Archivio del Tag ‘crollo’
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Paura: il sole va in letargo, sta arrivando un’era glaciale
Caro presidente Obama, si copra bene: farà freddo, freddissimo, per almeno trent’anni. Lo sostiene John Casey, già climatologo della Nasa, ora direttore di un centro studi di Orlando, la “Space and Science Research Corporation”. L’allarme: l’attività del sole sta rapidamente cambiando, la comparsa di nuove macchie solari lascia presagire un nuovo “grande inverno” per il pianeta, a partire dal 2015-2016, con conseguenze devastanti, fenomeni di assideramento di massa e addirittura il crollo del 50% della produzione alimentare a causa del collasso dell’agricoltura terrestre. E’ il drammatico contenuto della lettera che lo scienziato ha rivolto al capo della Casa Bianca già lo scorso aprile. Oggetto: “Richiesta di preparare gli Stati Uniti per un pericoloso clima freddo”. Casey chiede di prendere «provvedimenti immediati per garantire che gli Stati Uniti d’ America siano pronti per lo storico e potenzialmente pericoloso clima freddo, che sta per arrivare». Ma il problema non era il global warming, il surriscaldamento? Sì, fino a ieri. Da oggi, l’allarme è di segno opposto: neve, gelo, temperature sotto zero. A partire dai prossimi mesi.Casey cita le ricerche condotte negli ultimi decenni sulle cause del cambiamento climatico. «Il periodo passato del riscaldamento globale è un fenomeno naturale, prodotto principalmente dal Sole, ed è finito», scrive il climatologo nella sua lettera a Obama, ripresa dal blog “Daltonsminima”. «Sono oltre diciassette anni che non viene registrata alcuna effettiva crescita delle temperature atmosferiche globali in troposfera. Ironia della sorte, questo significa che, mentre per la maggior parte del tempo la comunità internazionale ha avuto a che fare con il riscaldamento globale, quest’ultimo, non c’era! E’ quindi importante accettare che il riscaldamento globale è finito». Non c’è più alcun riscaldamento globale, sostiene Casey. «La terra – scrive – è in fase di raffreddamento da diversi anni, come gli oceani negli ultimi undici anni e l’atmosfera per la maggior parte del tempo». Dei 24 parametri climatici monitorati dalla Ssrc, la “Space and Science Research Corporation”, registrati in report trimestrali, ben 18 di essi «mostrano un raffreddamento globale come tendenza dominante». Quanto ai restanti 6, «si stanno convertendo verso lo stato di raffreddamento, entro i prossimi cinque anni».Lo scienziato dichiara che il livello del mare ha già iniziato a calare, dove alcune aree oceaniche stanno diventando più fredde. Il centro ricerche coordinato da Casey prevede una una riduzione globale del livello del mare della durata di 30 anni, «che inizierà in qualsiasi momento tra quest’anno e il 2020». Se queste tendenze cambiassero, il centro studi sarebbe il primo a segnalarlo, dice Casey. «Tuttavia, sulla base delle temperature globali effettive e i modelli climatici più affidabili, c’è una sola conclusione da effettuare sullo stato attuale clima della Terra: un nuovo clima freddo è arrivato». Se questa “nuova era glaciale” procedesse come negli episodi passati (circa 200 e 400 anni fa), secondo Casey «dovremmo aspettarci di vedere notevoli danni alle colture a livello mondiale, sconvolgimenti sociali e politici e la perdita della vita». Secondo gli studiosi, questi effetti catastrofici «potrebbero iniziare presto e durare almeno tre decenni». Casey aggiunge che abbiamo poco tempo per prepararci: «Gli scienziati russi si sono spinti fino a parlare di una nuova “Piccola era glaciale” che inizierà quest’anno», il che significa che «il clima freddo, che avanza, è una grave minaccia per la nostra gente».Secondo gli studiosi americani, il nuovo clima freddo verrebbe imposto alla Terra «da un ripetuto ciclo, di 206 anni, del sole». Casey l’aveva già annunciato nel 2007. «Anche se molti altri ricercatori hanno scoperto questo ciclo o previsto un clima freddo in arrivo, sono stati ignorati», scrive lo scienziato, nella sua lettera a Obama. «La fase di freddo, di questo lungo ciclo di due secoli, è prodotto dalla riduzione drammatica dell’energia con la quale il sole scalda la terra». Lo chiamano “letargo solare”. Ed è stato confermato dalla Nasa, dall’aviazione Usa e dal “National Solar Observatory”: parlano di “declino in corso dell’attività solare”. «La ricerca relativa su questi letarghi solari – aggiunge Casey – mostra anche che si verificano in concomitanza con i terremoti e le eruzioni vulcaniche più distruttive, l’ultima delle quali può portare drammaticamente ad un clima già freddo».Potenzialmente devastanti le conseguenze dello choc climatico sulla popolazione, a cominciare dalle categorie più esposte: «Credo che gli afro-americani, altre minoranze e i poveri soffriranno di più, per la nuova era fredda e le vostre politiche climatiche», scrive Casey al presidente Usa. «Questa affermazione è supportata dal fatto che una grande percentuale di questi cittadini sono in gran parte dipendenti dal governo degli Stati Uniti, per il cibo, che inizierà a diminuire, come il freddo comicerà a danneggiare le colture». Senza adeguate contromisure governative, avverte lo scienziato, «saremo impreparati e incapaci di procurarci il cibo di routine, durante gli anni peggiori del clima freddo in arrivo». Inutile aggiungere che ci sarà un’impennata dei costi dell’energia, micidiale soprattutto per i più poveri. Casey rimprovera a Obama di aver “creduto alla teoria del surriscaldamento globale”. E gli rinfaccia la responsabilità per l’incolumità di 317 milioni di cittadini americani di fronte al “grande freddo” che, giura, sta davvero per arrivare.Caro presidente Obama, si copra bene: farà freddo, freddissimo, per almeno trent’anni. Lo sostiene John Casey, già climatologo della Nasa, ora direttore di un centro studi di Orlando, la “Space and Science Research Corporation”. L’allarme: l’attività del sole sta rapidamente cambiando, la comparsa di nuove macchie solari lascia presagire un nuovo “grande inverno” per il pianeta, a partire dal 2015-2016, con conseguenze devastanti, fenomeni di assideramento di massa e addirittura il crollo del 50% della produzione alimentare a causa del collasso dell’agricoltura terrestre. E’ il drammatico contenuto della lettera che lo scienziato ha rivolto al capo della Casa Bianca già lo scorso aprile. Oggetto: “Richiesta di preparare gli Stati Uniti per un pericoloso clima freddo”. Casey chiede di prendere «provvedimenti immediati per garantire che gli Stati Uniti d’ America siano pronti per lo storico e potenzialmente pericoloso clima freddo, che sta per arrivare». Ma il problema non era il global warming, il surriscaldamento? Sì, fino a ieri. Da oggi, l’allarme è di segno opposto: neve, gelo, temperature sotto zero. A partire dai prossimi mesi.
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Escobar: a crollare non è la Cina, ma il delirio neoliberista
Le azioni sui mercati di Shanghai/Shenzhen hanno perso un roboante 150% nei 12 mesi prima di metà giugno. I piccoli investitori – che compongono circa l’80% del mercato – erano convinti che la festa non avrebbe mai avuto fine e spesso hanno richiesto grossi prestiti per spingere nel magna magna del “diventare ricchi è glorioso”. Una correzione è stata necessaria, scrive Pepe Escobar. Quelle azioni – che avevano raggiunto un picco dopo una crescita durata 7 anni – erano ovviamente ipervalutate. Sommate al fatto che tutti i dati mostrano un rallentamento dell’economia cinese, il risultato era facilmente prevedibile: Shanghai e Shenzhen hanno perso tutto ciò che avevano guadagnato nel 2015 – una vendita di massa globale studiata a tavolino. «Persino famosi miliardari hanno perso montagne di denaro in un batter di ciglia», annota Escobar su “Rt”, in una nota ripresa da “Come Don Chisciotte”. «Benvenuti nella nuova normalità cinese, o il nostro (miserabile) mondo nuovo».La secca correzione a Shanghai/Shenzhen è parte della fine di un ciclo, chiarisce Escobar: diciamo pure addio alla Cina che faceva affidamento su tassi di investimento pari al 45% del Pil, e diciamo addio anche alla insaziabile richiesta cinese di beni. Il problema dell’aggiustamento del modello economico cinese, osserva il giornalista, è direttamente connesso all’ininterrotto stato comatoso del disordine neoliberale, che si protrae fin dal 2007/2008. «Non serve essere Paul Krugman per sapere che la nuova normalità è un mercato globale anemico: una crisi profonda in tutti i mercati emergenti, la stagnazione con recessione dell’Europa e la “fabbrica del mondo” cinese che non riesce a vendere quanto faceva prima. Nel frattempo, l’ipervalutato dollaro Usa sta uccidendo le esportazioni statunitensi, scese del 3% nel solo primo semestre. Anche le importazioni sono calate del 2.2%, il che dimostra la riduzione del potere d’acquisto della classe media, dovuta alla corrosione strutturale dell’economia statunitense».Ovunque ci si volti, continua Escobar, tutto lo scenario strutturale grida alla crisi del disordine neoliberale: «Quando il motore turbo-capitalista cinese incontra problemi, si dimostra palesemente come il casinò della finanza mondiale non abbia alcun tipo di supporto da nessun altra parte». Infatti, più di 5 trilioni di dollari di denaro virtuale sono stati bruciati da quando Pechino ha (moderatamente) svalutato lo yuan l’11 di agosto – innescando la vendita di massa. «Ora la Fed potrebbe posticipare alla fine del 2015 l’innalzamento dei tassi d’interesse, per la prima volta in quasi 10 anni. Nessuno si azzarda a predire uno scenario di rosea crescita, considerando la forza del dollaro, lo yuan moderatamente svalutato e una continua discesa dei prezzi del greggio». Eppure, «contrariamente a quanto sostengono le previsioni/speranze dell’Occidente, la Cina non sta implodendo». Lo dimistrano le ultime analisi diffuse da Credit Suisse: «La Cina continua ad avere un surplus molto ‘in salute’, le sue riserve di capitali sono ancora parzialmente bloccate e le sue maggiori istituzioni finanziarie sono in larga parte di proprietà dello Stato».Questi fattori, aggiunge la banca svizzera, darebbero alle autorità monetarie di Pechino lo spazio di azione per creare liquidità nel sistema, in caso ce ne fosse bisogno. Ciò che accade è che «la crescita strutturale della Cina continuerà a rallentare nei prossimi anni». Non ci sarà un «innesco del crollo del credito», e quindi «il sistema finanziario e il regime di cambio potrebbero essere mantenuti relativamente stabili». Tuttavia, sperare che gli introiti e i guadagni delle imprese cinesi ritornino ai livelli di alcuni anni fa «non è realistico». Ma, essenzialmente, «la paura di un ripetersi del crollo dei mercati asiatici del 1997 o della crisi mondiale del 2008 non è giustificata». In conclusione, Credit Suisse invita a mantenere la calma: «Gli investitori dovrebbero concentrarsi maggiormente sulle azioni dei mercati cinesi e di Hong Kong che hanno forti micro-fondamentali e sono meno dipendenti dalla crescita economica cinese, ma che sono state affossate dalla recente debolezza dei mercati».Quindi, dal punto di vista di Pechino, tutto è abbastanza sotto controllo. «Ancora una volta: in termini globali, quest’ultima bolla del casinò della finanza non è nemmeno lontanamente paragonabile alla crisi finanziaria asiatica del 1997/1998. Piuttosto, continuano a persistere i segnali di una ininterrotta e ricorrente debolezza dei mercati considerata la nuova normalità, da affiancare al rifiuto categorico da parte di Wall Street di dare una forte regolamentazione alla finanza», scrive Escobar. La palla ora è nel campo della Fed: cosa fare riguardo lo tsunami delle valute straniere che fanno salire il dollaro, rendendo non competitiva l’industria statunitense? L’era delle banche centrali che stampano valuta virtuale a basso costo, per conferire “volatilità del mercato”, potrebbe non essere finita. «Le banche centrali adorano mandare al rialzo i prezzi dei mercati azionari per il beneficio dello 0.0001%, per cui aspettiamoci altre delusioni in futuro, con la certezza che tutto ciò che è solido evaporerà, insieme al sogno neoliberale».Le azioni sui mercati di Shanghai/Shenzhen hanno perso un roboante 150% nei 12 mesi prima di metà giugno. I piccoli investitori – che compongono circa l’80% del mercato – erano convinti che la festa non avrebbe mai avuto fine e spesso hanno richiesto grossi prestiti per spingere nel magna magna del “diventare ricchi è glorioso”. Una correzione è stata necessaria, scrive Pepe Escobar. Quelle azioni – che avevano raggiunto un picco dopo una crescita durata 7 anni – erano ovviamente ipervalutate. Sommate al fatto che tutti i dati mostrano un rallentamento dell’economia cinese, il risultato era facilmente prevedibile: Shanghai e Shenzhen hanno perso tutto ciò che avevano guadagnato nel 2015 – una vendita di massa globale studiata a tavolino. «Persino famosi miliardari hanno perso montagne di denaro in un batter di ciglia», annota Escobar su “Rt”, in una nota ripresa da “Come Don Chisciotte”. «Benvenuti nella nuova normalità cinese, o il nostro (miserabile) mondo nuovo».
