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Graham Hancock: il segreto della civiltà che ci ha preceduti
Quale segreto si nasconde nell’archeologia “misteriosa”, cioè tuttora non completamente “spiegata” dalla scienza ufficiale? La tesi: una civiltà preesistente alla nostra, molto evoluta, fu spazzata via dalla Terra circa 12.000 anni fa. Ma le sue tracce emergono regolarmente dai reperti e da profonde verità custodite da svariate tradizioni esoteriche. Nel libro “Lo Specchio del cielo”, Graham Hancock continua la ricerca cominciata nel suo bestseller “Impronte degli dei” per scoprire «l’eredità nascosta dell’umanità» e rivelare che le culture che noi consideriamo antiche erano, di fatto, eredi di una civiltà di gran lunga più antica, dotata di una «saggezza». Lavorando con la fotografa Santha Faiia, sua moglie, Hancock traccia il network dei siti sacri intorno al mondo in uno spettacolare viaggio di scoperta che ci porta dalle piramidi e templi dell’antico Egitto alle enigmatiche statue dell’isola di Pasqua, dalle rovine dell’America pre-colombiana allo splendore di Angkor Wat, in Cambogia, nel tentativo di decifrare il codice dei nostri antenati. Per l’editore, Corbaccio, «è un’odissea attraverso il mito e la magia, e incredibili rivelazioni archeologiche che ci costringono a ripensare la nostra concezione delle origini della civiltà».“Lo Specchio del cielo” è molto più che un seguito a “Impronte degli dei”: è «un’immersione nella spiritualità degli antichi, una ricerca della rivelazione di un segreto scritto nella lingua dell’astronomia, e conservato nelle fondamenta dei più sacri siti dell’antichità». Un segreto che «parla della misteriosa connessione tra cielo e terra, che trasforma templi in stelle e uomini in dèi». In altre parole, «il più oscuro e nascosto segreto del nostro passato dimenticato». Graham Hancock è nato in Scozia, a Edimburgo, ma ha vissuto a lungo in India, dove il padre lavorava come chirurgo. Tornato in patria, si è laureato in sociologia presso la Durham University e ha iniziato la carriera di giornalista, arrivando a firmare articoli per i più prestigiosi quotidiani britannici, come il “Guardian”, il “Times” e l’“Independent”, per poi passare anche alla produzione di libri a partire dal 1980. In una recente intervista realizzata Michael Parker per “Antidote”, scrive il blog “Segni dal cielo”, Hancock sostiene che gli indizi sulle antiche civiltà della Terra, misteriosamente scomparse, «potrebbero aiutare i ricercatori di oggi a scoprire i pezzi perduti della storia antica dell’uomo».Un gigantesco puzzle planetario: dalle incredibili costruzioni megalitiche, come quelli di Gobekli Tepe e Gunung Padang, alle «fonti di energia nascoste utilizzate da numerose antiche culture di tutto il mondo», poi scomparse in seguito a «estinzioni di massa», forse causate dall’impatto con un gigantesco meteorite: «Una ipotesi che viene accolta da molti scienziati – aggiunge “Segni dal cielo” – visto che, oltre Giove e Saturno, ci sono comete giganti che possono essere vettori di distruzione planetaria». Secondo Hancock, vi sono prove sufficienti che suggeriscono che tra il 10.800 e il 9.600 aC, uno tsunami di proporzioni epiche spazzò via interi contineti, a causa dell’impatto di una cometa. Nel tempio di Horus, nell’antica città egiziana di Edfu, celebri iscrizioni descrivono come “dèi” gli esseri che vi si erano rifugiati, «provenienti da un’isola sacra, distrutta da inondazioni e incendi». L’autore sostiene che un evento di estinzione antica «spazzò via Atlantide e le società avanzate di 12.000 anni fa». Le strutture megalitiche a Gobekli Tepe e Gunung Padang sarebbero «antichi centri di potere sepolti, dove viene nascosta una storia che gli archeologi non sono disposti a riconoscere».Sono in corso profonde revisioni della storiografia anche recente: alcuni siti archeologici terrestri, dalle piramidi di Giza ad Angkor Wat, sarebbero molto più antichi di quanto pensi l’archeologia ortodossa. Le piramidi d’Egitto e la Sfinge non sarebbero stati edificati 4.500 anni fa (nel 2.500 a.C.) ai tempi dei faraoni della IV dinastia, come oggi comunemente accettato, ma nel 10.500 a.C. e cioè 12.500 anni fa, ai tempi dell’ultima glaciazione. A sostegno di queste tesi le indagini eseguite sulla sfinge dai geologi Robert Schoch ed John Anthony West, che nel 1996, incaricati di studiare i segni di corrosione sulla Sfinge, hanno concluso che essi potevano risalire a circa 7.000 anni fa, quando ancora l’Egitto non era arido come adesso. Altre indagini sono state eseguite utilizzando il software Skyglobe, secondo il quale la costellazione visibile ai tempi della presunta edificazione della sfinge (2.500 a.C.), non fosse il Leone, del quale invece essa ne riproduce l’aspetto, come invece accadrebbe nel cielo visibile dalla Terra nel 10.500 a.C. Analoghi ragionamenti per il monastero di Angkor Wat o le statue dell’isola di Pasqua: alcuni siti terrestri sarebbero “lo specchio del cielo” che i loro costruttori vedevano nel 10.500 a.C. (la costellazione di Orione per le piramidi, quella del Drago per Angkor Wat).Hancock ipotizza anche la presenza sulla Terra di una civiltà evoluta, estintasi appunto 10.500 anni fa ai tempi dell’ultima glaciazione (l’Atlantide di cui parlava anche Platone). Si pensa che qualcosa, di quella civiltà, sia comunque sopravvissuto, al punto che – grazie alle sue conoscenze – l’umanità sarebbe stata in grado di costruire piramidi più recenti e altri immensi monumenti. Troppe “coincidenze”, in ogni caso: «Che cosa lega un mappamondo del 1513, le opere dei Maya, degli Atzechi, degli Incas e le monumentali costruzioni egiziane?», si domanda una recensione su “Leggere a colori”. «Hancock rivela un messaggio universale celato nelle grandi opere e riportato nei miti e nelle leggende di tutte le popolazioni». Partendo da Nazca fino ad arrivare in Egitto, passando da Perù, Bolivia e Messico, l’autore va alla ricerca di una connessione, un legame, tra mappe, miti e opere architettoniche, lasciateci da popolazioni geograficamente lontane le une dalle altre e con una preparazione culturale, tecnologica e ingegneristica apparentemente non così avanzata da poter realizzare tali opere.Il viaggio, racconta “Leggere a colori”, prende spunto dall’analisi del misterioso mappamondo di Piri Reis, disegnato nel 1513, in cui è riportata l’esatta linea costiera antartica che noi conosciamo grazie all’utilizzo di potenti mezzi tecnologici, ma che è nascosta all’occhio umano dalla calotta glaciale (che risale circa a 40.000 anni fa). «La mappa è sicuramente autentica e, altrettanto sicuramente, nel 1513 non avevano i mezzi per rilevare tale formazione al di sotto dello spesso strato di ghiaccio. La spiegazione più plausibile su come Piri Reis abbia potuto disegnare la sua mappa è che sia venuto a conoscenza di dati tramandati nei secoli; ma tramandati da chi? Questa misteriosa popolazione deve aver visto le coste prima della glaciazione e quindi essere esistita prima della classica preistoria. E ha qualcosa a che vedere con i misteri che circondano le grandi opere maya, inca, atzeche e egiziane?». Per rispondere a queste domande, Graham Hancock parte per un lungo viaggio che lo porterà ad analizzare in maniera molto tecnica e scientifica i principali siti archeologici delle prime civiltà a noi note. Un continuo susseguirsi di nuove scoperte, rilevando strane analogie tra opere architettoniche e miti di popoli e civiltà molto lontani tra loro.«Chi e perché, ha costruito quelle opere monumentali? È possibile che ci sia un legame tra tali opere? Sono solo costruzioni fini a se stesse o nascondo un messaggio?». Attraverso le sue osservazioni e i suoi approfondimenti, Hancock scopre caratteristiche comuni agli antichi popoli, non solo nei miti che ci hanno tramandato ma anche nelle conoscenze scientifiche e astronomiche. Trova un filo logico tra i miti raccontati dalle prime civiltà, le conoscenze astronomiche (che dovevano essere molto avanzate) e le grandi opere realizzate da una civiltà misteriosa: «A questo punto appare chiara la presenza di una civiltà ignota, data la mancanza di prove evidenti che possano attribuire competenze tali alla realizzazione di opere così complesse alle popolazioni da noi conosciute». Mettendo in discussione la datazione attribuita ai principali siti archeologici (più antichi di ciò che pensiamo, eretti prima della glaciazione) Hancock ipotizza che possano «celare una premonizione, che solo un elevato grado di conoscenza scientifco-astronomica potrebbe mettere in luce».Quale segreto si nasconde nell’archeologia “misteriosa”, cioè tuttora non completamente “spiegata” dalla scienza ufficiale? La tesi: una civiltà preesistente alla nostra, molto evoluta, fu spazzata via dalla Terra circa 12.000 anni fa. Ma le sue tracce emergono regolarmente dai reperti e da profonde verità custodite da svariate tradizioni esoteriche. Nel libro “Lo Specchio del cielo”, Graham Hancock continua la ricerca cominciata nel suo bestseller “Impronte degli dei” per scoprire «l’eredità nascosta dell’umanità» e rivelare che le culture che noi consideriamo antiche erano, di fatto, eredi di una civiltà di gran lunga più antica, dotata di una «saggezza». Lavorando con la fotografa Santha Faiia, sua moglie, Hancock traccia il network dei siti sacri intorno al mondo in uno spettacolare viaggio di scoperta che ci porta dalle piramidi e templi dell’antico Egitto alle enigmatiche statue dell’isola di Pasqua, dalle rovine dell’America pre-colombiana allo splendore di Angkor Wat, in Cambogia, nel tentativo di decifrare il codice dei nostri antenati. Per l’editore, Corbaccio, «è un’odissea attraverso il mito e la magia, e incredibili rivelazioni archeologiche che ci costringono a ripensare la nostra concezione delle origini della civiltà».
