavate nell’attesa di vedere Salvini e Di Maio in ginocchio da Juncker e da Moscovici, non vi chiedo di convertirvi alle ragioni della sovranità popolare e nazionale. Ci mancherebbe. Ognuno faccia la sua parte e sostenga le sue posizioni fino in fondo. Ma il vostro problema è stato ed è ancora proprio quello, che non siete stati capaci di portare fino in fondo i vostri propositi. Quando eravate voi al governo, nessuno s’aspettava redditi di cittadinanza, elargizioni pop, pensioni a quota 100 e condoni a gogò. Ma ci aspettavamo che, forti della vostra indipendenza dall’elettorato e dalla politica, dai partiti e dai sondaggi, voi metteste mano a una drastica bonifica del nostro sistema. In che senso? Tagliando davvero i rami secchi e gli sprechi, sopprimendo le mance e le regalie politiche, dismettendo, potando le amministrazioni pubbliche, facendo davvero una ristrutturazione dello Stato, una grande riforma. Per esempio, lo spreco assoluto e primario in Italia sono le Regioni, ma i politici non le toccheranno mai perché sono posti e potere; avete mai studiato e tentato l’ipotesi di abolirle? Avete mai provato a dimezzare i costi dei Palazzi, dal Quirinale al Parlamento, il loro personale, scorte incluse?E semplificare davvero la nostra burocrazia, la selva di leggi e la pletora di documenti che occorrono per tutto, perché non ci avete provato voi che eravate i tecnici, i razionali, gli eroi impopolari dell’amministrazione? Conosco la vostra obiezione; ma il Parlamento non ce l’avrebbe permesso. Beh, non sarebbe stato utile e dignitoso porre l’aut-aut su queste riforme, mettere il Parlamento con le spalle al muro: o le facciamo o ce ne andiamo, ma non prima di aver detto agli italiani in una conferenza stampa a reti unificate che è stato impossibile realizzare il programma a causa degli stessi partiti che vi avevano dato il voto di fiducia? Non sarebbe finita meglio la vostra esperienza di governo, a testa alta, anziché raccattando qualche voto per sopravvivere, o qualche seggio, magari qualche scranno eterno (ottenuto come pagamento anticipato della prestazione)? L’osservazione la faccio ai tecnici ma la estendo a tutti quei rigorosi che stanno dalla parte dell’Europa o che furono coi governi seguenti. Volevate evitare l’avvento dei populisti? Bastava fare quei tagli, quelle riforme, quell’opera grandiosa e tosta di risanamento. Vi sarebbero stati grati, alla fine, sia l’Unione Europea che gli stessi italiani. E non avreste offerto alibi né spunti ai populisti e al malcontento in cui sono cresciuti.Insomma, cari Tecnici e grilli parlanti d’oggi, non vi rimprovero di essere incuranti del giudizio popolare e di snobbare i sondaggi, i messaggi pop, i tribuni della plebe. Ma il contrario, di non essere stati capaci di far funzionare il rigore. Ve la siete presa solo con gli italiani inermi, spremendoli e vessandoli ogni giorno con un sadismo infruttuoso: una tassa qua, un inasprimento là, l’annuncio di sacrifici, l’incattivimento del fisco. Salvo poi cambiar linea quando si trattava di sostenere le banche. E il debito cresceva… Ma ad aumentare le tasse sono buoni tutti, non c’era bisogno di avere i professoroni, i bocconiani, i tecnici o affini. Per questo leggo con fastidio le vostre interviste (come quella di Monti a Senaldi per “Libero”) e le vostre reprimende al governo in carica, i vostri giudizi e referti da dottor Balanzone. Non avete funzionato come tecnici, oltre che come politici, avete stressato la democrazia senza promuovere la meritocrazia, l’efficacia, la modernizzazione. Perciò gli ultimi che possono lamentarsi di avere ora i populisti incompetenti e antisviluppo al potere siete voi. Possiamo farlo noi, non voi che ce li avete portati.(Marcello Veneziani, “I populisti discesi dai Monti”, da “Il Tempo” del 12 dicembre 2018, articolo ripreso sul blog di Veneziani).Egrego professor Monti, senatore a vita e presidente a morte, ed egregi esponenti del Fronte Impopolare che sbavate nell’attesa di vedere Salvini e Di Maio in ginocchio da Juncker e da Moscovici, non vi chiedo di convertirvi alle ragioni della sovranità popolare e nazionale. Ci mancherebbe. Ognuno faccia la sua parte e sostenga le sue posizioni fino in fondo. Ma il vostro problema è stato ed è ancora proprio quello, che non siete stati capaci di portare fino in fondo i vostri propositi. Quando eravate voi al governo, nessuno s’aspettava redditi di cittadinanza, elargizioni pop, pensioni a quota 100 e condoni a gogò. Ma ci aspettavamo che, forti della vostra indipendenza dall’elettorato e dalla politica, dai partiti e dai sondaggi, voi metteste mano a una drastica bonifica del nostro sistema. In che senso? Tagliando davvero i rami secchi e gli sprechi, sopprimendo le mance e le regalie politiche, dismettendo, potando le amministrazioni pubbliche, facendo davvero una ristrutturazione dello Stato, una grande riforma. Per esempio, lo spreco assoluto e primario in Italia sono le Regioni, ma i politici non le toccheranno mai perché sono posti e potere; avete mai studiato e tentato l’ipotesi di abolirle? Avete mai provato a dimezzare i costi dei Palazzi, dal Quirinale al Parlamento, il loro personale, scorte incluse?
-
Sapelli: la resa all’Ue ci farà spazzare via dalla recessione
«La resa del governo all’Ue ci farà spazzare via dalla recessione». Per il professor Giulio Sapelli, storico dell’economia, l’Italia è esposta alle peggiori bufere: da un lato subisce senza anestesia il rigore di Bruxelles, dall’altro starebbe per perdere anche la protezione a distanza finora assicurata dalla presidenza Trump, qualora il presidente Usa venisse sabotato dall’impeachment. Un indizio clamoroso, per Sapelli, è la decisione del Senato statunitense di sospendere lo storico appoggio militare all’Arabia Saudita, fornito dai tempi di Obama per condurre una spietata guerra contro lo Yemen, di cui i media non parlano mai. Su proposta dei democratici Bernie Sanders e Mike Lee (e il sostegno di Lindsey Graham), scrive Sapelli sul “Sussidiario”, il Senato ha deciso di approvare una risoluzione che chiede la fine del coinvolgimento americano nella campagna militare saudita contro lo Yemen e una mozione che dichiara il principe ereditario Mohammed Bin Salman responsabile dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Ahmad Khashoggi, assassinato lo scorso 2 ottobre nell’ambasciata saudita di Istanbul, in Turchia. «Si tratta del primo voto in 45 anni in cui il Senato fa riferimento al War Power Act, legge approvata dal Congresso Usa durante la presidenza Nixon per far ritirare le forze statunitensi dal Vietnam».Quella legge, del 1973 – aggiunge Sapelli – aveva dato ai deputati e ai senatori il potere di dichiarare guerra e ritirare le truppe nel caso di mancata autorizzazione, restringendo dunque l’autorità di un presidente, costretto a passare per il Parlamento. Legge poi