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Foa: il tedesco chiagne e fotte (e intanto si pappa la Grecia)
La notizia della vendita di 14 aeroporti greci a una società tedesca, la Fraport, sta suscitando indignazione; eppure non dovrebbe stupire. Noi siamo abituati a mitizzare i tedeschi, a farci intimidire dal loro rigore morale e – da quando il senso di colpa per l’Olocausto è evaporato – anche dal loro senso di superiorità. In realtà sbagliamo e dovremmo cominciare a giudicare le élites tedesche – perché il popolo, come sempre, c’entra poco – per quello che sono. E soprattutto per i loro difetti. Il primo è la superbia: quando il tedesco di successo (e di potere) troppo spesso diventa sprezzante e non sa darsi il senso della misura. L’empatia, il senso delle proporzioni e dell’equilibrio, quel buon senso che induce gli uomini di successo più avveduti a non esagerare, riflettendo i principi di Sun Tzu, scompare. Il tedesco non si accontenta di vincere, deve stravincere e possibilmente schiacciare l’avversario; non concepisce alcuna attenuante né comprensione umana ma soltanto il raggiungimento dei propri obiettivi, in sintonia con la propria concezione morale, che naturalmente coincide con i propri interessi e non contempla né gli interessi né le spiegazioni degli altri, per quanto possano essere fondati.La relatività morale delle élite tedesche è una costante storica, e tra l’altro spiega molti crimini dei tedeschi ai tempi dei nazisti. Ma non solo. Se analizziamo la storia recente ci accorgiamo che questo atteggiamento è ricorrente. Nel suo splendido saggio “Anschluss – L’annessione”, Vladimiro Giacché dimostra come l’unificazione tedesca non abbia condotto al salvataggio della ex Ddr da parte della Repubblica federale tedesca, bensì a una spoliazione del tessuto industriale ed economico della Germania dell’est da parte delle aziende dell’Ovest in sintonia con il sistema bancario e la classe politica, secondo modalità che definire immorali è persino riduttivo. Allora andò in scena un grande furto collettivo, roba da Casta all’ennesima potenza (altro che Italia!), che di fatto trasformò in un insuccesso economico e sociale quello che avrebbe dovuto essere un processo di integrazione economica. La grande ruberia, naturalmente, non fu denunciata dalla stampa e non fu oggetto di commissioni di inchiesta.Il costo sociale fu scaricato sui länder dell’est, che da allora non si sono più ripresi, e quello economico sui conti dello Stato e, indirettamente su tutta l’Europa, che a causa di quella pessima gestione sprofondò, all’inizio degli anni Novanta, in una lunga recessione. Le élites tedesche non hanno mai pagato alla Grecia i debiti di guerra, sostenendo per oltre 50 anni che “non era il momento”. I tedeschi che con tanta irruenza hanno giudicato la Grecia di oggi, dipingendola come corrotta, inaffidabile, indolente, sono gli stessi che le hanno venduto armamenti per miliardi e che coprono, per legge, la corruzione delle proprie aziende all’estero, inclusa Atene (vedi lo scandalo Siemens); sono coloro che un paio di anni fa hanno permesso alle proprie banche di liberarsi del debito pubblico greco, scaricandolo sui contribuenti europei, con un’operazione che ancora una volta fu presentata come un salvataggio naturalmente del popolo greco.I tedeschi non hanno mai messo la Grecia nelle condizioni di risollevarsi veramente ma, d’accordo con la Troika, l’hanno caricata di tasse, balzelli, “riforme” che hanno avuto come unico effetto quello di far crollare del 25% il Pil greco. Le hanno cavato un paio di litri di sangue e poi le hanno detto: non sei abbastanza in forma, devi correre più veloce. Non ti dai abbastanza da fare, devi dare altro sangue. Naturalmente avanzando pretese morali e continuando a incolpare il popolo greco nel suo insieme. A Napoli direbbero che la Germania “chiagne e fotte”. Il fottuto oggi è la Grecia. Oggi. E domani?(Marcello Foa, “Il tedesco chiagne e fotte, e intanto si compra la Grecia”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 19 agosto 2015).La notizia della vendita di 14 aeroporti greci a una società tedesca, la Fraport, sta suscitando indignazione; eppure non dovrebbe stupire. Noi siamo abituati a mitizzare i tedeschi, a farci intimidire dal loro rigore morale e – da quando il senso di colpa per l’Olocausto è evaporato – anche dal loro senso di superiorità. In realtà sbagliamo e dovremmo cominciare a giudicare le élites tedesche – perché il popolo, come sempre, c’entra poco – per quello che sono. E soprattutto per i loro difetti. Il primo è la superbia: quando il tedesco di successo (e di potere) troppo spesso diventa sprezzante e non sa darsi il senso della misura. L’empatia, il senso delle proporzioni e dell’equilibrio, quel buon senso che induce gli uomini di successo più avveduti a non esagerare, riflettendo i principi di Sun Tzu, scompare. Il tedesco non si accontenta di vincere, deve stravincere e possibilmente schiacciare l’avversario; non concepisce alcuna attenuante né comprensione umana ma soltanto il raggiungimento dei propri obiettivi, in sintonia con la propria concezione morale, che naturalmente coincide con i propri interessi e non contempla né gli interessi né le spiegazioni degli altri, per quanto possano essere fondati.
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Casa, tasse, debiti: ecco come l’euro ha spolpato gli italiani
Beniamino Andreatta spiegava nel 1995 perchè bisognava liberarsi della lira e affidare la politica monetaria a qualcuno “a duemila chilometri dal Parlamento italiano”, cioè a Francoforte. Il discorso di Andreatta è lineare, semplice che lo capisce anche la casalinga e ha una sua logica che convince. E’ sostanzialmente quello a cui aderiscono ancora oggi la maggioranza dei professori di economia italiani, da Monti a Draghi (che una volta era professore) a Gianpaolo Galli, a Rainer Masera, a Riccardo Puglisi, a Tommaso Monacelli a Michele Boldrin, Alberto Bisin, Salvatore Brusco. Il succo del discorso è che la lira è una moneta soggetta a svalutazione e inflazione e quindi comporta un costo del denaro molto elevato, perchè appunto chi presta soldi in lire sa che poi queste si svaluteranno e quindi chiede tassi di interesse alti. Andreatta dice che, liberandosi della lira, i tassi di interesse si ridurranno del 4% e questo costo del denaro più basso consentirà più spesa e investimenti.Ora che sono passati venti anni è più facile vedere l’errore di Andreatta. Nel 1995 i tassi di interesse erano in effetti alti sui Btp, e gli interessi sul debito pubblico si mangiavano il 10% del Pil e il 18% della spesa pubblica. Ma questi alti tassi venivano pagati per il 90% a famiglie (e imprese) italiane. Con l’euro, la maggioranza degli interessi sono andati a investitori esteri (che sono arrivati a detenere la maggioranza dei Btp). Oggi la maggioranza dei titoli di Stato sono in mano a banche, banche centrali e investitori esteri. E gli italiani che avevano Btp nel 1995 dove hanno messo i soldi? In maggioranza negli immobili, che sono raddoppiati di prezzo in termini reali da allora. Semplificando un poco, prima dell’euro, una casa costava 200 milioni di lire e i Btp pagavano un 10%, per cui le famiglie incassavano queste cedole e quando compravano casa avevano i soldi anche senza fare mutui all’80%. Con l’euro le famiglie hanno venduto i Btp e comprato case che costavano 200.000 euro (il doppio) facendo mutui all’80%, case che poi si sono deprezzate e su cui ora pagano l’Imu.Con l’euro il debito di famiglie e imprese è aumentato di più del 100%, da 900 a 2.000 miliardi, e come si sa il grosso dell’aumento è stato dovuto ai mutui per la casa. Tenendo conto dell’inflazione annuale, il debito privato è aumentato dal 90% circa al 130% circa del Pil. Questo è successo in praticamente tutti i paesi europei, dalla Finlandia alla Spagna, dalla Grecia all’Irlanda alla Francia (unica eccezione la Germania). Dal 1995, quando Andreatta parlava di liberarsi della lira, l’inflazione è scesa dal 6-7% al 2-3% negli anni dell’euro, quindi di un 3-4% (quasi come prevedeva Andreatta). Poi però l’inflazione è scesa anche sotto zero, e ora è circa uno 0%. I tassi sui Bot sono sprofondati allo 0% e quelli sui Btp all’1,8%. Il motivo però non è solo l’euro, ma anche e soprattutto il fatto che ora la Banca Centrale Europea e Bankitalia STANNO STAMPANDO MONETA PER COMPRARE BTP stanno stampando moneta per comprare Btp. Cioè stanno ora facendo esattamente quello che Andreatta diceva fosse la disgrazia della lira e che non sarebbe mai successo con l’euro. Se la banca centrale non stampasse moneta per comprare debito, il costo del Btp non sarebbe meno del 2%, ma probabilmente il 4 o 5% perchè incorporerebbe il rischio di default.Come mai? Perché con l’euro la produzione industriale è crollata in cinque anni del -25% e la spesa per consumi del -9% e così il Pil reale. Il motivo del crollo della produzione, del reddito e del Pil è che da quando è stato lanciato il progetto dell’euro, intorno al 1994-1995, la tassazione è diventata sempre più soffocante e ha costretto famiglie e imprese a indebitarsi. La tassazione è stata aumentata costantemente dai governi Amato, Ciampi, Dini e poi Prodi e anche Berlusconi, per finire con Monti per rientrare nei parametri dell’euro e poi per rassicurare gli investitori che il debito pubblico in euro sarebbe stato ripagato. Le cose sono andate in senso quasi opposto a quello che prevedeva Andreatta. Innanzitutto nel suo discorso non menzionava il costo REALE DEL DENARO reale del denaro, cioè il tasso d’interesse meno l’inflazione. Nel 1995 il costo reale era sul 4% perchè appunto i tassi d’interesse erano alti (intorno al 10%), ma anche l’inflazione era alta (intorno al 6%). Oggi questo costo del denaro non è quasi cambiato; per lo Stato ad esempio il costo medio del debito è il 3,8% ma l’inflazione è zero, quindi il costo reale è sempre intorno al 4%.Che il costo del denaro sia sceso con l’euro è un illusione, perchè se l’inflazione va da 6% a 0% ovviamente il costo reale non cala. Intanto però come si è visto si è accumulato molto più debito in percentuale del reddito, perchè senza crescita e senza inflazione