Archivio del Tag ‘cultura’
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Bravi, lavorate da casa: così vi sfrutteremo ancora di più
Non è la prima volta che affronto su queste pagine l’argomento del taylorismo digitale, e quanto leggo in due articoli recenti mi induce a tornare sul tema. Un pezzo del “New York Times” spiega perché il famoso venture capitalist John Doerr ha deciso di investire nella società di software Better Works: i lavoratori che adottano i suoi prodotti sono incoraggiati a mettersi reciprocamente in competizione, “misurando” i rispettivi risultati con metodi che richiamano quelli con cui si stabiliscono i punteggi dei videogame e/o dei programmi di fitness. Doerr si dice entusiasta di tale metodo, perché richiama il sistema Okr (Objectives and Key Results) che lui stesso aveva escogitato quando lavorava per la società Intel e che descrive così: si tratta di fare in modo che gli impiegati si auto attribuiscano degli obiettivi misurabili, e che rendano pubblici i risultati ottenuti, in modo che i colleghi possano metterli a confronto con i propri. Un sistema, commentano gli autori del pezzo, che smentisce l’opinione secondo cui il concetto di organizzazione scientifica del lavoro sarebbe un ferrovecchio.In questo modo i principi di autonomia, responsabilità individuale e libertà da costrizioni gerarchiche dirette, elaborati dal management postfordista (e copiati di peso, come dimostra un bel libro di Boltanski tradotto da Mimesis intitolato “Il nuovo spirito del capitalismo”, dalla cultura dei movimenti post sessantottini), vengono resi perfettamente compatibili con i principi del taylorismo: autocontrollo e autosfruttamento sostituiscono il controllo da parte di capiufficio e capisquadra. Non basta: per rendere ancora più efficace il sistema, occorre “emancipare” il lavoratore anche dalla vicinanza fisica con i capi, virtualizzare il loro rapporto. Ecco perché, come apprendiamo da un altro articolo pubblicato dall’“Huffington Post”, il telelavoro – dopo un periodo in cui sembrava avere perso appeal, smentendo le profezie entusiastiche dei guru della rivoluzione digitale – torna di attualità, al punto che anche Yahoo – società simbolo della New Economy, che qualche anno fa aveva imposto ai dipendenti che praticavano il telelavoro di rientrare in azienda – ha cambiato idea e ora favorisce l’esodo di chi preferisce lavorare da casa.Questa inversione di tendenza si spiega con il fatto che molte ricerche hanno dimostrato che i lavoratori a domicilio sono più produttivi, lavorano più ore (perdendo consapevolezza della differenza fra tempo di lavoro e tempo libero), fanno meno pause, non si danno mai malati; in poche parole: si auto sfruttano selvaggiamente. Per spiegare questa docilità autoimposta alle esigenze di valorizzazione del capitale non basta evocare l’indebolimento dei rapporti di forza delle classi subordinate, logorate dagli effetti di decenni di “guerra di classe dall’alto”: disoccupazione, individualizzazione, desindacalizzazione, che li inducono a ingaggiare una spietata guerra fra poveri per “meritarsi” un salario; la catastrofe è in primo luogo frutto della disfatta culturale provocata dalla conversione delle sinistre all’ideologia liberista. Una conversione che, per la socialdemocrazia, ha assunto la forma della “sottomissione” (per citare Houellebecq) al dio mercato, per i “nuovi movimenti” quella dell’emancipazionismo individuale e identitario.(Carlo Formenti, “Telelavoro e autosfruttamento”, da “Micromega” del 22 marzo 2015).Non è la prima volta che affronto su queste pagine l’argomento del taylorismo digitale, e quanto leggo in due articoli recenti mi induce a tornare sul tema. Un pezzo del “New York Times” spiega perché il famoso venture capitalist John Doerr ha deciso di investire nella società di software Better Works: i lavoratori che adottano i suoi prodotti sono incoraggiati a mettersi reciprocamente in competizione, “misurando” i rispettivi risultati con metodi che richiamano quelli con cui si stabiliscono i punteggi dei videogame e/o dei programmi di fitness. Doerr si dice entusiasta di tale metodo, perché richiama il sistema Okr (Objectives and Key Results) che lui stesso aveva escogitato quando lavorava per la società Intel e che descrive così: si tratta di fare in modo che gli impiegati si auto attribuiscano degli obiettivi misurabili, e che rendano pubblici i risultati ottenuti, in modo che i colleghi possano metterli a confronto con i propri. Un sistema, commentano gli autori del pezzo, che smentisce l’opinione secondo cui il concetto di organizzazione scientifica del lavoro sarebbe un ferrovecchio.
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Occidente incerto, come la gallina con la zampa sollevata
Come l’osservazione insegna, le galline, sono fortemente indecise sulla direzione da prendere o sul da farsi, restano immobili, come in ipnosi, con una zampa alzata. E in questa posizione possono restare anche per molti minuti. A volte questa situazione è prodotta da improvvisi lampi che stordiscono l’animale, inducendolo ad una sorta di stato di trance, tanto più prolungato quanto più i lampi si ripetono. Forse questo esempio ci fa capire che sta succedendo ai piani alti del sistema occidentale. I decisori (statisti, finanzieri, militari) sono entrati nella globalizzazione a bandiere spiegate e a passo di carica, convinti che avrebbero facilmente travolto ogni ostacolo e tali sono rimati sino al 2007-2008, quando è iniziata la nuova “grande crisi”. Il 2008 è stato l’anno di svolta, quando la crisi è stata conclamata in contemporanea alle Olimpiadi di Pechino e alla crisi georgiana. Le prime annunciarono al mondo che la Cina era venti anni più avanti sulle previsioni e si avviava a diventare in brevissimo tempo la seconda grande potenza mondiale; la crisi georgiana con il mancato intervento americano ed europeo, su cui Saakasvili contava, ha segnalato un ritorno tacito di zone d’influenza nelle quali gli Usa non entrano.Le tre cose insieme segnalarono il tramonto dell’ordine mondiale monopolare che, con la caduta dell’Urss, si era immaginato dovesse imporsi per un’intera epoca storica. In questo contesto Obama era eletto come primo presidente dell’epoca post-monopolare. Da quel momento i “decisori” occidentali (tanto in sede politica quanto in sede finanziaria) hanno iniziato ad essere via via meno sicuri. Prima hanno cercato di negare la crisi, dopo l’hanno data per destinata a risolversi in breve, dopo hanno cercato di trattare i diversi casi finanziari e politici come se si trattasse di fenomeni separati e non interdipendenti. Gli sviluppi successivi (seconda caduta della crisi nel 2011-12, primavere arabe, guerra di Libia, ritiro americano da Afghanistan e Iraq, ondata “populista” in Europa, crisi del Califfato) sono stati alti lampi che hanno ulteriormente “accecato” i decisori, riducendone molto l’effettiva operatività: di fatto, di fronte alla crisi finanziaria, l’unica decisione che sono stati capaci di assumere sono state le continue iniezioni di liquidità, mentre nessuno dei tentativi di riforma del settore è andata a buon fine.In questa paralisi dell’azione dei decisori pesa grandemente l’incapacità degli intellettuali di reagire sviluppando una critica adeguata al sistema. Ma pesano anche altri fattori, come l’autoinganno ideologico del pensiero neoliberista. La scelta fatta trenta anni fa è stata quella di delegittimare ogni altro pensiero economico, che non fosse quello neoclassico, ed ogni pensiero politico che non fosse quello liberal-conservatore. Nel tritacarne sono finiti non solo i marxisti ma anche i keynesiani, i cattolico-sociali, i socialdemocratici e persino i liberali di sinistra o, comunque, non conservatori. La manovra è a lungo riuscita, ma oggi la cultura politica ed economica dell’Occidente si è enormemente impoverita e non c’è una classe politica di ricambio (come abbiamo detto in un pezzo precedente), come sempre accade quando tace il dibattito politico e culturale. Oggi ne paghiamo tutti il prezzo con una classe di decisori politici e finanziari che non sanno dove andare e restano a guardare immobili con la zampa alzata.(Aldo Giannuli, “Shock da globalizzazione, la sindrome della gallina con la zampa alzata”, dal blog di Giannuli del 1° aprile 2015).Come l’osservazione insegna, le galline, sono fortemente indecise sulla direzione da prendere o sul da farsi, restano immobili, come in ipnosi, con una zampa alzata. E in questa posizione possono restare anche per molti minuti. A volte questa situazione è prodotta da improvvisi lampi che stordiscono l’animale, inducendolo ad una sorta di stato di trance, tanto più prolungato quanto più i lampi si ripetono. Forse questo esempio ci fa capire che sta succedendo ai piani alti del sistema occidentale. I decisori (statisti, finanzieri, militari) sono entrati nella globalizzazione a bandiere spiegate e a passo di carica, convinti che avrebbero facilmente travolto ogni ostacolo e tali sono rimati sino al 2007-2008, quando è iniziata la nuova “grande crisi”. Il 2008 è stato l’anno di svolta, quando la crisi è stata conclamata in contemporanea alle Olimpiadi di Pechino e alla crisi georgiana. Le prime annunciarono al mondo che la Cina era venti anni più avanti sulle previsioni e si avviava a diventare in brevissimo tempo la seconda grande potenza mondiale; la crisi georgiana con il mancato intervento americano ed europeo, su cui Saakasvili contava, ha segnalato un ritorno tacito di zone d’influenza nelle quali gli Usa non entrano.
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La Bce: non ci sarà più lavoro nemmeno in caso di ripresa
Vedete, parlo semplice. Ci sono i grandi capi, quelli che, come Mario Draghi o Jean-Claude Juncker, appaiono in pubblico e davanti alla stampa. Loro sorridono, e come canta l’immensa canzone di Povia “Chi comanda il mondo” vi dicono che tutto va bene, c’è la ripresa. Voi ragazzi, qui in Italia disoccupati al 44%, in Spagna oltre il 55% ecc, sperate. Poi ci sono i tecnici che lavorano nell’ombra degli uffici dei grandi capi, quegli scienziati economici ragionieri dei numeri VERITA’, che scrivono per i loro grandi capi la VERITA’. Eccola: “March 2015 Ecb Staff Macroeconomics Projections for the Euro Area”. Tradotto è: marzo 2015, proiezioni macroeconomiche del personale della Bce per la zona euro. E cosa ci dicono i tecnici che sanno la VERITA’ nelle ombre della dittatura dell’Eurozona? Che Draghi non risolverà un accidenti di nulla con tutti i suoi trucchi MONETARI (T-Ltro, Abs, Omt, Qe), perché l’ECONOMIA REALE non ne beneficia (lo diceva anche Barnard).E soprattutto che anche alla fine di tutti i trucchi di Draghi e della cosiddetta ripresa di cui parlano i giornalisti puzzoni delle Tv e quotidiani, attenti… La disoccupazione in Eurozona RIMARRA’ QUASI IDENTICA A OGGI, cioè RISOLTO NULLA, ZERO, per noi gente, famiglie, aziende. ZERO, NULLA. Questo ci dice “March 2015 Ecb Staff Macroeconomics Projections for the Euro Area”. Ma peggio. Il documento interno ha portato il “Financial Times” a scrivere: «La crisi dell’Eurozona è stata così devastante che ha PERMANENTEMENTE DISTRUTTO la capacità delle sue economie di creare lavoro, persino quando ci sarà ripresa». Agghiacciante. Questa è la verità del vostro futuro, ragazzi.E poi la beffa finale. Prima della crisi, INTERAMENTE DOVUTA all’avvento dell’euro come moneta non sovrana per nessuno (con moneta sovrana come il dollaro si rimedia, infatti gli Usa della crisi hanno oggi il 5,5% di disoccupazione, non il 12-14% nostro), ci dice il documento della Bce, «le disoccupazioni erano più o meno simili in tutti i maggiori paesi d’Europa». No, ma l’euro è un successone, suvvia. Lo dice Ezio Mauro di La (vomito) Repubblica, non date retta ai tecnici della Bce. De Benedetti ne sa di più. Poveri voi ragazzi. Vi voglio bene.(Paolo Barnard, “Dietro i loro sorrisi si cela il vostro funerale, ragazzi: la ripresa vista dal vero potere”, dal blog di Barnard del 28 marzo 2015).Vedete, parlo semplice. Ci sono i grandi capi, quelli che, come Mario Draghi o Jean-Claude Juncker, appaiono in pubblico e davanti alla stampa. Loro sorridono, e come canta l’immensa canzone di Povia “Chi comanda il mondo” vi dicono che tutto va bene, c’è la ripresa. Voi ragazzi, qui in Italia disoccupati al 44%, in Spagna oltre il 55% ecc, sperate. Poi ci sono i tecnici che lavorano nell’ombra degli uffici dei grandi capi, quegli scienziati economici ragionieri dei numeri verità, che scrivono per i loro grandi capi la verità. Eccola: “March 2015 Ecb Staff Macroeconomics Projections for the Euro Area”. Tradotto è: marzo 2015, proiezioni macroeconomiche del personale della Bce per la zona euro. E cosa ci dicono i tecnici che sanno la verità nelle ombre della dittatura dell’Eurozona? Che Draghi non risolverà un accidenti di nulla con tutti i suoi trucchi monetari (T-Ltro, Abs, Omt, Qe), perché l’economia reale non ne beneficia (lo diceva anche Barnard).