scavlcata regolarmente da Obama, che per i finanziamenti e le armi ai sauditi aveva sempre bypassato l’aula. Tutto questo, spiega Sapelli, mette in crisi Trump, finora sostenitore del governo gialloverde contro l’oligarchia franco-tedesca che ha in pugno l’Ue. È stata la Cia a relazionare al Senato sulla tragedia umanitaria yemenita, e questa relazione «si aggiunge alla rottura esistente tra il segmento dell’establishment Usa favorevole a Trump e tutto il resto del Deep State nordamericano, che vede l’Fbi capofila nella richiesta di ritornare in fondo all’era Bush e Obama», cioè a un’epoca «di pericolosissimo unilateralismo, quando l’Occidente è stato diviso dalla guerra in Iraq con Francia e Germania che si rifiutarono di partecipare a quel disastroso intervento che segnò l’inizio del terrorismo di massa wahabita e jihadista e diede poi il fuoco alle polveri con il discorso di Obama al Cairo».Il bilateralismo di Trump e il suo tentativo di una “entente cordiale” internazionale per assicurare un “roll back” contro la Cina, «paese che si sta armando e che sta dilavando le fonti tecnologiche occidentali», secondo Sapelli «è stato messo in discussione da un ritorno, di fatto, alle ideologie dei seguaci di Leo Strauss, i “neocon”, che facevano dipendere le scelte di politica estera dai principi morali, secondo, del resto, una secolare tradizione Usa che risale ai padri fondatori». Trump rischia l’impeachment? «Sì, se ne farà un processo lungo e terribile». Tutto questo colossale sbandamento internazionale, aggiunge Sapelli, dipende sostanzialmente «dalle radici degli alberi della foresta Usa, ma altresì dalla savana dell’Unione Europea, che da circa trent’anni si dedica metodicamente a sradicare con la sua gramigna gli alberi europei, distruggendo con il principio della dipendenza monetaria funzionale da divieto del debito pubblico le fondamenta stesse della grandiosa foresta costruita nei secoli e nei secoli dagli europei dopo la morte di Carlo Magno e dopo il Trattato di Verdun dell’843».Di quella “foresta”, avverte Sapelli, non sta più rimanendo nulla: «Crolla con fragore in Francia, sotto la disgregazione sociale che fa seguito al potere verticale presidenziale che si trova incapace di adempiere ai principi auspicati con l’elezione di un presidente con il solo 26% degli aventi diritto al voto», ed evidenzia «una necessità di far saltare ogni parametro ordoliberista, alias Fiscal Compact». Di lì il disvelamento – storico, quanto la dichiarazione del Senato Usa – dei rapporti di potenza che la tecnocrazia eurocratica non riesce a nascondere. Sapelli si riferisce alle dichiarazioni del commissario Moscovici: «Un patriota francese che è occasionalmente commissario europeo e che dichiara candidamente che le regole che valgono per l’Italia rispetto al famoso debito non valgono per la Francia». Notizia che «non stupisce uno studioso serio e non prezzolato, che sa che il funzionalismo non ha fatto altro che nascondere e non eliminare gli squilibri di potenza nazionali». Questo fatto è forse «quello più rilevante dell’intero 2018, per coloro che vogliono ritornare all’analisi scientifica e non ideologica della realtà europea».In questo contesto, prosegue Sapelli nella sua analisi, emerge un altro evento importante: «La diffusività comprovata della capacità dell’ordoliberismo di cooptare seguaci, catturando ideologicamente per la pressione dell’ambiente gli “homines novi” dal basso per farli salire su su nella cuspide del potere». Il che avviene per effetto di motivi «non pecuniari, ma precipuamente culturali, ossia di “soft power”: è ciò che pare capiti ai primi ministri italiani con una continuità impressionante» Vengono sostanzialmente cooptati dall’egemonia neoliberista. «Il pericolo è che, nonostante le reazioni sempre più esplicite della borghesia nazionale contro la manovra (sbagliata perché troppo poco incentrata sulla creazione di capitale fisso e quindi sulla crescita), la compagine governativa italiana non ingaggi con Bruxelles la vera battaglia: quella della negoziazione dei parametri del Fiscal Compact (peraltro già scaduto, come trattato) e si abbandoni così alla tremenda ondata d’urto che verrà dalla prossima recessione per debito cinese e per debito “corporate” Usa». Recessione, assicura Sapelli, «che si unirà alla deflazione secolare e disgregherà ancor più il nostro sistema sociale».In questo “tramonto della ragione”, conclude Sapelli, non sorge «la stella polare che deve guidare ciò che rimane della borghesia nazionale: lavorare con le borghesie nazionali tedesche, convincere quelle classi politiche della necessità di rivedere le politiche economiche europee e riscrivere in tal modo la storia d’Europa». La Brexit, quella storia, «la sta già scrivendo da parte sua, dimostrando l’ignavia, l’ignoranza di una intera classe dominante politica e tecnocratica dell’Unione Europea, che invece di aprire un varco al primo ministro del Regno Unito lo stringe sempre più in un cul-de-sac per sgretolamento del sistema politico inglese». Domanda: «Dove sono finiti gli ammiratori sfegatati del modello Westminster?». Pervicace e violenta, la tecnocrazia europea «non è consapevole dei rischi che corre l’intero rapporto di potenza mondiale, se il Regno Unito entra in convulsione». Usa e Uk in crisi: «Una tragedia che il mondo, non l’Ue – non solo l’ Ue – non può permettersi, pena l’entropia. Ed è invece l’entropia mondiale che la cuspide del potere europeo sta producendo senza sosta in una pazzia inarrestabile».«La resa del governo all’Ue ci farà spazzare via dalla recessione». Per il professor Giulio Sapelli, storico dell’economia, l’Italia è esposta alle peggiori bufere: da un lato subisce senza anestesia il rigore di Bruxelles, dall’altro starebbe per perdere anche la protezione a distanza finora assicurata dalla presidenza Trump, qualora il presidente Usa venisse sabotato dall’impeachment. Un indizio clamoroso, per Sapelli, è la decisione del Senato statunitense di sospendere lo storico appoggio militare all’Arabia Saudita, fornito dai tempi di Obama per condurre una spietata guerra contro lo Yemen, di cui i media non parlano mai. Su proposta dei democratici Bernie Sanders e Mike Lee (e il sostegno di Lindsey Graham), scrive Sapelli sul “Sussidiario”, il Senato ha deciso di approvare una risoluzione che chiede la fine del coinvolgimento americano nella campagna militare saudita contro lo Yemen e una mozione che dichiara il principe ereditario Mohammed Bin Salman responsabile dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Ahmad Khashoggi, assassinato lo scorso 2 ottobre nell’ambasciata saudita di Istanbul, in Turchia. «Si tratta del primo voto in 45 anni in cui il Senato fa riferimento al War Power Act, legge approvata dal Congresso Usa durante la presidenza Nixon per far ritirare le forze statunitensi dal Vietnam».