il reddito o prodotto nazionale in euro è sempre lo stesso ormai da 10 anni. Il debito però ha un costo annuale reale appunto del 4% anche adesso che lo fa salire come percentuale del reddito. Per cui il risultato finale è che il peso reale del debito rispetto al reddito aumenta ora sempre. Al tempo in cui parlava Andreatta (1995) il peso reale del debito non aumentava, perchè sia il reddito reale che l’inflazione aumentavano, il Pil nominale dell’Italia aumentava in media negli anni ‘90 dell’8-10% l’anno, in cui per 3/4 era effetto dell’inflazione, ma questo impediva al debito di aumentare in proporzione.Il discorso di Andreatta è errato essenzialmente perchè per lui è come se il debito e le banche non esistessero e la moneta la creasse lo Stato quando spende troppo. In realtà, con l’euro si vieta allo Stato di creare moneta tramite i deficit, per cui le banche creano quasi tutto il denaro sotto forma di debito. Con Andreatta (e gli altri come lui) si è impedito allo Stato di fare deficit finanziati con moneta, qualcosa che è stato implementato in Italia in due stadi, prima nel 1981 vietando a Bankitalia di comprare debito e poi appunto con il Trattato di Maastricht. Questo è il principio base dell’euro, ma significa che devi anche aumentare le tasse per pagare gli interessi sul debito in euro, e in secondo luogo che tutto il denaro lo creano le banche come debito. Questo fa aumentare il peso del debito, rallenta l’economia, crea anche deflazione, aumenta ancora il peso del debito, aumenta il rischio di default e poi inevitabilmente devi anche aumentare le tasse con l’austerità per garantire dal rischio di default.Con l’euro si è creato un meccanismo in cui il debito privato aumenta fino al punto in cui si ha una crisi, le banche hanno perdite e riducono il credito, l’economia si ferma, l’inflazione si azzera, aumenta il peso reale del debito, aumenta il rischio di default, si impone l’austerità. E questo circolo vizioso di aumento del peso reale del debito, aumento di tassazione, deflazione e crisi non si ferma più. Ora, nell’ultimo anno qualcosa è effettivamente migliorato, ma perchè? Perchè la Banca Centrale Europea e Bankitalia stanno stampando moneta per comprare debito, riducendone sia il costo che l’ammontare. Cioè stanno facendo ora, nel 2015, quello che Andreatta nel 1995 diceva fosse il male dell’Italia, per evitare il quale ci si doveva liberare della lira. La conclusione è che abbiamo perso 20 anni e subito una crisi devastante perchè si è cercato di impedire che lo Stato facesse quello che deve fare, cioè creare moneta in quantità sufficiente perchè l’economia funzioni.(“Beniamino Andreatta 1995, liberiamoci della lira”, da “MonetAzione” del 31 luglio 2015Beniamino Andreatta spiegava nel 1995 perchè bisognava liberarsi della lira e affidare la politica monetaria a qualcuno “a duemila chilometri dal Parlamento italiano”, cioè a Francoforte. Il discorso di Andreatta è lineare, semplice che lo capisce anche la casalinga e ha una sua logica che convince. E’ sostanzialmente quello a cui aderiscono ancora oggi la maggioranza dei professori di economia italiani, da Monti a Draghi (che una volta era professore) a Gianpaolo Galli, a Rainer Masera, a Riccardo Puglisi, a Tommaso Monacelli a Michele Boldrin, Alberto Bisin, Salvatore Brusco. Il succo del discorso è che la lira è una moneta soggetta a svalutazione e inflazione e quindi comporta un costo del denaro molto elevato, perchè appunto chi presta soldi in lire sa che poi queste si svaluteranno e quindi chiede tassi di interesse alti. Andreatta dice che, liberandosi della lira, i tassi di interesse si ridurranno del 4% e questo costo del denaro più basso consentirà più spesa e investimenti.
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Questa sinistra che obbedisce agli atroci macellai tedeschi
«Abbiamo guardato increduli a come un partito socialista dopo l’altro si sia immolato sull’altare dell’unione monetaria, per difendere un progetto che favorisce quelle élites economiche che la sinistra storica chiamava “un branco di banchieri”». Ambrose Evans-Pritchard, notista economico del “Telegraph”, spiega che ormai il velo è caduto, perché la Grecia ha rotto l’incantesimo: «La sinistra è diventata il gendarme delle politiche reazionarie e della disoccupazione di massa generate dall’euro». Se l’Europa non è nient’altro che la “versione cattiva” del Fmi, «che cosa resta del progetto d’integrazione europea? I tedeschi, peraltro, volevano solo la “sottomissione rituale” della Grecia». Punizione a cui, peraltro, la sinistra non si è sottratta: ancora una volta, i leader socialdemocratici sono stati sorpresi a «difendere un regime pro-ciclico di tagli di bilancio, imposto all’Eurozona da un manipolo di reazionari “ordoliberisti”, come ad esempio il ministro delle finanze tedesco».Se la Germania è «una guida disastrosa per l’Europa», come afferma l’economista Philippe Legrain, già redattore di “Foreign Policy”, «per uno strano scherzo del destino, la sinistra ha lasciato che essa stessa diventasse il gendarme di una struttura economica che ha portato a livelli di disoccupazione una volta impensabili per un governo social-democratico, dotato di una propria moneta e di tutti gli strumenti sovrani». La sinistra europea, continua Evans-Pritchard, «ha trovato il modo per giustificare un tasso di disoccupazione giovanile che, nonostante l’emigrazione di massa, è ancora al 42% in Italia, al 49% in Spagna e al 50% in Grecia, e ha accettato la “Lunga Depressione” degli ultimi sei anni, più profonda di quella del 1929-1935. Ha infine docilmente approvato il “Fiscal Compact” dell’Ue, sapendo che esso obbliga i paesi dell’Eurozona a ridurre drasticamente il loro debito pubblico, ogni anno, del 1,5% del Pil in Francia, del 2% in Spagna e del 3,5% in Italia ed in Portogallo, per i prossimi due decenni. Una formula per la depressione permanente, che vieta qualsiasi politica economica di tipo keynesiano», violando anche «i principi dell’economia classica».Questo, continua Evans-Pritchard, «è ciò che la sinistra prima ha concordato e poi difeso, seppur a malincuore, perché non ha osato mettere in discussione, almeno fino ad ora, la sacralità dell’unione monetaria». E così, quello che una volta era il potente “Partito Laburista Olandese”, è ormai ridotto ad una specie di pietosa reliquia del passato. Anche il Pasok è stato letteralmente cancellato, in Grecia, mentre il “Partito Socialista Spagnolo” ha perso la sua ala sinistra in favore del movimento ribelle “Podemos”, da poco vittorioso a Barcellona. Il leader socialista francese François Hollande, infine, raggiunge a stento, nei sondaggi, il 24%, dopo che la classe operaia francese si è spostata in direzione del “Front National”. Owen Jones, sul “Guardian”, scrive giustamente che «i progressisti dovrebbero essere sconvolti dalla rovina della Grecia per mano dell’Unione Europea. E’ giunto il momento di appoggiare la causa degli euroscettici».Gli esponenti della sinistra sono a disagio, continua Jones: «Il loro istinto è quello di contrastare tutto ciò che l’Ukip rappresenta», ma ora «la crudeltà mostrata sia da Bruxelles che da Berlino ha surclassato tutto il resto». Per George Monbiot, «il “tutto va bene” (con l’Ue) è in ritirata, mentre il “tutto va male” avanza come una furia». E un’altra giornalista britannica, Suzanne Moore, si domanda: «Come può la sinistra aver dato il proprio supporto a tutto quello che è stato fatto?». Conclude amaramente il collega Nick Cohen: «L’Unione Europea viene dipinta, non senza fondamento, come un’istituzione crudele, fanatica e stupida». Dibattiti di questo tenore stanno prendendo piede in tutta Europa, conferma Evans-Pritchard, citando l’economista Luigi Zingales, consigliere di Renzi, convertitosi all’euroscetticismo. Il giorno in cui la Grecia ha capitolato ha scritto: «Questo progetto europeo è morto per sempre. Se l’Europa è nient’altro che la versione cattiva del Fmi, che cosa resta del progetto d’integrazione europea?».In Grecia, “Syriza” è stata «semplicemente costretta ad abbandonare le sue promesse elettorali, per mezzo della coercizione finanziaria», scrive Evans-Pritchard. La colpa? «Una responsabilità collettiva dei creditori, delle élites dell’Unione Monetaria, dell’oligarchia greca e infine di un immaturo Alexis Tsipras». Il bail-out (salvataggio esterno) effettuato dalla Troika nel 2010 «aveva lo scopo di salvare l’euro e le banche europee (visto che non c’erano difese contro il contagio), non quello di salvare la Grecia che, al contrario, è stata deliberatamente sacrificata». In più, i paesi creditori (Germania in primis) «non hanno mai riconosciuto la propria colpevolezza», inoltre «non hanno mai tentato di negoziare onestamente con Syriza». Si sono limitati a chidere che i termini del memorandum 2010 fossero applicati alla lettera, «indipendentemente dal fatto che avessero o meno un senso economico», e lo hanno fatto in modo feroce e ipocrita, «nascondendosi dietro a farisaici discorsi sulle regole». Yanis Varoufakis, l’ex ministro delle finanze, ha ripetuto che i creditori volevano una vera e propria “sottomissione rituale”, «ed è così che gli eventi sono decisamente sembrati ad un gran numero di persone in tutt’Europa».I paesi creditori hanno quindi forzato la situazione «attraverso l’infame trattativa» cui è stato sottoposto Tsipras, «senza peraltro offrire alcuna chiara riduzione del debito, anche se già sapevano che il Fmi riteneva che la Grecia avesse bisogno sia di una moratoria di 30 anni sulle scadenze del debito». La durezza dell’Ue a gida tedesca allarma Simon Tilford, del “Centre for European Reform”: «Quello che trovo preoccupante è che sono così pochi i politici tedeschi che sembrano turbati dallo spettacolo di una Grecia umiliata fino a questo punto. I tedeschi hanno sviluppato un racconto di fantasia riguardo la crisi. Hanno trasformato il paesaggio intorno a loro e pensano che siano essi ad essere le vittime». Secondo Tilford, è devastante l’assenza politica della sinistra: in Italia, Spagna e Francia, la sinistra è da anni aggrappata all’illusione che la Germania avrebbe infine accettato di alleviare l’austerità e di cambiare l’unione