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Thomas Mann e il prossimo Hitler invocato da noi umiliati
Il romanziere tedesco Thomas Mann era «cittadino di un popolo che nel 1925 ancora rappresentava un apice della civiltà e della cultura mondiale». Solo vent’anni dopo, «divenne uno degli abomini della civiltà mondiale». Cosa lo trasfigurò a tal punto? La crisi. Che è sempre “indotta” e trasferisce immense ricchezze nelle mani di pochi, impoverendo tutti gli altri. Dopo la Brexit e l’exploit di Trump, Paolo Barnard invita a rileggere il Thomas Mann che rievocava «la follia dell’iperinflazione tedesca», capace di tracciare «una linea diretta» verso il Terzo Reich: «In quei giorni la negoziante che senza battere un ciglio chiedeva 100 milioni di marchi per un uovo, dimostrava che nulla più al mondo l’avrebbe potuta scioccare». Fu durante la crisi, aggiunge Mann, che «i tedeschi persero la capacità di confidare in se stessi, e impararono ad aspettarsi ormai qualsiasi cosa dalla politica, dallo Stato, dal destino». Milioni di cittadini, «rapinati dei loro stipendi e risparmi, divennero le masse su cui lavorò Goebbels». Oggi ci risiamo? Deflagra «la furia sommessa di centinaia di milioni di occidentali», verso l’avvento del prossimo Hitler: «Trump, Le Pen, Hofer, Orbán, Petry o Wilders sono per adesso solo il primo tratto di quella linea».La crisi della Repubblica di Weimar, scrive Barnard nel suo blog, insegna che «quando i popoli si sentono traditi e abbandonati proprio dalle classi politiche che avrebbero dovuto proteggerli», finisce che «si gettano per esasperazione nelle mani del vendicatore, quello che poi fa l’Apocalisse». La negoziante tedesca citata da Thoman Mann oggi «rappresenta i milioni di noi», ormai rassegnati «alla morte dei redditi, delle pensioni, di ogni singolo diritto che fino a ieri sembrava scontato», consapevoli che i bambini «saranno servi delle gleba, letteralmente», e che «dei milionari non-eletti sono il loro vero governo», mentre «il politico di casa non può più neppure parlare, senza il permesso di cento cravatte blu a Bruxelles o a Manhattan». I cittadini «si lamentano, disperati»? Vengono «tranciati a metà da parole come razzista, fascista, retrogrado, nemico della modernità, ignorante bifolco» che non capisce le “riforme”. Sono centinaia di milioni, oggi, quelli ridotti come la negoziante tedesca di Thomas Mann: «Lo siamo, e ormai siamo impossibili da scioccare, non spostiamo più un gomito». Però «siamo furenti, come lo erano i tedeschi allora».Ieri come oggi, la crisi priva i cittadini di ogni «capacità di confidare in se stessi». Anche la crisi di Weimar, da cui nacque la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale, fu innescata «dalla consapevole follia predatoria delle potenze, senza la minima considerazione dei costi sugli esseri umani». Nel 1919, ricorda Barnard, un giovane brillante economista della delegazione inglese al Trattato di Versailles – dove i vincitori della Prima Guerra Mondiale decisero le sanzioni e la spoliazione della Germania – rassegnò le dimissioni orripilato. Scrisse un volume storico chiamato “Le Conseguenze Economiche della Pace”, dove denunciò la follia predatoria degli Alleati, denunciò che nulla veniva fatto per l’occupazione in Europa, e avvertì che il popolo tedesco sarebbe stato schiacciato delle austerità impostegli. Predisse il peggio, e indovinò tutto. Era John Maynard Keynes, il maggior economista del ‘900. Siamo di nuovo lì: la finanza-barracuda «non ha un secondo di considerazione per i costi umani sui popoli, sulle classi medie ormai divenute straccioni, sugli anziani, sugli ammalati, sui bambini».Oggi, come allora, l’espressione “piena occupazione” è scomparsa anche dai sindacati, non solo da Washington o da Bruxelles. Entrambe le crisi sono «alimentate dalla pervicace insistenza delle potenze nel ripetere gli errori micidiali e il sadismo sociale». L’economista americano Randall Wray, sempre nel parallelo fra Weimar e oggi, scrive: «Il Trattato di Versailles fu una follia sanguinaria dei vincitori, ma ci ricorda adesso il comportamento della Germania della Merkel ai danni del Sud Europa». Pervicace insistenza nell’errore, appunto: «Guardate oggi cosa gracchiano la Ue o ancora i democratici americani dopo Brexit e Trump», sono «recidivi fino al crimine contro l’umanità». E’ un’Europa che, «invece di capire il ‘Quarto Reich’ in arrivo, fa le riunioni per punire Brexit e Trump, tutti a culo in aria di fronte al volto deforme di Angela Merkel». E Obama? Dopo aver «distrutto la vita di milioni di americani», ancora fa lezioncine contro “il nazionalismo populista”, applaudito dal solito codazzo italiano («De Benedetti, Pd, Benigni, Saviano, Severgnini, Travaglio, Vincenzo Boccia, il “Sole 24 Ore”»), mentre intanto «la furia sommessa di oceani umani cresce», avvicinando «l’Apocalisse di un nuovo Hitler». E’ un vecchio film: «Abbiamo già visto a cosa poi si abbandonano i milioni di furenti, impoveriti, esclusi, ridicolizzati e ignorati quando arriva l’uomo forte. Si abbandonano alla “politica della mannaia”, quella che li vendica, certo, ma mozza teste, diritti, ricchezza, intelligenza, compassione e civiltà senza più distinguere nulla».Il romanziere tedesco Thomas Mann era «cittadino di un popolo che nel 1925 ancora rappresentava un apice della civiltà e della cultura mondiale». Solo vent’anni dopo, «divenne uno degli abomini della civiltà mondiale». Cosa lo trasfigurò a tal punto? La crisi. Che è sempre “indotta” e trasferisce immense ricchezze nelle mani di pochi, impoverendo tutti gli altri. Dopo la Brexit e l’exploit di Trump, Paolo Barnard invita a rileggere il Thomas Mann che rievocava «la follia dell’iperinflazione tedesca», capace di tracciare «una linea diretta» verso il Terzo Reich: «In quei giorni la negoziante che senza battere un ciglio chiedeva 100 milioni di marchi per un uovo, dimostrava che nulla più al mondo l’avrebbe potuta scioccare». Fu durante la crisi, aggiunge Mann, che «i tedeschi persero la capacità di confidare in se stessi, e impararono ad aspettarsi ormai qualsiasi cosa dalla politica, dallo Stato, dal destino». Milioni di cittadini, «rapinati dei loro stipendi e risparmi, divennero le masse su cui lavorò Goebbels». Oggi ci risiamo? Deflagra «la furia sommessa di centinaia di milioni di occidentali», verso l’avvento del prossimo Hitler: «Trump, Le Pen, Hofer, Orbán, Petry o Wilders sono per adesso solo il primo tratto di quella linea».
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Marine Le Pen: popolo sovrano, no al globalismo Ue-Nato
Charlie Hebdo, Bataclan, Nizza: se qualcuno si domanda perché “il terrorismo” abbia scelto proprio la Francia, come obiettivo, congelando il dibattito politico sotto la pressione dell’emergenza, una risposta la può suggerire “Foreign Affairs”, che parla di “nuova Rivoluzione Francese” in arrivo con Marine Le Pen, l’unico leader in pole position, in un grande paese europeo, con un programma anti-Ue. La principale candidata alla presidenza francese nel 2017, scrive “Voci dall’Estero”, ribadisce la sua visione economica e sociale per la Francia, incentrata sul ritorno alla completa sovranità statale su moneta, frontiere, leggi e indirizzo economico e culturale, in totale antitesi rispetto alla traiettoria della globalizzazione e dell’Unione Europea: «Bisogna dire che ci piacerebbe sentire queste parole anche dalla sinistra, che invece è totalmente arresa al neoliberismo e ormai sulla via dell’estinzione». L’avvocato Marine Le Pen, che ha espulso dal Front National il padre, Jean-Marie, colpevole di aver definito la Shoah «un dettaglio della storia», prenota per la Francia un futuro fondato sul ritorno alla sovranità democratica, fuori dall’euro e dai diktat di Bruxelles.