-
Barnard: i buffoni che scoprono solo ora il bluff gialloverde
Italiani “buffoni”. Non quelli al governo, o quelli che l’esecutivo gialloverde l’hanno sempre e solo visto come un’epidemia di colera fascio-razzista in salsa populista. No, peggio: i veri buffoni, secondo Paolo Barnard, sono i connazionali che oggi – a fine 2018 – si stracciano le vesti, gridando al tradimento dei loro ex paladini. Lega e 5 Stelle: ieri bellicosi e polemici con la “dittatura” finto-europeista dell’Ue, e adesso già belanti e pronti a trattare, di fronte al muro di minacce e di ricatti innalzato da Bruxelles alle prime avvisaglie di deficit. E’ bastato poco: le provocazioni speculative dello spread, le intimidazioni di Moscovici e Juncker, la complicità mercenaria dell’eterno establishment italico “venduto allo straniero”. Fine del sogno irredentista: l’Italia si appresta a farsi rimettere in riga dai ragionieri dell’Unione Europea, tanto disonesti da accanirsi con noi – non tollerando neppure quel timido 2,4% di disavanzo – per poi affrettarsi a perdonare la Francia del “fratello” Macron, che per difendersi dalla rivolta dei Gilet Gialli annuncia che sforerà persino il mitologico 3% sancito da Maastricht sulla base di mere asserzioni “teologiche”, senza alcun rapporto con l’economia reale. O meglio: chi impose quel limite artificioso al deficit lo fece nella più clamorosa malafede, ben sapendo che tagliare le unghie agli Stati avrebbe terremotato i consumi e fatto sparire la classe media, deformando l’economia a esclusivo vantaggio dell’élite finanziaria.Il primo a raccontarlo, in Italia, fu proprio Paolo Barnard, solitario giornalista a tutto tondo (uno dei pochissimi in circolazione), capace di divorziare da “Report”, che aveva fondato insieme alla Gabanelli, per trasformarsi in un attivista d’avanguardia, impegnato a spiegare ai non-addetti le perverse alchimie della finanza e di una moneta, l’euro, fabbricata a scopo di dominazione, per confiscare la democrazia in Europa. Nel saggio “Il più grande crimine, uscito nel 2010, Barnard ricostruisce in termini addirittura criminologici la genesi dell’attuale Ue, imputandola all’azione (molto subdola) delle nuove oligarchie del denaro, vere e proprie eredi delle aristocrazie che furono. Missione: rimettere in piedi una sorta di Sacro Romano Impero governato da dogmi, da imporre agli ex-cittadini trasformati in neo-sudditi, cui infliggere crisi e disoccupazione, precarietà e insicurezza sociale, erosione dei risparmi, salari ridicoli e pensioni da fame. La scusa: non ci sono più soldi, il debito pubblico ci divora. La grande omissione: la moneta. Chi la controlla? Chi la detiene? Chi la emette? E’ lei, la moneta, la sola misura del debito. Un debito pubblico denominato in moneta sovrana non è un problema, in nessun caso. Usa, Cina e Russia non potranno fallire mai. Il Giappone ha il doppio del debito italiano, eppure non ne soffre. Solo in Europa – caso unico al mondo – mezzo miliardo di persone è in balia di macellai, come nel caso della Grecia, senza che nessuno si ribelli davvero.Potevano farlo Di Maio e Salvini? Dovevano farlo, stando alle rispettive campagne elettorali. In tanti li avevano presi sul serio: i loro avversari, Pd in testa, dichiaramente spaventati dal possibile nuovo corso, e poi ovviamente i loro sostenitori (almeno il 60% degli italiani, stando ai sondaggi), convinti di potersi fidare di questi due nuovissimi “salvatori della patria”. A storcere il naso fin dal principio, viaggiando come sempre “in direzione ostinata e contraria”, c’era lui: Paolo Barnard. Lo ricorda impietosamente, oggi, sul suo blog. Era il 31 maggio 2018 quando scriveva: «Luigi Di Maio e Matteo Salvini hanno inflitto agli elettori euroscettici italiani la più desolante umiliazione che chiunque potesse immaginare. Non male, per due “paladini” delle sovranità italiane. Ma molto peggio: hanno seppellito per sempre le speranze sovraniste italiane in un colpo solo». Nel senso: prima di sfidarlo, il nemico devi conoscerlo. E se è così potente, distruggendo te, scoraggerà chiunque altro vorrà provare a combatterlo. I gialloverdi? Pericolosamente velleitari, irresponsabili e cialtroni.«Esauriti i primi proclami di cosmesi, hanno già intrapreso il camino delle ceneri sul capo, verso le vie di Bruxelles e del Quirinale, precisamente come ogni altro fantoccio italiano dal 1993 in poi». Questo, aggiunge Barnard, accade «a tristissime spese dell’elettorato per l’impreparazione e la sprovvedutezza di Lega e 5 Stelle nell’aver grossolanamente sottovalutato l’avversario». Maggio 2018, e Barnard già scriveva: «Siamo infatti all’ennesima umiliazione nazionale, ora certa». Sei mesi dopo, qualche sassolino dalla scarpa se lo toglie, Barnard: «Chi fra i Socci, Fusaro, Becchi, e tutti ’sti delusi ragazzetti/e web che ora ragliano sui social “vi avevamo creduto! traditori!” condivise la mia previsione? Nessuno». E perché? «Perché ’sti personaggetti e i loro adoranti “ti metto 1 miliardo di like” tenevano i piedi in due staffe», scrive Barnard, che non perdona chi oggi – fuori tempo massimo – sta cambiando idea, giorno per giorno, di fronte al crollo della scommessa gialloverde. I supporter del “governo del cambiamento”? Piccoli opportunisti: «Sapete, non si sa mai: e se il carro dei vincitori vinceva? Comodo adesso saltar giù, buffoni».Italiani “buffoni”. Non quelli al governo, o quelli che l’esecutivo gialloverde l’hanno sempre e solo visto come un’epidemia di colera fascio-razzista in salsa populista. No, peggio: i veri buffoni, secondo Paolo Barnard, sono i connazionali che oggi – a fine 2018 – si stracciano le vesti, gridando al tradimento dei loro ex paladini. Lega e 5 Stelle: ieri bellicosi e polemici con la “dittatura” finto-europeista dell’Ue, e adesso già belanti e pronti a trattare, di fronte al muro di minacce e di ricatti innalzato da Bruxelles alle prime avvisaglie di deficit. E’ bastato poco: le provocazioni speculative dello spread, le intimidazioni di Moscovici e Juncker, la complicità mercenaria dell’eterno establishment italico “venduto allo straniero”. Fine del sogno irredentista: l’Italia si appresta a farsi rimettere in riga dai ragionieri dell’Unione Europea, tanto disonesti da accanirsi con noi – non tollerando neppure quel timido 2,4% di disavanzo – per poi affrettarsi a perdonare la Francia del “fratello” Macron, che per difendersi dalla rivolta dei Gilet Gialli annuncia che sforerà persino il mitologico 3% sancito da Maastricht sulla base di mere asserzioni “teologiche”, senza alcun rapporto con l’economia reale. O meglio: chi impose quel limite artificioso al deficit lo fece nella più clamorosa malafede, ben sapendo che tagliare le unghie agli Stati avrebbe terremotato i consumi e fatto sparire la classe media, deformando l’economia a esclusivo vantaggio dell’élite finanziaria.
