Archivio del Tag ‘crisi’
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Lo Zio Sam tifa Sì per Renzi, e la stampa finge d’indignarsi
“Indebita ingerenza”, “Irruzione a gamba tesa”, “Invasione di campo”, questi solo alcuni dei titoli dei quotidiani di oggi dopo le improvvide esternazioni dell’ambasciatore Usa a Roma, John Phillips. Come è noto il nostro ha affermato candidamente che una vittoria del No al referendum costituzionale rappresenterebbe un «passo indietro» nella politica italiana e ostacolerebbe gli investimenti stranieri in Italia. L’inquilino di Villa Taverna ha naturalmente aggiunto – bontà sua – che si tratta di «una decisione italiana» ma che comunque l’Italia «deve garantire di avere una stabilità di governo». E visti i 63 governi in 63 anni le garanzie sono piuttosto scarse… Alle parole dell’ineffabile Phillips fa eco la news – guarda caso battuta subito dopo – dell’agenzia di rating “Fitch”, che profetizza «uno choc per l’economia» se il No vincesse, con ricadute sul rating italiano. Ma che splendida coppia e come si preoccupano generosamente per la nostra salute…Ora, mentre non sorprende affatto la presa di posizione dei nostri “amici” americani, quello che davvero sorprende – e disgusta – è la reazione della stampa nostrana, che finge di indignarsi per l’illecita ingerenza nei nostri affari interni. Illecita ingerenza? Non sanno i nostri inossidabili pennivendoli del mainstream che la nostra è una nazione vassalla a tutti gli effetti? Il servaggio dell’Italia, che va dalla costrizione ad acquistare armamenti Usa alla imposizione di basi militari con armamento nucleare sul nostro territorio, dalla partecipazione coatta a missioni di guerra – opportunamente rinominate “guerre umanitarie” – delle nostre forze armate, alla deindustrializzazione forzata e alla svendita della nostra economia decisa a tavolino nel ’92, è ormai una realtà ben nota a tutti coloro che si interessino in modo onesto e corretto alla storia di questo paese.Dalla iniziale cessione di parte della nostra sovranità con il Trattato di Parigi nel ’47, decisa da De Gasperi al fine di ottenere il riassetto di equilibri politici interni, alla erogazione dei contributi del Piano Marshall condizionati all’uscita dei comunisti dal governo, passando per gli assassini di Enrico Mattei e di Aldo Moro, per Gladio e la strategia della tensione, per le imposizioni di premier non eletti, la nostra è stata sempre una storia di inverecondo servaggio nei confronti dei Signori del Mondo. Una sottomissione con evidenti manifestazioni servili da parte dei nostri politici rampanti che – guarda caso – prima di essere eletti fanno un viaggetto a Washington onde ottenere l’investitura da parte dei padroni. E, con tutto ciò, i nostri impudichi giornalisti si sorprendono, s’indignano, starnazzano on line perché l’ambasciatore americano ha semplicemente – con tipica franchezza anglosassone – detto le cose come stanno? Suvvia ragazzi, provate per una volta a essere un filino meno ridicoli; se il servaggio è il nostro destino, ammettiamolo onestamente, se, invece, vorremo alzare un giorno la testa, beh, iniziamo a farlo da subito chiamando le cose con il loro nome.(Piero Cammerinesi, “Ahi, serva Italia…”, da “Libero Pensare” del 14 settembre 2016).“Indebita ingerenza”, “Irruzione a gamba tesa”, “Invasione di campo”, questi solo alcuni dei titoli dei quotidiani di oggi dopo le improvvide esternazioni dell’ambasciatore Usa a Roma, John Phillips. Come è noto il nostro ha affermato candidamente che una vittoria del No al referendum costituzionale rappresenterebbe un «passo indietro» nella politica italiana e ostacolerebbe gli investimenti stranieri in Italia. L’inquilino di Villa Taverna ha naturalmente aggiunto – bontà sua – che si tratta di «una decisione italiana» ma che comunque l’Italia «deve garantire di avere una stabilità di governo». E visti i 63 governi in 63 anni le garanzie sono piuttosto scarse… Alle parole dell’ineffabile Phillips fa eco la news – guarda caso battuta subito dopo – dell’agenzia di rating “Fitch”, che profetizza «uno choc per l’economia» se il No vincesse, con ricadute sul rating italiano. Ma che splendida coppia e come si preoccupano generosamente per la nostra salute…
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Brancaccio: l’Ue distrugge il lavoro e fabbrica migranti
I partiti xenofobi guadagnano consensi e ormai influenzano le agende di governo proponendo il blocco dei movimenti migratori? «Bisognerebbe spiegare ai cittadini che la crescita dell’immigrazione è un problema del tutto secondario rispetto alla questione principale, che riguarda la libera circolazione internazionale dei capitali», spiega l’economista Emiliano Brancaccio. «L’indiscriminata libertà di movimento dei capitali è un fattore scatenante delle onde speculative, degli squilibri e delle crisi del nostro tempo». Se oggi i capitali «possono muoversi da un paese all’altro alla continua ricerca di bassi salari, bassa pressione fiscale sui profitti e blandi vincoli ambientali e contrattuali», il risultato è che «ogni istanza di progresso sociale e civile viene presto o tardi soffocata». Per questo, Brancaccio pensa a un sistema di controllo dei movimenti di capitale, fuori e dentro l’Europa, «specialmente da e verso quei paesi che adottino misure di dumping sociale e fiscale». Ma il vero problema, dice l’economista, è che l’Unione Europea è ormai un cadavere. Pura utopia sperare di poterla riformare dall’interno, come sperava la sinistra di Tsipras e soci.In Italia, ovviamente, buio pesto: «Dalle nostre parti il dibattito politico è dominato dal nulla», dichiara Brancaccio a Giacomo Russo Spena in un’intervista su “Micromega”. «Eppure, quando ai prossimi appuntamenti elettorali si tratterà di giudicare i programmi dei partiti, poche cose saranno importanti quanto la posizione che le varie forze assumeranno sul tema della circolazione indiscriminata dei