«Credo che tutte le persone aspirino a essere libere. Per troppo tempo, i popoli dei paesi dell’Unione Europea, e forse anche gli americani, hanno avuto l’impressione che i leader politici non difendano i loro interessi, ma bensì degli interessi particolari. C’è una forma di rivolta del popolo contro un sistema che non lo serve più, ma che piuttosto serve se stesso», dichiara la Le Pen a Stuart Reid, nell’intervista ripresa da “Voci dall’Estero”. Sulla scia della crisi europea dei migranti, degli attacchi terroristici a Parigi e a Nizza, e del voto per il Brexit, il messaggio euro-scettico della Le Pen sta “vendendo bene”, scrive Reid: «Recenti sondaggi la mostrano come principale candidata per la presidenza nel 2017, con gli intervistati che le attribuiscono un gradimento doppio rispetto a quello dell’attuale presidente, François Hollande». Guardando agli Usa, Marine Le Pen paragona Donald Trump a Bernie Sanders: «Entrambi rifiutano un sistema che sembra essere molto egoista. In molti paesi, vi è questa corrente di pensiero fedele alla nazione, che rifiuta la globalizzazione selvaggia, vista come una forma di totalitarismo. La globalizzazione è stata imposta a tutti i costi, una guerra contro tutti per il beneficio di pochi».La Le Pen “vota” contro il Ttip e contro Hillary Clinton: «E’ portatrice di guerra nel mondo: Iraq, Libia e Siria. Questo ha avuto conseguenze estremamente destabilizzanti per il mio paese in termini di crescita del fondamentalismo islamico e per le enormi ondate migratorie che ormai stanno travolgendo l’Unione Europea». La Clinton? «Spinge per l’applicazione extraterritoriale della legge americana, che è un’arma inaccettabile per coloro che desiderano rimanere indipendenti». Nel frattempo, la Francia affonda nella crisi: la disoccupazione è oltre il 10%, e persino l’ex ministro socialista Arnaud Montebourg perora la causa del “made in France”, che è uno dei principali pilastri del Fronte Nazionale. Anche la Francia soffre la globalizzazione-canaglia, «che espone alla concorrenza sleale di paesi che effettuano dumping sociale e ambientale, lasciandoci senza la possibilità di proteggere noi stessi e le nostre aziende strategiche, a differenza degli Stati Uniti». E in termini di dumping sociale, la direttiva Ue sui “lavoratori distaccati”, cioè la libera circolazione della forza lavoro, «sta permettendo di far entrare in Francia lavoratori a salari molto bassi».L’altro dumping è monetario: l’euro. «Il fatto di non avere una nostra moneta ci mette in una situazione economica estremamente difficile», dice Marine Le Pen. «Il Fmi ha appena affermato che l’euro è sopravvalutato del 6% in Francia e sottovalutato del 15% in Germania. Questo è un gap di 21 punti percentuali con il nostro principale concorrente in Europa». A questo si aggiunge la scomparsa dell’interventismo statale, leva storica per lo sviluppo. «Quello a cui aspiro – dichiara apertamente la Le Pen – è un’uscita concertata dall’Unione Europea, in cui tutti i paesi si siedono intorno ad un tavolo e decidono di tornare al “serpente monetario”, che permette a ciascuno di adattare la sua politica monetaria alla propria economia. E voglio che sia fatto gradualmente e in modo coordinato». La situazione sta peggiorando: «Molti paesi si stanno rendendo conto che non possono continuare a vivere con l’euro, perché la sua contropartita è la politica di austerità, che ha aggravato la recessione». E cita Joseph Stiglitz, che ha appena scritto che l’euro è una moneta «completamente inadatta per le nostre economie». Proprio l’euro «è uno dei motivi per cui c’è tanta disoccupazione nell’Unione Europea». Quindi, «o ci arriviamo attraverso la negoziazione – avverte Marine Le Pen – o teniamo un referendum come la Gran Bretagna e decidiamo di riprendere il controllo della nostra moneta».Un referendum sul “Frexit”? «Nel 2005 il popolo francese è stato tradito. I francesi hanno detto no alla Costituzione europea; i politici di destra e di sinistra l’hanno imposta contro la volontà del popolo. Io sono democratica. Credo che non spetti a nessun altro che al popolo francese di decidere sul proprio futuro e su tutto ciò che riguarda la sua sovranità, libertà e indipendenza», sottolinea la leader del Front National. «Quindi sì, vorrei organizzare un referendum su questo tema. E sulla base di ciò che accadrà nel corso dei negoziati che avrò intrapreso, dirò ai francesi: “Ascoltate, ho ottenuto quello che volevo, e penso che potremmo rimanere nell’Unione Europea”, oppure: “Non ho ottenuto quello che volevo, e credo che non ci sia altra soluzione che uscire dall’Unione Europea”». Il caso Brexit è incoraggiante: «Quando la gente vuole qualcosa, nulla è impossibile». Inoltre, «ci hanno mentito: ci hanno detto che il Brexit sarebbe stato una catastrofe, che i mercati azionari sarebbero precipitati, che l’economia avrebbe rallentato fino a fermarsi, che la disoccupazione sarebbe schizzata alle stelle. La realtà è che niente di tutto questo è successo».Le banche oggi dicono che si erano “sbagliate”? «No, ci avete mentito. Avete mentito per influenzare il voto. Ma le persone stanno iniziando a comprendere i vostri metodi, che consistono nel terrorizzarle quando c’è una scelta da fare. Con questo voto il popolo britannico ha dato grande mostra di maturità». Paura per l’isolamento di una Francia fuori dall’Eurozona? «Sono le stesse esatte critiche fatte al generale de Gaulle nel 1966, quando voleva ritirarsi dal comando integrato della Nato. Libertà non è isolamento. Indipendenza non è isolamento». Al contrario: «La Francia è sempre stata molto più potente quando è stata soltanto Francia invece che una provincia dell’Unione Europea». E a chi attribuisce all’Ue il merito di aver garantito la pace dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, risponde: «Non è l’Unione Europea ad aver mantenuto la pace; è la pace che ha reso l’Unione Europea possibile». Ma la pace «non è stata perfetta nell’Unione Europea, con il Kosovo e l’Ucraina sulla soglia di casa». Inoltre, l’Ue «si è progressivamente trasformata in una sorta di Unione Sovietica Europea che decide tutto, che impone le sue opinioni, che spegne il processo democratico. Basta sentire il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, che ha detto: “Non ci può essere scelta democratica contro i trattati europei”».Insiste Marine Le Pen: «Noi non abbiamo combattuto per la libertà e l’indipendenza durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale per dover accettare oggi di non essere più un popolo libero solo perché alcuni dei nostri governanti hanno preso questa decisione per noi». Governanti francesi, ma soprattutto tedeschi: la leadership della Germania ha condizionato totalmente l’Europa. «Era scritta nella creazione dell’euro. In realtà, l’euro è una moneta creata dalla Germania, per la Germania. Si tratta di un abito che si adatta solo alla Germania. A poco a poco, la cancelliera Angela Merkel ha cominciato a sentire di essere il leader dell’Unione Europea. Ha imposto le sue opinioni. Le ha imposte in materia economica, ma le ha imposte anche accettando di accogliere un milione di immigrati in Germania, ben sapendo che la Germania poi li avrebbe smistati. Si sarebbe tenuta il meglio e avrebbe lasciato andare il resto negli altri paesi dell’Unione Europea. Non c’è più nessuna frontiera interna tra i nostri paesi, il che è assolutamente inaccettabile. Il modello imposto dalla Merkel sicuramente funziona per i tedeschi, ma sta uccidendo i vicini della Germania. Io sono l’anti-Merkel».A differenza degli altri leader francesi, finora pronti a «sottomettersi molto facilmente alle esigenze di Merkel e Obama», dimenticando di «difendere i propri interessi, compresi quelli commerciali e industriali», Marine Le Pen si dichiara «per l’indipendenza», ovvero «per una Francia che rimanga equidistante tra le due grandi potenze, la Russia e gli Stati Uniti: né sottomessa, né ostile». Vuole una Francia che torni a essere «un punto di riferimento per i paesi non allineati, come si diceva durante l’era De Gaulle». Semplice: «Abbiamo il diritto di difendere i nostri interessi, proprio come gli Stati Uniti hanno il diritto di difendere i propri interessi, come la Germania ha il diritto di difendere i propri interessi, e la Russia ha il diritto di difendere i propri interessi». Francia e Russia? «Hanno una storia comune e una forte affinità culturale. E strategicamente, non vi è alcun motivo per non approfondire le relazioni con la Russia. L’unica ragione per cui non lo facciamo è perché gli americani lo vietano: questo confligge con il mio desiderio di indipendenza», dice la Le Pen. Gli Usa? «Credo che stiano facendo un errore a ricreare una sorta di guerra fredda con la Russia, perché stanno spingendo la Russia nelle braccia della Cina. E oggettivamente, un’associazione ultrapotente tra la Cina e la Russia non sarebbe vantaggiosa né per gli Stati Uniti, né per il mondo».Charlie Hebdo, Bataclan, Nizza: se qualcuno si domanda perché “il terrorismo” abbia scelto proprio la Francia, come obiettivo, congelando il dibattito politico sotto la pressione dell’emergenza, una risposta la può suggerire “Foreign Affairs”, che parla di “nuova Rivoluzione Francese” in arrivo con Marine Le Pen, l’unico leader in pole position, in un grande paese europeo, con un programma anti-Ue. La principale candidata alla presidenza francese nel 2017, scrive “Voci dall’Estero”, ribadisce la sua visione economica e sociale per la Francia, incentrata sul ritorno alla completa sovranità statale su moneta, frontiere, leggi e indirizzo economico e culturale, in totale antitesi rispetto alla traiettoria della globalizzazione e dell’Unione Europea: «Bisogna dire che ci piacerebbe sentire queste parole anche dalla sinistra, che invece è totalmente arresa al neoliberismo e ormai sulla via dell’estinzione». L’avvocato Marine Le Pen, che ha espulso dal Front National il padre, Jean-Marie, colpevole di aver definito la Shoah «un dettaglio della storia», prenota per la Francia un futuro fondato sul ritorno alla sovranità democratica, fuori dall’euro e dai diktat di Bruxelles.