-
Cremaschi: Governo del Cedimento, pagheranno gli italiani
Il governo si è incamminato verso il cedimento completo alla Ue. Per questo la Borsa sta festeggiando da giorni e la finanza che manovra sullo spread ha preso atto della svolta e ha cominciato ad stringere la corda. Salvini e Di Maio sono e si sono incastrati sullo spread: dopo la sua discesa, a seguito della loro disponibilità a trattare con la Ue, non potranno certo farlo risalire con frasi né tantomeno con comportamenti di rottura. D’altra parte anche la Commissione Ue ha tutto l’interesse all’accordo, perché questo confermerebbe la sovranità limitata degli Stati del sud Europa, ridarebbe forza a trattati feroci come il Fiscal Compact, che in realtà nessuno Stato sta rispettando e può rispettare. E inoltre consoliderebbe la sempre più chiara alleanza tra la nuova Europa dei governi reazionari di Kurz e Orban e quella dei vecchi governi liberisti di Macron e Merkel. Salvini e Di Maio hanno preso una cantonata devastante quando si sono illusi che i partiti e i governi che li hanno sostenuti quando chiudevano i porti, li avrebbero appoggiati anche sulle pensioni e sul reddito. Non hanno capito che i reazionari del nord ed est Europa odiano i migranti, così come disprezzano gli italiani e tutti i popoli meridionali fannulloni e spendaccioni. E neppure hanno capito che i fascisti del sud, come il partito neofranchista Vox che è appena entrato nel Parlamento regionale dell’Andalusia in Spagna, sono tanto reazionari quanto europeisti.Salvini e Di Maio hanno subìto dai mercati, dal grande padronato, dalla Ue, una pressione ben più leggera di quanto toccò alla Grecia di Tsipras nel 2014. Ma è bastato solo alludere alla stessa medicina somministrata allora dalla Troika, lo ha fatto anche Monti che ne possiede adeguate conoscenze, e i due fieri sovranisti si sono piegati come fuscelli. Dopo la tragedia greca la farsa italiana. Oramai la trattativa governo Ue ha un solo vero scopo: permettere di salvare la faccia ai gialloverdi, almeno fino alle elezioni europee. Il deficit infatti sarà ridotto dal 2,4 al 2 o anche più in basso. Questo vuol dire che, rispetto alla sua stessa manovra, il governo dovrà tagliare dai 7 ai 9 miliardi le misure che intende fare, o altre spese su altre voci. Complessivamente la manovra si configurerà come quella più liberista e austera dai tempi di Monti. Verrà stretto ancora il cappio che da più di venti anni strangola l’economia del paese, quello dell’attivo primario di bilancio. Cioè lo Stato, alla fine di tutte le partite di giro, ancora una volta restituirà ai cittadini molto meno di quello che riscuoterà in tasse e contributi.Tria ha inoltre promesso 18 miliardi di privatizzazioni all’anno per abbassare il debito. Non c’è male per chi aveva commentato la strage del Ponte Morandi riproponendo la necessità delle privatizzazioni. Ma con la disinvoltura che lo distingue è stato proprio Di Maio a propagandare la nuova grande privatizzazione. Aggiungendo che non riguarderà aziende, ma solo edifici e terreni. Se fosse vero, considerato che dopo averla regalata alla Ue questa svendita di beni pubblici sarà sottoposta a obblighi brutali, saremmo alla più grande dismissione di suolo pubblico ai privati da cento anni in qua. Nel paese dei disastri idrogeologici questa sarebbe davvero una scelta criminale. Il governo Salvini Di Maio era partito come il contestatore delle regole Ue e ne diventerà uno dei più ligi esecutori, privatizzazioni ed austerità saranno la sua vera politica, il resto propaganda. È vero dunque che la finanziaria che concorderanno Conte e Moscovici aggraverà la crisi economica, visto che l’Italia, assieme alla Germania e ad altri paesi di Europa, sta entrando in recessione. Gli industriali se ne sono accorti e, come hanno sempre fatto quando i guadagni calavano, dopo aver appoggiato il governo hanno iniziati a criticarlo. Con il solo scopo di rafforzare le posizioni liberiste di Salvini e di portarlo alla fine a guidare da solo il paese.Ma cosa resterà allora della manovra del popolo festeggiata dal balcone, tra tagli, privatizzazioni, rinvii di spesa? Ben poco. Le due operazioni bandiera, il reddito di cittadinanza e l’abolizione della legge Fornero si sgonfieranno e si ridurranno a poche misure di facciata, dello stesso segno e dimensione degli 80 euro e delle varie mance elettorali del governo Renzi. Il reddito di cittadinanza da tempo non è più tale, ma è diventato una social card come quella di Tremonti, che si aggiunge al reddito di inclusione del governo Gentiloni. Sì darà qualche soldo in più, da spendere subito e bene col bancomat di Stato, ad una ristretta platea di poveri, ma soprattutto si finanzieranno con danaro pubblico le paghe di fame di chi lavora. Se il padrone dà 400 euro al mese, lo Stato contribuirà per arrivare a 780, ammesso che questa cifra finale resti. Quindi il reddito di cittadinanza diventerà il mezzo per introdurre in Italia il sottolavoro finanziato dallo Stato, come ha fatto la famigerata legge Hartz IV, che in Germania ha prodotto milioni di lavori sottopagati. Le aziende saranno incentivate ad assunzioni precarie con salari vergognosi, perché lo Stato ci metterà una parte della paga. Come ha preteso la lega alla fine il reddito di cittadinanza diventerà soprattutto un finanziamento alle imprese.Per quanto riguarda la legge Fornero, Salvini e Di Maio dovranno sottoscrivere con la Ue la rinuncia ad ogni sua reale abolizione. Era questa infatti la misura che più preoccupava i governi europei, tutti intenzionati ad innalzare l’età della pensione. Nessun governo farebbe invece vere obiezioni di fronte a prepensionamenti temporanei, perché questi avvengono in ogni paese. Quindi il governo dovrà giurare alla Ue che i 67 anni, a crescere, dell’età della pensione per tutte e tutti non verranno toccati. Poi potrà contrattare, ovviamente coprendo i costi con altri tagli, per quanti si allargheranno le maglie della gabbia. Le ultime proposte cancellano definitivamente quota 100 come diritto valido per sempre e promettono il pensionamento anticipato, naturalmente con le penalizzazioni di legge, solo a chi avrà maturato il requisito negli ultimi due o tre anni. Per chi ci arriva dopo ciccia. Centomila prepensionamenti da spendere in campagna elettorale e poi chi s’è visto s’è visto. Questo è il tradimento più sfacciato delle promesse elettorali di Salvini e Di Maio.Tuttavia nulla cambierà fino a che l’opposizione ufficiale al governo sarà rappresentata dai residui del centrosinistra e del centrodestra e fino a che Salvini riuscirà, grazie anche ai mass media, a distrarre l’opinione pubblica con la caccia ai migranti e con la libertà di sparare. Il governo del cambiamento diventerà il governò del cedimento, ma continuerà a servire i potenti e a spadroneggiare coi più deboli, fino a che avrà di fronte chi ha fatto le stesse politiche liberiste e ora lo accusa di non farle altrettanto bene. Per questo bisogna costruire ed estendere una opposizione sociale e politica diversa, che lotti sia contro gli imbrogli e la resa di Salvini e Di Maio, sia contro l’austerità, le regole liberiste e i diktat della Ue. La Francia, in rivolta contro quel Macron che aveva votato quasi al settanta per cento, conferma che le glorie politiche oggi sono molto effimere e che le politiche di austerità divorano chi le fa, ma anche chi finge di combatterle.(Giorgio Cremaschi, “Il governo del cedimento”, da “Micromega” del 7 dicembre 2018).Il governo si è incamminato verso il cedimento completo alla Ue. Per questo la Borsa sta festeggiando da giorni e la finanza che manovra sullo spread ha preso atto della svolta e ha cominciato ad stringere la corda. Salvini e Di Maio sono e si sono incastrati sullo spread: dopo la sua discesa, a seguito della loro disponibilità a trattare con la Ue, non potranno certo farlo risalire con frasi né tantomeno con comportamenti di rottura. D’altra parte anche la Commissione Ue ha tutto l’interesse all’accordo, perché questo confermerebbe la sovranità limitata degli Stati del sud Europa, ridarebbe forza a trattati feroci come il Fiscal Compact, che in realtà nessuno Stato sta rispettando e può rispettare. E inoltre consoliderebbe la sempre più chiara alleanza tra la nuova Europa dei governi reazionari di Kurz e Orban e quella dei vecchi governi liberisti di Macron e Merkel. Salvini e Di Maio hanno preso una cantonata devastante quando si sono illusi che i partiti e i governi che li hanno sostenuti quando chiudevano i porti, li avrebbero appoggiati anche sulle pensioni e sul reddito. Non hanno capito che i reazionari del nord ed est Europa odiano i migranti, così come disprezzano gli italiani e tutti i popoli meridionali fannulloni e spendaccioni. E neppure hanno capito che i fascisti del sud, come il partito neofranchista Vox che è appena entrato nel Parlamento regionale dell’Andalusia in Spagna, sono tanto reazionari quanto europeisti.