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Dario Fo & friends: Re/Search Milano, ecco la città segreta
L’alba contemplativa sulla Montagnetta di San Siro? «Siamo saliti anche noi sull’unico rialzo di Milano accessibile non solo da governatori o banchieri». Prodigio: «Il sorgere del sole su “smogville” ci ha dato superpoteri visionari, così abbiamo messo la mani sulla città smontandola pezzo dopo pezzo. Ora la stiamo ricomponendo a nostro piacimento, ma il lavoro non è ancora finito e per questo abbiamo bisogno del tuo aiuto». Bastano anche solo 10 euro, per spingere i capitani coraggiosi dell’“Agenzia X” verso la meta, battezzata “Re/Search Milano”. Ovvero, la mappa interattiva e multimediale di una città fatta a pezzi: «L’incredibile guida alla Milano sconosciuta, quella più interessante e vivace ma puntualmente ignorata dalla segnaletica ufficiale», anche adesso alla vigilia dell’Expo. E’ la Milano più intima e segreta, raccontata da autori come Dario Fo, Aldo Nove, Manuel Agnelli, Mauro Pagani, Marina Spada, Max Guareschi, Giovanni Bai. Sguardi d’autore, ma anche percorsi, schede descrittive, associazioni, gruppi etnici. Una Milano mai vista, mai raccontata tutta insieme in un unico colpo d’occhio.Quella di “Re/Search Milano”, spiegano i promotori dell’operazione culturale, sostenuta da crowdfunding sociale, è una guida ipertestuale dedicata alla Milano più inattesa, quella dei luoghi dove si produce cultura indipendente e underground, dove si sperimenta ogni giorno nuove forme di vita e di socialità, partecipazione e divulgazione dei saperi. «Una guida in grado di smontare lo scheletro urbano in tanti piccoli pezzi, con i quali poi dare indicazioni utili per un viaggio controcorrente, erratico, denso di sorprese ed emozioni». Una topografia insospettabile, fatta di «percorsi d’autore tra psiche e territorio, intinerari narrativi scritti dalle migliori penne milanesi in un divertente gioco per indizi, collegamenti e casualità, ma anche di nuove connessioni in cui il lettore potrà divenire protagonista». Al progetto parteciperanno una moltitudine di ricercatori, artisti, studiosi e professionisti. Inoltre, insieme al proprio sito di mappe interattive, la guida permette a ciascuna realtà coinvolta di “traspassare” i propri ambiti di riferimento, interagendo con tutte le altre esperienze qui rappresentate.Le schede sono realizzate da un collettivo editoriale formato dai redattori di “Agenzia X” con molti giovani ricercatori e appassionati di letteratura che hanno individuato più di mille luoghi da esplorare. Hanno scelto circa 200 punti, su cui proporre una breve narrazione: «Duecento manufatti di scrittura creativa, realizzati grazie alle personali esplorazioni psico-geografiche degli stessi redattori o attraverso interviste o interventi dei gestori dei luoghi prescelti». Tragitti narrativi, guidati da «Ciceroni visionari», esperti di spazi a misura di bambino, ciclofficine, street art, architettura (Lucia Tozzi), musica live (“Rockit”), teatro (Gigi Gherzi), cinema (Alessandro Stellino). E ancora: storia e Resistenza (Maurizio Guerri), negozi di dischi ed etichette discografiche, cucina e alimentazione naturale. Marco Philopat, di “Agenzia X” (organizzatrice della grande kermesse di reading “Slam-X” guida il pubblico tra i centri sociali milanesi, mentre Uliano Lucas è il “cicerone” della fotografia e Rossella Moratto quella dell’arte contemporanea. E poi le minoranze (Marco Geremia, Lgbt friendly), il “viaggio situazionista” di Alessandro Abate, il femminismo (Lea Melandri e Viviana Nicolazzo). E ancora: la moda, la poesia, la “Milano Swing” di Martina Fragale, l’archeologia industriale della periferia nord raccontata da Massimo Bunny.Notevola chicca, gli “Sguardi d’autore” affidati a personaggi come Dario Fo: si tratta di brevi racconti realizzati appositamente dalle migliori penne milanesi, «ideati per il piacere dei lettori più esigenti, in cui l’arte dello scrivere diventa protagonista mentre viene messa in luce una particolare porzione di tessuto urbano». I testi, avvertono i promotori, «saranno a carattere autobiografico dove l’autore ci illustrerà aneddoti personali, fatti storici, pietre miliari e notizie riguardanti il passato o il presente, accompagnandoci negli angoli prescelti di Milano: scrittori, storici, poeti, musicisti ed esperti dei vari settori offriranno uno sguardo inedito su una zona o un particolare della città», inclusi i punti cardinali del meticciato, visto che «più di un quarto dell’odierna popolazione milanese proviene da altri paesi del mondo». Dai ragazzi dell’underground, giovani cittadini di prima o seconda generazione migrante, proviene una mappa della Milano che ciascuno di loro conosce e attraversa ogni giorno. Una Milano multicolore: il parco Trotter durante i week end estivi, i concerti e gli angoli delle strade dove si suona rap o si esprime la cultura hip hop, i campetti di calcio o basket, gli spot di skateboard, i luoghi di lavoro. «Alla fine della campagna – spiegano – la redazione di “Re/Search Milano” (oltre cento persone) accompagnerà i soci più generosi a contemplare l’alba sulla montagnetta di San Siro. Lassù verranno trasformati in supereroi per risistemare la metropoli a loro piacimento».(“Re/Search Milano” è un progetto multimediale, cartaceo e web: per sostenerlo con una donazione, in cambio di preziosi gadget, basta accedere alla piattaforma di crowefunding “Eppela”).L’alba contemplativa sulla Montagnetta di San Siro? «Siamo saliti anche noi sull’unico rialzo di Milano accessibile non solo da governatori o banchieri». Prodigio: «Il sorgere del sole su “smogville” ci ha dato superpoteri visionari, così abbiamo messo la mani sulla città smontandola pezzo dopo pezzo. Ora la stiamo ricomponendo a nostro piacimento, ma il lavoro non è ancora finito e per questo abbiamo bisogno del tuo aiuto». Bastano anche solo 10 euro, per spingere i capitani coraggiosi dell’“Agenzia X” verso la meta, battezzata “Re/Search Milano”. Ovvero, la mappa interattiva e multimediale di una città fatta a pezzi: «L’incredibile guida alla Milano sconosciuta, quella più interessante e vivace ma puntualmente ignorata dalla segnaletica ufficiale», anche adesso alla vigilia dell’Expo. E’ la Milano più intima e segreta, raccontata da autori come Dario Fo, Aldo Nove, Manuel Agnelli, Mauro Pagani, Marina Spada, Max Guareschi, Giovanni Bai. Sguardi d’autore, ma anche percorsi, schede descrittive, associazioni, gruppi etnici. Una Milano mai vista, mai raccontata tutta insieme in un unico colpo d’occhio.