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Globalisti privatizzatori, questa catastrofe è il loro piano
Cos’è il globalismo, e perché esiste? E’ ormai noto da decenni che la spinta alla globalizzazione è un preciso piano coltivato da un’élite di finanzieri internazionali, banchieri centrali, leader politici e think-tanks esclusivi. «Spesso nelle loro pubblicazioni ammettono apertamente il loro obiettivo di globalizzazione totale, forse nella convinzione che le persone semplici e non istruite in ogni caso non le leggeranno mai», scrive Brandon Smith su “Zero Hedge”. Carroll Quigley, mentore di Bill Clinton, viene spesso citato per le sue ammissioni: «I poteri del capitalismo finanziario avevano un obiettivo di ampia portata, niente di meno che creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, in grado di dominare il sistema politico di ciascun paese e l’economia del mondo intero». Un sistema che «doveva essere controllato in maniera feudale dalle banche centrali del mondo, che avrebbero agito di concerto, con accordi segreti». Il vertice del sistema «doveva essere la Banca dei Regolamenti Internazionali a Basilea, in Svizzera, una banca privata posseduta e controllata dalle banche centrali mondiali che sono esse stesse imprese private».Ciascuna banca centrale, continua Quigley, cerca di dominare il governo del proprio paese «grazie alla capacità di controllare i prestiti del Tesoro, di manipolare gli scambi con l’estero, di influire sull’attività economica del paese e influenzare i politici disposti a collaborare, ricompensandoli poi economicamente nel mondo degli affari». Si pensi alle classiche “porte girevoli” tra politica e grandi banche d’affari. «Le persone che stanno dietro all’obiettivo di imporre la globalizzazione – scrive Smith in un post ripreso da “Voci dall’Estero” – sono legate da una particolare ideologia, quasi un culto religioso, in cui immaginano un ordine mondiale come viene descritto nella “Repubblica” di Platone. Credono di essere stati “prescelti” – dal fato, dal destino o dalla genetica – per dominarci tutti come dei re-filosofi. Pensano di essere quanto di più intelligente e capace l’umanità abbia da offrire e di poter creare dal nulla, con poteri semi-divini, il caos e l’ordine, e così poter plasmare la società a loro piacimento».Questa mentalità appare evidente nel sistema globale: «La gestione delle banche centrali non è altro che un meccanismo per intrappolare le nazioni in debiti, svalutazioni valutarie e, in ultima analisi, schiavitù, attraverso l’estorsione economica diffusa». Obiettivo ultimo delle banche centrali, «scatenare delle crisi finanziarie di portata storica, che possono poi essere usate dalle élite come leva per promuovere la completa centralizzazione globale come unica soluzione possibile». Questo processo di destabilizzazione delle economie e delle società, continua Smith, non viene neppure controllato dai presidenti delle varie banche centrali: in realtà è pilotato da istituzioni globali ancor più centralizzate come il Fondo Monetario Internazionale e la stessa Bank of International Settlements, come spiegato in interessanti articoli come “Ruling The World Of Money”, pubblicato da “Harpers Magazine”. Se ne deduce che la campagna per un “nuovo ordine mondiale” non è esattamente un progetto umanitario: «Innumerevoli persone odieranno il nuovo ordine mondiale, e moriranno protestando contro di esso».L’élite mette in conto «almeno una generazione di malcontenti, molti dei quali saranno persone buone e di valore», stando alle parole dello scrittore britannico Herbert George Welles, laburista e profeta del “Nuovo ordine mondiale” (il primo a coniare l’espressione, che titola una sua opera del 1940). «In breve, la “casa dell’ordine mondiale” dovrà essere costruita dal basso verso l’alto anziché dall’alto verso il basso. Sembrerà una grande “rumorosa, esplosiva confusione”, per usare la famosa descrizione della realtà di William James, ma alla fine un lento assedio della sovranità nazionale, che la eroda pezzo per pezzo, risulterà più efficace del vecchio sistema dell’assalto frontale», scrive nel 1974 Richard Gardner, membro della Commissione Trilaterale, su “Issue of Foreign Affairs”. Precisa un altro campione dell’élite globalista, Henry Kissinger, al “World Action Council” del 1994: «Il Nuovo Ordine Mondiale non può realizzarsi senza la partecipazione degli Stati Uniti, visto che siamo il suo membro più importante. Certo, ci sarà un Nuovo Ordine Mondiale, e imporrà agli Stati Uniti di cambiare le proprie percezioni».Mentre alcuni considerano la globalizzazione una “evoluzione naturale” del libero mercato o l’inevitabile sbocco del progresso economico, «la verità è che la spiegazione più semplice (alla luce delle evidenze disponibili) è che la globalizzazione è una guerra aperta condotta contro l’ideale dei popoli sovrani e delle nazioni», scrive Brandon Smith. «E’ una guerriglia, o una guerra di quarta generazione, intrapresa da un piccolo gruppo di élite contro tutti gli altri». Un elemento significativo di questa guerra, aggiunge, riguarda la demolizione dei confini delle nazioni, degli Stati e persino di città e villaggi, come delimitazioni di comunità solidali e identitarie: «Non ci piace essere costretti ad associarci a persone o a gruppi che non hanno i nostri stessi valori». Le culture «innalzano i confini perché, francamente, i popoli hanno il diritto di controllare coloro che desiderano aderire alla comunità e condividerne gli intenti», rifiutando «altri gruppi di persone e di ideologie che per noi risultano distruttive». Curiosamente, invece, i globalisti «sosterranno che, rifiutandoci di associarci con coloro che potrebbero distruggere i nostri valori, siamo noi che violiamo i loro diritti. Vedete come funziona?».I globalisti «sfruttano la parola “isolazionismo” per infangare i sostenitori della sovranità agli occhi della pubblica opinione», e invece «non bisogna vergognarsi dell’isolamento quando principi quali la libertà di parola e di espressione o il diritto all’autodifesa vengono messi in discussione». Inoltre, «non c’è nulla di sbagliato nell’isolare un modello economico prospero da altri modelli insoddisfacenti», anche perché, al contrario, «imporre a un’economia di mercato libero decentralizzato di adottare un’amministrazione feudale attraverso un governo e una banca centralizzati finirà per distruggere il modello». Così come «importare milioni di persone con differenti valori per rinvigorire una nazione» non è altro che «una ricetta per il disastro». In un mondo senza barriere, continua Smith, si potrà solo eliminare una cultura per sostituirla con un’altra: «Questo è quello che vogliono ottenere i globalisti. E’ lo scopo vero dietro le politiche delle “frontiere aperte” e della globalizzazione – annichilire il confronto delle idee, così che l’umanità finisca col pensare di non avere altra opzione all’infuori della religione delle élite». Lo scopo ultimo dei globalisti «non è di controllare i governi», che sono solo uno strumento, bensì «ottenere un’influenza psicologica totale», onde conquistare definitivamente «il consenso delle masse».Le élite sostengono che la loro idea di una singola cultura mondiale è il pilastro fondamentale dell’umanità, e che non c’è più alcun bisogno di confini perché nessun principio è più importante di questo. «Fino a quando i confini, come concetto, continuano a esistere, ci può sempre essere la possibilità di separare ideali diversi che competono con la filosofia globalizzatrice: questo non è accettabile per le élite». Oggi, con l’affermarsi dei movimenti anti-globalisti, la tesi portata avanti dal mainstream è che i “populisti” (conservatori) rappresentano una classe spregevole e ignorante, sono elementi pericolosi che minacciano “la pace e la prosperità” provenienti dalle sapienti mani globaliste. Ancora una volta, Carrol Quigley predice questa propaganda con decenni di anticipo, quando discute la necessità di “rimanere all’interno del sistema” per cambiarlo, anziché combattere contro di esso, e parla della «classe medio-bassa» definendola «spina dorsale del fascismo del futuro». E spiega: «I membri del partito nazista in Germania venivano per lo più da questa classe», alla quale associa «i movimenti di centro-destra» degli Stati Uniti.I globalisti, continua Smith, hanno avuto mano libera sulla maggior parte dei governi mondiali per almeno un secolo, se non di più. «A seguito della loro influenza, abbiamo avuto due guerre mondiali, la Grande Depressione, la Grande Recessione che non è ancora finita, troppi conflitti regionali e genocidi perché possano essere contati, e la sistematica oppressione dei liberi imprenditori, degli inventori e delle idee, al punto che soffriamo ormai di stagnazione sociale e finanziaria». Curioso: «I globalisti sono rimasti al potere a lungo, ma la colpa delle numerose crisi avvenute negli ultimi 100 anni viene data all’esistenza dei confini». I campioni della libertà «vengono definiti inqualificabili populisti e fascisti», mentre i globalisti si sottraggono a ogni accusa. «Non esiste uno straccio di prova che confermi l’idea che la globalizzazione, l’interdipendenza e la centralizzazione funzionino davvero», insiste Smith. Per capirlo, «basta esaminare l’incubo economico e migratorio presente nell’Ue». Quindi, i globalisti «sosterranno che il mondo non è abbastanza centralizzato», cioè diranno che «ci vuole più globalizzazione, non meno, per risolvere i problemi del mondo».Nel frattempo, «i principi della sovranità devono essere demonizzati storicamente». Intollerabile, infatti, la stessa esistenza di diverse culture: «Per le generazioni future deve essere psicologicamente associata al male». Vogliono un mondo in cui «il principio di sovranità sia considerato così aberrante, così razzista, così violento e insidioso che chiunque si vergognerebbe di averlo sostenuto». E’ una vera «prigione mentale», ed è «il luogo dove i globalisti vogliono portarci». Ribellarsi? Per Smith, è possibile solo col volontariato, costruendo «una spinta verso la decentralizzazione, la localizzazione, l’indipendenza e la vera produzione». Meglio i confini, se lasciano l’individuo «libero di partecipare a qualsiasi gruppo sociale che desidera o che crede migliore per lui», nell’ambito di una società «non costretta ad associazioni forzate». Ma Smith non è ottimista: «Questo sforzo richiederebbe enormi sacrifici e una battaglia che probabilmente durerebbe per una generazione». L’unica sicurezza è nera: «Posso solo mostrare che il mondo dominato dai globalisti in cui viviamo oggi è chiaramente destinato alla catastrofe. Potremo discutere su cosa fare dopo solo quando avremo tolto la testa dalla ghigliottina».Cos’è il globalismo, e perché esiste? E’ ormai noto da decenni che la spinta alla globalizzazione è un preciso piano coltivato da un’élite di finanzieri internazionali, banchieri centrali, leader politici e think-tanks esclusivi. «Spesso nelle loro pubblicazioni ammettono apertamente il loro obiettivo di globalizzazione totale, forse nella convinzione che le persone semplici e non istruite in ogni caso non le leggeranno mai», scrive Brandon Smith su “Zero Hedge”. Carroll Quigley, mentore di Bill Clinton, viene spesso citato per le sue ammissioni: «I poteri del capitalismo finanziario avevano un obiettivo di ampia portata, niente di meno che creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, in grado di dominare il sistema politico di ciascun paese e l’economia del mondo intero». Un sistema che «doveva essere controllato in maniera feudale dalle banche centrali del mondo, che avrebbero agito di concerto, con accordi segreti». Il vertice del sistema «doveva essere la Banca dei Regolamenti Internazionali a Basilea, in Svizzera, una banca privata posseduta e controllata dalle banche centrali mondiali che sono esse stesse imprese private».