-
Noi sfruttati senza pietà, caduto lo spauracchio dell’Urss
Da quando sono scoppiati gli spread e la Germania detta l’agenda politica europea a suon di austerità, lo slogan più battuto è stato: “Siamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità”. Tuttavia, da un punto di vista scientifico, nel senso quantitativo del termine e cioè misurabile, la ricchezza in Occidente è di molto aumentata nell’ultimo mezzo secolo, e niente affatto diminuita. Detto diversamente, se per ricchezza intendiamo i beni prodotti e creati manipolando la materia, la ricchezza è aumentata, così come quel fluidificante degli scambi che chiamiamo denaro. Oggi, rispetto a 50 anni fa ci sono più immobili, più infrastrutture, più bicchieri, più vestiti, più occhiali, più scarpe, più libri, più telefoni, più televisori, più automobili, più mutande, più apparecchi per chi vuole raddrizzare i denti e sexy toys per chi si vuole divertire. Per il più banale dei ragionamenti logici, allora, non ha alcun senso sostenere che gli occidentali sono vissuti al di sopra delle loro possibilità. Tramite le loro “possibilità”, europei, americani e australiani hanno moltiplicato in modo esponenziale la ricchezza sul pianeta.C’è un momento chiave nella nostra storia recente che spiega bene il vero motivo per cui il mainstream, gli accademici ed i grandi capitalisti recitano la favoletta del “siamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità”, ed è il 1989. Che in molte aree del socialismo reale si vivesse male rispetto agli standard occidentali, ma anche rispetto a quelli autoctoni del passato, non c’è alcun dubbio. I protagonisti di quella stagione sono ancora quasi tutti vivi, e dunque per quanto molta letteratura sia stata ammaestrata dalla narrazione anticomunista, è agli atti, ad esempio, che a Bucarest durante la presidenza Ceausescu il cibo fosse razionato. Dunque, non si tratta di spulciare di qua e di là un’area del blocco comunista o di quello capitalista per stabilirne il benessere. Il punto sta nel paradigma plurale che caratterizzava il mondo prima del 1989. E per paradigma plurale si intende la possibilità che un governo in qualsiasi parte del mondo potesse assumere forme comuniste, socialdemocratiche, teocratiche o capitalistiche.Il caso europeo è emblematico. Nel vecchio continente, infatti, c’era un capitalismo molto temperato, perennemente spaventato dalla possibilità che il modello dei vicini paesi del blocco comunista potessero convincerci ad assumere altre forme di governo. Detto diversamente, il capitalismo del dopoguerra ci concesse di tutto, ma senza rinunciare ad accumulare ricchezza. In quella stagione – per paura che arrivasse il comunismo – il capitalismo occidentale rinunciò ad accumulare tutta la ricchezza, come sarebbe nella sua natura, ma ne distribuì una minima parte. Il che, tradotto, significò orari di lavoro ridotti, il tempo indeterminato, il reintegro sul luogo di lavoro a seguito di vittoria ad un processo contro l’azienda, l’accesso gratuito o semigratuito a beni essenziali come la salute, l’istruzione, la casa ed il trasporto. Tutto questo – che passa sotto il nome di welfare State – contenne la ricchezza dei capitalisti senza che questi si impoverissero.Semplicemente, con questa modalità, le ricchezze che si accumulavano vennero ridistribuite, seppur in parti davvero risibili. Le modalità di ridistribuzione furono diverse, ma su tutte i contratti di lavoro e gli investimenti pubblici tramite l’emissione di debito pubblico. Dopo il 1989, finita la paura che i governi potessero assumere forme inclini alla pianificazione economica statale, il capitalismo si tolse la maschera e mostrò il suo vero volto. Il volto di chi non intende distribuire la ricchezza creata, ritenendo di poterlo fare non a seguito di presunti meriti, ma in virtù di rinnovati rapporti di forza. Nemmeno negli anni ’50, ’60, ’70 e ’80 il capitalismo voleva distribuire la ricchezza, ma voleva accumularla perché questo è nella sua natura. Dunque, in quella stagione, noi e chi ci ha preceduto non è vissuto al di sopra delle sue possibilità, ma al di sopra della volontà dei capitalisti.Conti alla mano, tenuto conto della capacità produttiva mondiale, anche allora si visse al di sotto delle proprie possibilità, ma in misura effettivamente meno drastica di quanto avviene oggi. Il motivo per il quale – in Europa – non si accettano revisioni alle regole e non si trova uno sbocco al problema euro non sta dunque in considerazioni tecniche alla Mario Draghi, ma in una precisa volontà lobbystica. Risulta quanto mai ingenuo, o stupido chi, come Varoufakis ieri o Savona/Borghi/Bagnai oggi, pensa di poter convincere i burocrati europei sul deficit. Anche i tecnocrati conoscono le soluzioni, ma non le vogliono applicare perché non vogliono scientemente operare nella direzione di una ridistribuzione di ricchezza.(Massimo Bordin, “Siamo vissuti al di sopra delle loro volontà”, dal blog “Micidial” del 7 dicembre 2018).Da quando sono scoppiati gli spread e la Germania detta l’agenda politica europea a suon di austerità, lo slogan più battuto è stato: “Siamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità”. Tuttavia, da un punto di vista scientifico, nel senso quantitativo del termine e cioè misurabile, la ricchezza in Occidente è di molto aumentata nell’ultimo mezzo secolo, e niente affatto diminuita. Detto diversamente, se per ricchezza intendiamo i beni prodotti e creati manipolando la materia, la ricchezza è aumentata, così come quel fluidificante degli scambi che chiamiamo denaro. Oggi, rispetto a 50 anni fa ci sono più immobili, più infrastrutture, più bicchieri, più vestiti, più occhiali, più scarpe, più libri, più telefoni, più televisori, più automobili, più mutande, più apparecchi per chi vuole raddrizzare i denti e sexy toys per chi si vuole divertire. Per il più banale dei ragionamenti logici, allora, non ha alcun senso sostenere che gli occidentali sono vissuti al di sopra delle loro possibilità. Tramite le loro “possibilità”, europei, americani e australiani hanno moltiplicato in modo esponenziale la ricchezza sul pianeta.
-
Bifarini: agonia Ue, elettori traditi. Unica chance, l’Italexit
Dopo la bocciatura definitiva della manovra da parte della Commissione Europea con la prospettiva dell’apertura della procedura d’infrazione contro l’Italia per deficit eccessivo, da più parti ci si chiede quale strada percorrere. Scendere a patti con Bruxelles, come sembrerebbe chiedere il ministro degli affari europei Paolo Savona, o andare avanti con il muro contro muro come chiedono invece Salvini e Di Maio? Ha senso cercare ancora un accordo con l’Unione Europea sulla manovra? Credo a questo punto che non ci siano più le condizioni. C’è un accanimento da parte dell’Unione Europea nei confronti dell’Italia che è motivato più da ragioni ideologiche e politiche che da questioni economiche. La spesa a deficit prevista da questa manovra è assolutamente in linea con quanto attuato dai governi precedenti, anzi anche inferiore. Il debito pubblico, dovuto al pagamento degli interessi sul debito stesso, è cresciuto con lo stesso Monti, a riprova che le misure di austerity non funzionano, così come con Letta, Gentiloni e Renzi. Ma mai come con la coalizione giallo-verde c’era stato un attacco così duro e ostinato da parte sia di Bruxelles che dei media e di tutta la potente macchina della propaganda.Siamo di fronte a un bivio: è giunto il momento di scelte coraggiose. Continuare a sottostare a regole e parametri infondati, assurti a dogmi, significa rinunciare per sempre alla propria sovranità economica e politica. Una perdita di democrazia inaccettabile per i cittadini, che alle urne hanno espresso la loro volontà di cambiamento. C’è uno scollamento troppo forte ormai tra le istanze delle popolazioni e quelle dei tecnocrati di Bruxelles, che non le rappresentano. Attraverso l’imposizione di parametri contabili si è creata una dittatura dei mercati che sta generando solo povertà e disoccupazione. L’unica possibile via d’uscita è recuperare la propria sovranità monetaria. Continuare a ‘trattare’ con l’Ue che ci somministra la pillola mortifera dell’austerity significa condannarsi a una lenta e dolorosa agonia. Nonostante il terrorismo creato dal mainstream, tornare a una nostra moneta – che si chiami lira o qualsiasi altro nome – non rappresenterebbe nulla di trascendentale. Al mondo, a parte l’Eurozona e le ex colonie francesi che adottano il franco Cfa, ogni paese ha la propria moneta. Non si verificherebbe nessuna delle catastrofi prospettate da chi fa volutamente terrorismo.Lo spauracchio dell’inflazione, ad esempio, è infondato, perché attualmente ci troviamo in una situazione di deflazione con crisi della domanda e alta disoccupazione. Così come la corsa agli sportelli, essendo nell’epoca delle transazioni elettroniche. Insomma, niente cavallette. Il ministro Paolo Savona dice che bisogna cambiare anche il governo, non soltanto la manovra? Pare che le dichiarazioni siano state smentite, o comunque ridimensionate. Sicuramente c’è nervosismo, vista la situazione di forte scontro con l’Ue. D’altra parte c’è una stampa e un apparato di comunicazione che tifa contro il governo e fa di tutto per ridicolizzarlo e delegittimarlo. Neanche ai tempi di Berlusconi c’era tanto accanimento. Questo tende a esacerbare lo scontro e a radicalizzare le posizioni, creando un clima per nulla favorevole.(Ilaria Bifarini, dichiarazioni rilasciate ad Americo Mascarucci per l’Intervista “Vi spiego perchè è il momento dell’Italexit”, pubblicata su “Lo Speciale” il 23 novembre 2018 e ripresa sul blog della Bifarini).Dopo la bocciatura definitiva della manovra da parte della Commissione Europea con la prospettiva dell’apertura della procedura d’infrazione contro l’Italia per deficit eccessivo, da più parti ci si chiede quale strada percorrere. Scendere a patti con Bruxelles, come sembrerebbe chiedere il ministro degli affari europei Paolo Savona, o andare avanti con il muro contro muro come chiedono invece Salvini e Di Maio? Ha senso cercare ancora un accordo con l’Unione Europea sulla manovra? Credo a questo punto che non ci siano più le condizioni. C’è un accanimento da parte dell’Unione Europea nei confronti dell’Italia che è motivato più da ragioni ideologiche e politiche che da questioni economiche. La spesa a deficit prevista da questa manovra è assolutamente in linea con quanto attuato dai governi precedenti, anzi anche inferiore. Il debito pubblico, dovuto al pagamento degli interessi sul debito stesso, è cresciuto con lo stesso Monti, a riprova che le misure di austerity non funzionano, così come con Letta, Gentiloni e Renzi. Ma mai come con la coalizione giallo-verde c’era stato un attacco così duro e ostinato da parte sia di Bruxelles che dei media e di tutta la potente macchina della propaganda.