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Abolire l’Ue, fabbrica di odio, prima che distrugga l’Europa
A chi cedono sovranità gli Stati nazionali? E poi: sono davvero gli Stati nazionali a cedere sovranità? «Come ha detto recentemente Prodi in un articolo pubblicato da “Il Messaggero”, l’Ue è una commissione intergovernativa la cui unica funzione è l’imposizione di un modello ordo-liberista in cui la potenza politica dello Stato viene messa al servizio di una (meticolosissima) regolazione, finalizzata alla riduzione delle risorse destinate alla società, e all’asservimento e precarizzazione integrale del lavoro», sostiene Franco “Bifo” Berardi. «Il ricatto ha costretto il governo greco a recedere parzialmente, ma il pericolo è che il nazionalismo diventi la sola via di uscita per sfuggire a una Unione che appare sempre più una prigione per il semplice fatto che essa è davvero una prigione». L’espressione “dall’euro non si esce”, che un tempo sembrava una rassicurazione nei confronti di chi aveva un debito consistente, oggi suona al contrario: «Potete anche morire di infarto, non smetteremo di affondarvi le unghie nella carne». Sicché, «parlare di cessione di sovranità a questo punto diviene una truffa».Non sono gli Stati nazionali che cedono sovranità all’Unione, scrive Berardi su “Sinistra in Rete”. «Il fatto che la gestione della guerra Euro-Russa venga assunta direttamente dal presidente francese e dalla cancelliera tedesca significa che di cessione di sovranità non se ne parla neppure». Certo, di tanto in tanto «qualche baggiano racconta che l’Europa deve parlare con una sola voce». Ma lo sappiamo, sono solo «sciocchezze», perché «gli Stati nazionali mantengono intera la loro funzione di governo della popolazione e di decisione sulla guerra». L’Unione Europea, continua Berardi, «stabilisce una cosa soltanto: in che misura gli Stati nazionali rispettano la sola regola che conta: riduzione delle risorse e asservimento del lavoro». Di conseguenza, «non ha più alcun senso attendersi una riforma o una democratizzazione dell’Ue, o anche solo un’attenuazione del rigore finanziario». Non restaurare la sovranità nazionale ma “correggere” l’Unione? Impossibile: «Dato che l’Ue altro non è che una macchina di asservimento ordo-liberista, dietro ogni cessione di sovranità vi è solo cessione di risorse sociali».Berardi teme che un ritorno alla sovranità nazionale monetaria comporti il rischio di «un’involuzione autoritaria», fino alla «guerra civile in molte zone d’Europa». Eppure, ammette, «è quello che succederà, perché è la conseguenza dello strangolamento finanziario progressivo, e ancor di più dell’odio e della sfiducia crescente che i popoli d’Europa provano l’uno per l’altro», dato «il vincolo che li strangola». A questo punto, ragiona Berardi, «o si lascia l’iniziativa di avviare la chiusura dell’esperienza europea alle destre nazionaliste, e il collasso porterà alla guerra civile europea, o un movimento europeo prende l’iniziativa di dichiarare conclusa l’esperienza dell’Unione e inizia il reset dell’unità europea partendo da alcune grandi questioni». Ovvero: una conferenza internazionale sul debito e un’altra sulla migrazione e sull’allargamento dei confini. «Per questo occorrerebbe un’intelligenza e un coraggio politico che non si trova da nessuna parte, a quanto pare. Perciò rassegnamoci alla prima alternativa: la miseria, la violenza, la guerra, il nazismo. Oppure no?».Recentemente, Tsipras ha detto: «Siamo stati lasciati soli». E’ vero, conferma Berardi: «La società europea non ha espresso alcuna solidarietà, se si eccettua l’enorme manifestazione di Madrid». Quanto all’Italia, «la società e la cultura italiana semplicemente non esistono più». La società e la cultura francese? «Sono entrate in un tunnel identitario, da cui il Fronte Nazionale può emergere come forza di governo». In Germania, poi, «nessuno pare rendersi conto dell’odio anti-tedesco che sta montando in ogni città d’Europa: nonostante alcuni flebili distinguo, la società e la cultura tedesca appaiono compatte come accadde nei momenti più tragici». Attenzione: «Il consenso dei tedeschi fa paura, e non si tratta di esprimere “internationale solidaritat”. Si tratta di attaccare l’ordine dello sfruttamento cui i lavoratori tedeschi sono sottoposti». Che fare? Se ci arrenderemo di fronte all’encefalogramma piatto della società europea, dice “Bifo”, sarebbe il collasso sistemico inevitabile a costringerci al brusco risveglio. «Come ha detto Tsipras da qualche parte, non possiamo certo pretendere che i greci, dopo aver fatto da cavia per il “risanamento finanziario”, facciano da cavia per il ritorno alla moneta nazionale. Ma il collasso sistemico arriverà. Più tardi arriva peggio è, per due ragioni facili da capire: più a lungo dura l’Unione Europea, più povera diviene la società. Più a lungo dura l’Unione Europea, più forte e rabbiosa diventa la destra sovranista e nazionalista».A chi cedono sovranità gli Stati nazionali? E poi: sono davvero gli Stati nazionali a cedere sovranità? «Come ha detto recentemente Prodi in un articolo pubblicato da “Il Messaggero”, l’Ue è una commissione intergovernativa la cui unica funzione è l’imposizione di un modello ordo-liberista in cui la potenza politica dello Stato viene messa al servizio di una (meticolosissima) regolazione, finalizzata alla riduzione delle risorse destinate alla società, e all’asservimento e precarizzazione integrale del lavoro», sostiene Franco “Bifo” Berardi. «Il ricatto ha costretto il governo greco a recedere parzialmente, ma il pericolo è che il nazionalismo diventi la sola via di uscita per sfuggire a una Unione che appare sempre più una prigione per il semplice fatto che essa è davvero una prigione». L’espressione “dall’euro non si esce”, che un tempo sembrava una rassicurazione nei confronti di chi aveva un debito consistente, oggi suona al contrario: «Potete anche morire di infarto, non smetteremo di affondarvi le unghie nella carne». Sicché, «parlare di cessione di sovranità a questo punto diviene una truffa».
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I cent’anni di Ingrao e l’estinzione della sinistra italiana
Cent’anni di solitudine, anche se carismatica, collezionando sconfitte incassate per mancanza di coraggio. Questo l’impietoso ritratto che, da storico, Aldo Giannuli dipinge dell’anziano Pietro Ingrao, gran veterano della sinistra comunista. Al centesimo compleanno, il 29 marzo, attorno al vecchio leone del granitico Pci di Togliatti e Berlinguer c’è il nulla cosmico: disoccupazione record e Jobs Act, fine dei diritti dei lavoratori, precariato universale, povertà e paura, Costituzione rottamata, legge elettorale di regime. La fine della democrazia moderna, archiviata dai diktat dell’élite. Rileggendo Ingrao con gli occhiali di Giannuli, si svela il mistero della fine della sinistra italiana: la sinistra che non ha “visto” la crisi e non ha più saputo “leggere” il mondo, per poi arrendersi al nuovo potere cosmopolita degli oligarchi globalizzati e, all’occorrenza, accomodarsi a tavola per votare leggi-capestro e abbattere gli ultimi diritti, in cambio di poltrone, confidando ancora e sempre nell’antica fiducia di un elettorato “di sinistra”, pronto a qualunque autolesionismo pur di avere l’illusione di opporsi al cattivo di turno, prima Craxi e poi Berlusconi.Pietro Ingrao, uno strano Charlie Brown che ha fatto scuola: il suo stile «attraverso Bertinotti giunge sino a noi, essendo palese l’ascendenza ingraiana anche di Landini». Ingrao, ricorda Giannuli, appartiene a quella seconda generazione di dirigenti comunisti che ebbe la sua prima formazione nell’Italia fascista e scoprì solo in un secondo momento il comunismo, attraverso il tunnel doloroso della guerra, della Resistenza, per incontrarsi con Togliatti prima ancora che con Gramsci. Si enfatizzò l’antifascismo «come negazione assoluta e incontaminata del fascismo», eppure «il fascismo seminò concetti che poi sono restati, finendo impastati con la successiva cultura politica dell’Italia repubblicana». Usi obbedir tacendo: la cultura della disciplina. Ingrao era stato influenzato dalla figura di Giuseppe Bottai, «il maggior intellettuale del regime e, insieme, il gerarca più attivo nel promuovere la formazione delle giovani generazioni». Dalle sue riviste, continua Giannuli, presero le mosse alcuni dei nomi migliori dell’intellettualità post-fascista e antifascista: Salvatore Quasimodo e Nicola Abbagnano, Enzo Paci, Mario Alicata, Vitaliano Brancati, Cesare Pavese, Vasco Pratolini. E poi Vittorio Sereni, Giuseppe Ungaretti, Enzo Biagi, Renato Guttuso, Sandro Penna, Eugenio Montale. «Diversi di loro, come Giame Pintor, li ritroveremo fra i primi a combattere con la Resistenza».Ad avvicinare Bottai e Ingrao, «due figure inconsuete del Novecento italiano», secondo Giannuli «non fu solo la propensione all’eresia e la profonda compenetrazione fra politica e cultura, ma anche il gusto del dubbio sistematico, la propensione all’astrattezza», nonché «una certa sofisticatezza intellettuale e l’eterna insoddisfazione per la propria ricerca». In controluce, anche «il forte narcisismo, l’irresolutezza, la mancanza di tempismo politico, lo scarso coraggio». Bottai divorziò da Mussolini solo all’ultimo, e «non senza un profondissimo tormento interiore», mentre Ingrao «ha avuto sempre fede nel Partito, contro il quale non cercò mai di aver ragione» Tant’è vero che «in nome di questa fede approvò – colpa non da poco, anche se condivisa con molti – il brutale intervento sovietico in Ungheria». Così, Ingrao «piegò il capo dopo la sconfitta all’XI congresso». In più «restò fedele al partito anche quando (contro le sue convinzioni) esso cessò di essere comunista, per distaccarsene anni dopo e da solo. Era fedeltà all’ideale o feticismo organizzativo? Lasciamo decidere a chi ci legge».Questo attaccamento insieme fideistico e tormentato, continua Giannuli, lo ha portato ad essere “l’uomo delle occasioni mancate”: nel 1966 tentò di dare battaglia all’XI congresso, ma senza avere il coraggio di presentare una sua mozione di minoranza e finendo sconfitto senza neppure aver combattuto davvero la sua battaglia. Tre anni dopo, assistette inerte all’espulsione del gruppo del “Manifesto” (tutti suoi storici seguaci) senza avere il coraggio di votare contro (come fecero Cesare Luporini e Lucio Lombardo Radice) e neppure di astenersi, ma «tristemente votò a favore». Nel 1973 incassò la proposta di compromesso storico di Berlinguer, accennando solo una “lettura di sinistra” che non spostava di un millimetro i termini politici della questione (fu più esplicito nella critica il vecchio Longo). Nel 1976, infine, «incassò con altrettanta mancanza di coraggio anche la politica di Unità Nazionale, accontentandosi di andar a fare il presidente della Camera». Altra ombra sul suo passato: «Non si dissociò neppure per un attimo dalla politica della fermezza sul caso Moro», evitando di adoperarsi per una trattativa che avrebbe potuto salvare il leader democristiano.Ingrao, prosegue Giannuli, ebbe un suo momento di fulgore dall’80 all’84, quando Berlinguer ruppe con Amendola e cercò il suo appoggio, per reggere la svolta del dopo-terremoto e della “questione morale”, ma con l’unico risultato di inasprire l’isolamento identitario e settario del Pci, che ne avviava la decadenza. «L’ultima occasione di incidere nella storia di questo paese la ebbe con la trasformazione del Pci in Pds». Dopo essersi messo alla testa del cartello di opposizione che sfiorò il 30% al congresso di scioglimento, «come sempre gli mancò il coraggio del passo successivo: guidare la scissione di Rifondazione». Ingrao infatti si tirò indietro: «Preferì restare inutilmente nel Pds per uscirne, da solo e fra le lacrime, pochi anni dopo». Spiegazione: «In queste ripetute battaglie perse senza esser date, ha inciso certamente la sua devozione al partito, assunto non come mezzo ma come fine in sé». Era spesso accusato di astrattezza, dice Giannuli, e i detrattori avevano ragione: Amendola, il leader della destra riformista del Pci, forniva a «analisi datatissime, come quella di Pietro Grifone sulla contrapposizione fra rendita e profitto in Italia», ma almeno era molto concreto nella proposta, sempre incerta fra alleanze sociali destinate a non tradursi mai in alleanze politiche.«In politica estera, dopo il 1970, Ingrao non ha mai proposto l’uscita dalla Nato», aggiunge Giannuli. Sul piano istituzionale invece ha puntato sulle autonomie locali, senza però prevedere la proliferazione incontrollata di poltrone. «Altra proposta caratterizzante della sua azione sul piano istituzionale – continua Giannuli – fu il tentativo di ridare centralità al Parlamento, attraverso un regime assembleare che scavalcasse la tradizionale divisione fra maggioranza ed opposizione. Il frutto fu la riforma dei regolamenti parlamentari del 1971 che proprio Ingrao, in veste di capogruppo alla Camera, trattò con il capogruppo della Dc, Andreotti. Ma il risultato finale non fu quello di un improbabile regime assembleare, quanto la premessa del consociativismo Dc-Pci». Libertà e autonomia ai parlamentari? «In presenza di un partito retto con la ferrea regola del centralismo democratico, come era il Pci, era una pretesa piuttosto irragionevole». Indeterminata anche la sua critica al “socialismo reale” dei regimi dell’est. Poi il Muro è crollato, e il vecchio Ingrao è scomparso dai radar. Proprio come la sinistra italiana, che dopo Tangentopoli ha consegnato il paese al dominio dell’élite neoliberista, quella della privatizzazione universale che impone i suoi diktat tramite l’Ue a guida tedesca e il braccio secolare dell’euro.Cent’anni di solitudine, anche se carismatica, collezionando sconfitte incassate per mancanza di coraggio. Questo l’impietoso ritratto che, da storico, Aldo Giannuli dipinge dell’anziano Pietro Ingrao, gran veterano della sinistra comunista. Al centesimo compleanno, il 29 marzo, attorno al vecchio leone del granitico Pci di Togliatti e Berlinguer c’è il nulla cosmico: disoccupazione record e Jobs Act, fine dei diritti dei lavoratori, precariato universale, povertà e paura, Costituzione rottamata, legge elettorale di regime. La fine della democrazia moderna, archiviata dai diktat dell’élite. Rileggendo Ingrao con gli occhiali di Giannuli, si svela il mistero della fine della sinistra italiana: la sinistra che non ha “visto” la crisi e non ha più saputo “leggere” il mondo, per poi arrendersi al nuovo potere cosmopolita degli oligarchi globalizzati e, all’occorrenza, accomodarsi a tavola per votare leggi-capestro e abbattere gli ultimi diritti, in cambio di poltrone, confidando ancora e sempre nell’antica fiducia di un elettorato “di sinistra”, pronto a qualunque autolesionismo pur di avere l’illusione di opporsi al cattivo di turno, prima Craxi e poi Berlusconi.