capitali». L’esodo di massa dei lavoratori, dal Sud verso il Nord dell’Europa? E’ «l’unico meccanismo che può mitigare gli effetti della forbice occupazionale in atto». Ma siamo alla macelleria pura: «Quella migratoria è una valvola di sfogo delicata, complessa, dolorosa, che richiederebbe un minimo di organizzazione preventiva della direzione e della velocità dei flussi». Dinamiche che l’Ue non ha neppure provato a governare, preferendo affidarsi «a rozzi meccanismi di mercato», contribuendo così a «cospargere altra benzina sul fuoco del risentimento sociale e della xenofobia». Ci siamo dentro anche noi: «Oggi la propaganda delle forze reazionarie, in Gran Bretagna come in Germania, cattura consensi anche lamentando che “ci sono troppi italiani in giro”. Con buona pace per gli ideali di fratellanza tra i popoli europei».Queste tendenze, aggiunge Brancaccio, potrebbero sfociare in una sorta di “xenofobia liberista”, a partire dai possibili esiti della trattativa sulla Brexit. L’influente Istituto Bruegel di Bruxelles promuove un nuovo accordo tra Ue e Regno Unito che si basi da un lato sulla riaffermazione della indiscriminata circolazione internazionale dei capitali tra le due aree, e dall’altro sulla concessione ai britannici di bloccare a piacimento i flussi di immigrati dal continente. «Se questo è il meglio che gli illuminati think-tank europei sono in grado di proporre, la sintesi che ho definito “xenofobia liberista” non è più semplicemente un’ipotesi sul futuro, ma deve già esser considerata un’orrida realtà di fatto», dice Brancaccio. Gli storici revisionisti sostengono che l’avvento dei fascismi in Europa fu una reazione alla rivoluzione bolscevica? «Quel che sta avvenendo in questi anni sembra suggerire che l’ascesa di forme più o meno surrettizie di fascismo può anche verificarsi come effetto diretto del meccanismo capitalistico e delle sue crisi, pur nella totale assenza di una minaccia di tipo comunista o anche solo vagamente tradeunionista».E il peggio è che nessuna schiarita è in vista: «Mettiamocelo bene in testa: in Europa non c’è nessuna svolta, nessun vento federalista di cambiamento». La sostanza delle politiche economiche non è cambiata: «L’Eurozona resta sull’orlo della deflazione, con effetti tremendi per le economie più fragili e per i lavoratori di tutto il continente». Morale: «Il sentiero che stiamo percorrendo è palesemente insostenibile». E il problema non riguarda solo la quantità totale di liquidità erogata, ma anche l’impossibilità di indirizzarla verso i soggetti più in difficoltà: attraverso l’acquisto di titoli di Stato, il grosso delle erogazioni Bce finisce alla Germania, anziché alle economie che più ne avrebbero bisogno. E non ci sono segnali politici che possano lasciar sperare in un cambio di rotta. «Con le attuali regole, la solvibilità è del tutto compromessa in Grecia, e in prospettiva non è garantita nemmeno in Italia e negli altri paesi del Sud Europa». Se Draghi si decidesse ad affrontare davvero il problema, aggiunge Brancaccio, dovrebbe riconoscere che l’Eurozona sta implodendo: «Nessuna unione monetaria alla lunga può sopravvivere se il paese più forte si ostina ad attuare una politica di competizione al ribasso sui salari».Oggi in Germania le retribuzioni hanno cominciato finalmente a crescere, ma in questo modo «è stato eliminato solo un terzo del vantaggio competitivo che la Germania aveva accumulato nello scorso decennio, anche grazie a una ferrea politica di controllo dei salari». In una situazione di deflazione – più merci che denaro circolante – si distrugge capacità produttiva, eliminando posti di lavoro nel Sud Europa. In Italia, dall’approvazione del Jobs Act l’occupazione è aumentata meno della metà rispetto alla crescita media europea, già molto modesta. E’ provato: «La precarizzazione dei contratti non crea occupazione, serve solo a indebolire i lavoratori e a ridurre ulteriormente i salari». Così, oggi, gli italiani che lasciano i confini nazionali sono più degli immigrati che arrivano. Altro che Asia e Africa: «Almeno metà delle attuali migrazioni è interna al continente». Era tutto previsto, peraltro, dalla castrofica architettura Ue: fin dall’inizio, «si sapeva che l’assetto dell’Unione avrebbe determinato andamenti sbilanciati dell’occupazione nei diversi paesi, e quindi avrebbe indotto imponenti migrazioni di lavoratori dalle aree più deboli a quelle più forti». Rispetto al 2007, aggiunge Brancaccio, in Germania ci sono oggi circa tre milioni di occupati in più, mentre in Spagna registriamo 2 milioni e trecentomila occupati in meno. In Italia i posti di lavoro sono un milione in meno rispetto a dieci anni fa. «E in tutto il Sud Europa sono stati distrutti circa 5 milioni di posti di lavoro».I partiti xenofobi guadagnano consensi e ormai influenzano le agende di governo proponendo il blocco dei movimenti migratori? «Bisognerebbe spiegare ai cittadini che la crescita dell’immigrazione è un problema del tutto secondario rispetto alla questione principale, che riguarda la libera circolazione internazionale dei capitali», spiega l’economista Emiliano Brancaccio. «L’indiscriminata libertà di movimento dei capitali è un fattore scatenante delle onde speculative, degli squilibri e delle crisi del nostro tempo». Se oggi i capitali «possono muoversi da un paese all’altro alla continua ricerca di bassi salari, bassa pressione fiscale sui profitti e blandi vincoli ambientali e contrattuali», il risultato è che «ogni istanza di progresso sociale e civile viene presto o tardi soffocata». Per questo, Brancaccio pensa a un sistema di controllo dei movimenti di capitale, fuori e dentro l’Europa, «specialmente da e verso quei paesi che adottino misure di dumping sociale e fiscale». Ma il vero problema, dice l’economista, è che l’Unione Europea è ormai un cadavere. Pura utopia sperare di poterla riformare dall’interno, come sperava la sinistra di Tsipras e soci.