-
Bush senior, il massone terrorista che ha sfigurato il mondo
E’ passato alla storia per aver condotto la prima Guerra del Golfo contro quel Saddam Hussein che l’ambasciata Usa di Baghdad aveva appena “autorizzato” a invadere in Quwait. Fino a quel momento, però, aveva collaborato con l’Urss di Gorbaciov nel rispetto degli storici trattati sul disarmo avviati da Reagan per mettere fine alla guerra fredda. Ma dietro la maschera del conservatore tradizionalista, c’era ben altro: come ricorda Massimo Mazzucco, George Herbert Bush aveva curiosamente dormito a Dallas il fatidico 22 novembre 1963, giorno dell’attentato a John Kennedy. E poi aveva soggiornato per una notte alla Casa Bianca il 10 settembre 2001, alla vigilia della strage destinata a battezzare col sangue il neonato terzo millennio. A Washington formalmente regnava suo figlio, George junior, ma le leve di comando erano saldamente nelle mani di George senior, tramite il suo “fraterno” amico Dick Cheney, vicepresidente Usa e grande ispiratore del Pnac, il Piano per il Nuovo Secolo Americano vergato due anni prima dai neocon ultra-imperialisti. Obiettivo: imprimere una svolta anche violenta alla globalizzazione, utilizzando la guerra e il terrorismo “false flag”, gestito da servizi segreti deviati. Una filiera dell’orrore che ha partortito anche l’Isis. Proprio Bush senior era stato il fondatore della cupola, una cellula massonica “impazzita” dal nome sinistro: “Hathor Pentalpha”.Lo spiega dettagliatamente Gioele Magaldi nel suo bestseller “Massoni”, uscito nel 2014 per Chiarelettere: una clamorosa rilettura della storia del ‘900 illuminata da 6.000 pagine di documenti riservati. La tesi esposta: da decenni, il pianeta è condizionato dall’attività occulta di 36 Ur-Lodges, superlogge sovranazionali che dettano le loro condizioni alle strutture “paramassoniche” sottostanti – Ue e Fmi, Banca Mondiale e Wto, Commissione Trilaterale, Bilderberg, Chatam House, Coucil on Foreign Relations – le quali poi, a loro volta, con i più noti strumenti di pressione finanziaria, supportano governi “amici” e silurano politici scomodi. Lo stesso Magaldi, massone, è stato iniziato nella “Thomas Paine”, capostipite delle superlogge progressiste: un mondo che ha prodotto personaggi come Roosevelt e Allende, Martin Luther King e Nelson Mandela, Gandhi e Giovanni XXIII, Olof Palme e Yitzhak Rabin. Fino agli anni Settanta, sostiene Magaldi, l’ambiente supermassonico progressista ha gestito in Occidente lo sviluppo industriale sul modello keynesiano, basato sulla spesa pubblica strategica per diffondere benessere in modo orizzontale. Erano i decenni del boom basato sul welfare, sui diritti sindacali e sulla mobilità sociale. Poi è arrivato il grande freddo, annunciato dal manifesto “La crisi della democrazia” promosso dalla Trilaterale. Quindi gli anni ‘80: Reagan e la Thatcher, l’ordoliberismo di Kohl e la svolta reazionaria di Mitterrand, grande padrino dell’attuale Ue.Tutto l’Occidente aveva sterzato “a destra”. Ma quella retromarcia epocale, spiega Magaldi, era stata abilmente incubata da “menti raffinatissime” come quelle della “Three Eyes” di Kissinger e Rockefeller, abili a nascondere la propria identità supermassonica oligarchica e neo-feudale. Ad aggravare il quadro, è comparsa come un tumore maligno la “Hathor Pentalpha”, fondata proprio da Bush padre dopo la bruciante sconfitta subita da Reagan alle primarie repubblicane del 1980. Era in corso una guerra inframassonica tra due superlogge neo-conservatrici, la “White Eagle” e la “Three Eyes”, divise su Reagan e Bush. Seguirono attentati: a quello contro Reagan, gli sponsor del neopresidente “risposero” con l’attentato a Wojtyla, che era stato eletto Papa con l’appoggio determinante di Zbigniew Brzezinski, lo stratega geopolitico della “Three Eyes” noto per aver reclutato Osama Bin Laden come combattente antisovietico in Afghanistan. Da quel momento, Bush padre fondò la propria Ur-Lodge, la “Hathor”, poi passata alla storia come “superloggia del sangue e del terrore”. Tra i suoi affiliati il francese Nicolas Sarkozy (la guerra in Libia), il violento autocrate turco Ergogan e l’inglese Tony Blair, che inventò le “armi di distruzione di massa” di Saddam.Se il mondo oggi è ridotto così, col Medio Oriente in fiamme e la nuova guerra fredda contro la Russia, il “merito” è di supermassoni come l’appena scomparso George Herbert Bush. «Così come altri personaggi, che aborro dal punto di vista dello stile umano e massonico, Bush senior è stato un grande contro-iniziato: non gli si può non riconoscere questa grandezza», dichiara Magaldi, in web-streaming su YouTube con Marco Moiso, vicepresidente di quel Movimento Roosevelt che lo stesso Magaldi ha fondato, con l’obiettivo di rigenerare in senso democratico la politica italiana, sottraendola all’influsso dei circuiti finanziari supermassonici oligarchici. Magaldi si dichiara «impegnato a ricostruire un tessuto planetario egemone della massoneria progressista». Ma di fronte alla morte, sottolinea, «si deve rispetto anche al peggiore degli antagonisti». Con questo spirito, aggiunge, «il mondo potrebbe evolvere in termini più rapidi verso quei valori che proprio personaggi come Bush senior hanno cercato di conculcare: occorre sempre essere migliori dei propri nemici, senza perdonarli in modo banale, ma avendo quantomeno rispetto per il dolore dei loro cari». Detto questo, George Herbert Bush resta «un grande protagonista del Novecento e anche dell’apertura del nuovo secolo», inaugurata – “grazie” a lui – con la spaventosa strage dell’11 Settembre.Sul tema, Magaldi è esplicito: Bush padre è stato «coinvolto, con altri, nella creazione della “Hathor”, che è stata la protagonista della costruzione di quella grande narrativa inaugurata dall’abbattimento delle Torri Gemelle – o “colonne gemelle”, come le colonne del tempio massonico». Era di lunga data, l’ascendenza massonica della famiglia Bush: lo stesso George senior aveva militato «nei circuiti neo-aristocratici classici», quelli delle superlogge “Three Eyes” e “Edmund Burke”. Poi, a un certo punto, s’è trovato in mezzo alla lotta che opponeva la “White Eagle” alla “Three Eyes”, attorno all’elezione di Reagan. Da qui la scelta di mettersi in proprio, con la “Hathor Pentalpha”, degradando ulteriormente il panorama supermassonico neo-conservatore: fino al mostruoso attentato dell’11 Settembre. «Con quell’evento del 2001 – afferma Magaldi – George Herbert Bush inaugurò di fatto il XXI secolo. Aveva alla Casa Bianca il figlio, ma Bush junior era sotto la tutela di Dick Cheney, amico “fraterno” del padre, che l’aveva messo lì a guidare di fatto quella presidenza». Magaldi riflette sulla “mutazione” di George H. Bush, un personaggio che fino ad allora «era stato davvero il più classico e bonario dei massoni neo-aristocratici moderati».Certo, il vecchio Bush era pur sempre «un uomo che dietro l’apparenza bonaria aveva di fatto gestito le questioni americane in Cina per alcuni anni cruciali, era stato il capo della Cia e aveva percorso tutte le tappe dell’establishment». Poi, il cambiamento: dietro un’apparenza da classico massone del New England, George senior «ha traghettato la stessa famiglia Bush (e anche gli interessi massonici della “famiglia allargata”) verso altri lidi, spianando la strada alla mutazione genetica di un certo contesto massonico, che diventa assolutamente spregiudicato e quasi incontrollabile». Un gruppo di potere particolarmente