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Gli orrori della globalizzazione e il silenzio degli intellettuali
Il fenomeno della globalizzazione ha preso le mosse negli ultimissimi anni ‘80, dopo una gestazione ventennale, e ormai è al quarto di secolo: un periodo sufficiente a individuare alcune delle sue principali tendenze e caratteristiche. Non c’è mass media, partito politico, impresa o singolo intellettuale che non affermi che con la globalizzazione tutto è cambiato, che siamo entrati in una fase storica diversa in cui occorre predisporsi ad un continuo mutamento. «Ma, all’atto pratico, l’osservazione suggerisce – almeno in Occidente – che imprese, partiti, mass media e anche intellettuali continuano a comportarsi nei modi consueti». Tutto, scrive Aldo Giannuli, viene letto sulla base di analogie con il passato: la crisi? E’ una ripetizione del 1929. Il disordine mondiale? E’ la riproposizione del periodo che precedette la Prima Guerra Mondiale. L’incontro con altre culture? Già visto nel ‘500, e sono gli altri che devono accettare la cultura più avanzata, ovviamente quella occidentale. «I fatti stanno prendendo una direzione molto diversa da quella prevista e le analogie con il passato servono a poco per capire le tendenze in atto», sostiene Giannuli.«La crisi finanziaria, imprevista e imprevedibile, è curata con costanti iniezioni di liquidità (come se fosse quella di ottanta anni fa) che però hanno effetti sui sintomi ma non sulle ragioni del male oscuro», scrive Giannuli sul suo blog. «Le rivolte arabe, anch’esse impreviste, segnalano una interdipendenza stretta fra crisi economica e dinamiche socio-culturali che sfugge alle capacità di gestione della comunità internazionale». In più, «lo sviluppo cinese ha mutato i rapporti di forza esistenti ma porta con sé problemi insospettati». Questo, continua lo storico, determina un profondo disorientamento soprattutto (ma non solo) nelle classi dirigenti, «che si trovano ad affrontare problemi a un livello di complessità incomparabilmente maggiore del passato, e questo disorientamento sta già producendo effetti molto negativi sul piano delle decisioni: è lo shock da globalizzazione, il fenomeno più rilevante della nostra epoca che si impone al centro dell’attenzione di storici, sociologi, economisti, politologi».Almeno per quel che riguarda l’Occidente, secondo Giannuli, lo shock sembra determinare tre fenomeni: la paralisi dei decisori, la paura dei governati e l’afasia degli intellettuali. «I decisori appaiono sempre più indecisi sul da farsi, tanto sul fianco finanziario (dove l’unica cosa che riescono a decidere è l’inondazione di liquidità, che fa guadagnare tempo ma non cura la crisi), quanto sul piano delle relazioni internazionali (e le esitazioni americane su Iran, Siria e Califfato ne sono una testimonianza, non meno che il pantano ucraino da quale nessuno sa come uscire)». Di fronte a un corso dei fatti, che Giannuli reputa «del tutto imprevisto», e non frutto di pianificazione da parte di una ristrettissima élite, come invece suggerisce Gioele Magaldi nel libro “Massoni”, che svela il ruolo occulto delle “Ur-Lodges”, le superlogge internazionali del massimo potere mondiale, i decisori (tanto politici quanto finanziari) «reagiscono schierandosi a difesa dell’esistente e senza chiedersi se le patologie socio-economiche in atto non siano un prodotto di quel sistema che rifiutano costantemente di mettere in discussione».Dai governanti “rassegnati” alla globalizzazione autoritaria, senza più alternative politiche, si passa ai governati, «cui era stato promesso che la globalizzazione sarebbe stato un cammino fiorito». I cittadini, scrive Giannuli, «assistono impotenti al crollo di queste aspettative, al peggioramento delle loro condizioni di vita, e avvertono sempre più la paura del futuro». Che è, al tempo stesso, «paura dei diversi che giungono dal sud del mondo e che si pensa minaccino posti di lavoro e identità culturale, paura della crisi che erode risparmi e getta nella disoccupazione, paura della concorrenza delle merci straniere che tagliano l’erba sotto i piedi alle nostre aziende, paura di un fisco sempre più vorace che programmaticamente non colpisce più i grandi capitali volati nei paradisi finanziari ma si accanisce sui ceti medi». E ancora: «Paura del terrorismo, delle epidemie, di tutto». E su questo paesaggio «impera il chiassoso silenzio degli intellettuali, che parlano di tutto senza dir nulla». Infatti, «una critica della globalizzazione e dei modi con cui si è realizzata e va avanti è tentata solo da pochissimi», i quali però vengono «spinti ai margini» e restano «privi, in gran parte, di accesso alle tribune massmediatiche». Secondo Giannuli, «c’è una sottile vendetta della storia che punisce chi aveva imposto il “pensiero unico”: democrazia liberale (o quel che si pensava fosse tale) e liberismo economico erano l’unica forma di pensiero legittimata», a scapito di «tutte le altre correnti di pensiero, pure interne al mondo occidentale».Per il politologo dell’ateneo milanese, «la resa senza condizioni della socialdemocrazia ha segnato la riduzione dello spazio politico: tutto il resto ne era espulso». E così, «il rullo compressore della finanza, attraverso gli opportuni finanziamenti, la direzione dei mass media, il controllo dell’industria culturale, la colonizzazione delle facoltà, persino l’uso calibrato del Premio Nobel, tutto è stato usato per imporre questa dittatura culturale. E gli intellettuali – in grande maggioranza – si sono adattati gioiosamente a questo stato di cose, rinunciando ad ogni residuo spirito critico». Oggi, nel momento della crisi, i decisori – non meno che i governati – di fatto «non trovano le parole per capire quel che sta accadendo, e non sanno riconoscere la crisi in atto». E questo, conclude Giannuli, «accade perché dal fronte degli studiosi, dei “tecnici”, di quelli che dovrebbero illuminarli, viene solo un confuso starnazzare che non dice nulla. E’ questa la rumorosa afasia degli intellettuali», peraltro “incanalati” nel mainstream dai tempi del manifesto “La crisi della democrazia”, promosso dalla Commissione Trilaterale: propaganda conculcata negli atenei e nei media anxche attraverso la poderosa macchina dei think-tanks, come l’Aspen Institute, che recluta intellettuali di fama. Il Verbo è sempre lo stesso: il Mercato deve vincere sullo Stato. La democrazia sociale? Rottamata. Il vero potere è finito nelle mani di pochissimi, come nel feudalesimo medievale. E paga legioni di intellettuali perché non dicano la verità e non raccontino quello che sta davvero succedendo.Il fenomeno della globalizzazione ha preso le mosse negli ultimissimi anni ‘80, dopo una gestazione ventennale, e ormai è al quarto di secolo: un periodo sufficiente a individuare alcune delle sue principali tendenze e caratteristiche. Non c’è mass media, partito politico, impresa o singolo intellettuale che non affermi che con la globalizzazione tutto è cambiato, che siamo entrati in una fase storica diversa in cui occorre predisporsi ad un continuo mutamento. «Ma, all’atto pratico, l’osservazione suggerisce – almeno in Occidente – che imprese, partiti, mass media e anche intellettuali continuano a comportarsi nei modi consueti». Tutto, scrive Aldo Giannuli, viene letto sulla base di analogie con il passato: la crisi? E’ una ripetizione del 1929. Il disordine mondiale? E’ la riproposizione del periodo che precedette la Prima Guerra Mondiale. L’incontro con altre culture? Già visto nel ‘500, e sono gli altri che devono accettare la cultura più avanzata, ovviamente quella occidentale. «I fatti stanno prendendo una direzione molto diversa da quella prevista e le analogie con il passato servono a poco per capire le tendenze in atto», sostiene Giannuli.
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Bergoglio, il tempo stringe: per lui o per la Chiesa di potere?