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Paura-Renzi, tutti con lui: Usa, Cei, Merkel, Wall Street
Ve lo vedete il nostro ambasciatore a Washington che si intromette nelle campagna elettorale di Trump? Ne verrebbe fuori un putiferio. Invece, rileva Aldo Giannuli, in Italia nessuno apre bocca se mezzo mondo interviene in soccorso di Renzi, in vista del temutissimo referendum d’autunno – temutissimo perché, dopo il Brexit, sarebbe una breccia per altri “pericolosi” referendum, non solo in Italia, sull’euro e la Ue. «La Cei, l’ambasciatore americano, la Merkel, Wall Street, le agenzie di rating come “Fitch”, la Goldman Sachs e la Jp Morgan, la Ue e chissà chi altro nelle prossime ore, stanno accorrendo tutti al capezzale del governo italiano in vista del pericoloso appuntamento referendario che rischia di diventarne l’infarto finale». Per Renzi la strada è in salita: la probabilità di perdere è molto più che una semplice ipotesi. «E pur di scongiurare questo (per loro) infausto evento, si mettono da parte rivalità e vecchi rancori e si travolge persino la prassi diplomatica per la quale è vietatissimo ad un ambasciatore prendere posizione sulle vicende interne del paese presso il quale è distaccato». E, salvo «la timida ma onorevole uscita di Mattarella», non c’è stata nessuna protesta diplomatica del nostro ministero degli esteri.Ormai, scrive Giannuli sul suo blog, «pare che il governo italiano non rappresenti più il popolo italiano ma sia diventato una dépendence del Pd e che, anzi, ringrazi gli Usa per il grazioso appoggio». Ma perché l’opposizione tace? Non una parola dai 5 Stelle o da Sinistra Italiana. In silenzio anche Lega Nord, Forza Italia, Fratelli d’Italia. Perché non chiedere «un dibattito in aula sulle ingerenze straniere nel referendum», o magari «una mozione di sfiducia al ministro degli esteri?». E le gerarchie vaticane, perché si schierano anche loro con Renzi? «Cosa gliene importa ai vescovi italiani (che per il Concordato, dovrebbero tenere il becco chiuso sulla politica in questo paese) se, in Italia, c’è il Senato o no?». Quanto alla Casa Bianca, finora «ha mostrato ben poche simpatie per Renzi a causa delle sue posizioni sui rapporti con la Russia», ma adesso perché di colpo lo difende? E perché anche la Merkel accorre in aiuto del “giullare” fiorentino? No, Renzi non è diventato improvvisamente simpatico a tutti: «Il punto è un altro e va messo in relazione alla Brexit». Una bocciatura della riforma renziana «suonerebbe come la seconda aperta sconfessione di un governo europeo, e questo sarebbe un esempio molto pericoloso».Napolitano e Monti sono stati espliciti, in merito: non sono materie da sottoporre a giudizio referendario, il popolo non deve metter becco in questi argomenti. Il rischio, continua Giannuli, è che «a ruota piombino le richieste di referendum sulla Ue, l’euro o altre materie “sensibili” anche in Francia, Spagna, Portogallo, Olanda e Repubblica Ceca, travolgendo i rispettivi governi come è stato rovesciato Cameron e come lo sarebbe Renzi se vincesse il No». E questo, ovviamente, «potrebbe preludere al crollo della Ue con effetto-domino sugli Usa», anche perché «non dobbiamo perdere d’occhio i venti di rivolta elettorale che soffiano su Europa e Usa come reazione alla crisi ormai quasi decennale». Questa l’analisi di Giannuli: «Le élites dominanti, anzi la élite globale, reagisce mettendo da parte i suoi dissensi interni e opponendo un fronte unico alla sollevazione popolare. D’altra parte, la riforma di Renzi dell’“uomo solo al comando” tutta impostata sul ruolo centrale e quasi esclusivo del governo ai danni di magistratura e, soprattutto, Parlamento si inquadra perfettamente nella “costituzione emergenziale” della globalizzazione: una governance impostata su una sorta di conferenza permanente dei capi degli esecutivi senza impicci parlamentari e tantomeno di organi come le Corti Costituzionali o, più in generale, del potere giudiziario». In altre parole, «l’ordine neoliberista non tollera di essere messo discussione e tantomeno dai popoli dell’Occidente». Se non altro, ora ha gettato la maschera.Ve lo vedete il nostro ambasciatore a Washington che si intromette nelle campagna elettorale di Trump? Ne verrebbe fuori un putiferio. Invece, rileva Aldo Giannuli, in Italia nessuno apre bocca se mezzo mondo interviene in soccorso di Renzi, in vista del temutissimo referendum d’autunno – temutissimo perché, dopo il Brexit, sarebbe una breccia per altri “pericolosi” referendum, non solo in Italia, sull’euro e la Ue. «La Cei, l’ambasciatore americano, la Merkel, Wall Street, le agenzie di rating come “Fitch”, la Goldman Sachs e la Jp Morgan, la Ue e chissà chi altro nelle prossime ore, stanno accorrendo tutti al capezzale del governo italiano in vista del pericoloso appuntamento referendario che rischia di diventarne l’infarto finale». Per Renzi la strada è in salita: la probabilità di perdere è molto più che una semplice ipotesi. «E pur di scongiurare questo (per loro) infausto evento, si mettono da parte rivalità e vecchi rancori e si travolge persino la prassi diplomatica per la quale è vietatissimo ad un ambasciatore prendere posizione sulle vicende interne del paese presso il quale è distaccato». E, salvo «la timida ma onorevole uscita di Mattarella», non c’è stata nessuna protesta diplomatica del nostro ministero degli esteri.
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La Bundesbank: preparatevi a dire addio alla pensione
In pensione sempre più tardi, possibilmente mai: «Un allungamento della vita lavorativa non dovrebbe essere un tabù ma deve, anzi, essere considerato come un elemento fondamentale», avvertono gli economisti della Bundesbank, la banca centrale tedesca presieduta da Jens Weidmann. «Non appena la crisi ricorda a tutti di non esser mai finita, si alza immediatamente la voce ammonitrice di chi reclama più austerità sui conti pubblici (tacendo sempre sull’insostenibilità di quello privato, soprattutto)», commenta Claudio Conti su “Contropiano”. «Inutile far notare a un Weidmann o un Dijsselbloem che in questo modo si distrugge il benessere della popolazione: l’obiettivo è infatti proprio quello». Oggi in Germania l’età del ritiro dal lavoro è a 67 anni. Allontanare ancora l’età pensionabile significa arrivare ai settant’anni. E la previsione è ancora peggiore per le generazioni più giovani, entrate al lavoro con le leggi “Hartz IV” varate sul modello delle “riforme” introdotte anni fa alla Volkwagen corrompendo i leader sindacali perché firmassero accordi-capestro per i dipendenti. Problema: il modello-Germania, creato con l’inganno, oggi in Europa fa testo. Ispira tutte le nuove legislazioni, dal Jobs Act al Loi Travail francese.Il calcolo della banca centrale tedesca, aggiunge “Contropiano”, è truccato anche questa volta: esclude infatti moltissime voci del bilancio statale, «per arrivare infine a “dimostrare” che, se non si toccano unicamente le pensioni, tutto salta». Il ragionamento, continua Conti, si basa sulla generazione dei baby-boomers, nati negli anni ‘50 e ‘60, quando il benessere della ricostruzione post-bellica aveva spinto le famiglie a mettere al mondo molti figli. Dopo l’exploit del 1964, come in Italia, anche in Germania poi è cominciata una “discesa” demografica: ogni anno, c’è mezzo milione di tedeschi in meno rispetto all’anno prima (solo gli immigrati mantengono il bilancio in equilibrio). L’allarme di Weidmann considera solo il “picco negativo” elevandolo a tendenza, «come se negli anni successivi quel trend non si fosse mai invertito», arrivando così a sostenere che «tra il 2030 e il 2060» il costo sociale del declino demografico potrebbe farsi insostenibile. Per “Contropiano”, si tratta di un ricatto esplicito: «O si aumenta l’età pensionabile, portandola il più vicino possibile all’aspettativa di vita (tradotto: dovete morire sul lavoro), oppure si aumenta la percentuale di salario dirottata ai contributi previdenziali». O, ancora, «si abbassa il “tasso di sostituzione”, cioè il rapporto tra assegno pensionistico mensile e ultima retribuzione percepita (già ora molto basso, intorno al 42%)».Con le elezioni ormai alle porte – in Germania di voterà nel 