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Paragone: Trump, una dura lezione per Merkel e Juncker
Oddio, già non li sopporto. Quelli che ora sono diventati trumpiani. Quelli che l’avevano detto. Quelli che “bisogna capire cosa c’è dietro questo voto americano”. Non li sopporto. Perché quasi peggio della Clinton ci sono i trumpiani convertiti. I quali ci vogliono spiegare. Non c’è niente da spiegare. Trump con noi non c’entra nulla. La sua vittoria è stata salutare perché ha rotto un percorso perverso, al pari della Brexit; ma per nulla al mondo avrei voglia di avere Trump comandante in capo. Gli americani sono divertenti se li guardi da fuori, per il resto… no grazie. La mia posizione resta quella splendidamente sintetizzata da Vasco: non siamo mica gli americani. La dico tutta: chi s’illude che Trump diventi un supereroe della Marvel, un nuovo Capitan America, secondo me si sbaglia. Trump è un imprenditore americano, è roba loro, ha una testa da americano. Quindi, per quel che mi riguarda, ‘ sti americani se ne restino pure a casa propria. Che poi è l’unico motivo per cui alla fine ho considerato il repubblicano meno peggio della Clinton: perché ha detto che non andrà a rompere le scatole in giro per il mondo. Ecco, sarebbe già qualcosa.Stiamo facendo di tutto per scrollarci di dosso le catene tedesche e vogliamo già indossare di nuovo la giubba americana? E perché? La crisi europea si sta producendo perché i cittadini non hanno più voglia di essere qualcosa d’altro rispetto a quello che sono. L’elemento centrale della disgregazione eurocratica è il senso di identità, il senso di appartenenza. La nostra cultura è ancora pregna di civiltà mediterranea, cioè di un luogo stupendo dove il tempo si è evoluto in storia e la storia è diventata adulta. Quel Mediterraneo è il nostro orgoglio, il nostro punto d’appoggio dove ripartire, è il nostro fulcro dove piazzare la leva e scardinare quanto di stupido questa eurofollia ha materializzato con l’aiuto di imbroglioni travestiti da analisti, esperti o, peggio, da sognatori. L’Europa non sarà mai la nostra casa fintanto che non torna a Canossa, cioè nel suo mar Mediterraneo, crocevia di imbroglioni e geni.Lo scrivo da troppo tempo per poter adesso crogiolarmi nella vittoria di uno che resta lontano anni luce da me. Spero per gli americani che faccia quel bene che ha promesso loro (ho dei dubbi…) ma Trump non è un modello che posso permettermi per ricostruire. Avevamo bisogno del superbowl elettorale per intuire che il ceto medio è in profonda difficoltà? Avevamo bisogno del successo del candidato repubblicano per certificare l’arroganza dell’establishment? O che la gente si è rotta dei politici? Stiamo freschi se così fosse. La crisi del ceto medio è colpa del modello di sviluppo esportato dagli americani, un modello a debito. Noi non siamo gli americani; meno male, aggiungo. Noi siamo qua, in un’altra parte del globo che è un mondo a parte. Un mondo che resta centrale. Che guarda alla sponda americana ma non può fare a meno di escludere il Nordafrica o quel Medio Oriente i cui codici fanno parte della nostra storia (Palermo, Venezia, Ravenna…). E non può fare a meno di intrecciare alleanze con la Russia, più vicina di quanto pensiamo.Noi insomma dovremmo imparare a ributtare lo sguardo su noi stessi. La vittoria di Trump è una occasione d’oro perché indebolisce i burocrati di Bruxelles, la Merkel, toglie alla Francia gauchista quell’alleato stupido che ha incasinato il Maghreb, Libia in testa. Trump rafforza l’asse naturale con la Gran Bretagna così che i britannici post Brexit avranno un mercato privilegiato da opporre ai ricattini di Juncker. Insomma, Trump è il perfetto inciampo che può rimettere in ordine le caselle. E’ quell’impazzimento della politica che rende possibile persino l’impossibile rovesciamento della prima legge dell’entropia.Ma da qui a definirci trumpiani no.(Gianluigi Paragone, “Trump presidente Usa, con il cavolo che mi sento trumpiano!”, dal “Fatto Quotidiano” del 14 novembre 2016).Oddio, già non li sopporto. Quelli che ora sono diventati trumpiani. Quelli che l’avevano detto. Quelli che “bisogna capire cosa c’è dietro questo voto americano”. Non li sopporto. Perché quasi peggio della Clinton ci sono i trumpiani convertiti. I quali ci vogliono spiegare. Non c’è niente da spiegare. Trump con noi non c’entra nulla. La sua vittoria è stata salutare perché ha rotto un percorso perverso, al pari della Brexit; ma per nulla al mondo avrei voglia di avere Trump comandante in capo. Gli americani sono divertenti se li guardi da fuori, per il resto… no grazie. La mia posizione resta quella splendidamente sintetizzata da Vasco: non siamo mica gli americani. La dico tutta: chi s’illude che Trump diventi un supereroe della Marvel, un nuovo Capitan America, secondo me si sbaglia. Trump è un imprenditore americano, è roba loro, ha una testa da americano. Quindi, per quel che mi riguarda, ‘ sti americani se ne restino pure a casa propria. Che poi è l’unico motivo per cui alla fine ho considerato il repubblicano meno peggio della Clinton: perché ha detto che non andrà a rompere le scatole in giro per il mondo. Ecco, sarebbe già qualcosa.
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Renzi presto a casa, ma intanto il lavoro sporco l’ha fatto
Il fenomeno Renzi può essere considerato come la risposta dell’establishment all’ascesa folgorante del M5S: banche, Confindustria, Marchionne, De Benedetti e lo stesso Berlusconi hanno puntato sul ricambio del vecchio gruppo dirigente del Pd ormai logoro e privo di qualsiasi spinta propulsiva. E così è stato creato Renzi il gran Rottamatore, una delle figure più reazionarie del periodo repubblicano. Renzi aveva il compito di fare esattamente quello che hanno fatto Monti e Letta, però doveva sembrare diverso agli occhi della gente perché il tracollo di Monti alle elezioni del 2013 scottava ancora. Renzi è stata una mossa giusta per le élite. Ha retto 3 anni, che è moltissimo per qualcuno incaricato di attuare politiche impopolari. Sparirà probabilmente nel 2018, se non prima, ma ha fatto quello di cui aveva bisogno chi l’ha messo lì: oltre ad aver ricoperto le imprese di incentivi che non sono serviti a rilanciare la nostra economia, ha finalmente spazzato via i diritti dei lavoratori.
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Sconfitta Hillary, non l’oligarchia: chi è Trump si vedrà ora
Donald Trump rischia di essere assassinato? Se lo domanda l’economista e politologo Paul Craig Roberts, già viceministro con Reagan, all’indomani dell’exploit del grande outsider delle presidenziali Usa. La sua più grande paura, scrive su “Information Clearing House”, è che venga semplicemente “spolpato” dalla super-élite che, con l’appoggio dei grandi media, si era schierata con Hillary. Timori condivisi anche in Italia, con svariate sfumature, da personalità provenienti dalla cultura massonica. «Se i poteri che sostenevano Hillary erano così forti, perché hanno perso?», si domanda Gianfranco Carpeoro il 13 novembre in collegamento con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Se ne conclude che non tutti i “poteri forti” stavano con la Clinton: qualcuno ha puntato anche su Trump. Persino elementi della super-massoneria progressista, afferma Gioele Magaldi, intervistato da Claudio Messora su “ByoBlu”: ai nastri di partenza delle primarie repubblicane, Trump è stato visto come il “meno peggio”, sicuramente meno pericoloso di Jeb Bush, terminale della tenebrosa “Hathor Pentalpha”, network della strategia della tensione, fino all’Isis. Eminenze grigie dell’élite progressista dietro a Trump? Niente di strano: «Quando sei in guerra – aggiunge Carpeoro – è molto utile sceglierti il nemico: quello che fa meno paura, che magari farà più errori».Donald Trump potrebbe persino stupirci in positivo, dice Magaldi, per esempio con l’annunciata campagna di opere pubbliche destinare a produrre occupazione su impulso statale, un po’ come fu per il New Deal di Roosevelt. E, in ogni caso, la sferzata dell’elezione di Trump «potrebbe finalmente produrre il “risveglio” del mondo progressista, che ha acceso speranze con Bernie Sanders ma ha bisogno che nasca una nuova leadership, giovane, capace di invertire il corso di questa globalizzazione senza democrazia». Grande preoccupazione, intanto, dalle prime analisi di Craig Roberts, già “editor” del “Wall Street Journal”: se la vittoria di Trump ha clamorosamente demolito il prestigio dell’élite di potere più in vista, dimostrando che «né la classe politica appartenente ai due principali partiti né i mezzi d’informazione godono più di alcuna credibilità presso il popolo americano», resta però da capire se Trump avrà davvero la volontà (e la forza) di mantenere le promesse, e cioè creare posti di lavoro e instaurare relazioni amichevoli con Russia e Cina, Siria e Iran. Come reagirà il “Deep State” clintoniano alla vittoria di Trump? Wall Street e la Federal Reserve «potrebbero provocare una crisi economica per mettere Trump sulla difensiva», mentre Cia e Pentagono «potrebbero causare un attacco sotto falsa bandiera che incrinerebbe le relazioni con la Russia».Evoluzione da seguire passo passo. Il primo: «Trump potrebbe commettere l’errore di includere i neoconservatori nel suo governo». Niente illusioni: «Per quanto Trump abbia sconfitto Hillary, l’oligarchia esiste ancora ed è ancora potente». In altre parole, «tutto dipende da chi sono i consiglieri di Trump e quali suggerimenti gli daranno: quando conosceremo la composizione del suo governo, sapremo se possiamo aspettarci che i cambiamenti, ad oggi solo sperati, divengano realtà». Corollario-horror: «Se l’oligarchia non sarà in grado di controllare Trump, e se Trump avrà davvero successo nel ridurre il potere e i finanziamenti degli apparati militari e della sicurezza e nell’inchiodare Wall Street alle proprie responsabilità politiche, Trump potrebbe perfino essere assassinato». Secondo Craig Roberts, è in corso un durissimo scontro nelle “segrete stanze” del massimo potere: «Le canaglie che si trovano negli apparati militari e della sicurezza potrebbero comunque farcela ad assassinare qualcuno, ma senza i neocon al governo diventerebbe più difficile insabbiare la verità».Quanto a Trump, il neopresidente «conosce e comprende la situazione molto più di quanto i suoi avversari si rendano conto: per un uomo come lui, rischiare di farsi così tanti nemici potenti e mettere a rischio la sua ricchezza e la sua reputazione, significa che sapeva bene che il malcontento della gente verso l’attuale classe dirigente poteva consentirgli di essere eletto presidente». Di fatto, «non sapremo cosa aspettarci» finché non conosceremo l’identità di ministri e viceministri: «Se ritroveremo la solita gente, significa che Trump è stato catturato dal sistema». Unica buona notizia, senza ombre: «Il totale screditamento dei mezzi d’informazione». Hanno perso, nonostante la “guerra” condotta contro Trump: «Il paese li ha completamente ignorati». Attenzione, però: «Hillary è caduta, ma non gli oligarchi». E il super-potere è già al lavoro per rimediare, ammesso che (come suggerisce Carpeoro) non fosse già, in parte, schierato anche col tycoon. «Se a Trump verrà consigliato di essere conciliante, di tendere la mano all’establishment e includerlo nella compagine di governo, il popolo americano rimarrà un’altra volta deluso», avverte Craig Roberts. «In una nazione le cui istituzioni sono stati corrotte così in profondità dall’oligarchia, è difficile concretizzare un reale cambiamento senza spargimenti di sangue».Donald Trump rischia di essere assassinato? Se lo domanda l’economista e politologo Paul Craig Roberts, già viceministro con Reagan, all’indomani dell’exploit del grande outsider delle presidenziali Usa. La sua paura, scrive su “Information Clearing House”, è che venga semplicemente “spolpato” dalla super-élite che, con l’appoggio dei grandi media, si era schierata con Hillary. Timori condivisi anche in Italia, con svariate sfumature, da personalità provenienti dalla cultura massonica. «Se i poteri che sostenevano Hillary erano così forti, perché hanno perso?», si domanda Gianfranco Carpeoro il 13 novembre in collegamento con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Se ne conclude che non tutti i “poteri forti” stavano con la Clinton: qualcuno ha puntato anche su Trump. Persino elementi della super-massoneria progressista, afferma Gioele Magaldi, intervistato da Claudio Messora su “ByoBlu”: ai nastri di partenza delle primarie repubblicane, Trump è stato visto come il “meno peggio”, sicuramente meno pericoloso di Jeb Bush, terminale della tenebrosa “Hathor Pentalpha”, network della strategia della tensione, fino all’Isis. Eminenze grigie dell’élite progressista dietro a Trump? Niente di strano: «Quando sei in guerra – aggiunge Carpeoro – è molto utile sceglierti il nemico: quello che fa meno paura, che magari farà più errori».