Il tempo stringe: non solo per il Papa, ma anche e soprattutto per la Chiesa, ingombra di strutture di potere finanziario e ancora dominata da una nomenklatura che vive nel lusso. Annunciando l’anno giubilare straordinario, Bergoglio ha detto di ritenere che il suo sarà un “pontificato breve”. «L’interpretazione più ovvia è che abbia in mente delle dimissioni dopo un certo periodo», premette Aldo Giannuli. «Certo, non l’automatismo degli 80 anni che porta fuori del conclave i cardinali, ma forse dimissioni entro un termine non prestabilito, ma non lontano, quando sentirà che le forze non lo assistono più». Alle soglie degli ottant’anni, il Papa argentino “sente” che il suo pontificato «non abbia probabilità di essere lungo come quello di Pio XII, o lunghissimo come quello di Giovanni Paolo II». Ma parlare di un pontificato breve, aggiunge Giannuli, fa pensare a qualcosa che durerà altri tre o quattro anni, come per Giovanni XXIII che fu Papa per 5 anni. «E allora: decisione di dimettersi? Modo per dire di aver scoperto una grave malattia?». Eppure, «c’è un’altra interpretazione possibile», e cioè «un messaggio ai suoi oppositori, sempre più numerosi nella Curia e fuori».Questo, scrive Giannuli nel suo blog, il succo del possibile messaggio di Bergoglio: «La riforma della Chiesa procederà a spron battuto, perché il Papa non ritiene (a torto o a ragione) di avere molto tempo davanti a sé». Forse, aggiunge lo storico dell’università di Milano, «la suggestione del parallelo con Giovanni XXIII porta a pensare al preannuncio di un Concilio». Tutte cose possibili, ma l’unica certa è «lo scontro in Vaticano e nella Chiesa», un conflitto «sempre più acuto e aperto», di cui si capisce il perché: «Quella di Bergoglio non è una semplice riforma della Curia o del sistema di governo della Chiesa, ma una profonda mutazione dello stesso ruolo di essa». Dal primo Medioevo sin qui, ricorda Giannuli, la Chiesa si è proposta come maestra di verità di fede e di morale. «Questo perché il “sapere socialmente necessario”, in una formazione economico-sociale a dominante religiosa quale era quella europea dal V secolo in poi, era appunto il sapere di fede e di morale, per guadagnarsi il premio della vita eterna». Infatti, «tutta la vita del fedele era orientata a questo fine e guidata dalla Chiesa, e tutta la vita quotidiana era profondamente permeata dai riti, dalle devozioni, dalle preghiere, dalle ricorrenze religiose».La produzione di sapere teologico, continua Giannuli, rispondeva in primo luogo all’esigenza di giustificare il ruolo del clero e della sua gerarchia, cui spettava in esclusiva il compito di leggere le Scritture e interpretarle. «E il magistero morale fu una forza pervasiva di controllo sociale, diventata tanto più cogente, dopo l’XI secolo, con l’istituzione della confessione auricolare». E’ ovvio che, in un simile contesto, era primario il potere della Chiesa di stabilire cosa fosse vero e cosa no, nella fede, e di stabilire i precetti morali. Un potere superiore, «a mala pena contrappesato (e non sempre con efficacia) da quello secolare», tant’è vero che «il trono era spesso in conflitto con l’altare», eppure «l’insediamento del nuovo sovrano avveniva con una cerimonia religiosa nella quale era una autorità ecclesiale ad incoronare il re». Secondo il monaco e filosofo francese Roscellino da Compiegne, vissuto nel primo secolo dopo l’anno Mille, l’unzione regale era addirittura l’ottavo sacramento. Poi, attraverso i secoli, le cose sono cambiate: «Il sapere socialmente necessario – continua Giannuli – divenne quello del sapere secolare umanistico e scientifico». Nel frattempo «si affermava il pluralismo religioso e, con esso, anche il sorgere di codici morali diversi».Parallelamente, «il potere politico si affrancava definitivamente da quello religioso», e le istituzioni sanitarie e scolastiche divennero progressivamente laiche. «Già nel XIX secolo, nella maggior parte dei paesi europei, la “presa” ecclesiale sulla società era ridotta a fatto residuale, per diventare del tutto marginale nel secolo successivo», prosegue Giannuli. «La Chiesa, nonostante tutto, ha proseguito nel suo ruolo di “mater et magistra”, senza curarsi del crescente disinteresse dei suoi stessi fedeli». Oggi non è più certo che la maggioranza dei cattolici conosca i principali dogmi (da quello trinitario al culto mariano, fino a quello della natura umana e divina di Cristo), «se non per averli orecchiati durante l’infanzia o l’adolescenza». La pratica dei sacramenti ormai «riguarda una parte del tutto minoritaria dei fedeli, soprattutto la pratica della confessione», mentre la stessa partecipazione alla messa domenicale, almeno in Europa, «riguarda molto meno di un quinto dei fedeli». Quanto alla morale, «la grande maggioranza dei cattolici si comporta esattamente come tutti gli altri, in particolare per quel che attiene alla morale sessuale e matrimoniale».Benedetto XVI, ricorda Giannuli, coltivò il disegno della “ri-evangelizzazione d’Europa” ma, a quanto pare senza il minimo risultato. «Per di più, la Chiesa ha perso molta della sua credibilità per i troppi scandali sessuali e finanziari, per l’inaudito e ingiustificabile lusso della Curia, per l’opportunistico silenzio di fronte a clamorose ingiustizie», sottolinea Giannuli. «Su questa strada, il futuro più probabile della Chiesa è quello di una setta povera di credenti ma ricchissima di denaro e potere, destinata comunque a scomparire». Ecco allora perché Francesco «sta cercando un destino diverso per la sua Chiesa, accettando anche un secco ridimensionamento del suo potere finanziario e del suo apparato». Come si è capito, Bergoglio non ha nessun particolare interesse per la teologia dogmatica. Quanto alla morale, «ha accettato implicitamente che i fedeli si regolino individualmente in un personale dialogo con Dio: “Chi sono io per giudicare un gay che cerca Dio?”».Il nuovo Papa «apre su temi come la comunione ai divorziati», e lo stesso giubileo «è indetto all’insegna del perdono e dell’accoglienza in Chiesa anche dei gay, dei divorziati e di ogni altro peccatore». Papa Francesco, spiega Giannuli, centra la sua attenzione sulla funzione pastorale della Chiesa, riprendendo il tema centrale del Concilio Vaticano II, il cui cinquantenario celebra con questo giubileo. «Ridimensionando la funzione di ministero teologico e morale, Bergoglio ripropone la Chiesa come portatrice di una particolare visione antropologica», quindi «non i dogmi stratificati in duemila anni, ma l’antropologia cristiana». Un discorso squisitamente religioso, di interesse per i fedeli ma anche per i laici, attenti all’evoluzione della principale confessione organizzata del pianeta: «Bergoglio lancia la Chiesa come principale agenzia di mediazione culturale nel mondo globalizzato». Riprenderà il tema dell’inculturazione, cardine del Vaticano II?«Questo mutamento di funzione non è indolore per la Chiesa e impone una svolta organizzativa che va verso una autonomizzazione delle Chiese locali, che hanno un loro punto di riferimento unitario nel Papa ma senza più la necessaria mediazione della Curia», che Bergoglio ha definito «l’ultima corte europea». In una struttura di questo tipo, completamente ridisegnata, «il Papa esercita un ruolo soprattutto carismatico, che non ha bisogno di un apparato elitario come la Curia». E’ comprensibile, scrive Giannuli, che i diretti interessati non siano così disposti a rinunciare al loro ruolo e ai connessi privilegi. «E si capisce anche come mai lo scontro verta soprattutto sullo Ior, che è la garanzia della sopravvivenza economica del sistema». Francesco, forse, «ha mandato a dire che i tempi sono brevi». E non solo «quelli del suo pontificato». Senza una rivoluzione “francescana”, ad avere i giorni contati è la Chiesa stessa, a cominciare dai suoi ricchissimi burocrati.Il tempo stringe: non solo per il Papa, ma anche e soprattutto per la Chiesa, ingombra di strutture di potere finanziario e ancora dominata da una nomenklatura che vive nel lusso. Annunciando l’anno giubilare straordinario, Bergoglio ha detto di ritenere che il suo sarà un “pontificato breve”. «L’interpretazione più ovvia è che abbia in mente delle dimissioni dopo un certo periodo», premette Aldo Giannuli. «Certo, non l’automatismo degli 80 anni che porta fuori del conclave i cardinali, ma forse dimissioni entro un termine non prestabilito, ma non lontano, quando sentirà che le forze non lo assistono più». Alle soglie degli ottant’anni, il Papa argentino “sente” che il suo pontificato «non abbia probabilità di essere lungo come quello di Pio XII, o lunghissimo come quello di Giovanni Paolo II». Ma parlare di un pontificato breve, aggiunge Giannuli, fa pensare a qualcosa che durerà altri tre o quattro anni, come per Giovanni XXIII che fu Papa per 5 anni. «E allora: decisione di dimettersi? Modo per dire di aver scoperto una grave malattia?». Eppure, «c’è un’altra interpretazione possibile», e cioè «un messaggio ai suoi oppositori, sempre più numerosi nella Curia e fuori».
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Io, il greco e la spagnola. Felici al macello, senza saperlo
Quello che le élites neoliberiste sono riuscite a fare é così grande che non riusciamo neanche ad accorgecene. La sinistra é morta. Morta. Sopravvive in piccole nicchie, intellettuali o no. Ma dire una goccia nell’oceano forse è dire troppo. Che cos’é il cosmopolitismo? Ognuno è cittadino del mondo. Che cos’é l’individualismo? L’individuo è al centro del mondo. Questa sera ad Atene ho avuto una discussione con una ragazza spagnola e un ragazzo greco. Lui 36 anni, di Atene. Lei molti meno, credo meno di 25. Entrambi hanno girato parecchio. Lei molto di più. Fra noi ci si parla in inglese. Tre nazioni del sud Europa per capirsi fra di loro devono parlare una lingua del nord Europa. Come fare a cambiare il mondo? Lei e lui dicono all’unisono: «Per cambiare il mondo bisogna che ognuno di noi cerchi di cambiare se stesso e le persone che gli stanno vicino». Poi il mondo cambierà.Io a lei le ho detto, mentre lui era in bagno: «Marx diceva che non è la coscienza degli uomini a creare il loro essere sociale; al contrario, è il loro essere sociale che crea la loro coscienza». Per lei non era giusto. Lui mi dice: «Se il figlio del padrone della Nike fosse un mio amico, io parlando con lui riuscirei a cambiarlo. E poi quano prenderà il posto del padre non sarà una merda come lui». E io gli rispondo: «Ma lui ha interessi diversi dai tuoi, dai miei. Davvero speri di cambiarlo?». Lui mi risponde deciso: «Sì». Lei: «Non credo nei muri e nelle frontiere». Lui: «Il cambiamento deve partire da noi stessi», e poi sparecchia al posto della cameriera. Perché dei valori buoni finiscono ad asservire gli interessi del grande capitale internazionale?Lei ha una fotocamera Canon, lui una macchina giapponese credo, non so la marca. Mi dicono che i soldi non sono niente. Io gli dico: «Allora la birra che ci stiamo bevendo é niente?». Sguardo in un altra direzione. Nel frattempo i manager dell’Hitachi stavano brindando per l’acquisto dell’Ansaldo. I soldi che faranno non saranno redistribuiti fra i lavoratori, verranno investiti in borsa in qualche titolo ad alto rendimento. La discussione é iniziata perché lui nota al mio polso un braccialetto comprato dai giamaicani in piazza Monastiraki. Loro dicono che i giamaicani sono invandenti, non rispettano il volere degli altri e assillano la gene finché non comprano un braccialetto. Io provo a dire loro che per i giamaicani immigrati è questo il lavoro che possono fare, perché la comunità giamaicana qui fa così. Poi si é passati ai pakistani che lapidano le donne. Da lì gli ho detto che dobbiamo lasciare in pace quei popoli e dare loro la possibilità di autodeterminarsi. Da lì i lavoratori sfruttati della Nike, ecc.Persone che viaggiano molto, vedono diverse culture, diverse storie poi non capiscono un cazzo di come funziona la società. Perché l’individuo sta al centro, le genti si mischiano, ecc. Ma in un mondo di genti mischiate, se noi viaggiamo, in realtà sarà come viaggiare sempre nello stesso posto. E gli individui saranno tutti così uguali che parlare diventerà come pensare fra noi stessi. Della politica non gliene frega un cazzo. Non conta, dicono. A lui gli ho detto io l’ultima proposta di legge di Varoufakis. Lei fa video girando il mondo, prendendo due soldi di qua e di là. E li spende tutti viggiando. Lui non so che lavoro fa. Ma a 36 anni se esci la sera a bere è perché non guadagni abbastanza. Quando provo a dirgli che i nostri genitori alla nostra età guadagnavano più di noi il discorso si blocca. La politica, l’economia, non contano un cazzo. Siamo tutti cittadini del mondo. Dobbiamo avere rispetto gli uni degli altri e tutte le cose andranno bene. Il mondo cambierà. Elites neoliberiste brindate. Un esercito di schiavi consapevoli della loro libertà vi sta dinnanzi. La spagnola me la sono giocata. E ci stava. Ma non riesco a fare sì con la testa.(“Il cosmopolitismo individualista”, dal blog “Vox Populi” del 6 marzo 2015).Quello che le élites neoliberiste sono riuscite a fare é così grande che non riusciamo neanche ad accorgecene. La sinistra é morta. Morta. Sopravvive in piccole nicchie, intellettuali o no. Ma dire una goccia nell’oceano forse è dire troppo. Che cos’é il cosmopolitismo? Ognuno è cittadino del mondo. Che cos’é l’individualismo? L’individuo è al centro del mondo. Questa sera ad Atene ho avuto una discussione con una ragazza spagnola e un ragazzo greco. Lui 36 anni, di Atene. Lei molti meno, credo meno di 25. Entrambi hanno girato parecchio. Lei molto di più. Fra noi ci si parla in inglese. Tre nazioni del sud Europa per capirsi fra di loro devono parlare una lingua del nord Europa. Come fare a cambiare il mondo? Lei e lui dicono all’unisono: «Per cambiare il mondo bisogna che ognuno di noi cerchi di cambiare se stesso e le persone che gli stanno vicino». Poi il mondo cambierà.