2017 – la Merkel non intende fornire un assist ai suoi avversari: si è infatti affrettata a garantire che il sistema previdenziale resterà immutato. Ma la sortita della banca centrale, osserva Conti, è chiaramente rivolta a tutti i membri dell’Ue. Il messaggio è chiaro: se è costretta a tirare la cinghia persino la Germania, cioè il paese economicamente più forte (e con i conti quasi in regola con i parametri di Maastricht), figuriamoci cosa dovranno fare i paesi con deficit o debito eccessivo, Francia e Italia in primis. In altre parole: la tecnocrazia agli ordini dell’élite sembra ben decisa a “terminare” quel che resta del welfare europeo. Il grosso del “lavoro sporco” è già stato fatto, con le varie “riforme” del mercato occupazionale che hanno azzerato i diritti dei dipendenti, senza contare i tagli alla sanità e la privatizzazione selvaggia dei servizi essenziali, come trasporti, acqua ed energia. Resta il boccone più grosso, quello delle pensioni: terremotare la previdenza pubblica significa, tra l’altro, scatenare la corsa alle pensioni integrative, private, secondo lo schema italiano della legge Fornero.Tutto questo, conclude Claudio Conti, serve ad «affermare concretamente il principio che tutto è dovuto all’interesse del mercato capitalistico e nulla alle popolazioni». Si teme dunque che «anche le pensioni già in essere dovranno subire tagli forsennati, come è stato imposto alla Grecia». Neoliberismo, reinterpretato dal neo-feudalesimo europeo che nega l’istituto strategico del deficit positivo, la spesa pubblica come investimento strategico, sociale ed economico. La logica resta quella, aberrante (puro delirio anti-economico) del pareggio di bilancio: impossibile spendere più di quanto si produce (il che è vero solo per famiglie e aziende, mai per uno Stato che sia sovrano della sua moneta, da emettere in quantità necessaria per sostenere il sistema-paese). In più, l’ordoliberismo teutonico impugna a senso unico il falso dogma del bilancio in pareggio: «Nel settore finanziario, infatti, nulla viene rimproverato a quanti (ad iniziare da Deutsche Bank, hanno accumulato perdite, debiti, “sofferenze” sistemiche inaffrontabili». In quel caso, al contrario, lo Stato è generosissimo: ogni sforzo pubblico è stato invocato (e ottenuto) per “salvare” gli istituti di credito rigorosamente privati. E ora, chiosa “Contropiano”, il fatto che alcune voci del bilancio pubblico (persino tedesco) siano considerate sacrificabili, significa una sola cosa: la resa dei conti è ogni giorno più vicina.In pensione sempre più tardi, possibilmente mai: «Un allungamento della vita lavorativa non dovrebbe essere un tabù ma deve, anzi, essere considerato come un elemento fondamentale», avvertono gli economisti della Bundesbank, la banca centrale tedesca presieduta da Jens Weidmann. «Non appena la crisi ricorda a tutti di non esser mai finita, si alza immediatamente la voce ammonitrice di chi reclama più austerità sui conti pubblici (tacendo sempre sull’insostenibilità di quello privato, soprattutto)», commenta Claudio Conti su “Contropiano”. «Inutile far notare a un Weidmann o un Dijsselbloem che in questo modo si distrugge il benessere della popolazione: l’obiettivo è infatti proprio quello». Oggi in Germania l’età del ritiro dal lavoro è a 67 anni. Allontanare ancora l’età pensionabile significa arrivare ai settant’anni. E la previsione è ancora peggiore per le generazioni più giovani, entrate al lavoro con le leggi “Hartz IV” varate sul modello delle “riforme” introdotte anni fa alla Volkwagen corrompendo i leader sindacali perché firmassero accordi-capestro per i dipendenti. Problema: il modello-Germania, creato con l’inganno, oggi in Europa fa testo. Ispira tutte le nuove legislazioni, dal Jobs Act alla Loi Travail francese.
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Referendum: la super-finanza teme per il suo uomo, Renzi
«Se il referendum controcostituzionale in Italia è più importante della Brexit e se a sostenerlo è il “Wall Street Journal” è proprio il caso di dire che nel nostro paese il gioco si va facendo duro». Lo sostiene Sergio Cararo in un editoriale su “Contropiano”, partendo dal monitoraggio che “Repubblica” ha effettuato sulla stampa inglese: il quadro che emerge non è sorprendente ma decisamente inquietante, scrive Cararo, ricordando il monito di Jamie Dimon, Ceo di Jp Morgan, contro le costituzioni “troppo socialiste” dei paesi euromediterranei, senza contare «gli articoli terroristici prima del referendum britannico sulla Brexit». Se la grande stampa anglosassone – dall’“Economist” al “New York Times” – rispecchia la voce del massimo potere finanziario mondiale, dopo «una serie di articoli preoccupati della situazione economica italiana», adesso a far paura è l’incerta sopravvivenza del governo Renzi, con le possibili ripercussioni sull’Unione Europea. E il grande timore, naturalmente, si chiama referendum.Per il “Wall Street Journal”, il voto d’autunno in Italia è «probabilmente più importante del Brexit». Infatti, «i mercati sono concentrati sulla posta in gioco politica del referendum». Una bocciatura degli elettori – altamente probabile, stando ai sondaggi – potrebbe travolgere Renzi. Il vero costo per l’Italia? Il prolungamento della stagnazione economica, col peggioramento del debito pubblico e delle sofferenze bancarie. Se la “Reuters” parla di «stabilità a rischio in Italia», il “New York Times” evidenzia tre possibili scenari negativi connessi al referendum sulla Costituzione. Primo scenario: il referendum viene bocciato, Renzi si dimette, il Senato sopravvive e il sistema elettorale diventa proporzionale, rendendo ancora più difficile capire chi comanda: nuove elezioni, con Camera e Senato potenzialmente in mano a maggioranze diverse, e quindi ingovernabilità assoluta. Oppure: Renzi sopravvive, ma deve accordarsi con Forza Italia sulla legge elettorale, trascurando l’economia e facendo “volare” i 5 Stelle. O ancora, terzo scenario: se Renzi non riesce a risollevare l’economia, il M5S vince nel 2018. O meglio stravince, «vista la debolezza del nuovo Senato».Amche per il “Financial Times” Renzi ha sbagliato a personalizzare il referendum: «Molti italiani coglieranno l’occasione per votare contro», sperando di mandarlo a casa. Unica via d’uscita: Bruxelles deve concedere a Renzi più spazio, allentando la morsa dell’austerity sull’Italia. «Avrà effetto questa campagna di pressione e allarmismo dei giornali legati alle corporations sul referendum di autunno?», si domanda Cararo. «Alla luce di come è andata con la Brexit potrebbe non funzionare. Ma gli inglesi, prima di arrivare al compromesso con la monarchia, almeno la testa di un re l’avevano tagliata. Altrettanto è accaduto in Francia. Si tratta di paesi dove la forza dell’identità del citoyen che ha diritto di decidere sulle sorti del proprio Stato è ancora molto consistente». In Italia invece non siamo andato oltre i referendum, come quello – pur decisivo – del 1946, su monarchia o repubblica. «Facciamo in modo che vada come nel 1946 – auspica “Contropiano” – e che anche questo monarca, peraltro del tutto privo di “investiture divine” o popolari, si tolga dai coglioni».«Se il referendum controcostituzionale in Italia è più importante della Brexit e se a sostenerlo è il “Wall Street Journal” è proprio il caso di dire che nel nostro paese il gioco si va facendo duro». Lo sostiene Sergio Cararo in un editoriale su “Contropiano”, partendo dal monitoraggio che “Repubblica” ha effettuato sulla stampa inglese: il quadro che emerge non è sorprendente ma decisamente inquietante, scrive Cararo, ricordando il monito di Jamie Dimon, Ceo di Jp Morgan, contro le costituzioni “troppo socialiste” dei paesi euromediterranei, senza contare «gli articoli terroristici prima del referendum britannico sulla Brexit». Se la grande stampa anglosassone – dall’“Economist” al “New York Times” – rispecchia la voce del massimo potere finanziario mondiale, dopo «una serie di articoli preoccupati della situazione economica italiana», adesso a far paura è l’incerta sopravvivenza del governo Renzi, con le possibili ripercussioni sull’Unione Europea. E il grande timore, naturalmente, si chiama referendum.