monetaria. «Questo pensiero è stato totalmente screditato dagli eventi dello scorso fine settimana. Tutti possono vedere, in effetti, a quali brutali livelli si trovi la disoccupazione. Se le regole dell’Eurozona non possono essere rispettate, prima si va in quarantena e poi si viene buttati fuori».Non dimentichiamo, aggiunge Evans-Pritchard, che la Bce di Mario Draghi «ha portato la Grecia fin quasi al crollo finale, conseguenza del congelamento della liquidità d’emergenza (Ela) per le banche greche, costringendo Syriza a chiudere le porte ai creditori, ad imporre controlli sui capitali e infine a fermare le importazioni». Tutto questo, aggiunge Pritchard, «viola i principi dell’”Unione Bancaria Europea”, che dovrebbero separare i destini delle banche private dai travagli degli Stati sovrani. E’ stata una decisione politica, probabilmente illegale, condita da una forte aggressività tecnica. E’ in ogni caso molto difficile da conciliare con il dovere della Bce, che è quello di sostenere la stabilità finanziaria». In realtà, «sappiamo tutti cosa c’era in gioco». Ovvero: «La Germania e i suoi alleati erano determinati a fare di Syriza un esempio, per scoraggiare gli elettori di qualsiasi altro paese a voler invertire il sistema». Evans-Pritchard pensa che, alla fine, gli oligarchi perderanno il braccio di ferro: i paesi europei riusciranno a ribellarsi. In Spagna, “Podemos” ha accusato le istituzioni dell’Ue e il governo spagnolo di aver commesso un “atto di terrorismo”, in violazione del codice penale spagnolo.Per Costas Lapavitsas, deputato di Syriza, il messaggio saliente degli ultimi cinque mesi è che nessun governo radicale può perseguire delle politiche sovrane, fintanto che è in balia di una banca centrale in grado di tagliare in qualsiasi momento la liquidità: «Adesso è perfettamente chiaro che l’unica via d’uscita è quella di liberarsi dell’unione monetaria». Kevin O’Rourke, economista di Oxford, prevede che il prossimo partito di sinistra che andrà a sfidare l’unione monetaria «non sarà irresponsabile come Syriza, e non contratterà più da una posizione di tale abietta debolezza». La lezione che può essere tratta da questa débacle? Semplice: «Negoziare con la Germania è una perdita di tempo. Ma, se si vuol farlo, si deve essere disposti ad agire con decisione e unilateralmente; si deve disporre di un piano per il raggiungimento di un avanzo primario (se non è già stato raggiunto); si devono avere in tasca le opzioni sia per un duro default unilaterale che per la fuoriuscita dall’euro, ed essere disposti ad usarle al primo segno di fastidio da parte della Bce».Quanto alla trucida Germania, che altro dire? «E’ davvero di così cattivo gusto ricordare che le “Potenze Alleate” decisero di spazzar via la metà delle passività esterne della Germania, nell’ambito dell’accordo sul debito raggiunto a Londra nel febbraio del 1953?». Quell’atto di saggezza politica arrivò a meno di otto anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dell’occupazione nazista della Grecia, quando le immagini degli orrori erano ancora fresche nella mente di tutti. «La riduzione del debito ha avuto un certo costo per la Gran Bretagna, che era il più grande creditore nel periodo precedente la guerra», spiega Evans-Pritchard. «La riduzione fu convenuta nel rispetto dell’interesse collettivo e della scienza economica, e fu volutamente inquadrata nell’ambito di una “trattativa tra eguali”, per sgomberare la nebbia costituita dai giudizi morali. Il risultato fu il Wirtschaftswunder (miracolo economico) tedesco e gli anni di gloria della ricostruzione post-guerra». Quindi, «qualunque cosa si possa pensare del comportamento della Grecia – che non ha fatto del male a nessuno – non possiamo usare giusto un minimo di buon senso?».«Abbiamo guardato increduli a come un partito socialista dopo l’altro si sia immolato sull’altare dell’unione monetaria, per difendere un progetto che favorisce quelle élites economiche che la sinistra storica chiamava “un branco di banchieri”». Ambrose Evans-Pritchard, notista economico del “Telegraph”, spiega che ormai il velo è caduto, perché la Grecia ha rotto l’incantesimo: «La sinistra è diventata il gendarme delle politiche reazionarie e della disoccupazione di massa generate dall’euro». Se l’Europa non è nient’altro che la “versione cattiva” del Fmi, «che cosa resta del progetto d’integrazione europea? I tedeschi, peraltro, volevano solo la “sottomissione rituale” della Grecia». Punizione a cui, peraltro, la sinistra non si è sottratta: ancora una volta, i leader socialdemocratici sono stati sorpresi a «difendere un regime pro-ciclico di tagli di bilancio, imposto all’Eurozona da un manipolo di reazionari “ordoliberisti”, come ad esempio il ministro delle finanze tedesco».
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Macché Grecia, Deutsche Bank esposta per 70.000 miliardi
Il problema non sono i soldi, sono gli “schiavi”: i greci, e con loro tutti noi “prigionieri” dell’Eurozona. La crisi ellenica assume i caratteri di una tragica farsa, con Tsipras che indice il referendum e il giorno dopo annulla il “no” proponendo lui stesso le misure-capestro della Troika? «La cosa che mi fa ridere è che tutta ’sta mucchia di cefali con l’insegnante di sostegno che sono praticamente tutti quelli che parlano della Grecia, vi fanno credere che il problema sono i debiti della Grecia verso creditori come Germania, Italia, Bce», scrive Paolo Barnard, proponendo di dare un’occhiata ai numeri: «La Grecia deve alla Germania 56 miliardi di euro, che sono 1/62esimo del Pil tedesco. E il ministro delle finanze tedesco Schaeuble fa un putiferio, come se perdere quegli spiccioli rovinasse la Germania. Però sta zitto, muto, bocca cucita, sul fatto che la sola Deutsche Bank ha il culo esposto a scommesse sui derivati per… SETTANTAMILA miliardi di euro. Basta che ne perda una frazione e la sberla che si beccano i tedeschi sarebbe 200 volte il debito Grecia-Germania». E allora non è questione di soldi, insiste Barnard: la posta in gioco è «non permettere alla Grecia di rompere il Tritaumani che Parigi e Berlino inventarono per rederci schiavi: la moneta unica».Cifre che sfuggono, regolarmente, alle analisi sui media mainstream. «L’eroe di cartone Yanis Varoufakis – continua Barnard – fu dimesso da ministro delle finanze greche (fonte “Financial Times”) quasi due mesi fa a una riunione dell’Ecofin a Riga, il 24 aprile. Fu un incontro simpatico, dove gli fu detto che era “un principiante, un cretino, un povero scemo, e che avrebbe vissuto poco”». Barnard, autore de “Il più grande crimine” (saggio-profezia sulla catastrofe dell’Eurozona) ricorda che lo stesso Varoufakis non ascoltò il suo consiglio (“chiama Warren Mosler della Me-Mmt a dirigere la Greekexit”), preferendo ricorrere all’economista Jamie Galbraith, troppo “vicino” alle grandi agenzie finanziarie mondiali per poter scommettere davvero sul ripristino della sovranità monetaria, traguardo verso il quale, invece, Mosler ha approntato tappe precise (un paracadute sociale, per uscire senza troppi scossoni dall’euro e rimettere in moto l’economia proprio grazie alla moneta nazionale). Varoufakis? E’ inutile che oggi faccia l’eroe, dice Barnard: è stato “licenziato” a Riga da Peter Kazimir, ministro delle finanze slovacco presente all’incontro, perché «non aveva una cazzo di idea su come salvare la sua gente. Io gliel’avevo data». Il mediatico Yanis? «Ignorante, economista da Topolino».«Come ho già scritto duemila volte, la storia della Grecia è una farsa», sostiene Barnard. La “notizia dell’anno” è un’altra: «Il dinosauro cinese è impazzito, è fuori controllo», e soprattutto «è vivo e mostriosamente pericoloso». Motivo: «Pechino ha voluto negli ultimi 10 anni seguire i consigli dei Chicago Boys, cioè vai con la tua atomica a tutta potenza sull’export (lo stesso che vorrebbero i “cago boys” italiani per l’Italia, cioè Borghi, Bagnai, Rinaldi), ma ora il gioco dell’export cinese, come sempre fu previsto dalla Mosler Economics, si è rotto. Con bassa crescita, crollo dei salari reali e della domanda interna (tutti tipici dell’export), la Cina sta soffrendo il più colossale, cataclismatico e micidiale assets-run della storia umana». Ovvero: «Gli investitori stanno svendendo tutto ciò che hanno comprato di cinese alla velocità del lampo, dai Corporate Bonds alle azioni, soprattutto azioni, titoli di Stato, riso cantonese, bastoncini, grappa alla rosa, ciabattine». Le perdite complessive per la Cina «sono arrivate in meno di due mesi a tremila miliardi di dollari solo in azioni! Immaginate il resto». Cina, dunque, non Grecia: «Quando il dinosauro cinese impazzisce e non mangia più come e quanto prima, noi non gli vendiamo più come prima, il petrolio crolla in prezzo, i minerali pure». Tuto questo, mentre la Grecia di Tsipras sembra consegnarsi definitivamente al suicidio a rate progettato dalla Troika.Il problema non sono i soldi, sono gli “schiavi”: i greci, e con loro tutti noi “prigionieri” dell’Eurozona. La crisi ellenica assume i caratteri di una tragica farsa, con Tsipras che indice il referendum e il giorno dopo annulla il “no” proponendo lui stesso le misure-capestro della Troika? «La cosa che mi fa ridere è che tutta ’sta mucchia di cefali con l’insegnante di sostegno che sono praticamente tutti quelli che parlano della Grecia, vi fanno credere che il problema sono i debiti della Grecia verso creditori come Germania, Italia, Bce», scrive Paolo Barnard, proponendo di dare un’occhiata ai numeri: «La Grecia deve alla Germania 56 miliardi di euro, che sono 1/62esimo del Pil tedesco. E il ministro delle finanze tedesco Schaeuble fa un putiferio, come se perdere quegli spiccioli rovinassero la Germania. Però sta zitto, muto, bocca cucita, sul fatto che la sola Deutsche Bank ha il culo esposto a scommesse sui derivati per… settantamila miliardi di euro. Basta che ne perda una frazione e la sberla che si beccano i tedeschi sarebbe 200 volte il debito Grecia-Germania». E allora non è questione di soldi, insiste Barnard: la posta in gioco è «non permettere alla Grecia di rompere il Tritaumani che Parigi e Berlino inventarono per rederci schiavi: la moneta unica».