violento, «inviso agli stessi cenacoli neo-aristocratici classici, che si trovarono spiazzati da ciò che veniva fatto dal 2001 in avanti». Secondo Magaldi, la grande tradizione della massoneria è progressista e democratica, «quindi l’iniziazione massonica è veicolo di costruzione e diffusione di libertà, democrazia e diritti, e non certo di terrore sanguinario (per di più subdolo)». Per questo, aggiunge, «George Herbert Bush è stato un contro-iniziato, avendo pervertito la specifica cifra massonica». Beninteso, «l’hanno fatto anche altri», ma lui «forse l’ha fatto in modo ancora più forte».Ecco perché sono inaccettabili le parole burgiarde di Barack Obama, che ora ha salutato Bush padre come “un grande patriota”. Magaldi definisce «il “fratello” Barack Obama» in modo poco lusinghiero: «Sedicente massone progressista ma in realtà personaggio mediocre, insipido e ipocrita, eletto presidente Usa grazie a una tregua massonica fra gruppi progressisti e gruppi neo-aristocratici classici, moderati, avversi a quel filone inaugurato da Bush senior con la “Hathor Pentalpha”». Tant’è vero che la superloggia “Maat”, nella quale fu iniziato Obama, «fu costruita da un altro grande protagonista della massoneria neo-aristocratica come Zbigniew Brzezinski, e da Ted Kennedy della massoneria progressista». Obama? «Era visto come un presidente che doveva realizzare una soluzione di continuità rispetto agli anni, molto bui, in cui Bush senior e Bush junior imperversavano dalla Casa Bianca sul resto del mondo, costruendo una narrativa del terrore di cui l’Isis era il portavoce visibile. Quindi – aggiunge Magaldi – che proprio Obama parli di Bush senior come di un “grande patriota” e di un “civil servant” è un atto di ipocrisia: un conto è rendere l’onore delle armi a chi se ne va, e un conto è avere questo atteggiamento inconsistente, che cancella tutte le verità storiche e sparge una melassa inodore e insapore che non fa più capire nulla», stendendo una coltre di nebbia sull’accaduto.Essendo malato, il “fratello” Bush senior era ormai ininfluente, in quell’ambito: «Veniva al massimo consultato». Ora, prosegue Magaldi, c’è grande confusione, in quell’ambiente, dopo l’elezione del “Maverick” Donald Trump, il “cavallo pazzo” della Casa Bianca: «Parecchi digrignarono i denti, per il suo insediamento, e Bush senior è stato tra i più fieri avversari dell’elezione di Trump, che andava a rompere le uova nel paniere di chi voleva – con Jeb Bush, l’altro suo figlio, o con altri candidati – reimpostare, dopo la doppia presidenza Obama, una nuova stagione di terrorismo globale». E così, “Hathor Pentalpha”, “Geburah” e altre superlogge oligarchiche del filone «malignamente eretico, cioè votate ad atti clamorosi e spregiudicati, davvero di sangue e di terrore, sono in grande difficoltà». Motivo: «Non controllando la Casa Bianca, in questo momento, le loro armi sono alquanto spuntate». Nonostante tutto, sottolinea Magaldi, Donald Trump è un “tappo”, rispetto a questi ambienti: lo odiano, perché non risponde alle loro indicazioni. Certo, Trump «è parimenti odiato dai progressisti all’acqua di rose, quelli che vanno a guardare la pagliuzza nell’occhio altrui e non vedono la trave che sta nella loro testa».Il neopresidente poi è detestato dagli stessi gruppi neo-aristocratici, «sia quelli classici che quelli eversivi», perché Trump resta «un massone inclassificabile, svolge un suo copione narcisistico e rappresenta un problema anche per gli assetti dell’attuale globalizzazione». Tutto sommato, conclude Magaldi, Trump si è rivelato «una buona carta, da giocarsi in una visione di eterogenesi dei fini, da parte della massoneria progressista», che l’ha appoggiato sottobanco per stoppare prima Jeb Bush e poi Hillary Clinton. «Naturalmente bisogna andare oltre Trump: anzi, la presidenza Trump dev’essere uno stimolo per costruire un tessuto narrativo e operativo progressista che sia sostanziale, non formalistico o oleografico». Detto questo, dice ancora Magaldi, dalle parti della “Htahor Pentalpha” c’è grande confusione e parecchio nervosismo, oltre che un po’ di scoramento. «Noi speriamo che quell’anomalia rientri del tutto: vorremmo che quella specifica superloggia fosse proprio sciolta», chiarisce Magaldi. Lui e i suoi preferirebbero che la “guerra” per le sorti della globalizzazione si giocasse a viso aperto, tra circuiti progressisti e ambienti classicamente neo-aristocratici, magari reazionali ma «capaci di fermarsi davanti ad azioni turpi come quelle messe in opera dal 2001 in avanti fino ad anni recenti».La posta in gioco è sotto gli occhi di tutti: una battaglia sotterranea si sta combattendo tra sostenitori della sovranità democratica e propugnatori della post-democrazia, tecnocratica e finanziaria, di cui l’Unione Europea è probabilmente il peggior esempio mondiale. «C’è modo e modo di scontrarsi su presupposti ideologici diversi», dice ancora Magaldi. «La buona novella è che quei segmenti», protagonisti del terriorismo globale, ora «sono in grande difficoltà». Naturalmente nulla è mai definitivo, quindi «bisogna tenere gli occhi ben aperti», visto che «colpi di coda non sono da escludere». Ma Magaldi vede soprattutto segnali di stanchezza. «E oggi – dice – la morte di un campione di quel mondo, di quella mutazione genetica imprevedibile ed efferata, dovrebbe insegnare qualcosa: quando un ciclo finisce, bisogna anche accettarlo». Quel che c’è sapere, comunque, è che la stagione nera inauguarata dal crollo delle Torri Gemelle – cui seguirono a cascata le guerre in Iraq e in Afghanistan, le rivoluzioni colorate e le primavere arabe fino alla guerra civile in Libia e all’orrore scatenato dall’Isis, prima in Siria e poi in Europa – non è stata una sorta di fisiologia maligna del pianeta, ma un cancro sapientemente coltivato da uomini spietati come George Herbert Bush. Lui e i suoi complici sono stati protagonisti della recente strategia della tensione internazionale che ha colpito milioni di persone con una sistematica sequenza di menzogne e di morte: prima le “fake news”, poi le stragi “false flag”.E’ passato alla storia per aver condotto la prima Guerra del Golfo contro quel Saddam Hussein che l’ambasciata Usa di Baghdad aveva appena “autorizzato” a invadere in Quwait. Fino a quel momento, però, aveva collaborato con l’Urss di Gorbaciov nel rispetto degli storici trattati sul disarmo avviati da Reagan per mettere fine alla guerra fredda. Ma dietro la maschera del conservatore tradizionalista, c’era ben altro: come ricorda Massimo Mazzucco, George Herbert Bush aveva curiosamente dormito a Dallas il fatidico 22 novembre 1963, giorno dell’attentato a John Kennedy. E poi aveva soggiornato per una notte alla Casa Bianca il 10 settembre 2001, alla vigilia della strage destinata a battezzare col sangue il neonato terzo millennio. A Washington formalmente regnava suo figlio, George junior, ma le leve di comando erano saldamente nelle mani di George senior, tramite il suo “fraterno” amico Dick Cheney, vicepresidente Usa e grande ispiratore del Pnac, il Piano per il Nuovo Secolo Americano vergato due anni prima dai neocon ultra-imperialisti. Obiettivo: imprimere una svolta anche violenta alla globalizzazione, utilizzando la guerra e il terrorismo “false flag”, gestito da servizi segreti deviati. Una filiera dell’orrore che ha partorito anche l’Isis. Proprio Bush senior era stato il fondatore della cupola, una cellula massonica “impazzita” dal nome sinistro: “Hathor Pentalpha”.