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I 5 Stelle? Crolleranno quando nascerà un’alternativa seria
I 5 Stelle scivolano nella palude romana, per la gioia del mainstream politico e mediatico che finalmente li vede in seria difficoltà alla prova del comando? Male, anzi malissimo. Ma chi scommette sul crollo dei grillini si illude, dice Aldo Giannuli: la base pentastellata sa benissimo che il movimento di Grillo non ha una vera classe dirigente, ed è pronta – ancora – a perdonargli ingenuità anche gravi, pur di non tornare ai figuranti del sistema precedente. Se i grandi media e i partiti concorrenti (Pd in testa) sparano a man salva sui 5 Stelle dichiarandoli incapaci di governare, ben altre critiche provengono dall’area di opinione che si esprime su molti blog: il vero problema dei grillini è che non hanno soluzioni radicali e risolutive per la crisi, sociale ed economica, innescata dal dominio della finanza e, in Europa, tradottasi nei diktat dell’Unione Europea e della Bce, con la storica confisca della moneta sovrana. Anche a Roma i grillini si sono tenuti alla larga dal problema, evitando di denunciarlo apertamente. Eppure, vengono ancora visti da una larga parte di elettorato come una forza politica alternativa, l’unica in campo.Tutta la polemica di queste settimane – gli incarichi discutibili, le procedure di trasparenza – si sviluppa a valle del grande problema: come rilanciare l’economia italiana, a partire da una metropoli come Roma, senza disporre di investimenti strategici? Come è possibile impostare un governo radicalmente “rivoluzionario” senza prima rivendicare, ad alta voce, il diritto alla sovranità finanziaria, senza più la tagliola del patto di stabilità imposto da Bruxelles? Sono i temi sui quali era stata lanciata, dal Movimento Roosevelt di Gioele Magaldi, la candidatura (altamente simbolica) di un fuoriclasse dell’economia keynesiana, il professor Nino Galloni. Premessa: per poter impostare una politica sociale, di sviluppo e benessere, occorre prima azzerare tutti i vincoli imposti dal sistema dell’Eurozona, anche con azioni dimostrative – e un palcoscenico come quello di Roma sarebbe perfetto, per ottenere la massima risonanza anche a livello europeo, “costringendo” anche i maggiori partiti a prendere atto che è giunto il momento di cambiare passo, regole, paradigma: la missione dell’ente pubblico non può essere il pareggio di bilancio, perché solo l’investimento pubblico può rilanciare le aziende.Nessuno, oggi, cavalca questa battaglia in Italia – nemmeno la Lega di Salvini lo fa in modo organico. Eppure, il 30% dell’elettorato (perlomeno, quello votante) scommette ancora sui 5 Stelle, non avendo altra offerta politica da prendere in considerazione. Il politologo Giannuli, non certo ostile ai grillini, avverte: il consenso attorno al Movimento 5 Stelle non è un fenomeno solo italiano, ma è «qualcosa che investe tutto l’Occidente o, quantomeno, Europa ed Usa». L’elettorato mette in discussione «la legittimazione dei sistemi di potere consolidati». Negli anni ‘30, ricorda Giannuli, «si affermò un modello di democrazia sociale, fondato sul compromesso socialdemocratico fra capitalismo e organizzazioni del movimento operaio: pace sociale contro redistribuzione della ricchezza e Stato assistenziale». Questo ordine, continua Giannuli, «è andato in frantumi man mano che è avanzata la controrivoluzione neoliberista per affermare un nuovo ordinamento basato sul comando della finanza, la delocalizzazione industriale, la precarizzazione di massa, la distruzione del ceto medio». Risultato: «Una concentrazione della ricchezza senza precedenti e una globalizzazione pensata in funzione del monopolarismo imperiale americano».Oggi, otto anni dopo l’esplosione definitiva di una crisi che «ha distrutto risparmi, posti di lavoro, garanzie sociali, falcidiando salari e stipendi, si sta manifestando la rivolta delle classi subalterne e dei ceti medi che ritirano la delega ai partiti tradizionali di sistema (liberali, socialdemocratici, cattolici, conservatori) aggregandosi in nuove formazioni abbastanza improvvisate». Formazioni che, nel caso dei 5 Stelle, non indicano neppure chiaramente la causa del problema, né avanzano soluzioni precise – ma agli elettori, almeno per ora, sembra bastare la semplice denuncia del malessere, dei sintomi sociali più acuti. Toni che ricorrono dall’Europa agli Usa, dal Front National di Marine Le Pen fino a Donald Trump. Lo scenario, peraltro, è dominato dalle ondate migratorie cui stiamo assistendo: «E’ un fenomeno strutturale che non torna indietro», e produce immediate ripercussioni elettorali: i delusi, che ormai sono la stragrande maggioranza, «possono passare da una formazione antisistema ad un altro movimento simile o forse passare all’astensione, ma, in gran parte, non pensano affatto di rifluire nella gabbia del sistema dalla quale sono uscite. E questo vale anche per il M5S».Per questo, insiste il politologo dell’ateneo milanese, sbaglia chi pensa che gli elettori stiano per abbandonare i grillini: sono pronti a perdonare loro «una quantità di sciocchezze», viste come «il prezzo da pagare per portare il sistema al crollo». Perché di questo sarebbero convinti, molti elettori di Grillo: credono davvero che la missione del movimento sia l’abbattimento del sistema, anche se il M5S non ha finora neppure sfiorato il tema capitale, cioè la drammatica sottomissione al supremo potere euro-Ue – sottomissione che rende semplicemente impossibile la realizzazione di qualsiasi politica alternativa, democratica, partecipativa e trasparente, fondata sulla riconversione sociale dell’economia. La crisi morde, e produce «umori contrastanti», dall’insofferenza verso la folle pressione fiscale alla classica rivolta contro la “casta” (vista come detentrice di privilegi, non come l’entità che ha svenduto il paese alla super-casta Ue). «Poi c’è di tutto: da quelli che temono gli immigrati al sindacalismo radicale, da vegani e nonviolenti a frange fascistoidi, da pezzi di sinistra comunista a cattolici impegnati nel volontariato. Tutto e il contrario di tutto».