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Saba Sardi: il potere corrompe anche le migliori intenzioni
Sono un seguace di uno studioso di costume, letteratura e popoli, Francesco Saba Sardi, triestino d’origine, nipote del poeta Umberto Saba. E’ stato candidato quattro volte al Premio Nobel per la Letteratura, prima di morire è stato insignito da Napolitano tra le 50 autorità culturali e morali del paese. E’ stato il biografo ufficiale di Picasso, l’unico autorizzato da Picasso, nonché l’unico autorizzato da Simenon a tradurre il Commissario Maigret. E’ stato il traduttore di Borges, di Pessoa, di Garcia Marquez, nonché colui che scrisse la “Storia delle religioni” pubblicata da Mondadori nel 1974, che è tutt’ora la “storia delle religioni” più venduta – solo che gli hanno tolto la firma, e sapete perché? Perché nel ‘58 eta stato scomunicato. Aveva scritto un libro, “Natale ha 5.000 anni”, nel quale svelava qualche piccola cosa che non gli quadrava nella costruzione mitico-narrativa del Natale della Chiesa cristiana, ma soprattutto pubblicava una serie di dipinti che il Vaticano aveva nascosto. Il libro è stato messo all’indice, e da quel momento la Mondadori pose come condizione che non ci fosse la sua firma sulla “Storia delle religioni”. Ha subito pesanti conseguenze. Quando è morto, l’unico giornale che gli abbia dedicato due pagine è stata “L’Unità”. Nessun altro giornale ne ha parlato: capito, lo stato dell’informazione in Italia?In un libro fondamentale, “Dominio”, Francesco Saba Sardi spiega la logica del potere. Vi consiglio di leggerlo, è un libro davvero importante. “Dominio” dice che l’uomo era libero quando era cacciatore nomade, e quindi non si faceva carico di dover gestire in qualche modo una comunità. Nel momento in cui l’uomo diventa agricoltore, e quindi deve gestire le risorse umane, è costretto a farlo in maniera ideologica. Cioè, se tu devi gestire più persone, devi avere un’idea di come gestirle – che può essere più o meno condivisibile, e qui entriamo nel campo delle opinioni. Qual è il problema? E’ che tu quest’idea ce l’hai, poi crei una struttura che metta in pratica questa idea. E, nel momento in cui crei la struttura, muore l’idea. La struttura assume un’autonomia sua come meccanismo, per cui l’idea “sbianca”, ma “sbianca” anche la figura di riferimento del capo. E questa è la storia di tutte le strutture. Nel momento in cui Costantino ha preteso che la Chiesa cristiana diventasse una struttura, è impallidito il Cristianesimo. E’ assolutamente automatico, ma non è una colpa del Cristianesimo. E’ successo anche alla massoneria: nel momento in cui è diventata una struttura unica, mondiale, e ha eliminato la libertà individuale delle realtà locali, è scomparsa l’ideologia massonica.Questo succede anche sul piano del male, nel campo della criminalità. La mafia nasce come reazione alle mancanze dello Stato col cosiddetto brigantaggio – una reazione della gente a uno Stato che non era proprio dalla parte della ragione. Il brigantaggio poi sparisce, ma resta la mafia. La caratteristica delle strutture è che tagliar loro la testa è irrilevante. Alla mafia potete arrestare Liggio, Totò Riina, Provenzano; si riuniscono una notte e ne nominano uno nuovo. Chi la comanda è irrilevante, perché è la struttura che è autoconservativa, auto-assertiva. E l’Italia è andata avanti nello stesso modo. Tutte le colpe erano di Gelli? L’hanno messo in galera, ma non è cambiato niente. Poi le colpe sono diventate di Andreotti e Craxi. Li hanno archiviati, e l’Italia è rimasta uguale. Sapete perché? Perché la struttra funziona così. Ormai non ha più l’ideologia, la parte progettuale – qualunque ideologia, non è questione di colore, perché poi tutte le ideologie hanno del buono e del cattivo. Ma qualunque ideologia è il progetto: ti dico come voglio che tu stia fra trent’anni. Se mi togli l’ideologia, anch’io vivo alla giornata. Come si vincono le elezioni oggi? Ti prometto che domani ti tolgo le tasse. Qualcuno riesce a fare promesse decennali, venetennali? Non si permette più nessuno, perché non essendoci più l’ideologia non c’è più il progetto, la progettualità.La massoneria ha fatto questa fine qui. Come nasce, la massoneria? L’Europa proveniva da un mondo classico pagano, per cui il lavoro era sacro. Tutti quelli che facevano un determinato lavoro – non solo quello dei costruttori: quello dei fabbri, dei tessitori, dei sarti – erano radunati nelle corporazioni delle arti e dei mestieri, che avevano acquisito una sacralità nell’assimilare le conoscenze legate a quel lavoro; conoscenze sacre anch’esse, e a volte molto profonde: più c’era arte nel fare quel lavoro in quel luogo, e più quelle conoscenze erano profonde. Quindi c’erano le logge, non solo di massoni – massone viene dal francese “maçon”, costruttore. C’erano le logge dei tessitori, degli scalpellini, dei fabbri, dei carpentieri di barche. Di tutte queste logge, assolutamente nessun’altra è sopravvissuta all’alto e al basso medioevo. E’ sopravvissuta solo la loggia dei massoni, costruttori di cattedrali: perché i massoni viaggiavano, erano diventati delle piccole multinazionali, facevano una riunione annuale di tutti i costruttori di cattedrali a Colonia, si scambiavano le conoscenze – cosa che gli altri non facevano, perché il loro lavoro era più localizzato e parcellizzato. Ma se tu dovevi fare la cattedrale di Chartres, non potevi pensare di farla solo con gli scalpellini francesi.Morendo la sacralità del lavoro e morendo le persone che ne fanno quasi un centro di ricerca, di quel lavoro, dopo l’umanesimo e il Rinascimento muoiono queste tradizioni, mentre quella massonica non muore, anzi si trasforma: dopo il ‘600, quando non si costruiscono più le cattedrali, i massoni decidono di conservare quelle conoscenze, quelle ritualità, quella sacralità, e di trasformarle in discorso filosofico-simbolico, dove la squadra e il compasso, che hanno sempre avuto un significato simbolico, mantengono solo quello simbolico. I simboli della massoneria sono squadra e compasso: sono una cosa elementare, rappresentano la parte razionale e la parte animistica della persona umana. Noi siamo composti di mente ma anche di anima, che non necessariamente coincide con la mente, perché l’anima è il soffio della vita, le emozioni, cose che con la ragione c’entrano poco. Pascal le chiamava “le ragioni del cuore e le ragioni della geometria”. Il problema è che la massoneria, diventando speculativa anziché operativa, non costruisce più le cattedrali ma conserva le sue tradizioni a scopo simbolico, conoscitivo, evolutivo-spirituale.Prima, tutte le massonerie erano autonome: collegate tra loro, sì, ma non secondo un ordine gerarchico. Invece nel 1717, e più avanti nel 1810, nascono i Grandi Orienti, che sono un modo di creare una massoneria fintamente universale. La massoneria anglosassone, che ha asservito anche la massoneria americana, voleva che la massoneria diventasse uno strumento di potere: a questo serviva una struttura come quella dei Grandi Orienti. Al di là di poche realtà, come l’obbedienza di Palazzo Vitelleschi, la massoneria è diventata uno strumento del potere politico, del potere economico e del potere in generale, come lo è diventata la religione, la Chiesa. Le strutture si mettono sempre al servizio del potere, e perdono il loro riferimento iniziale.(Gianfranco Carperoro, estratti delle dichiarazioni rese il 13 maggio 2014 alla conferenza pubblica dell’associazione “Salusbellatrix” a Vittorio Veneto, ripresa integralmente su YouTube. Studioso di simbologia, esoterista, già avvocato e magistrato tributario, giornalista e pubblicitario, Carpeoro è autore di svariati romanzi ed è stato “sovrano gran maestro” della comunione massonica di Piazza del Gesù).Sono un seguace di uno studioso di costume, letteratura e popoli, Francesco Saba Sardi, triestino d’origine, nipote del poeta Umberto Saba. E’ stato candidato quattro volte al Premio Nobel per la Letteratura, prima di morire è stato insignito da Napolitano tra le 50 autorità culturali e morali del paese. E’ stato il biografo ufficiale di Picasso, l’unico autorizzato da Picasso, nonché l’unico autorizzato da Simenon a tradurre il Commissario Maigret. E’ stato il traduttore di Borges, di Pessoa, di Garcia Marquez, nonché colui che scrisse la “Storia delle religioni” pubblicata da Mondadori nel 1974, che è tutt’ora la “storia delle religioni” più venduta – solo che gli hanno tolto la firma, e sapete perché? Perché nel ‘58 eta stato scomunicato. Aveva scritto un libro, “Natale ha 5.000 anni”, nel quale svelava qualche piccola cosa che non gli quadrava nella costruzione mitico-narrativa del Natale della Chiesa cristiana, ma soprattutto pubblicava una serie di dipinti che il Vaticano aveva nascosto. Il libro è stato messo all’indice, e da quel momento la Mondadori pose come condizione che non ci fosse la sua firma sulla “Storia delle religioni”. Ha subito pesanti conseguenze. Quando è morto, l’unico giornale che gli abbia dedicato due pagine è stata “L’Unità”. Nessun altro giornale ne ha parlato: capito, lo stato dell’informazione in Italia?