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Tsunami Trump, nel panico l’élite del globalismo armato
«L’impossibile è avvenuto. Il Mule, l’incontrollabile, il pazzo, è riuscito a convicere un popolo stordito dalla crisi più di quanto non potesse fare l’esausta icona dell’establishment, la Killary capace di distruggere la Libia senza un piano per tenerla insieme o di chiedere se fosse possibile mandare un drone per far fuouri Julian Assange. Due esempi, tra i tanti, della “democraticità ed equilibrio” che dovevano sbarrare la strada al “populismo”». Così il blog “Contropiano”, a scrutinio americano non ancora concluso ma di fatto, nei numeri, più che consolidato. «E’ stata una vittoria netta. Non solo in termini di superdelegati, ma anche in termini di voti popolari», quasi un milione e mezzo di elettori a favore di Donald Trump, che «ha conquistato tutti i principali Stati-chiave, a partie da quell’Ohio che era un tempo il cuore dell’industria automobilistica Usa e quindi anche della classe operaia». “Contropiano” ricorda che «la disoccupazione reale statunitense è diventata già da 20 anni talmente esplosiva da far entrare anche la classe operaia – prima del 2007, prima dell’esplosione dei mutui subprime e di Lehmann Brothers – nel novero del presunto “ceto medio”».E lo stesso, continua il blog, era avvenuto per molti “farmers”, agricoltori e allevatori, «buzzurri quanto si vuole, ma rovinati progressivamente e irreversibilmente dalla concorrenza globale, fondata su salari da fame incomparabili con quelli Usa». Un’analisi squisitamente socio-economica: «Il lavorio della crisi, che suscita paure, insofferenza, paura del futuro, ha alla fine generato un gigantesco “vaffa” che ora minaccia di attraversare il pianeta come uno tsunami che non conosce ostacoli». Per il newsmagazine, che si definisce “giornale comunista online”, Trump è «il sintomo, il collettore, il terminale inconsapevole e inadeguato di una miriade di contraddizioni persino difficili da elencare». Così, «chi aveva spinto per la “riduzione del danno” – l’establishment di tutti i paesi – ha perso tutto». L’explot di Trump, «se non verrà in qualche modo imbrigliato e depotenziato dagli apparati del potere (statale e finanziario, nazionale e multinazionale), mette in discussione i pilastri della governance globale degli ultimi 70 anni».In altre parole, insiste “Contropiano”, lo storico pronunciamento popolare dei cittadini statnitensi «mette in discussione “l’ordine mondiale” centrato sulla capacità degli Stati Uniti di esercitare egemonia (culturale, politica, economica e soprattutto militare) sul resto del mondo». Un’avvisaglia dello sconvolgimento globale che questo risultato annuncia la si ricava dalle piazze finanziarie asiatiche, le prime ad aprire: yen e euro si rafforzano sul dollaro, il peso messicano precipita (Trump ha condotto una campagna fortemente anti-immigrati dal paese confinante) mentre vola l’oro, bene-rifiugio per eccellenza. L’indice giapponese Nikkei perde il 4,8%, Hong Kong il 2,8 (dopo essere arrivata al -3,4%), Taiwan il 2,7%. Catastrofe annunciata per Wall Street, cioè il vero “fortino” di Hillary Clinton. La cittadella finanziaria di Manhattan, per “Contropiano”, è «la vera sconfitta in queste elezioni».«L’impossibile è avvenuto. Il Mule, l’incontrollabile, il pazzo, è riuscito a convicere un popolo stordito dalla crisi più di quanto non potesse fare l’esausta icona dell’establishment, la Killary capace di distruggere la Libia senza un piano per tenerla insieme o di chiedere se fosse possibile mandare un drone per far fuouri Julian Assange. Due esempi, tra i tanti, della “democraticità ed equilibrio” che dovevano sbarrare la strada al “populismo”». Così il blog “Contropiano”, a scrutinio americano non ancora concluso ma di fatto, nei numeri, più che consolidato. «E’ stata una vittoria netta. Non solo in termini di superdelegati, ma anche in termini di voti popolari», quasi un milione e mezzo di elettori a favore di Donald Trump, che «ha conquistato tutti i principali Stati-chiave, a partie da quell’Ohio che era un tempo il cuore dell’industria automobilistica Usa e quindi anche della classe operaia». “Contropiano” ricorda che «la disoccupazione reale statunitense è diventata già da 20 anni talmente esplosiva da far entrare anche la classe operaia – prima del 2007, prima dell’esplosione dei mutui subprime e di Lehmann Brothers – nel novero del presunto “ceto medio”».
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Putin: chi terremota il mondo vi sta portando via il futuro
«Tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90, c’è stata la possibilità non solo di accelerare il processo di globalizzazione, ma anche di dare ad esso una diversa qualità e renderlo più armonico e sostenibile. Ma alcuni paesi che si vedevano vincitori della Guerra Fredda hanno colto l’occasione per rimodellare l’ordine politico ed economico globale solo per soddisfare i propri interessi». A parlare è il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, di fronte ai 150 rappresentanti di 53 paesi che hanno partecipato alla riunione annuale del Club Valdai, uno dei più prestigiosi spazi internazionali di confronto e analisi tra l’élite economica e culturale russa e quella del resto del mondo. Il discorso di Putin va letto con attenzione perché rappresenta non solo un atto di accusa diretto alle politiche dell’Occidente, ma anche un’analisi realista e in qualche caso ironica di ciò che l’egemonia americana sta imponendo. Questi paesi, ha continuato Putin, «nella loro euforia, hanno sostanzialmente abbandonato dialogo e parità con gli altri attori della vita internazionale, hanno scelto di non migliorare né di creare istituzioni universali, ma di portare il mondo sotto le loro organizzazioni, le loro norme e le loro regole».Putin si scaglia contro l’Occidente, contro le sue guerre umanitarie e i suoi tentativi di esportare la democrazia fuori da una cornice multipolare: le guerre in Serbia, in Iraq, in Afghanistan e in Libia «spesso condotte senza le relative decisioni del Consiglio di Sicurezza Onu»; e poi ancora hanno deciso «di spostare l’equilibrio strategico a proprio favore distaccandosi dal quadro giuridico internazionale che proibisce l’implementazione di nuovi sistemi di difesa missilistica»; hanno «creato gruppi terroristici le cui azioni hanno generato milioni di profughi, e gettato intere regioni nel caos». Putin definisce la “minaccia militare russa” con cui l’Occidente sta costruendo la nuova Guerra Fredda, un «business redditizio da utilizzare per pompare denaro fresco nei bilanci della difesa, espandere la Nato fino ai nostri confini». Il leader russo è categorico: Mosca «non ha intenzione di attaccare nessuno»; pensarlo è «sciocco e irrealistico. I paesi membri della Nato insieme con gli Stati Uniti hanno una popolazione totale di 600 milioni circa; la Russia solo 146. E’ semplicemente assurdo concepire anche tali pensieri».Poi Putin ironizza sulla «isteria degli Stati Uniti circa una presunta ingerenza russa nelle elezioni presidenziali americane»; e rivolgendosi alla platea, «lo chiedo a voi: qualcuno seriamente pensa che la Russia possa in qualche modo influenzare la scelta del popolo americano? Cos’è l’America? Una Repubblica delle Banane o un grande potenza?». Ma la denuncia più violenta di Putin è contro l’élite tecnocratica che sta scippando il valore della sovranità. Nelle democrazie più avanzate «la maggioranza dei cittadini non ha alcuna reale influenza sul processo politico e sul potere». Le persone avvertono «un divario sempre crescente tra i loro interessi e quelli dell’élite che governa i processi». E quando, attraverso le elezioni o i referendum, i cittadini scelgono in maniera diversa rispetto a quello che l’élite vorrebbe, ecco che essa trasforma la volontà popolare in “anomalia” o immaturità o incapacità di scegliere. E ciò che in maniera sprezzante viene definito populismo, per Putin è «gente comune, cittadini che stanno perdendo fiducia nella classe dirigente».Sembra che le élite non vedano il dissesto profondo nella società e «l‘erosione della classe media, mentre allo stesso tempo, esse impiantano ideologie distruttive per l’identità culturale e nazionale». Putin avverte: «E’ la sovranità la nozione centrale di tutto il sistema delle relazioni internazionali. Il rispetto per essa e il suo consolidamento contribuirà a sottoscrivere la pace e la stabilità sia a livello nazionale e internazionale». Quello di Putin è un monito a chi si diverte a disegnare un nuovi ordini mondiali sulla pelle di nazioni e popoli; un avvertimento agli alchimisti della finanza globale e ai guerrafondai umanitari che alimentano le rivoluzioni colorate, le guerre civili e il terrorismo per generare il caos funzionale ai propri progetti egemonici. Quella di Putin è l’analisi realista della deriva dell’Occidente ed una prospettiva anche per l’Europa: disegnare un sistema multipolare che metta «fine alla divisione del mondo in vincitori e vinti permanenti». L’unica speranza per scongiurare una crisi internazionale senza ritorno.(Giampaolo Rossi, “Putin il realista”, dal blog “L’Anarca” su “Il Giornale” del 2 novembre 2016).«Tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90, c’è stata la possibilità non solo di accelerare il processo di globalizzazione, ma anche di dare ad esso una diversa qualità e renderlo più armonico e sostenibile. Ma alcuni paesi che si vedevano vincitori della Guerra Fredda hanno colto l’occasione per rimodellare l’ordine politico ed economico globale solo per soddisfare i propri interessi». A parlare è il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, di fronte ai 150 rappresentanti di 53 paesi che hanno partecipato alla riunione annuale del Club Valdai, uno dei più prestigiosi spazi internazionali di confronto e analisi tra l’élite economica e culturale russa e quella del resto del mondo. Il discorso di Putin va letto con attenzione perché rappresenta non solo un atto di accusa diretto alle politiche dell’Occidente, ma anche un’analisi realista e in qualche caso ironica di ciò che l’egemonia americana sta imponendo. Questi paesi, ha continuato Putin, «nella loro euforia, hanno sostanzialmente abbandonato dialogo e parità con gli altri attori della vita internazionale, hanno scelto di non migliorare né di creare istituzioni universali, ma di portare il mondo sotto le loro organizzazioni, le loro norme e le loro regole».