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Pura ferocia, ecco l’Ue: spietata, contro il pallido Tsipras
Consenti alla finanza privata di impadronirsi della moneta e quindi del debito pubblico degli Stati? Vietato stupirsi, dopo, gli se esattori rivogliono tutto indietro, con gli interessi. Sul “Guardian”, l’ex ministro delle finanze ellenico Yanis Varoufakis denuncia «la testarda ostinazione» dei creditori nel rifiutarsi di concedere una sostanziale riduzione del debito, in barba a «qualsiasi normale prassi bancaria», che consiglierebbe di «non accanirsi contro i debitori in difficoltà». Di “normale”, in realtà, in Europa non c’è più nulla, dal momento in cui – col Trattato di Maastricht – proprio la “prassi bancaria” ha sostituito l’interesse pubblico, basato sul governo sovrano della moneta per evitare che lo Stato cada nelle mani di creditori privati, i veri padroni della scena, che manovrano politici-fantoccio e istituzioni comunitarie create solo per proteggere il business finanziario a spese delle comunità nazionali. L’altra notizia è che i paesi europei non insorgano in favore dei greci: nessun governo si ribella, le piazze europee non sono gremite di bandiere greche. E i sondaggi rivelano che 7 tedeschi su 10 danno ragione al super-falco Schaeuble, l’uomo dei diktat, l’esecutore fiduciario dei banchieri.Alla sopravvivenza economica della Grecia, scrive Varoufakis, l’Ue ha preferito «il salvataggio delle banche francesi e tedesche esposte sul debito pubblico ellenico». Nulla di così strano: l’anomalia, semmai, consiste nel fatto che il debito statale di Atene sia stato finanziato da banche private, attraverso la moneta privata chiamata euro. L’austerity che ha devastato la Grecia, facendone crollare il Pil del 25%, serviva solo a “rifondere” le banche straniere, non certo a risollevare l’economia di Atene. «Una volta che questa sordida operazione è stata completata, l’Europa si è subito inventata un altro motivo per rifiutarsi di discutere la ristrutturazione del debito: andava a colpire le tasche dei cittadini europei! E quindi – continua Varoufakis – venivano somministrate dosi ancora maggiori di austerità, mentre il debito cresceva spingendo i creditori a erogare nuovi prestiti in cambio di altra austerità».Il governo Tsipras, continua l’ex ministro, è stato eletto «per porre fine a questo circolo vizioso, per esigere un haircut del debito e mettere fine all’austerità». Mission impossible, ovviamente, sotto il regime euro-Ue: Syriza, invece, si è fatta eleggere raccontando ai greci che sarebbe stato possibile passare all’inferno al paradiso, pur restando nell’Eurozona. Il resto sono dettagli: «Le trattative – racconta Varoufakis – si sono arenate nella ben nota impasse per una semplice ragione: i nostri creditori continuavano a negare qualsiasi ristrutturazione, mentre allo stesso tempo esigevano che il nostro debito, che non è pagabile, fosse rimborsato “parametricamente” dalle fasce più deboli della popolazione greca, dai loro figli e dai loro nipoti». In realtà, il debitro sovrano non è mai “pagabile”, non lo è mai stato e non deve esserlo: il debito del Giappone rappresenta il 250% del Pil ma non è un problema, perché lo Stato – padrone della sua moneta – è in grado di sostenerlo in qualsiasi momento. Nell’Eurozona, invece, si “deve” ricorrere al denaro dei banchieri, che non concedono prestiti a scopo di beneficenza.Lo stesso Varoufakis ricorda che, nella sua prima settimana da ministro, il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem (l’Eurogruppo è l’assemblea dei ministri delle finanze europei) lo mise «brutalmente» messo di fronte a un ultimatum: «Accettare la logica dei bailout e rinunciare a ogni pretesa di ristrutturazione, altrimenti il nostro accordo sui nuovi prestiti sarebbe stato cancellato – con l’implicita conseguenza non detta che le nostre banche avrebbero dovuto chiudere». Dopo cinque mesi di trattative, eccoci al redde rationem: le “istituzioni” europee, guidate da Merkel e Schaeuble, impongono a Tsipras di rimangiarsi tutto, per screditarlo di fronte ai greci, dopo l’intollerabile sfida democratica del referendum contro l’austerity. Nel 2010, ricorda ancora Varoufakis, la minaccia della Grexit «nel 2010 spaventava a morte gli investitori finanziari perché le loro banche erano piene zeppe di debito greco». E ancora nel 2012, «nonostante Wolfgang Schaeuble ritenesse che i costi della Grexit avrebbero avuto il vantaggio di disciplinare la Francia e gli altri, la prospettiva continuava a creare grandi preoccupazioni». Quando invece Syriza è andata al potere a gennaio scorso, «a conferma del fatto che i bailout non hanno realmente lo scopo di salvare la Grecia (ma piuttosto quello di costruire una muraglia cinese attorno al nord Europa), una larga maggioranza dell’Eurogruppo – sotto la tutela di Schaeuble – ha considerato la Grexit come l’esito più favorevole e l’ha adoperata come minaccia contro il nostro governo».Varoufakis sostiene che i greci, «giustamente», hanno «i brividi al pensiero di essere amputati dall’unione monetaria». Il problema è proprio l’euro, «una moneta completamente controllata da creditori ostili alla ristrutturazione del nostro insostenibile debito nazionale». Per uscire dall’euro, secondo l’ex ministro, «dovremmo inventarci una valuta dal nulla: nell’Iraq occupato c’è voluto un anno per introdurre nuove banconote, circa 20 Boeing 747, la mobilitazione di tutta la potenza militare americana, tre stabilimenti per stampare il denaro, centinaia di camion. Senza questi aiuti – continua Varoufakis – sarebbe come se la Grecia dovesse annunciare una grossa svalutazione con 18 mesi di anticipo, il che porterebbe all’immediata liquidazione di tutti i capitali investiti e al loro trasferimento all’estero con ogni mezzo possibile». Così, con la minaccia della Grexit che rafforzava il “bank run” indotto dalla Bce, «il nostro tentativo di rimettere sul tavolo la questione della ristrutturazione si è scontrato contro un muro di gomma. Tutte le volte ci rispondevano che quella era una questione da affrontare in un non meglio specificato futuro successivo alla completa realizzazione del “programma”».Scontata, quindi, l’intransigenza tedesca, anche di fronte al tentativo del successore di Varoufakis, Euclid Tsakalaotos, che ha tentato di convincere «un Eurogruppo chiaramente ostile» che la ristrutturazione del debito «è un prerequisito per il successo delle riforme in Grecia». Finalmente, Varoufakis ammette che il problema è proprio la moneta unica europea: «L’euro è un ibrido fra un vincolo valutario fisso come l’Erm del 1980 o il gold standard e una “moneta di Stato”. Il primo fonda la sua forza sulla paura di esserne espulsi, mentre la “moneta di Stato” implica meccanismi di riciclo (reinvestimento) dei surplus fra Stati membri», ad esempio un budget federale e l’emissione di titoli di Stato in comune, gli eurobond invocati inutilmente già ai tempi di Tremonti. «L’euro è una via di mezzo – più vincolo monetario che moneta di Stato». Di statale, in realtà, l’euro non ha nulla: è anzi il braccio operativo dell’élite finanziaria interessata a lucrare sullo smantellamento degli Stati, ma questo Syriza non l’ha mai osato dire.Anche oggi, Varoufakis si limita in fondo a considerazioni tattiche: «Il ministro delle finanze tedesco – scrive, sul “Guardian” – vuole che la Grecia venga costretta a uscire dalla moneta unica per mettere una paura del diavolo ai francesi e convincerli ad accettare un modello di Eurozona di tipo disciplinario». E’, in fondo, il peccato originale di Syriza: pensare che esista un modello di Eurozona non-disciplinario. E’ come aspettarsi che possa davvero essere ristrutturato (tagliato) un debito nominalmente pubblico, ma non denominato in moneta sovrana. Eppure, nonostante gli errori strategici di Syriza, il “martirio” della Grecia offre un terrificante spettacolo di cos’è realmente l’Unione Europea. L’Austria farà un referendum per uscirne, la Gran Bretagna voterà nel 2017 per abbandonare Bruxelles, mentre Obama teme l’aiuto di Putin alla Grecia e l’Ue punta tutto sulle dimissioni di Tsipras per ripristinare il dominio totale della Troika, togliendo ai greci ogni illusione di sovranità.Consenti alla finanza privata di impadronirsi della moneta e quindi del debito pubblico degli Stati? Vietato stupirsi, dopo, se gli esattori rivogliono tutto indietro, con gli interessi. Sul “Guardian”, l’ex ministro delle finanze ellenico Yanis Varoufakis denuncia «la testarda ostinazione» dei creditori nel rifiutarsi di concedere una sostanziale riduzione del debito, in barba a «qualsiasi normale prassi bancaria», che consiglierebbe di «non accanirsi contro i debitori in difficoltà». Di “normale”, in realtà, in Europa non c’è più nulla, dal momento in cui – col Trattato di Maastricht – proprio la “prassi bancaria” ha sostituito l’interesse pubblico, basato sul governo sovrano della moneta per evitare che lo Stato cada nelle mani di creditori privati, i veri padroni della scena, che manovrano politici-fantoccio e istituzioni comunitarie create solo per proteggere il business finanziario a spese delle comunità nazionali. L’altra notizia è che i paesi europei non insorgano in favore dei greci: nessun governo si ribella, le piazze europee non sono gremite di bandiere greche. E i sondaggi rivelano che 7 tedeschi su 10 danno ragione al super-falco Schaeuble, l’uomo dei diktat, l’esecutore fiduciario dei banchieri.