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Chi riportò l’Afghanistan al medioevo, più di trent’anni fa
«Questa sera, per la prima volta dall’11 Settembre, la nostra missione di guerra in Afghanistan è conclusa». Queste le parole di apertura del discorso di Obama sullo Stato dell’Unione del 2015. In realtà, circa 10.000 soldati e 20.000 appaltatori militari (leggi mercenari) rimangono in Afghanistan con incarichi imprecisati. «La guerra più lunga nella storia americana sta arrivando ad una conclusione responsabile», ha detto Obama. La verità è che più civili sono stati uccisi in Afghanistan nel 2014 che in qualsiasi anno da quando l’Onu tiene il conto. La maggior parte delle uccisioni – sia civili che militari – sono avvenute durante la presidenza di Obama. La tragedia dell’Afghanistan fa a gara con il crimine epico perpetrato in Indocina. Nel suo elogiato e più volte citato libro “La grande scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici”, Zbigniew Brzezinski, il padrino delle politiche americane dall’Afghanistan ad oggi, scrive che se l’obiettivo dell’America è quello di controllare l’Eurasia e di dominare il mondo, non può reggere una democrazia popolare, perché «la ricerca del potere non è un obiettivo che richiede passione popolare, la democrazia è nemica dell’impegno imperiale». Ha ragione.Come hanno rivelato “Wikileaks” e Edward Snowden, uno Stato di polizia e di controllo sta infatti soppiantando la democrazia. Nel 1976, Brzezinski, allora consigliere della sicurezza nazionale della presidenza Carter, ha dimostrato il suo punto di vista comminando un colpo mortale alla prima e unica democrazia dell’Afghanistan. Ma chi la conosce questa storia fondamentale? Nel 1960, una rivoluzione popolare dilagò in Afghanistan, il paese più povero della terra, riuscendo alla lunga nell’intento di rovesciare le vestigia del regime aristocratico nel 1978. Il Pdpa, Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan, formò un governo e compilò un programma di riforme che prevedeva l’abolizione del feudalesimo, la libertà per tutte le religioni, la parità di diritti per le donne e giustizia sociale per le minoranze etniche. Più di 13.000 prigionieri politici furono liberati e gli archivi di polizia pubblicamente bruciati. Il nuovo governo introdusse cure mediche gratuite per i più poveri; la condizione di bracciante fu abolita, un programma di alfabetizzazione di massa fu varato. I progressi che ci furono per le donne erano fino ad allora impensabili.Verso la fine del 1980, la metà degli studenti universitari erano donne, e le donne rappresentavano quasi la metà dei medici in Afghanistan, un terzo dei dipendenti pubblici e la maggior parte degli insegnanti. «Ogni ragazza», ricorda Saira Noorani, chirurga, «poteva andare a scuola e all’università. Potevamo andare dove volevamo e indossare quello che ci piaceva. Di venerdì andavamo al bar o al cinema a vedere l’ultimo film indiano e ascoltavamo la musica più in voga. Tutto cominciò ad andare storto quando i mujahedin iniziarono ad imporsi. Uccidevano gli insegnanti e bruciavano le scuole. Eravamo terrorizzati. Era strano e triste pensare che queste persone erano spalleggiate dall’Occidente». Il Pdpa al governo era sostenuto dall’Unione Sovietica, anche se, come l’ex segretario di Stato Usa, Cyrus Vance, ammise poi, non vi era alcuna prova di complicità sovietica [nella rivoluzione]». Preoccupato dalla crescente fiducia dei movimenti di liberazione in tutto il mondo, Brzezinski decise che, se l’Afghanistan avesse trionfato con il Pdpa, la sua indipendenza e il suo progresso avrebbero posto «la minaccia di un esempio promettente».Il 3 luglio 1979, la Casa Bianca segretamente autorizzò lo stanziamento di 500 milioni di dollari in armi e logistica per sostenere gruppi tribali “fondamentalisti”, conosciuti come i mujahedin. L’obiettivo era quello di rovesciare il primo governo laico e riformista dell’Afghanistan. Nel mese di agosto del 1979 l’ambasciata americana a Kabul segnalò che «gli interessi degli Stati Uniti sarebbero stati asserviti meglio [dalla scomparsa del Pdpa] malgrado ciò che questo avrebbe significato per le future riforme sociali ed economiche dell’Afghanistan». I mujaheddin furono i precursori di Al-Qaeda e dello Stato Islamico. Tra questi c’era Gulbuddin Hekmatyar, che ricevette decine di milioni di dollari in contanti dalla Cia. Le specialità di Hekmatyar erano il traffico di oppio e gettare acido in faccia alle donne che si rifiutavano di indossare il velo. Fu invitato a Londra e decantato dal primo ministro, Margaret Thatcher, come «combattente per la libertà». Forse questi fanatici sarebbero rimasti nel loro mondo tribale se Brzezinski non avesse promosso un movimento internazionale per favorire il fondamentalismo islamico in Asia centrale, così minando una politica laica di liberazione e “destabilizzando” l’Unione Sovietica, per creare, come scrisse poi nella sua autobiografia, «un po’ di musulmani esagitati».Il suo grande piano coincise con le ambizioni del dittatore pakistano, il generale Zia ul-Haq, per il dominio della regione. Nel 1986, la Cia e l’Isi, l’agenzia di intelligence del Pakistan, iniziarono a reclutare persone da tutto il mondo per promuovere la jihad afghana. Il multi-miliardario saudita Osama Bin Laden era tra questi. Agenti che un domani si sarebbero uniti ai Talebani e ad Al-Qaeda furono reclutati in un college islamico di Brooklyn, New York, e a loro fu impartita una formazione paramilitare in una zona di proprietà della Cia in Virginia. Questa fu chiamata “Operazione Ciclone” e il suo successo culminò nel 1996, quando l’ultimo presidente del Pdpa afghano, Mohammed Najibullah – che si era recato al cospetto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per implorare aiuto – fu impiccato a un lampione dai Talebani. Il risultato dell’Operazione Ciclone e dei suoi “pochi musulmani esagitati” fu l’11 settembre 2001. L’“Operazione Ciclone” divenne la “guerra al terrore”, in cui innumerevoli uomini, donne e bambini avrebbero perso la vita in tutto il mondo musulmano, dall’Afghanistan all’Iraq, allo Yemen, alla Somalia e alla Siria. Il messaggio dei cosiddetti tutori dell’ordine era e rimane: “O sei con noi o contro di noi”.(John Pilger, estratto da “Perché l’avanzata del fascismo è nuovamente il problema”, post scritto il 26 febbraio sul proprio blog e ripreso il 3 marzo 2015 da “Come Don Chisciotte”).«Questa sera, per la prima volta dall’11 Settembre, la nostra missione di guerra in Afghanistan è conclusa». Queste le parole di apertura del discorso di Obama sullo Stato dell’Unione del 2015. In realtà, circa 10.000 soldati e 20.000 appaltatori militari (leggi mercenari) rimangono in Afghanistan con incarichi imprecisati. «La guerra più lunga nella storia americana sta arrivando ad una conclusione responsabile», ha detto Obama. La verità è che più civili sono stati uccisi in Afghanistan nel 2014 che in qualsiasi anno da quando l’Onu tiene il conto. La maggior parte delle uccisioni – sia civili che militari – sono avvenute durante la presidenza di Obama. La tragedia dell’Afghanistan fa a gara con il crimine epico perpetrato in Indocina. Nel suo elogiato e più volte citato libro “La grande scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici”, Zbigniew Brzezinski, il padrino delle politiche americane dall’Afghanistan ad oggi, scrive che se l’obiettivo dell’America è quello di controllare l’Eurasia e di dominare il mondo, non può reggere una democrazia popolare, perché «la ricerca del potere non è un obiettivo che richiede passione popolare, la democrazia è nemica dell’impegno imperiale». Ha ragione.
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Pilger: Obama, il fascista bugiardo che uccide sorridendo
Ciò che accomuna il fascismo passato a quello presente sono gli omicidi di massa. L’invasione americana del Vietnam aveva le sue “zone di fuoco libero”, “conteggio dei caduti” e “danni collaterali”. Nella provincia di Quang Ngai, da dove corrispondevo, molte migliaia di civili (“musi gialli”) sono stati assassinati dagli Stati Uniti; eppure si ricorda solo un massacro, quello di My Lai. In Laos e Cambogia, il più grande bombardamento aereo della storia ha prodotto un’epoca di terrore contrassegnato ancora oggi dallo spettacolo di crateri di bombe congiunti che, dal cielo, assomigliano a mostruose collane. Il bombardamento diede alla Cambogia il proprio Isis, guidato da Pol Pot. Oggi, la più grande campagna del terrore al mondo ha come conseguenza l’esecuzione di intere famiglie, di ospiti a matrimoni, di persone in lutto ai funerali. Sono queste le vittime di Obama. Secondo il “New York Times”, ogni martedì, nella Situation Room della Casa Bianca, Obama consulta un “elenco di persone da uccidere” procuratogli dalla Cia. Decide allora, senza uno straccio di giustificazione legale, chi vivrà e chi morirà.La sua arma di esecuzione sono i missili Hellfire portati da un velivolo senza pilota, un drone; questi arrostiscono le loro vittime e deturpano la zona con i loro resti. Ogni “colpo” viene registrato sullo schermo di un lontano computer. «I marciatori al passo dell’oca», scrisse lo storico Norman Pollock, «sostituiscono la militarizzazione apparentemente più innocua della cultura totale. E come loro tronfio capoccia, abbiamo un riformatore mancato, allegramente al lavoro, a pianificare ed eseguire assassinii, sorridendo continuamente». Ciò che accomuna i fascismi vecchio e nuovo è il culto della superiorità. «Credo nell’eccezionalità americana con ogni fibra del mio essere», disse Obama, evocando dichiarazioni da fanatismo nazionale degli anni ‘30. Come lo storico Alfred W. McCoy ha fatto notare, è stato Carl Schmitt, devoto di Hitler, a dire: «Il sovrano è colui che decide l’eccezione». Questo riassume l’americanismo, l’ideologia dominante del mondo. Che non sia riconosciuta come un’ideologia predatrice è merito di un ugualmente riconosciuto lavaggio di cervello. Infida, non dichiarata, presentata spiritosamente come illuminazione in cammino, la sua arroganza permea la cultura occidentale.Sono cresciuto con una dieta cinematografica di gloria americana, quasi tutta fatta di distorsione della realtà. Non avevo idea che fosse stata l’Armata Rossa a distruggere la maggior parte della macchina da guerra nazista, ad un costo di ben 13 milioni di soldati. Per contro, le perdite degli Stati Uniti, quelle nel Pacifico incluse, sono state di 400.000 vittime. Hollywood ha falsificato anche questo. La differenza ora è che gli spettatori sono invitati a contorcersi sui sedili guardando la “tragedia” di psicopatici americani che devono uccidere persone in luoghi lontani – proprio come fa il loro stesso presidente. L’attore e regista Clint Eastwood, incarnazione della violenza di Hollywood, è stato nominato per un Oscar quest’anno per il suo film “American Sniper”, che parla di un assassino pazzoide con licenza di uccidere. Il “New York Times” ha descritto il film come «patriottico e pro-famiglia, che ha battuto tutti i record di presenze già nei primi giorni di apertura».Non ci sono film eroici che descrivono l’abbraccio americano del fascismo. Durante la Seconda Guerra Mondiale, l’America (e la Gran Bretagna) sono scese in guerra contro i greci che avevano combattuto eroicamente contro il nazismo e resistevano all’ascesa del fascismo greco. Nel 1967, la Cia ha contribuito a portare al potere una giunta militare fascista ad Atene – come ha fatto in Brasile e nella maggior parte dell’America Latina. Ai tedeschi ed europei dell’Est collusi con l’aggressore nazista e coinvolti in crimini contro l’umanità è stato dato un rifugio sicuro negli Stati Uniti; molti sono stati elogiati e premiati per il loro talento. Wernher von Braun è stato il “padre” sia della terribile bomba nazista V-2 che del programma spaziale degli Stati Uniti. Nel 1990, come ex repubbliche sovietiche, l’Europa orientale e i Balcani divennero avamposti militari della Nato, e gli eredi di un movimento nazista in Ucraina hanno avuto la loro opportunità. Nonostante fosse responsabile della morte di migliaia di ebrei, polacchi e russi durante l’invasione nazista dell’Unione Sovietica, il