«E questo magma – avvisa Giannuli – attraverserà molte trasformazioni, diventerà cose diverse, ma non sparirà nel nulla». Il Movimento 5 Stelle? Rischierà davvero di sparire solo quando comparirà un’alternativa seria, realmente anti-sistema, decisa a ribaltare per davvero le regole del gioco. E cioè: fine della svendita dell’interesse pubblico, fine delle privatizzazioni e di tutte le altre conseguenze-capestro imposte dal regime autoritario dell’Eurozona, dalla super-tassazione al pareggio di bilancio. Servirà un gruppo dotato di visione prospettica, capace di rifondare l’economia abbattendo i falsi dogmi del neoliberismo, che prevedono la demolizione dello Stato come garante del cittadino. Ma anche qui, conclude Giannuli, è inutile farsi illusioni: «Per ora, non c’è nessun segno che lasci presagire una sfida del genere in tempi politicamente prevedibili». I 5 Stelle, dunque, potranno dormire sonni tranquilli: con buona pace dell’Italia che, senza una vera alternativa, continuerà ad affondare.I 5 Stelle scivolano nella palude romana, per la gioia del mainstream politico e mediatico che finalmente li vede in seria difficoltà alla prova del comando? Male, anzi malissimo. Ma chi scommette sul crollo dei grillini si illude, dice Aldo Giannuli: la base pentastellata sa benissimo che il movimento di Grillo non ha una vera classe dirigente, ed è pronta – ancora – a perdonargli ingenuità anche gravi, pur di non tornare ai figuranti del sistema precedente. Se i grandi media e i partiti concorrenti (Pd in testa) sparano a man salva sui 5 Stelle dichiarandoli incapaci di governare, ben altre critiche provengono dall’area di opinione che si esprime su molti blog: il vero problema dei grillini è che non hanno soluzioni radicali e risolutive per la crisi, sociale ed economica, innescata dal dominio della finanza e, in Europa, tradottasi nei diktat dell’Unione Europea e della Bce, con la storica confisca della moneta sovrana. Anche a Roma i grillini si sono tenuti alla larga dal problema, evitando di denunciarlo apertamente. Eppure, vengono ancora visti da una larga parte di elettorato come una forza politica alternativa, l’unica in campo.
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Carotenuto: i Maghi Neri non ci domineranno per sempre
Fa più rumore un albero che cade, lo sappiamo: l’immensa foresta cresce in silenzio. Oggi però di alberi ne cadono a migliaia, tutti i giorni. E’ un fragore spaventoso, che provoca smarrimento. Il che non è casuale: più che il legname, infatti, al taglialegna interessa proprio la paura che il crollo provoca. Guerre, disperazione, crisi economiche accuratamente progettate. Ma l’indotto globalizzato della strage quotidiana, il “core business del male”, non è nemmeno il lucro: l’obiettivo numero uno è lo scoraggiamento di massa, planetario. La resa dell’umanità. I trilioni di dollari contano, eccome – sono la lussuosa paga dei grandi mercenari, gli strumenti della “piramide oscura”. Al cui vertice però siedono tenebrosi “sacerdoti”, i Maghi Neri, il cui vero “fatturato” non è misurabile in denaro, ma in dolore. La loro missione: sabotare le connessioni vitali, amorevoli, tra persone e popoli. Da questa prospettiva, decisamente inconsueta, Fausto Carotenuto fotografa, a modo suo, il senso della grande deriva mondiale che stiamo vivendo, di cui spesso stentiamo a cogliere il significato. Ma non lasciamoci spaventare, aggiunge: se il frastuono è in aumento, se gli “architetti del buio” stanno “esagerando”, è perché cominciando ad avere paura del nostro risveglio.Fausto Carotenuto non è un guru della new age. E conosce bene le dinamiche del quadro geopolitico: per anni, è stato analista strategico dei servizi segreti italiani. Da tempo, ha intrapreso nuove esperienze, confluite nel network “Coscienze in Rete”. E ha scritto libri come “Il mistero della situazione internazionale”, che provano a tradurre anche la politica in termini spirituali: una dimensione inconfessabile, impresentabile a livello mainstream (sarebbe spernacchiata come grottesca surperstizione). Ma in realtà – sostiene l’autore – è l’unica prospettiva capace di spiegare fino in fondo l’attitudine dei “dominus”, la loro incrollabile e misteriosa vocazione al peggio. Carotenuto ricorre alle categorie simboliche dell’invisibile, evocando i due principi-cardine a cui si ispirerebbe la “piramide nera”: da un lato “Lucifero”, il demone della realtà illusoria, presentata come rifugio dorato, dove la coscienza “si addormenta” e smette di evolversi; e dall’altro “Arimane”, «il padrone della scena materiale», la cui missione consisterebbe nel «convincerci che non abbiamo spirito, che siamo solo animali evoluti», e quindi «fa di tutto per meccanizzarci, per legarci a vite prive di amore, abbacinate dal denaro, dai piaceri fisici, dal potere sugli altri».Queste due potenze, scrive Carotenuto, sono il vertice di una piramide – reale, concreta – fatta di uomini in carne e ossa. Sono i sommi sacerdoti e loro discepoli, che coordinano le “fratellanze oscure” e le organizzazioni trasversali, utilizzando schiere di mercenari puntualmente reclutati e profumatamente pagati per fare il “lavoro sporco”, senza averne neppure la piena consapevolezza. Ogni anello di questa catena infernale, sostiene l’autore, interpreta innanzitutto il ruolo del carnefice, per poi scoprirsi vittima a sua volta: le vite degli esponenti del massimo potere, a prima vista comode, sono in realtà tormentate da continue lotte: tutti i grandi boss sono avvelenati dalla paura di essere scalzati e privati degli smisurati privilegi conquistati con ogni mezzo. In altre parole: nessuno è davvero felice, lassù. Al punto che, sempre più spesso, si registrano autentiche ribellioni: eredi designati, rampolli di grandi famiglie ed ex “macellai” di lungo corso (dell’economia, della finanza, delle multinazionali) all’improvviso “vedono” la disperazione del sistema e la respingono, non essendo più disposti a restare complici della “piramide oscura”.Anche per questo, secondo Carotenuto, sta aumentando l’intensità della violenza a cui siamo sottoposti, fra disastri economici, guerre e terrorismo: l’élite “nera” teme di perdere la sua presa. E il suo declino, pronostica l’autore, potrebbe essere più rapido di quanto non s’immagini. Ma non sarà una passeggiata: il potere “nero” è un osso durissimo. A comiciare da loro, quelli che Carotenuto chiama Maghi Neri, cioè personalità votate al male: «Hanno ricevuto enormi fortune, grandissimi poteri». Magia, vera e propria: «Lunghi e ripetuti rituali, contro-iniziazioni», che nel corso della storia hanno reso questi individui «particolarmente acuti, di un’intelligenza fredda e metallica, priva di cuore». Godono del potere immenso che esercitano sull’umanità – che disprezzano, insieme al bene e alla libertà. Coadiuvati dai loro discepoli, continua Carotenuto, i Maghi Neri istruiscono le “fratellanze oscure”, ovvero «ristrette organizzazioni», non