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Atene si salva solo fuori dall’euro. Se ci resta, è spacciata
E’ evidente che la creazione dell’euro sia stato un terribile errore. In Europa non ci sono mai stati i presupposti per una moneta unica di successo – soprattutto un’unione fiscale e bancaria in grado di assicurare che quando scoppia una bolla immobiliare, ad esempio in Florida, Washington andrà automaticamente a proteggere gli anziani contro qualsiasi minaccia alle loro cure mediche o ai loro depositi bancari. Lasciare un’Unione Monetaria, tuttavia, è una decisione molto più difficile e spaventosa di quanto lo sia entrarci e, fino ad ora, le economie europee in difficoltà, sul ciglio del baratro, hanno sempre fatto un passo indietro. I governi hanno sempre accettato le richieste di dura austerità dei creditori, mentre la Banca Centrale Europea conteneva il panico sul mercato. Ma la situazione in Grecia ha ormai raggiunto il punto di non ritorno. Le banche sono temporaneamente chiuse ed il governo ha imposto un controllo sui capitali, limitando [ma non solo] la circolazione dei fondi fuori dal paese.E’ probabile che il governo debba presto cominciare a pagare le pensioni e gli stipendi con dei titoli provvisori, creando in questo modo una moneta parallela. La prossima settimana, inoltre, si terrà un referendum per decidere se accettare o meno le richieste della Troika – l’istituzione che rappresenta gli interessi dei creditori – per un’austerità ancora più dura. Credo che la Grecia debba votare “no”, e che il governo greco debba essere pronto, se necessario, a lasciare l’euro. Per capire la ragione per cui sostengo questa tesi, è necessario rendersi conto che la maggior parte – non tutto, ma la maggior parte – di quello che avete sentito dire sulla dissolutezza greca e sulla sua irresponsabilità è falso. E’ vero, negli anni 2000 il governo greco spendeva al di là dei propri mezzi. Ma da allora ha più volte ridotto la spesa e ha più volte accresciuto le tasse. Gli impiegati statali sono diminuiti di più del 25% mentre le pensioni – che erano davvero troppo generose – sono state drasticamente tagliate. Se prendiamo tutte le misure di austerità, esse sono state più che sufficienti per eliminare il deficit originario e per ottenere un avanzo primario di grandi dimensioni.E allora, perché la situazione non è migliorata? Perché l’economia greca è crollata, in gran parte come conseguenza di quelle misure di austerità, che hanno trascinato verso il basso le entrate fiscali. E questo crollo, a sua volta, ha avuto molto a che fare con l’euro, con la Grecia intrappolata in una camicia di forza economica. I soli casi di austerità che hanno avuto successo – ovvero quelli in cui i paesi sono riusciti a contenere i deficit senza precipitare in una depressione – sono quelli che hanno coinvolto delle grandi svalutazioni monetarie, che hanno reso le esportazioni più competitive. Questo è quello che è successo in Canada nel 1990 – ad esempio – e, in misura importante, è quello che è successo più di recente in Islanda. Ma la Grecia, senza una propria moneta, non ha avuto questa possibilità. E così, ho appena descritto le ragioni del “Grexit”. Ma la Grecia deve davvero uscire dall’euro?I problemi del Grexit sono quelli del probabile caos finanziario, del sistema bancario perturbato da prelievi imponenti, di un’economia danneggiata dai problemi bancari e dall’incertezza sullo status giuridico dei debiti. È per questo che i governi greci hanno aderito alle richieste di austerità. Ed è per questo che anche Syriza, la coalizione di sinistra che è ora al potere, era disposta ad accettare l’austerità che era stata imposta in passato. Tutto quello che chiedeva, in effetti, era di fermare ulteriori misure. Ma la Troika non ha offerto niente di tutto questo. E’ facile perdersi nei dettagli, ma il punto essenziale è che alla Grecia è stata presentata un’offerta del tipo “prendere o lasciare”, del tutto indistinguibile dalle quelle degli ultimi cinque anni. Offerta che Alexis Tsipras, primo ministro greco, non poteva chiaramente accettare, perché avrebbe distrutto la ragione stessa del suo stare in politica.L’obiettivo della Troika, quindi, era quello di cacciarlo dalla carica di primo ministro … che è quello che accadrà, probabilmente, se la paura nei riguardi della Troika sarà sufficiente a che gli elettori greci votino “sì”, la prossima settimana. Ma essi non dovrebbero farlo, e questo per tre motivi. In primo luogo, ora sappiamo che un’austerità sempre più dura è un vicolo cieco: dopo cinque anni la Grecia è in condizioni peggiori di quanto lo fosse prima.In secondo luogo la maggior parte – e forse anche più – del caos che si temeva, conseguentemente al Grexit, ha già avuto luogo. Con le banche che sono state chiuse e con l’imposizione del controllo sui capitali, non è che ci siano molti più danni da fare. L’adesione all’ultimatum della tToika rappresenterebbe il definitivo abbandono di ogni pretesa di indipendenza greca.Non lasciatevi ingannare dalla rivendicazione che i “funzionari della Troika sono solo dei tecnocrati che spiegano ai Greci ignoranti quello che deve essere fatto”. Questi presunti tecnocrati sono dei “fantasisti” che hanno disatteso tutto quello che sappiamo sulla macroeconomia, e che hanno sbagliato ogni passo lungo il cammino. Non è una questione di “analisi”, è una questione di “potere” – il potere dei creditori di “staccare la spina” all’economia greca, che persisterà fino a quando l’uscita dall’euro sarà considerata impensabile. E’ quindi giunto il momento di porre fine a questa “impensabilità”. In caso contrario la Grecia dovrà affrontare un’austerità e una depressione senza fine.(Paul Krugman, “La Grecia oltre il ciglio del baratro”, dal “New York Times” del 29 giugno 2015, intervento tradotto e ripreso da “Come Don Chisciotte”).E’ evidente che la creazione dell’euro sia stato un terribile errore. In Europa non ci sono mai stati i presupposti per una moneta unica di successo – soprattutto un’unione fiscale e bancaria in grado di assicurare che quando scoppia una bolla immobiliare, ad esempio in Florida, Washington andrà automaticamente a proteggere gli anziani contro qualsiasi minaccia alle loro cure mediche o ai loro depositi bancari. Lasciare un’Unione Monetaria, tuttavia, è una decisione molto più difficile e spaventosa di quanto lo sia entrarci e, fino ad ora, le economie europee in difficoltà, sul ciglio del baratro, hanno sempre fatto un passo indietro. I governi hanno sempre accettato le richieste di dura austerità dei creditori, mentre la Banca Centrale Europea conteneva il panico sul mercato. Ma la situazione in Grecia ha ormai raggiunto il punto di non ritorno. Le banche sono temporaneamente chiuse ed il governo ha imposto un controllo sui capitali, limitando [ma non solo] la circolazione dei fondi fuori dal paese.
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Promise felicità nell’Eurozona, così ora Tsipras è nei guai
Quella che si apre, in questa settimana, è una partita a scacchi a mosse obbligate per entrambi i contendenti. E’ evidente che Tsipras ha bisogno di una squillante vittoria dei No all’accordo. Se vincessero i si a lui non resterebbe che dimettersi, la Troika avrebbe vinto e i partiti di centro cercherebbero di fare una coalizione “europeista” (magari con una scissione fra i deputati di Syriza) per un governo di servizio (di servizio alla Merkel, naturalmente). Per Syriza sarebbe una disfatta e per la Grecia inizierebbe un calvario ancora peggiore di quello attuale, perché il referendum legittimerebbe qualsiasi misura, anche la più aberrante. Magari non da subito, anzi la Troika potrebbe mostrarsi inizialmente più comprensiva con un governo “moderato” e fare anche qualche regalino, magari sino a novembre, giusto il tempo di far affondare (o addomesticare) Podemos, ma dopo sarebbe un crescendo, sino all’inevitabile default. Si capisce quindi, l’apertura della Merkel (che tiene d’occhio anche lo slittamento di Atene in campo sino-russo) alla Grecia, ma non al suo governo attuale e il rinvio della questione a dopo il referendum. Questa sarà la campagna elettorale della Troika e, per essa, della Merkel: sbarazzatevi di Tsipras e Varoufakis e ragioniamo.Fratoianni ha scritto che, anche in quel caso, Tsipras avrebbe comunque vinto, perché avrebbe dimostrato il ritorno a metodi di governo democratico; si: peccato che si tratterebbe di una “vittoria morale” e che il vincitore morale sia sempre quello che ha perso. Ma a Tsipras andrebbe molto male anche se a vincere fossero i No, ma di stretta misura: avrebbe una legittimazione limitatissima, dovrebbe fare i conti con un default, nessuno sottoscriverebbe più alcun titolo greco e quindi, per far fronte alla situazione, dovrebbe emettere moneta propria, altrimenti non saprebbe come pagare neppure gli stipendi dei dipendenti statali, e questo significherebbe implicitamente l’uscita dall’euro. Ovviamente in condizioni disastrose, con una moneta debolissima e una Ue e Bce scatenate per punire i ribelli greci. Per di più, una vittoria di misura significherebbe che Alba Dorata è stata determinante e questo lo obbligherebbe, di fatto, ad una qualche intesa su quel lato (allegria!).Di fatto, l’unica speranza di non affondare sarebbe quella di un rapidissimo soccorso russo e cinese. Unica via d’uscita relativamente più agevole, una forte vittoria dei No, che lo incoraggerebbe a tener duro ed, in qualche modo, scaricherebbe una parte delle tensioni sulla Ue, costringendola su posizioni meno oltranziste. Sarebbe comunque un momento difficilissimo, perché ugualmente si prospetterebbe il default e l’uscita dalla moneta, ma sarebbe più facile gestire le cose con un popolo greco compatto dietro le sue spalle. Per ora i sondaggi sono sfavorevoli al No (e gioca evidentemente la paura di cosa accadrebbe tornando alla Dracma), ma non è detto che in questi giorni non ci sia un recupero: i greci sono un popolo orgoglioso e questo potrebbe bilanciare le paure. Ovviamente, noi facciamo il tifo per il No, ma la partita, bisogna dircelo, per ora è abbastanza compromessa e qui si capisce perché la “furbata” di aver promesso l’euro e la fine dell’austerità non è stata una grande idea.(Aldo Giannuli, “Grecia, il gioco che si profila”, dal blog di Giannuli del 28 giugno 2015).Quella che si apre, in questa settimana, è una partita a scacchi a mosse obbligate per entrambi i contendenti. E’ evidente che Tsipras ha bisogno di una squillante vittoria dei No all’accordo. Se vincessero i si a lui non resterebbe che dimettersi, la Troika avrebbe vinto e i partiti di centro cercherebbero di fare una coalizione “europeista” (magari con una scissione fra i deputati di Syriza) per un governo di servizio (di servizio alla Merkel, naturalmente). Per Syriza sarebbe una disfatta e per la Grecia inizierebbe un calvario ancora peggiore di quello attuale, perché il referendum legittimerebbe qualsiasi misura, anche la più aberrante. Magari non da subito, anzi la Troika potrebbe mostrarsi inizialmente più comprensiva con un governo “moderato” e fare anche qualche regalino, magari sino a novembre, giusto il tempo di far affondare (o addomesticare) Podemos, ma dopo sarebbe un crescendo, sino all’inevitabile default. Si capisce quindi, l’apertura della Merkel (che tiene d’occhio anche lo slittamento di Atene in campo sino-russo) alla Grecia, ma non al suo governo attuale e il rinvio della questione a dopo il referendum. Questa sarà la campagna elettorale della Troika e, per essa, della Merkel: sbarazzatevi di Tsipras e Varoufakis e ragioniamo.