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Parise: il rimedio è la povertà, un tesoro di conoscenza
Il nostro paese si è abituato a credere di essere (non ad essere) troppo ricco. A tutti i livelli sociali, perché i consumi e gli sprechi livellano e le distinzioni sociali scompaiono, e così il senso più profondo e storico di “classe”. Noi non consumiamo soltanto, in modo ossessivo: noi ci comportiamo come degli affamati nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante. Lo spettacolo dei ristoranti di massa (specie in provincia) è insopportabile. La quantità di cibo è enorme, altro che aumenti dei prezzi. La nostra “ideologia” nazionale, specialmente nel Nord, è fatta di capannoni pieni di gente che si getta sul cibo. La crisi? Dove si vede la crisi? Le botteghe di stracci (abbigliamento) rigurgitano, se la benzina aumentasse fino a mille lire tutti la comprerebbero ugualmente. Si farebbero scioperi per poter pagare la benzina. Tutti i nostri ideali sembrano concentrati nell’acquisto insensato di oggetti e di cibo. Si parla già di accaparrare cibo e vestiti. Questo è oggi la nostra ideologia. E ora veniamo alla povertà. Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà non è “comunismo”, come credono i miei rozzi obiettori di destra.Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l’automobile, le motociclette, le famose e cretinissime “barche”. Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione.Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi. Tutto il nostro paese, che fu agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose perché non ha più povertà.Il nostro paese compra e basta. Si fida in modo idiota di Carosello (vedi Carosello e poi vai a letto, è la nostra preghiera serale) e non dei propri occhi, della propria mente, del proprio palato, delle proprie mani e del proprio denaro. Il nostra paese è un solo grande mercato di nevrotici tutti uguali, poveri e ricchi, che comprano, comprano, senza conoscere nulla, e poi buttano via e poi ricomprano. Il denaro non è più uno strumento economico, necessario a comprare o a vendere cose utili alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e avarizia. No, è qualcosa di astratto e di religioso al tempo stesso, un fine, una investitura, come dire: ho denaro, per comprare roba, come sono bravo, come è riuscita la mia vita, questo denaro deve aumentare, deve cascare dal cielo o dalle banche che fino a ieri lo prestavano in un vortice di mutui (un tempo chiamati debiti) che danno l’illusione della ricchezza e invece sono schiavitù. Il nostro paese è pieno di gente tutta contenta di contrarre debiti perché la lira si svaluta e dunque i debiti costeranno meno col passare degli anni.Il nostro paese è un’enorme bottega di stracci non necessari (perché sono stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori. Si mettano bene in testa gli obiettori di sinistra e di destra, gli “etichettati” che etichettano, e che mi scrivono in termini linguistici assolutamente identici, che lo stesso vale per le ideologie. Mai si è avuto tanto spreco di questa parola, ridotta per mancanza di azione ideologica non soltanto a pura fonia, a flatus vocis ma, anche quella, a oggetto di consumo superfluo. I giovani “comprano” ideologia al mercato degli stracci ideologici così come comprano blue jeans al mercato degli stracci sociologici (cioè per obbligo, per dittatura sociale). I ragazzi non conoscono più niente, non conoscono la qualità delle cose necessarie alla vita perché i loro padri l’hanno voluta disprezzare nell’euforia del benessere. I ragazzi sanno che a una certa età (la loro) esistono obblighi sociali e ideologici a cui, naturalmente, è obbligo obbedire, non importa quale sia la loro “qualità”, la loro necessità reale, importa la loro diffusione.Ha ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia. Esiste, nel nauseante mercato del superfluo, anche lo snobismo ideologico e politico (c’è di tutto, vedi l’estremismo) che viene servito e pubblicizzato come l’élite, come la differenza e differenziazione dal mercato ideologico di massa rappresentato dai partiti tradizionali al governo e all’opposizione. L’obbligo mondano impone la boutique ideologica e politica, i gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita del grand marché aux puces ideologico e politico di questi anni. Oggi, i più snob tra questi, sono dei criminali indifferenziati, poveri e disperati figli del consumo. La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per necessità. So di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione di se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare un oggetto perché la qualità della sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona.Per le ideologie vale la stessa regola. Scegliere una ideologia perché è più bella (oltre che più “corretta”, come dice la linguistica del mercato degli stracci linguistici). Anzi, bella perché giusta e giusta perché conosciuta nella sua qualità reale. La divisa dell’Armata Rossa disegnata da Trotzky nel 1917, l’enorme cappotto di lana di pecora grigioverde, spesso come il feltro, con il berretto a punta e la rozza stella di panno rosso cucita a mano in fronte, non soltanto era giusta (allora) e rivoluzionaria e popolare, era anche bella come non lo è stata nessuna divisa militare sovietica. Perché era povera e necessaria. La povertà, infine, si cominci a impararlo, è un segno distintivo infinitamente più ricco, oggi, della ricchezza. Ma non mettiamola sul mercato anche quella, come i blue jeans con le pezze sul sedere che costano un sacco di soldi. Teniamola come un bene personale, una proprietà privata, appunto una ricchezza, un capitale: il solo capitale nazionale che ormai, ne sono profondamente convinto, salverà il nostro paese».(Goffredo Parise, estratto da “Il rimedio è la povertà”, articolo pubblicato sul “Corriere della Sera” il 30 giugno 1974, poi incluso nell’antologia “Dobbiamo disobbedire” curata da Silvio Perrella per Adelphi e quindi ripreso da “Globalist” il 28 agosto 2015).Il nostro paese si è abituato a credere di essere (non ad essere) troppo ricco. A tutti i livelli sociali, perché i consumi e gli sprechi livellano e le distinzioni sociali scompaiono, e così il senso più profondo e storico di “classe”. Noi non consumiamo soltanto, in modo ossessivo: noi ci comportiamo come degli affamati nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante. Lo spettacolo dei ristoranti di massa (specie in provincia) è insopportabile. La quantità di cibo è enorme, altro che aumenti dei prezzi. La nostra “ideologia” nazionale, specialmente nel Nord, è fatta di capannoni pieni di gente che si getta sul cibo. La crisi? Dove si vede la crisi? Le botteghe di stracci (abbigliamento) rigurgitano, se la benzina aumentasse fino a mille lire tutti la comprerebbero ugualmente. Si farebbero scioperi per poter pagare la benzina. Tutti i nostri ideali sembrano concentrati nell’acquisto insensato di oggetti e di cibo. Si parla già di accaparrare cibo e vestiti. Questo è oggi la nostra ideologia. E ora veniamo alla povertà. Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà non è “comunismo”, come credono i miei rozzi obiettori di destra.
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Noi, i Buoni: da Berlinguer a Renzi, tra santità e salvezza
Quando Occhetto annunciò, nella sorpresa generale, che aveva deciso di cambiar nome al partito, il politologo Aldo Giannuli, allora esponente dell’estrema sinistra, esternò le sue perplessità «a un amico militante più che ortodosso del Pci e che, con uguale ortodossia aderiva alla nuova linea». L’amico, ricorda Giannuli, proruppe in un “Ma tu allora non sei anti-Pci, tu sei anti-Noi!”. E ricordò una battuta di “Cuore”, l’allora supplemento satirico dell’“Unità”, nella quale Montanelli diceva in un telegramma: “Confermato il suffisso anti, per il seguito aspettiamo il nuovo nome del partito”. «Dunque – dice oggi Giannuli – c’era un “noi” che prescindeva dall’identità comunista e che le era sottostante», un “noi” che «poteva chiamarsi in qualsiasi altro modo ma che restava uguale a se stesso». Il Pci era in pieno mutamento ideologico, dalla connotazione “comunista” sempre meno certa; «Ma, che quell’identità fosse diventata una sorta di giacca intercambiabile con tanta indifferenza, era cosa tale da sorprendere anche chi, come me, aveva sempre dubitato dell’identità comunista del Pci». Eppure, proprio da lì si può leggere la parabola che porta fino al Pd renziano, sostenuta in modo fideistico dai discepoli del “noi”, la strana chiesa.La cosa era sconcertante, continua Giannuli ripensando allo “strappo” di Occhetto, perché il Pci era il partito con la più radicata ed esibita identità ideologica, unico con scuole di partito, diffusissime riviste ideologiche e frequentissime liturgie celebrative del comunismo sovietico: almeno sino al 1981 era regolarmente celebrata la ricorrenza rivoluzionaria del 7 novembre. Com’era possibile che tutto questo si dissolvesse come un gelato a ferragosto? «Ben presto si capì che, con la sua tradizionale disciplina, il popolo comunista avrebbe ratificato a larga maggioranza la svolta. Questo era possibile solo ad una condizione: che sotto la “pelle” comunista ci fosse un’altra identità, quella sì, davvero radicata». Anche se ci fu la scissione di Rifondazione Comunista (e quella, silenziosa, di centinaia di migliaia di iscritti che non rinnovarono la tessera senza però aderire a nessun’altra formazione politica), nel complesso la maggioranza degli iscritti seguì disciplinatamente il gruppo dirigente. In nome di cosa? «Mi posi il problema di capire a quale “noi” si stava rivolgendo Occhetto – continua Giannuli – quando esortò tutti gli iscritti a non temere la svolta perché “sarebbero rimasti gli stessi di sempre”».Certo, il Pci aveva assorbito settori delle più diverse culture politiche (socialisti riformisti e massimalisti, cattolici, liberali, azionisti, persino anarchici o sinistra fascista) amalgamando tutto in una base ideologica genericamente “socialista”, ma non si trattava di quello: a essere determinante «non era l’irrompere di culture politiche altre che, per anni, avevano covato sotto la cenere comunista», perché, se così fosse stato, «avremmo assistito ad una esplosione, una diaspora». Invece, «si trattava di un flusso ordinatissimo: le sezioni cambiavano la targa all’ingresso con la massima naturalezza, gli iscritti si adattavano rapidamente al nuovo linguaggio e ai nuovi simboli», e la routine – le feste, il tesseramento – riprendeva come se nulla fosse. Il cambio di nome era solo «un astutissimo espediente tattico per superare la conventio ad excludendum e andare finalmente al governo», pensò qualcuno. «Ma la maggioranza capì perfettamente che non si trattava solo di questo e fu ben lieta di togliersi di dosso quel nome troppo pesante da portare». Quello che reggeva tutto, sottolinea Giannuli, «era quel “noi” che cercavo di identificare».Cos’era, in realtà, quell’ostentata allusione a un’identità collettiva? «Ben presto capii che era il frutto del racconto che il partito aveva fatto della sua storia: il “popolo comunista” era l’unica vera sinistra possibile, la parte migliore del paese, quella immune da scandali e corruzione e caricata di una “missione storica”, quella di “salvare l’Italia”», scrive oggi Giannuli. «L’identità comunista era stata funzionale a questo disegno ma, almeno dal 1956 (se non dal 1944) non corrispondeva ad un particolare indirizzo ideologico». Lo dimostra il fatto che, a un certo punto, scomparve dallo statuto il riferimento al marxismo: «Insomma, non era affatto indispensabile essere comunisti per aderire al Pci». D’altra parte, prosegue il politologo, «la leggenda del “comunismo italiano” diverso da tutti gli altri (in parte vera ma in parte no) venne ripetuta all’infinito, sino a cancellare tanto la radice comunista quanto anche solo quella socialista, lasciando solo il senso di appartenenza ad un soggetto che si sentiva chiamato a “salvare l’Italia” perché diverso e migliore di tutti gli altri italiani (la “diversità comunista” di Berlinguer, ricordate?), anche se la perdita della cultura di origine faceva sì che non si sapesse più da cosa si dovesse salvare il paese e come». Voilà: «La nuova identità era nuda ideologicamente, nutrita solo da una autocelebrazione ormai priva di senso. Era la “chiesa”, che è santa anche quando ha perso memoria delle sue origini e del messaggio evangelico da cui era sorta».Quando Occhetto annunciò, nella sorpresa generale, che aveva deciso di cambiar nome al partito, il politologo Aldo Giannuli, allora esponente dell’estrema sinistra, esternò le sue perplessità «a un amico militante più che ortodosso del Pci e che, con uguale ortodossia aderiva alla nuova linea». L’amico, ricorda Giannuli, proruppe in un “Ma tu allora non sei anti-Pci, tu sei anti-Noi!”. E ricordò una battuta di “Cuore”, l’allora supplemento satirico dell’“Unità”, nella quale Montanelli diceva in un telegramma: “Confermato il suffisso anti, per il seguito aspettiamo il nuovo nome del partito”. «Dunque – dice oggi Giannuli – c’era un “noi” che prescindeva dall’identità comunista e che le era sottostante», un “noi” che «poteva chiamarsi in qualsiasi altro modo ma che restava uguale a se stesso». Il Pci era in pieno mutamento ideologico, dalla connotazione “comunista” sempre meno certa; «Ma, che quell’identità fosse diventata una sorta di giacca intercambiabile con tanta indifferenza, era cosa tale da sorprendere anche chi, come me, aveva sempre dubitato dell’identità comunista del Pci». Eppure, proprio da lì si può leggere la parabola che porta fino al Pd renziano, sostenuta in modo fideistico dai discepoli del “noi”, la strana chiesa.