note ai più, che «praticano ritualità oscure», di tipo occultistico, «con l’uso intensivo di medium». Oltre ai mezzi ordinari, materiali, «dalla manipolazione agli omicidi» le “fratellanze oscure” «praticano attivamente la magia nera», nella quale hanno evidentemente la massima fiducia. Nella formazione degli adepti «viene spenta ulteriormente la forza dell’amore e vengono accentuate particolari doti, dell’intelligenza e dell’obbedienza».Spesso si tratta di giovani, «lanciati in carriere fulminanti», per arrivare a volte a diventare «consiglieri più o meno occulti di qualche eminente personalità», fino ad essere «investiti in prima persona nei grandissimi incarichi». Secondo Carotenuto, «il lavoro rituale fatto su di loro lascia spesso tracce esteriori visibili negli occhi, che acquistano una apparenza strana, priva di calore o vitrea». Occhi «dotati di una luce inquietante, o spenti». Non è una pagina della saga di Harry Potter. Ricorda da vicino certi film, come “L’avvocato del diavolo”, con Al Pacino e Keanu Reeves. Ma quella di Carotenuto non è fiction: anche se parla apertamente di magia (nera), la modalità narrativa è quella della saggistica. Le “fratellanze oscure”? Esistono, eccome. E funzionano proprio così, sostiene l’autore. «Si tratta probabilmente di qualche decina di organizzazioni segrete, presenti e attive ovunque nelle strutture del potere laico e di quello religioso». Sono queste organizzazioni che «predispongono e dirigono gli uomini che portano avanti in modo piuttosto consapevole le più forti operazioni di condizionamento dell’umanità: le contro-ispirazioni, gli attacchi alla natura umana, le guerre, il terrorismo».Tutto il resto è a valle, assicura l’ex analista geopolitico dell’intelligence: dalla Trilaterale al Council on Foreign Relations, dal Bilderberg all’Aspen Istitute, dal Club di Roma ai Rotschild, fino alla Goldman Sachs e alla super-massoneria deviata. La recente letteratura complottista punta il dito contro i gesuiti e l’Opus Dei, i Fratelli Musulmani, il B’nai B’rith israeliano? «Queste organizzazioni, misteriose ma note, sono sono al quinto livello della scala del potere oscuro», cioè «abbastanza in basso», vale a dire: «Meri esecutori, ben compensati per i loro servigi, con soldi e potere. Ma non sono loro a elaborare le grandi strategie del male». Restano agli ordini dei «livelli superiori», cioè «alcune centinaia di famiglie e organizzazioni». Gli uomini delle “fratellanze oscure” «ricevono spesso incarichi dirigenziali importanti nei principali settori del potere economico, politico, militare, religioso, culturale, scientifico, mediatico e malavitoso». Esecutori speciali, che «rispondono fedelmente agli uomini delle cerchie ristrette», da cui ricevono istruzioni, che applicano alla lettera, senza mai discuterle, per non perdere le posizioni acquisite.Quello degli esecutori disseminati nelle “fratellanze oscure”, sempre secondo Carotenuto, è un vero e proprio esercito: «Sono molte migliaia, in tutte le organizzazioni mondiali di potere, in tutti i settori. Capi e dirigenti importanti delle organizzazioni multinazionali fondamentali», dall’Onu al Fmi, dalla Banca Mondiale al Wto fino all’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Inlcusi «la maggior parte dei capi religiosi e dei capi di Stato e di governo». Leader di partito e capi delle multinazionali, vertici bancari e finanziari, senza contare l’impero dei mass media, la maggior parte dei servizi segreti e delle forze armate. Farebbero parte del sistema anche i maggiori responsabili dei principali gruppi religiosi, nonché i boss dei cartelli criminali mafiosi. «Vicino a loro c’è sempre almeno un emissario della cerchia ristretta, della “fratellanza”, da cui dipende il loro gruppo». E’ un uomo «al quale non si può dire di no, mai: nemmeno il presidente degli Stati Uniti può dire di no a un certo assistente o collaboratore, mai». A volte, aggiunge Carotenuto, il politico non capisce neppure perché gli viene ordinato di fare certe cose, in apparenza senza senso; ma obbedisce sempre, puntualmente premiato con «ricche porzioni di potere materiale».Più a valle ancora, nella serie di gironi danteschi rappresentati da Carotenuto, ci sono i semplici “mercenari” reclutati per singole missioni. E quindi – ultimo anello della catena – ci siamo noi, il resto dell’umanità: «Se non ci fossimo noi, coi nostri attuali comportamenti, a fare da base a ognuna di quelle piramidi, non esisterebbero neppure». L’autore le chiama “forme-impero”, “piramidi del male”. Tutti noi, inconsapevolmente, ne facciamo parte. Come? Lasciando che la nostra coscienza continui a dormire: «Tutti gli spazi della nostra vita non occupati dalla nostra coscienza, dalle nostre azioni e dai nostri pensieri vigili, in direzione del bene, della crescita della coscienza nostra e degli altri intorno a noi, sono il campo di manovra delle forze oscure. Ogni mancanza di amore e di coscienza, da parte nostra, è un mattone delle piramidi del male, che approfittano immediatamente delle nostre omissioni, delle nostre assenze, dei nostri egoismi». Basta poco: fidarsi di quello che il potere racconta, lasciarsi gestire, delegare ai “poteri oscuri” l’orientamento della nostra vita, delle nostre scelte anche politiche, del nostro lavoro, del nostro tempo. «Il loro potere deriva dal sangue che ci succhiano, che sono le nostre energie economiche, fisiche, vitali e psichiche. Ma siamo sempre noi a porgere il collo, inconsciamente, a queste vere e proprie “piramidi di vampiri”».Carotenuto le chiama anche “forze dell’ostacolo”: in apparenza soltanto negative, “demoniache”, ma in realtà – per quanto abominevoli – anch’esse funzionali, in ultima analisi, alla “strategia del risveglio” con cui, silenziosamente, l’umanità sarebbe alle prese. Solo lo stato di crisi, infatti, mobilita le risorse interiori, altrimenti dormienti. Il male, in funzione del bene: una visione filosofica tipicamente orientale, in Occidente abbracciata per lo più dalle correnti minoritarie, esoteriche, come il templarismo (San Bernardo che non uccide il diavolo, ma lo doma tenendolo al guinzaglio, incatenato). Il libro di Carotenuto sorvola sui nomi, preferendo uno sguardo prospettico e teorico. Non denuncia direttamente singoli “colpevoli”, ma descrive il meccanismo che li produce – e lo fa ricorrendo a una visione “animica”, di tipo spiritualistico, insistendo nella convinzione che (al di là dell’apparenza) proprio la dimensione spirituale sia quella dotata di maggiore concretezza, come il