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Foa: ha ragione Putin, sono gli Usa a minacciare la Russia
Nelle relazioni internazionali bisogna saper cogliere innanzitutto il quadro generale; solo avendo ben presente la visione strategica dei paesi coinvolti è possibile analizzare il dettaglio ovvero i singoli episodi. Riguardo alla Russia le mie idee sono da tempo piuttosto chiare. Premessa: mi sono recato a Mosca regolarmente per 18 anni, dal 1990 al 2008, in qualità di inviato speciale. Ho seguito in prima persona le fasi cruciali di questo paese, dal crollo dell’Unione sovietica alla crisi finanziaria della fine degli anni Novanta, dall’ascesa di Putin al periodo di Medvedev, inclusi i drammi di Beslan e del teatro Dubrovka. In questi 18 anni non ho mai dovuto coprire una sola crisi internazionale provocata dal Cremlino. In questi 18 anni ho assistito al progressivo, sovente passivo ridimensionamento di Mosca nello scenario geostrategico a cui è corrisposto, a partire dal Duemila, lo sviluppo di una nuova Russia che, sfruttando il boom dei prezzi petroliferi e delle materie prime, desiderava solo una cosa: continuare ad arricchirsi.Era una Russia che, in politica estera, chiedeva agli americani solo di essere rispettata nel cortile ci casa ovvero in quel che restava delle proprie zone di influenza, come l’Ucraina e alcune Repubbliche asiatiche. Mai imperiale, mai militaresca. Non cercava guai e continuo a pensarlo oggi. Della bella intervista rilasciata al neodirettore del “Corriere della Sera” Luciano Fontana e a Paolo Valentino, vale la pena di rileggere soprattutto due passaggi. Domanda del “Corriere”: «Parlando di pace, signor presidente, i paesi dell’ex Patto di Varsavia che oggi sono membri della Nato, come i baltici e la Polonia, si sentono minacciati dalla Russia. L’Alleanza ha deciso di creare una forza dissuasiva di pronto intervento per venire incontro a queste preoccupazioni. Ha ragione l’Occidente a temere di nuovo l’“orso russo”? E perché la Russia assume toni così conflittuali?». Risposta di Putin: «La Russia non parla in tono conflittuale con nessuno e, in queste questioni, come diceva Otto von Bismarck, “non sono importanti i discorsi, ma il potenziale”. Cosa dicono i potenziali reali? Le spese militari degli Stati Uniti sono superiori alle spese militari di tutti i paesi del mondo messi insieme. Quelle complessive della Nato sono 10 volte superiori a quelle della Federazione Russa. La Russia praticamente non ha più basi militari all’estero».«La nostra politica non ha un carattere globale, offensivo o aggressivo. Pubblicate sul vostro giornale la mappa del mondo, indicando tutte le basi militari americane e vedrete la differenza. Le faccio degli esempi. A volte mi fanno osservare che i nostri aerei volano fin sopra l’Oceano Atlantico. Il pattugliamento con aerei strategici di zone lontane lo facevano solamente l’Urss e gli Usa all’epoca della “guerra fredda”. Ma la nuova Russia, all’inizio degli anni Novanta, lo ha abolito, mentre i nostri amici americani hanno continuato a volare lungo i nostri confini. Per quale ragione? Così alcuni anni fa abbiamo ripristinato questi sorvoli: ci siamo comportati aggressivamente? Vicino alle coste della Norvegia ci sono i sommergibili americani in servizio permanente. Il tempo che ci mette un missile a raggiungere Mosca da questi sottomarini è di 17 minuti. E volete dire che ci comportiamo in modo aggressivo? Lei ha menzionato l’allargamento della Nato a Est. Ma noi non ci muoviamo da nessuna parte, è l’infrastruttura della Nato che si avvicina alle nostre frontiere. E’ la dimostrazione della nostra aggressività?».Domanda del “Corriere”: «Nega le minacce alla Nato?». Risposta di Putin: «Solo una persona non sana di mente, o in sogno, può immaginare che la Russia possa un giorno attaccare la Nato. Sostenere quest’idea non ha senso, è del tutto infondata. Forse qualcuno può essere interessato ad alimentare queste paure. Io posso solo supporlo. Ad esempio gli americani non vogliono tanto il ravvicinamento tra la Russia e l’Europa. Non lo affermo, lo dico solo come ipotesi. Supponiamo che gli Usa vogliano mantenere la propria leadership nella comunità atlantica. Hanno bisogno di una minaccia esterna, di un nemico per garantirla. E l’Iran chiaramente non è una minaccia in grado di intimidire abbastanza. Con chi mettere paura? Improvvisamente sopraggiunge la crisi ucraina. La Russia è costretta a reagire. Forse tutto è fatto apposta, non lo so. Ma non siamo noi a farlo. Voglio dirvi: non bisogna aver paura della Russia. Il mondo è talmente cambiato, che oggi le persone ragionevoli non possono immaginare un conflitto militare su scala così vasta. Noi abbiamo altre cose da fare, ve lo posso assicurare».Queste sono parole di un leader che non cerca guai. E’ evidente che Putin non aspetti altro che di poter chiudere la crisi con l’America e di poter tornare ad essere considerato come un partner economico sulla scena globale. Non esiste una nuova Russia imperiale, resta una Russia che chiede solo di essere riammessa nella comunità internazionale e di poter partecipare, di nuovo, al G8. Trovare un accordo sull’Ucraina non è difficile, ma bisogna volerlo. E questo è il problema. E’ significativo che sull’edizione di ieri del “Corriere”, persino un atlantista di ferro come l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di fatto abbia certificato la buona fede di Mosca, rilevando come Putin gli avesse formulato il suo pensiero già nel 2013, pensiero che lo stesso Napolitano trasmise a Obama. Inutilmente. Chi ragiona con onestà intellettuale dovrebbe chiedersi piuttosto quali siano gli obiettivi geostrategici che gli Usa stanno surretiziamente e a mio giudizio pericolosamente perseguendo. E perché Obama abbia deciso di rispondere alla mano tesa Putin minacciando nuove sanzioni economiche e un’escalation missilistica nell’Europa dell’Est. Non è così che si mette in sicurezza il mondo.(Marcello Foa, “Perché Putin, in fondo, ha ragione”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 15 giugno 2015).Nelle relazioni internazionali bisogna saper cogliere innanzitutto il quadro generale; solo avendo ben presente la visione strategica dei paesi coinvolti è possibile analizzare il dettaglio ovvero i singoli episodi. Riguardo alla Russia le mie idee sono da tempo piuttosto chiare. Premessa: mi sono recato a Mosca regolarmente per 18 anni, dal 1990 al 2008, in qualità di inviato speciale. Ho seguito in prima persona le fasi cruciali di questo paese, dal crollo dell’Unione sovietica alla crisi finanziaria della fine degli anni Novanta, dall’ascesa di Putin al periodo di Medvedev, inclusi i drammi di Beslan e del teatro Dubrovka. In questi 18 anni non ho mai dovuto coprire una sola crisi internazionale provocata dal Cremlino. In questi 18 anni ho assistito al progressivo, sovente passivo ridimensionamento di Mosca nello scenario geostrategico a cui è corrisposto, a partire dal Duemila, lo sviluppo di una nuova Russia che, sfruttando il boom dei prezzi petroliferi e delle materie prime, desiderava solo una cosa: continuare ad arricchirsi.
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11 Settembre, Umberto Eco e la verità degli imbecilli
Gentile signor Eco, ho letto le sue recenti dichiarazioni, riportate dall’Ansa, nelle quali lei afferma che oggi «i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. E’ l’invasione degli imbecilli». Sempre dall’Ansa leggo anche che «la sua lectio magistralis, dopo la laudatio di Ugo Volli, è dedicata alla sindrome del complotto, uno dei temi a lui più cari, presente anche nel suo ultimo libro “Numero zero”». Mi era peraltro già nota la sua avversione per i cosiddetti “complottisti”, per aver letto, in altre sedi, svariate sue dichiarazioni in merito. Ebbene, facendo due più due, sappia che io sono sia un “imbecille” secondo la sua definizione generale (scrivo molto in rete, e mi avvalgo del diritto di parola come se fossi “un premio Nobel”), sia un “complottista” in particolare, visto che sostengo da tempo la tesi dell’autoattentato riguardo all’11 Settembre. Lei invece, in questo caso, si è schierato sul fronte opposto, visto che ha firmato un intero capitolo del libro a più mani “11/9 La cospirazione impossibile”.Vorrei quindi cogliere questa occasione per farle sapere alcune cose che lei certamente non conosce (se le conoscesse, si sarebbe ben guardato dal partecipare alla stesura di quel libro): tutti coloro che sostengono la versione ufficiale dell’11 Settembre (che siano stati cioè 19 dirottatori islamici a compiere gli attentati) credono infatti, fra le altre cose: [...]- Che sia normale – e quindi credibile – che non esista una sola fotografia (o immagine video) datata e stampigliata che ritragga uno qualunque dei 19 dirottatori ai 3 aeroporti di partenza l’11 di settembre. Nei parcheggi, ai check-in, nei corridoi, nelle sale di aspetto, sulle scale mobili, nei bar dell’aeroporto, agli imbarchi, non esiste una sola foto di uno solo dei 19 dirottatori. (Lei ci crede davvero, signor Eco?)- Che sia normale – e quindi credibile – che a Ground Zero ben 4 scatole nere su 4 “non siano state ritrovate”, nonostante tutte le macerie asportate da Ground Zero dal primo all’ultimo giorno siano state passate al setaccio 3 volte, da 3 diverse squadre specializzate. Trovavano frammenti delle dita delle vittime, orologi e monetine, ma le scatole nere no. (Lei ci crede, signor Eco?)- Che dopo aver ricevuto decine di avvisi su un “imminente attacco terroristico con aerei dirottati” gli americani abbiano deciso di organizzare così tante “esercitazioni aeree” nello stesso giorno da lasciare soltanto 4 caccia in stato di allerta a difendere l’intero quadrante nord-orientale della nazione (New York e Washington, per intenderci).- Che sia normale che nessuno fra gli alti gradi militari sia stato punito nè richiamato per questo atto di incredibile leggerezza, ma anzi che tutti i responsabili di questo disastro collettivo siano stati promossi a gradi superiori.- Che un intero aereo da 100 tonnellate (United 93) possa venire inghiottito quasi per intero da una buca larga pochi metri, che si sarebbe completamente richiusa sull’aereo stesso prima ancora che arrivassero i soccorritori. (Non glielo dice “Mazzucco il complottista”, glielo dice la stessa Fbi, nel suo goffo tentativo di spiegare la scomparsa quasi totale dei rottami dell’aereo dal luogo dello schianto).- Che una decina di passeggeri abbia potuto effettuare svariate chiamate con i cellulari da un aereo che volava a 10.000 metri di quota, viaggiando a 6-800 Kmh. (Non è possibile oggi, figuriamoci nel 2001).- Che un edificio (Building 7) possa crollare alla velocità di caduta libera nonostante nessuna forza esterna intervenga a rimuovere la struttura sottostante. (Se questo accadesse, verrebbe violata una delle più fondamentali leggi della Fisica, quella della Conservazione di Energia). E’ come se le cascasse in testa un vaso di fiori, e questo vaso continuasse la sua corsa verso il basso senza minimamente rallentare, nonostante le stia sfracellando tutte le vertebre, una dopo l’altra. (Solo nei fumetti del Vil Coyote accadono queste cose).