-
Galloni: folle tagliare il deficit, se è in arrivo la recessione
Fino a qualche settimana fa il governo italiano aveva annunciato il grande cambiamento: obiettivo strategico la crescita del Pil. Ma la trappola è scattata subito: obiettivo, sì, il Pil, ma vincolo – e come non potrebbe essere così? – i conti di bilancio. La Commissione sembra accanirsi sui decimali del deficit dopo il 2… quindi si passa dalle tragedie antiche dello 0 virgola e dell’1 virgola a quelle del 2 virgola. Salvini e Di Maio annunciano che il 2,4 di rapporto deficit/Pil è la linea del Piave. Tutti alzano la voce per consumare la tempesta perfetta nel bicchiere d’acqua. Intanto, fuori dal bicchiere d’acqua avvengono altre cose evidenti: i cosiddetti mercati si rallegrano se l’Italia crescerà un pochino; ma nessuno osserva che l’Italia sta registrando avanzi primari (lo Stato incamera sistematicamente imposte superiori alla spesa senza interessi, e poi si va in deficit con questi ultimi) e, che quindi l’effetto della manovra sul Pil non potrà essere significativo. Dopo qualche settimana di braccio di ferro Ue-Italia, la doccia fredda per tutti: Germania ed altri paesi, tra cui la stessa Italia, cominciano ad intravvedere il chiaro inizio di una recessione.A quel punto la Commissione cambia toni (ma è costretta a farlo pure l’Italia) e chiede più Pil. Se si fosse in presenza di gente seria, l’affacciarsi della recessione avrebbe dovuto imporre un maggiore deficit per stimolare investimenti e spese capaci di contrastare la caduta del Pil: certo, con un maggior deficit, l’Italia dovrà spendere di più anche di interessi sui nuovi titoli. In realtà, obiettivo Pil e vincolo di bilancio significherà che, per mantenere un deficit del 2% di Pil, se il Pil non cresce come programmato, bisognerà tagliare la spesa della differenza tra le previsioni della manovra e l’andamento effettivo. E saremmo punto e daccapo: lacrime e sangue, vale a dire la bella ricetta che ci porta in recessione. Ci sarebbero, almeno, tre considerazioni da fare. Primo, il Pil non può aumentare se, nei comparti ad alta redditività, la domanda di lavoro decresce più rapidamente dei risultati economico-finanziari; e se, nei comparti dove l’occupazione potrebbe crescere (cura delle persone, dell’ambiente e del patrimonio esistente), il costo – in gran parte il lavoro necessario – supera, salvo una minoranza di eccezioni, il fatturato. Quindi, o si interviene sul paradigma economico sociale o il Pil non crescerà o non crescerà abbastanza.Secondo, non si dovrebbe insistere sul parametro debito pubblico/Pil che era già sfavorevole all’Italia dalla fine degli anni ’80 ed è poco peggiorato in seguito; infatti, per valutare solidità e sostenibilità del debito di un paese, bisognerebbe aggiungere – al numeratore – il debito delle famiglie e quello delle imprese non finanziarie. Così si scoprirebbe che i paesi hanno debiti complessivi che vanno da poco più del 300% a meno del 500%, considerata dalle banche e dall’esperienza il limite da non valicare: non è forse vero che si ottiene un mutuo pari fino a 5 volte il reddito annuale del mutuatario? Non guasterebbe nemmeno la istituzione di un’agenzia di rating che impedisse la trasformazione in titoli spazzatura di effetti che, invece, il mercato chiede e sa apprezzare. Terzo, in funzione delle difficoltà di una crescita responsabile ed in rapporto alla esistenza di risorse inoccupate o sotto-utilizzate, perché non esercitare un po’ di sovranità monetaria degli Stati?L’euro resterebbe come unità di conto e come moneta avente corso legale in tutta l’Eurolandia (articolo 128 del Trattato di Lisbona), mentre una moneta parallela avente corso legale solo nazionale servirebbe per affrontare le maggiori spese per l’ambiente, la cura delle persone, il fabbisogno di giovani laureati nelle pubbliche amministrazioni. Non piace la parola moneta? Draghi dice che una moneta parallela sarebbe illegale? Ma quale legge la rende illegale? Essa, tuttalpiù, non è disciplinata perché il Trattato di Lisbona si occupa di altro. Ma niente paura! Lo Stato può emettere buoni spesa che poi accetterà in pagamento delle tasse: 200 euro per ogni occupato, disoccupato e pensionato per otto mesi genererà alla fine dell’anno un aumento di Pil di 48 miliardi e non si determinerà maggior deficit.(Nino Galloni, “Involuzione nel rapporto Ue-Italia, come uscirne?”, da “Scenari Economici” del 5 dicembre 2018).Fino a qualche settimana fa il governo italiano aveva annunciato il grande cambiamento: obiettivo strategico la crescita del Pil. Ma la trappola è scattata subito: obiettivo, sì, il Pil, ma vincolo – e come non potrebbe essere così? – i conti di bilancio. La Commissione sembra accanirsi sui decimali del deficit dopo il 2… quindi si passa dalle tragedie antiche dello 0 virgola e dell’1 virgola a quelle del 2 virgola. Salvini e Di Maio annunciano che il 2,4 di rapporto deficit/Pil è la linea del Piave. Tutti alzano la voce per consumare la tempesta perfetta nel bicchiere d’acqua. Intanto, fuori dal bicchiere d’acqua avvengono altre cose evidenti: i cosiddetti mercati si rallegrano se l’Italia crescerà un pochino; ma nessuno osserva che l’Italia sta registrando avanzi primari (lo Stato incamera sistematicamente imposte superiori alla spesa senza interessi, e poi si va in deficit con questi ultimi) e, che quindi l’effetto della manovra sul Pil non potrà essere significativo. Dopo qualche settimana di braccio di ferro Ue-Italia, la doccia fredda per tutti: Germania ed altri paesi, tra cui la stessa Italia, cominciano ad intravvedere il chiaro inizio di una recessione.