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Astri e radon, prevenire il sisma? Al business non conviene
Prevenire i terremoti? E’ possibile, probabilmente. Ma è inutile contarci: al business, semplicemente, non conviene. Molto meglio l’affare della ricostruzione: frutta tre volte tanto. Idem, in piccolo, la fornitura dei sismografi, appaltata «a precise “famiglie”, vicine alla protezione civile». La denuncia porta la firma dell’avvocato Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, ospite della trasmissione web-radio “Border Nights” del 1° novembre, insieme a Stefano Gagliardi e Stefano Calandra, due ricercatori “fai da te”, ormai popolarissimi dopo le previsioni – azzeccate – del sisma di Norcia, basate sulla lettura del cielo. Prevedere i terremoti è possibile, sostengono: il rischio si innalza se aumenta l’allineamento dei pianeti. Non è possibile capire dove il terremoto avverrà? Su questo è forse più preciso il fisico Giampaolo Giuliani, celebre per l’allerta (ignorata) sul terremoto dell’Aquila. Giuliani rileva una stretta relazione fra il terremoto in arrivo e l’aumento della presenza di gas radon nel sottosuolo. Emarginato in Italia, Giuliani oggi lavora in California, dove sta monitorando la Faglia di Sant’Andrea, nonché in Giappone e a Taiwan. L’Italia? Niente da fare: da noi si resta all’antico, usando il solo sismografo.«E’ come se, decenni fa, avessimo preteso di debellare la malaria impiegando ottimi termometri», commentano amaramente Gagliardi e Calandra: il sismografo si limita infatti a valutare l’entità del sisma, così come il termometro misura solo la febbre del paziente. «La speranza in un mondo nuovo dove si possono prevedere i terremoti questa volta è da decifrare nelle cifre minime delle congiunzioni più silenziose, in una scienza più affine al popolo Maya che agli umani del terzo millennio», scrive Emanuela Fontana sul “Giornale”, presentando la ricerca di Gagliardi e Calandra. Allineamenti planetari e terremoti: la teoria è allo studio anche in Grecia, e impazza sui social network in Italia dalla sera del 26 ottobre. Nel suo blog, Calandra segnala gli allineamenti dei pianeti e i possibili movimenti delle faglie terrestri. Il post più sconcertante lo ha scritto il 25 ottobre, preceduto da una segnalazione del 18: «26/10 sera-notte. L’affollamento di coincidenze di pianeti in linea a 0 gradi di scarto, ben 10 come numero di eventi, essendo una situazione mai vista, fa pensare ad un potenziale rischio sismico molto alto, quasi massimo, da quel 24/8 del terremoto di Amatrice in poi».Veniva indicata un’area generica, quella «Mediterranea», e una fascia oraria più delicata per il 26, dalle 17.30 alla mezzanotte. Le scosse sono avvenute come scritto il 26 ottobre, a distanza di due ore, con potenza in incremento e nella fascia oraria segnalata. Siamo ancora nel campo delle supposizioni, ammette lo stesso Calandra: «Queste previsioni – scrive – costituiscono solo delle ipotesi pseudoscientifiche, derivanti da un modello teorico troppo giovane per essere comprovato al 100%». Un modello matematico ancora “acerbo”, che va integrato con le mappe sismiche e con gli studi sull’aumento di gas radon nel sottosuolo per circoscrivere le aree di rischio. Importanti conferme stanno comunque giungendo dalla Grecia, aggiunge il “Giornale”: «Su 109 grandi terremoti analizzati dal 2004, 102 sarebbero avvenuti in occasione di un allineamento di almeno tre pianeti». Il problema maggiore, a monte? «In Italia, nessuno prenderà seriamente in considerazioni queste indicazioni», sostiene Carpeoro, che nel 2009 – come direttore editoriale del magazine “Area di Confine”, diretto da Ennio Piccaluga – spedì inviati speciali all’Aquila per seguire il caso-Giuliani.Carpeoro denuncia la presenza di interessi così forti da mettere in pericolo chi cerca di lavorare sulla prevenzione dei terremoti: «E’ stato deciso, da chi “conta”, che l’intera ricerca sui terremoti deve essere fondata sui sismografi – e questo per interessi precisi, aziendali, familiari: ci sono parenti stretti di pezzi grossi della protezione civile che forniscono allo Stato i sismografi e, business ancora più redditizio, ne curano la manutenzione». In Italia gli unici apparecchi di rilevazione sono i sismografi, «perché queste aziende devo prosperare». A questi si aggiungono gli interessi edilizi: i costruttori «hanno bloccato l’investimento di messa in sicurezza delle case, perché la ricostruzione frutta quasi il triplo della ricostruzione». Un «magma, tipicamente italico», a cui si aggiunge «una sorta di arretratezza culturale», anche da parte di chi è in buona fede: «Abbiamo una diffidenza naturale nei confronti di chi si pone in maniera alternativa rispetto alla ricerca: non c’è niente da fare, questo paese è fatto così, non riusciamo a uscire da questo modo di ragionare. Appena uno apre la bocca gli si chiede “ma tu che titoli hai?”, e non si entra nel merito di quello che dice».La ricerca di Gagliardi e Calandra sul rapporto tra astrofisica e terremoto? «Mi può fare solo piacere», conclude Carpeoro, «perché siamo talmente ottusi, nella ricerca ufficiale, che – se non si inserisce una ricerca non-ufficiale – non verrà fatto un passo». Ovvero: «Serve una ricerca non-ufficiale, che faccia fare un po’ di figure di palta a questi paludati tromboni». I giovani ricercatori? Sono «persone di buoma volontà». Devono «tenersi in contatto tra loro e non contare molto su aiuti provenienti dall’esterno, perché – per motivi economici e culturali – non ne avranno». Carpeoro ricorda che, quando Giuliani andò da Giuseppe Zamberletti, il capo della protezione civile, questi lo mise in contatto col geologo Enzo Boschi, il quale «lo prese a pernacchie, deridendolo e offendendolo», nonostante proponesse – attraverso il monitoraggio del radon per mezzo di sonde – la possibilità di prevedere i terremoti. «Questo è il loro modo di comportarsi, e io penso che questi non siano scienziati», aggiunge Carpeoro. «La prima qualità che deve avere uno scienziato è la capacità di dubitare anche di se stesso, se no non è uno scienziato: è il contrario di uno scienziato. Lo scienziato che consideri i suoi risultati quasi definitivi, anziché provvisori, non è uno scienziato».Prevenire i terremoti? E’ possibile, probabilmente. Ma è inutile contarci: al business, semplicemente, non conviene. Molto meglio l’affare della ricostruzione: frutta tre volte tanto. Idem, in piccolo, la fornitura dei sismografi, appaltata «a precise “famiglie”, vicine alla protezione civile». La denuncia porta la firma dell’avvocato Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, ospite della trasmissione web-radio “Border Nights” del 1° novembre, insieme a Stefano Gagliardi e Stefano Calandra, due ricercatori “fai da te”, ormai popolarissimi dopo le previsioni – azzeccate – del sisma di Norcia, basate sulla lettura del cielo. Prevedere i terremoti è possibile, sostengono: il rischio si innalza se aumenta l’allineamento dei pianeti. Non è possibile capire dove il terremoto avverrà? Su questo è forse più preciso il fisico Giampaolo Giuliani, celebre per l’allerta (ignorata) sul terremoto dell’Aquila. Giuliani rileva una stretta relazione fra il terremoto in arrivo e l’aumento della presenza di gas radon nel sottosuolo. Emarginato in Italia, Giuliani oggi lavora in California, dove sta monitorando la Faglia di Sant’Andrea, nonché in Giappone e a Taiwan. L’Italia? Niente da fare: da noi si resta all’antico, usando il solo sismografo.