- Che gli oltre 2.000 architetti e ingegneri americani della associazione Architects & Engineers for 9/11 Truth “si sbaglino” nel sostenere che quanto descritto sopra sia, appunto, impossibile dal punto di vista delle leggi fisiche, e che si sia quindi trattato necessariamente di una demolizione controllata. (Tertium non datur, in questo caso).- Che oltre 100 fra poliziotti e pompieri “si sbaglino” nel testimoniare, come ha riportato il “New York Times”, di aver udito chiaramente una serie di forti esplosioni subito prima e durante i crolli delle Torri Gemelle.Potrei andare avanti, ma immagino che lei abbia già compreso il senso del mio intervento, e cioè: non c’è bisogno di essere un “marcio complottista” per farsi venire dei seri dubbi sulla versione ufficiale dell’11 Settembre. In realtà, dopo aver preso una accurata visione dei fatti, bisogna concludere che soltanto un cretino possa credere ciecamente a tutto quanto descritto sopra. E lei certamente un cretino non lo è (io sono cresciuto leggendo “Diario Minimo”, fra le altre cose). Deduco quindi, per non voler pensare ad una sua eventuale malafede, che sia semplicemente poco informato.La invito pertanto a dedicare un po’ del suo tempo a valutare più da vicino i fatti dell’11 Settembre, fino a potersi fare una opinione personale su quanto sia realmente accaduto quel giorno. Come può vedere più sotto, le informazioni sono tutte a sua disposizione: vedendo il mio film potrà valutare di persona, argomento per argomento, sia quello che dice il Movimento per la Verità sul 9/11, sia quello che dicono i difensori della versione ufficiale (le stesse persone con cui lei ha collaborato alla stesura del libro). E vedrà che alla fine le sue tante lauree honoris causa le verranno in aiuto, nel senso che preferirà mille volte sentirsi dare lei stesso del complottista (a ragion veduta), piuttosto che sentirsi dare del cretino a scatola chiusa. Cordialmente, Massimo Mazzucco (Ps: ovviamente, tutto quello che ho affermato nei paragrafi più sopra è ampiamente documentato nel film che la invito a visionare. Le scrivo anche, naturalmente, a nome di migliaia e migliaia di “imbecilli” che la pensano esattamente come me).(Massimo Mazzucco, “Lettera aperta a Umberto Eco”, dal blog “Luogo Comune” dell’11 giugno 2015. Mazzucco è autore del film “11 Settembre, la nuova Pearl Harbor” ed è un autore particolarmente apprezzato dalle associazioni che negli Stati Uniti si battono per la verità sull’attentato del 2001 alle Torri Gemelle).Gentile signor Eco, ho letto le sue recenti dichiarazioni, riportate dall’Ansa, nelle quali lei afferma che oggi «i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. E’ l’invasione degli imbecilli». Sempre dall’Ansa leggo anche che «la sua lectio magistralis, dopo la laudatio di Ugo Volli, è dedicata alla sindrome del complotto, uno dei temi a lui più cari, presente anche nel suo ultimo libro “Numero zero”». Mi era peraltro già nota la sua avversione per i cosiddetti “complottisti”, per aver letto, in altre sedi, svariate sue dichiarazioni in merito. Ebbene, facendo due più due, sappia che io sono sia un “imbecille” secondo la sua definizione generale (scrivo molto in rete, e mi avvalgo del diritto di parola come se fossi “un premio Nobel”), sia un “complottista” in particolare, visto che sostengo da tempo la tesi dell’autoattentato riguardo all’11 Settembre. Lei invece, in questo caso, si è schierato sul fronte opposto, visto che ha firmato un intero capitolo del libro a più mani “11/9 La cospirazione impossibile”.
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Podemos e la resa di Draghi, sta iniziando la fine dell’Ue?
Nella settimana scorsa ci sono state quattro notizie che hanno rivelato quanto sia profonda la crisi della Ue: la dichiarazione di Draghi “l’Euro non è più scontato”; la vittoria di “Podemos” in Spagna; la vittoria dei nazionalisti in Polonia; l’altalena del default greco. Iniziamo dalla prima: Draghi dice che se la tendenza a divaricare dei paesi dell’Eurozona dovesse proseguire, l’euro non sarebbe più sostenibile, non solo economicamente, ma anche politicamente e socialmente. Ma no!? Ma non mi dire! Chi lo avrebbe mai detto?! Insomma, l’euro è una architettura che non può resistere ancora a lungo alle tendenze divaricanti dell’Europa, e si approssima il momento dei conti. Ovviamente la ricetta di Draghi è la più scontata: armonizzare con le riforme la struttura sociale dei paesi dell’Unione, dove per riforme si intende essenzialmente il taglio delle pensioni, il peggioramento delle prestazioni sociali (sanità, istruzione) e la fine tendenziale della loro gratuità o del loro prezzo politico. Però… mai che si parli di armonizzare le norme fiscali …chissà perché?!Ovviamente la notizia non è quel che dice Draghi, che a questo punto è una banalità, ma che a dirlo sia lui, il gran sacerdote dell’euro. Significa che anche ai piani alti del Palazzo si iniziano a sentire gli scricchiolii della costruzione e si inizia ad ammettere che tutto possa crollare. In effetti le due notizie di Spagna e Polonia dicono proprio questo: che, se il fine dell’euro era la convergenza delle economie europee, l’operazione è fallita ed iniziano ad esserci i contraccolpi politici. Si badi che i due risultati contemporanei di Madrid e di Varsavia non delineano affatto una tendenza omogenea: hanno in comune il malessere nei confronti di questa costruzione tecnocratica e antipopolare che è la Ue, ma poi prendono strade a loro volta divaricanti, in base alla diversa posizione economico finanziaria del paese. L’ordine neoliberista, di cui la velleitaria costruzione europea è espressione nel nostro continente, si è imposto come unico assetto legittimo dei poteri, si è espresso nella dittatura del pensiero unico, ma questo ha finito per precludere la strada ad ogni ricambio interno: è la dittatura dell’esistente, che non immagina altro ordine possibile diverso da sé.Ma questo provoca a sua volta una regressione del pensiero politico che impedisce ogni ricambio di élite. Resta la protesta, ma questo non vuol dire che sia pronta una ipotesi di ricambio. Vedremo se “Podemos” saprà esprimere una progettualità più matura e capace di porsi come alternativa di sistema (ce lo auguriamo, ma abbiamo diversi dubbi). Sin qui, M5S e movimenti similari minori non sono andati molto al di là della protesta e non hanno fatto molti passi avanti sul piano del progetto. Anche Syriza, alla prova del governo, non sta fornendo una prestazione smagliante e sta, man mano, mostrando tutti i limiti della sua impostazione moderata. Questo ci porta al nodo del debito greco. Dopo molti giorni di annuncio della impossibilità di pagare la rata del debito con il Fmi, che aveva iniziato a far ballare le borse europee, di colpo sembra che, anche questa volta, Atene abbia trovato i soldi per magia e pagherà. Il che, di nuovo, fa sorgere molti dubbi sull’origine di questo denaro: hanno rotto un nuovo salvadanaio? O c’è la mano discreta di qualcuno che opera con criteri politici ed è in attesa di qualcosa? (mi piacerebbe sapere che ne pensa Lamberto Aliberti…).Quello che è difficile da credere è che ce la possano fare tassando i prelievi bancomat, a meno di non trattenere percentuali altissime di essi: se fosse stato così semplice, perché mai non farlo subito? Ma, lasciando da parte l’origine di questi capitali freschi, notiamo che questo è il modo scientifico di diventare “a Dio spiacenti ed ai nemici sui”. La finanza internazionale avrebbe ragione di non prendere più sul serio i “penultimatum” ateniesi che dicono sempre che è l’ultima volta che si paga e poi pagano regolarmente. Però facendo ogni volta una manfrina che manda in tensione le borse. Insomma: “Se i soldi per pagare li hai, paga e non fare storie”. Dal loro punto di vista, i signori della finanza non hanno tutti i torti. E, quindi, la prossima volta nessuno prenderà sul serio l’annuncio di mancato pagamento. Tsipras somiglia molto a Renzi: soffre di annuncite. Però il governo di Syriza diventa spiacente anche al suo popolo, perché a parole promette di metter fine all’austerità, poi fa un po’ di storie, ma alla fine paga, varando nuove misure di auterity. Cosa è il prelievo sui bancomat se non una nuova tassa indiretta? Magari non basterà neppure a pagare la rata in scadenza e dietro c’è altro, ma i cittadini percepiscono un nuovo taglio del loro reddito, per cui iniziano a pensare che, un po’ alla volta, Tsipras farà come chi lo ha proceduto ed accentuerà la linea dei “sacrifici”. Ma soprattutto: per quanto si può andare avanti con questi espedienti?Di rate in scadenza, pesanti quanto o più di questa, ce ne sono ancora e non poche. E la soluzione non può che essere o accettare in toto la linea di Berlino o dichiarare default una volta per tutte, apprestandosi ad uscire dall’euro. E la linea berlinese non prevede alcuna “happy end”: spremerà la Grecia sino all’ultima goccia di sangue, comprerà a prezzi di svendita ogni asset pubblico e poi butterà via la Grecia come un limone spremuto. Notiamo che della timida apertura tedesca di pagare, pur se sotto altro nome, i danni di guerra, già non si parla più. Per cui, rimandare il momento finale produce solo una emorragia di ricchezze della Grecia per poi ritrovarsi in condizioni ancora peggiori alla fine del gioco. L’altra strada è quella di dichiarare default (certamente non una misura indolore, ma meno dolorosa dell’altra e con qualche prospettiva di ripresa) e porre il problema di una uscita concordata dall’euro. E su questa strada arriveranno anche altri. La Ue e l’euro non hanno un futuro. Forse lo ha Berlino (e non è neppure sicuro che riesca) ma da sola o con pochi e scelti amici.(Aldo Giannuli, “Sta iniziando la fine della Ue?”, dal blog di Giannuli del 25 maggio 2015).Nella settimana scorsa ci sono state quattro notizie che hanno rivelato quanto sia profonda la crisi della Ue: la dichiarazione di Draghi “l’Euro non è più scontato”; la vittoria di “Podemos” in Spagna; la vittoria dei nazionalisti in Polonia; l’altalena del default greco. Iniziamo dalla prima: Draghi dice che se la tendenza a divaricare dei paesi dell’Eurozona dovesse proseguire, l’euro non sarebbe più sostenibile, non solo economicamente, ma anche politicamente e socialmente. Ma no!? Ma non mi dire! Chi lo avrebbe mai detto?! Insomma, l’euro è una architettura che non può resistere ancora a lungo alle tendenze divaricanti dell’Europa, e si approssima il momento dei conti. Ovviamente la ricetta di Draghi è la più scontata: armonizzare con le riforme la struttura sociale dei paesi dell’Unione, dove per riforme si intende essenzialmente il taglio delle pensioni, il peggioramento delle prestazioni sociali (sanità, istruzione) e la fine tendenziale della loro gratuità o del loro prezzo politico. Però… mai che si parli di armonizzare le norme fiscali …chissà perché?!