fascismo ucraino è stato riabilitato e la sua “new wave”, salutata dai suddetti tutori dell’ordine come “nazionalista”.Il suo apice è stato raggiunto nel 2014, quando l’amministrazione Obama stanziò 5 miliardi di dollari per un colpo di Stato contro il governo eletto. Le truppe d’assalto erano neonaziste, note come “Settore Destro” e “Svoboda”. Tra i loro capi c’è Oleh Tyahnybok, che ha chiesto l’epurazione della «mafia ebrea di Mosca» e di «altra feccia», tra cui gay, femministe e quelli della sinistra politica. Adesso questi fascisti sono integrati nel governo golpista di Kiev. Il primo vice-presidente del parlamento ucraino, Andriy Parubiy, leader del partito di governo, è co-fondatore di “Svoboda”. Il 14 febbraio scorso, Parubiy ha annunciato che sarebbe volato a Washington per ottenere «dagli Stati Uniti armi molto più moderne e precise». Se ci riesce, questo sarà considerato come un atto di guerra dalla Russia. Nessun leader occidentale ha parlato della rinascita del fascismo nel cuore stesso dell’Europa, ad eccezione di Vladimir Putin, il cui popolo ha sacrificato 22 milioni di persone all’invasione nazista avvenuta attraverso il confine dell’Ucraina.Alla recente conferenza sulla sicurezza di Monaco, l’assistente segretario di Stato di Obama per gli affari europei ed eurasiatici, Victoria Nuland, ha urlato abusi ai leader europei che si opponevano all’armamento degli Stati Uniti del regime di Kiev. Ha chiamato il ministro della difesa tedesco «ministro per il disfattismo». Era stata la Nuland a progettare il colpo di Stato a Kiev. È la moglie di Robert D. Kaplan, un’autorità tra i “neo-con” di estrema destra del “Centro per una Nuova Sicurezza Americana”, ed è stata consigliere per la politica estera del fascista Dick Cheney. I piani della Nuland non sono andati a buon fine. Alla Nato è stato impedito di appropriarsi della storica e legittima base navale russa nelle calde acque della Crimea – dove la popolazione, in gran parte russa ma illegalmente accorpata all’Ucraina da Nikita Krusciov nel 1954 – ha votato in massa per tornare alla Russia, come già aveva fatto nel 1990. Il referendum è stato volontario, popolare e controllato a livello internazionale. Non c’era stata alcuna invasione.Nello stesso momento il regime di Kiev si è avventato ad est sulla popolazione di etnia russa con una ferocia da pulizia etnica. Usando milizie neo-naziste alla maniera delle Waffen-SS, hanno bombardato e messo a ferro e fuoco le città. Hanno usato la fame di massa come arma, tagliato l’elettricità, congelato conti bancari, bloccato l’erogazione di assegni sociali e delle pensioni. Più di un milione di profughi sono fuggiti oltre confine, in Russia. Per i media occidentali, erano persone in fuga “dalla violenza” causata dalla “invasione russa”. Il comandante Nato, generale Breedlove – il cui nome e le cui azioni potrebbero essere stati ispirati al “Dottor Stranamore” di Stanley Kubrick – dichiarò che 40.000 soldati russi si stavano «ammassando» ai confini ucraini. Nell’era di prove forensi satellitari, non ne fornì alcuna.È da lungo tempo che le persone di lingua russa e bilingue dell’Ucraina – un terzo della popolazione – stanno cercando di costruirsi una federazione che rifletta le diversità etniche del paese e che sia autonoma e indipendente da Mosca. La maggior parte non è composta da “separatisti”, ma da cittadini che vogliono vivere in sicurezza nella loro patria e che si oppongono alla presa di potere a Kiev. La loro rivolta e la creazione di “Stati” autonomi è la reazione agli attacchi effettuati da Kiev su di loro. Poco di tutto ciò è stato spiegato al pubblico occidentale. Il 2 maggio 2014, a Odessa, 41 persone di etnia russa sono state bruciate vive nel quartier generale del loro sindacato, nonostante la presenza della polizia. Il leader di “Settore Destro”, Dmytro Yarosh, salutò il massacro come «un altro giorno luminoso nella storia del nostro paese». Nei media americani e britannici, l’atrocità venne riportata come una «tragedia poco chiara», derivante da «scontri» tra «nazionalisti» (neonazisti) e «separatisti» (persone che raccoglievano firme per un referendum per un’Ucraina federale).Il “New York Times” seppellì la notizia, ricacciando come propaganda russa gli avvertimenti sulle politiche fasciste e antisemite dei nuovi clienti di Washington. Il “Wall Street Journal” condannò le vittime stesse titolando: “Incendio mortale in Ucraina probabilmente causato dai ribelli, dice il governo”. Obama si congratulò con la giunta per il loro «contegno». Se Putin si lascerà provocare e andrà in loro aiuto, il suo ruolo di “paria” (preconfezionato in Occidente) giustificherà la menzogna che la Russia sta invadendo l’Ucraina. Il 29 gennaio, il comandante supremo ucraino, generale Viktor Muzhenko, quasi involontariamente fece crollare la base su cui le sanzioni degli Stati Uniti e dell’Ue alla Russia sono posate, quando in una conferenza stampa dichiarò con enfasi che «l’esercito ucraino non sta combattendo contro le truppe regolari dell’esercito russo». Si trattava di «singoli cittadini», membri di «gruppi armati illegali», ma non c’era un’invasione russa. Questo però non fece notizia. Il ministro degli esteri di Kiev, Vadym Prystaiko, ha chiesto una «guerra totale» contro la Russia, potenza nucleare.Il senatore statunitense James Inhofe, repubblicano dell’Oklahoma, il 21 febbraio ha proposto un disegno di legge che autorizza l’invio di armi americane al regime di Kiev. Nella sua presentazione al Senato, Inhofe ha usato fotografie a suo dire di truppe russe che entravano in Ucraina, anche se da tempo si sapeva che erano false. Il fatto ricorda le immagini false di un impianto sovietico in Nicaragua presentate da Ronald Reagan, e delle prove false prodotte da Colin Powell alle Nazioni Unite delle armi di distruzione di massa in Iraq. L’intensità della campagna diffamatoria contro la Russia e la rappresentazione del suo presidente come un cattivo da farsa è qualcosa che io non ho mai visto prima come giornalista. Robert Parry, uno dei giornalisti investigativi più rinomati d’America, che svelò lo scandalo Iran-Contras, ha scritto di recente: «Nessun governo europeo, da quello tedesco di Adolf Hitler, ha finora pensato bene di inviare truppe d’assalto naziste a fare la guerra ad una popolazione nazionale, ma il regime di Kiev lo ha fatto, e lo ha fatto consapevolmente. Eppure tra i media e nello spettro politico dell’Occidente, c’è stato uno studiato sforzo di coprire questa realtà fino al punto da ignorare fatti che sono stati ben definiti».«Se vi domandate come il mondo potrebbe incappare nella Terza Guerra Mondiale – come ha fatto nella Prima Guerra Mondiale un secolo fa – tutto quello che dovete fare è guardare alla follia Ucraina che si è dimostrata insensibile a fatti o ragione». Nel 1946, il pubblico ministero del Tribunale di Norimberga disse dei media tedeschi: «L’uso della guerra psicologica fatto dai cospiratori nazisti è ben noto. Prima di ogni aggressione di grande portata, con alcune poche eccezioni basate su ragioni opportunistiche, hanno avviato una campagna di stampa mirata a indebolire le loro vittime e a preparare psicologicamente il popolo tedesco all’attacco. Nel sistema di propaganda di Stato di Hitler erano i quotidiani e le emittenti radio ad essere le armi più importanti». Sul “Guardian” del 2 febbraio scorso, Timothy Garton-Ash ha in effetti auspicato una guerra mondiale. “Putin deve essere fermato”, diceva il titolo. “E a volte solo le armi possono fermare le armi”. Ha ammesso che la minaccia di una guerra potrebbe «alimentare nei russi una paranoia da accerchiamento»; ma che questo andrebbe bene. Dopo aver controllato le attrezzature militari necessarie per il lavoro, ha rassicurato i suoi lettori che «l’America è equipaggiata meglio».Nel 2003, Garton-Ash, professore di Oxford, ribadì la propaganda che portò al massacro in Iraq. «Saddam Hussein», scrisse, «come Colin Powell ha documentato, ha accumulato grandi quantità di spaventose armi chimiche e biologiche, e ora nasconde quel che ne resta. Sta ancora cercando di procurarsi quelle nucleari». Elogiò Blair come «un proselito di Gladstone, un cristiano liberale interventista». E nel 2006, scrisse: «Ora ci troviamo di fronte alla prossima grande prova dell’Occidente dopo l’Iraq: l’Iran». Tali sfoghi – o come preferisce dire Garton-Ash, le sue «tormentate incertezze liberali» – non sono diversi da quelli delle élite liberali transatlantiche che hanno raggiunto un accordo faustiano. Il criminale di guerra Blair è il loro capo perduto. Il “Guardian”, in cui è apparso l’articolo di Garton-Ash, ha pubblicato un’inserzione a pagina intera di un bombardiere stealth americano. Sulla minacciosa immagine del mostro della Lockheed Martin era scritto: “L’F-35, ottimo per la Gran Bretagna”.Questo “gingillo” americano costerà ai contribuenti britannici 1.3 miliardi di sterline, visto che i suoi precursori modelli “F” hanno fatto stragi in tutto il mondo. In sintonia con il suo inserzionista, un editoriale del “Guardian” chiedeva un aumento delle spese militari. Ancora una volta, dietro tutto questo c’è un motivo serio. Non solo i padroni del mondo vogliono l’Ucraina come base missilistica, ma vogliono anche la sua economia. Il nuovo ministro delle finanze di Kiev, Natalie Jaresko, è un ex alto funzionario del Dipartimento di Stato Usa incaricato degli “investimenti” degli Stati Uniti all’estero. Le è stata conferita frettolosamente la cittadinanza ucraina. Vogliono l’Ucraina per le sue riserve di gas. Il figlio del vice presidente Usa Joe Biden è nel consiglio di amministrazione della più grande compagnia petrolifera del gas e fracking dell’Ucraina. I produttori di sementi geneticamente modificate, aziende come la famigerata Monsanto, vogliono il ricco suolo agricolo dell’Ucraina. Soprattutto, vogliono il potente vicino di casa dell’Ucraina, la Russia.Vogliono balcanizzare o smembrare la Russia per poter sfruttare la più grande fonte di gas naturale sulla terra. Visto che il ghiaccio artico si sta sciogliendo, essi vogliono il controllo dell’Oceano Artico e delle sue ricchezze energetiche, e le estese terre di confine artico della Russia. Il loro uomo a Mosca era stato Boris Eltsin, un ubriacone che ha consegnato l’economia del suo paese alll’Occidente. Il suo successore, Putin, ha ristabilito la Russia come nazione sovrana; questo è il suo crimine. La responsabilità di tutti noi è chiara. È quella di scoprire e denunciare le incoscienti menzogne dei guerrafondai e di non colludere con loro. È di risvegliare i grandi movimenti popolari che hanno portato una fragile civiltà a moderni stati imperiali. Ma soprattutto è di prevenire la conquista di noi stessi: delle nostre menti, della nostra umanità, della nostra autostima. Se rimaniamo in silenzio, la vittoria su di noi è certa, e un olocausto ci aspetta.(John Pilger, estratto da “Perché l’avanzata del fascismo è nuovamente il problema”, post scritto il 26 febbraio sul proprio blog e ripreso il 3 marzo 2015 da “Come Don Chisciotte”).Ciò che accomuna il fascismo passato a quello presente sono gli omicidi di massa. L’invasione americana del Vietnam aveva le sue “zone di fuoco libero”, “conteggio dei caduti” e “danni collaterali”. Nella provincia di Quang Ngai, da dove corrispondevo, molte migliaia di civili (“musi gialli”) sono stati assassinati dagli Stati Uniti; eppure si ricorda solo un massacro, quello di My Lai. In Laos e Cambogia, il più grande bombardamento aereo della storia ha prodotto un’epoca di terrore contrassegnato ancora oggi dallo spettacolo di crateri di bombe congiunti che, dal cielo, assomigliano a mostruose collane. Il bombardamento diede alla Cambogia il proprio Isis, guidato da Pol Pot. Oggi, la più grande campagna del terrore al mondo ha come conseguenza l’esecuzione di intere famiglie, di ospiti a matrimoni, di persone in lutto ai funerali. Sono queste le vittime di Obama. Secondo il “New York Times”, ogni martedì, nella Situation Room della Casa Bianca, Obama consulta un “elenco di persone da uccidere” procuratogli dalla Cia. Decide allora, senza uno straccio di giustificazione legale, chi vivrà e chi morirà.