super-potere della “piramide” ben sa, assicura l’autore.Quelli a cui manca questa consapevolezza, invece, siamo proprio noi: non abbiamo ancora compreso l’immenso potenziale, anche pratico, di una forza non convenzionale chiamata “amore”, capace di prodigiosi contagi benefici – quelli che la “piramide oscura” teme così tanto, al punto da traumatizzarci anche col terrore diffuso, per spezzare le “reti invisibili, amorevoli”, destinate infine a vincere. E’ infatti questo il messaggio dell’autore: la “foresta” sarà anche silenziosa, ma ultimamente sta crescendo a ritmi inimmaginabili. Milioni di individui, dice Carotenuto, attraverso la condivisione di conoscenze ed esperienze solidali stanno espandendo in profondità la loro coscienza, verso un’evoluzione impensabile dell’umanità, senza più odio. Si avvicina la fine delle “forme-impero”, come Roma (il contario di Amor) trasformatasi in un altro impero, con l’alibi di una religione storicamente manipolata, modellata per riprodurre all’infinito lo schema del dominio, quello dei Maghi Neri? Carotenuto ci crede: il male è scatenato, nel mondo, e questo provoca ondate di angoscia e di egoismo. Ma le “armate bianche” – così le chiama – sono entrate in azione, e spingeranno ognuno di noi a sottrarsi al potere delle “piramidi oscure”, cambiando il modo di pensare la propria vita e cominciando ad amare il prossimo. Questo farà crollare l’architettura dell’inferno che ci tiene prigionieri della paura.(Il libro: Fausto Carotenuto, “Il mistero della situazione internazionale. Come portare la spiritualità in politica”, Uno Editori, 247 pagine, euro 16,90).Fa più rumore un albero che cade, lo sappiamo: l’immensa foresta cresce in silenzio. Oggi però di alberi ne cadono a migliaia, tutti i giorni. E’ un fragore spaventoso, che provoca smarrimento. Il che non è casuale: più che il legname, infatti, al taglialegna interessa proprio la paura che il crollo provoca. Guerre, disperazione, crisi economiche accuratamente progettate. Ma l’indotto globalizzato della strage quotidiana, il “core business del male”, non è nemmeno il lucro: l’obiettivo numero uno è lo scoraggiamento di massa, planetario. La resa dell’umanità. I trilioni di dollari contano, eccome – sono la lussuosa paga dei grandi mercenari, gli strumenti della “piramide oscura”. Al cui vertice però siedono tenebrosi “sacerdoti”, i Maghi Neri, il cui vero “fatturato” non è misurabile in denaro, ma in dolore. La loro missione: sabotare le connessioni vitali, amorevoli, tra persone e popoli. Da questa prospettiva, decisamente inconsueta, Fausto Carotenuto fotografa, a modo suo, il senso della grande deriva mondiale che stiamo vivendo, di cui spesso stentiamo a cogliere il significato. Ma non lasciamoci spaventare, aggiunge: se il frastuono è in aumento, se gli “architetti del buio” stanno “esagerando”, è perché cominciando ad avere paura del nostro risveglio.
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Falsa morale (e veri interessi) da chi pilota l’immigrazione
Poteri forti, interessi fortissimi. Attraverso i media da loro gestiti, giustificano l’immigrazione di massa come rimedio alla denatalità dei paesi occidentali. Ma la giustificazione non regge, secondo Marco Della Luna, «perché quelli sono i medesimi poteri (interessi) forti che hanno indotto la denatalità, soprattutto attraverso la loro politica monetaria deflazionistica e recessiva la quale, assieme al modello sociale ad essa collegato, al contrario delle sue promesse di sviluppo e stabilità, ha tolto lavoro e prospettive per il futuro, nonché partecipazione democratica». Sono i medesimi super-poteri che «mantengono quella politica nonostante i suoi effetti, e che con essa si sono arricchiti e potenziati politicamente». Sono sempre loro a produrre i flussi migratori, «fomentando o conducendo direttamente guerre in Africa e Asia, per i loro interessi petroliferi, minerari, militari e per vendere armi, e praticandovi il land grabbing», la “rapina” delle loro terre. Poteri che «permettono ai comitati d’affari» anche italiani, «in veste politica o religiosa», di «speculare e rubare sul traffico dell’accoglienza», al riparo del Vaticano e dei mass media «moraleggianti». Tutto questo permette ai grandi padroni di «giocare al ribasso sui salari grazie alla manodopera immigrata».Per Della Luna, si tratta di «un traffico che distrae grosse risorse economiche altrimenti spendibili per sostenere l’occupazione e gli investimenti, quindi la natalità», senza contare «problemi di criminalità, di sicurezza del territorio e di malattie importate». Facciamo pochi figli? E’ sempre scarsa la domanda interna di beni? E’ perché «già abbiamo scarso reddito, scarsi servizi e scarsa sicurezza». E loro, i poteri al servizio degli “interessi forti”, «ci tolgono altri soldi, altri servizi e altra sicurezza per offrire il mantenimento (per giunta gratuito, senza lavorare) a chiunque arrivi: un invito potentissimo ad accorrere in massa, rivolto a un bacino di centinaia di milioni di poveri, che mette in moto un flusso inesauribile, che richiederà risorse inesauribili, ossia esaurirà presto quelle disponibili». Per Della Luna, da sempre ultra-critico verso l’immigrazione “pilotata”, il cerchio si chiude: «Con la recessione e la disoccupazione si produce la denatalità che giustifica l’accoglienza, la quale sostiene la denatalità».Al tempo stesso, «con l’imperialismo e l’interventismo nei paesi poveri si alimentano i flussi migratori, scaricandone i costi sui paesi occidentali, in cui le condizioni di vita e le prospettive per il futuro si deteriorano al punto che essi risultano attraenti solo per i migranti economici che vengono da aree molto peggiori, mentre per noi davvero aver figli diviene sempre meno sostenibile e desiderabile». Così sta avvenendo una sorta di graduale sostituzione etnica: «Fuori noi, dentro loro». E’ la sindrome dei panda, che «quando si trovano in cattività, in un ambiente cioè che non sentono più come il loro, smettono di riprodursi». Preti e mass media dicono che noi occidentali dobbiamo accettare l’immigrazione di massa da quei paesi per espiare il fatto che, in passato, li abbiamo colonizzati e sfruttati? «Ma chi decise la colonizzazione e la usò per arricchirsi – ribatte Della Luna – erano non già i popoli (occidentali), bensì proprio quelle medesime élites che oggi stanno praticando l’imperialismo verso quei paesi, a spese (anche) dei popoli occidentali, e che posseggono i media e gestiscono l’informazione, cioè la propaganda, a loro profitto».(Marco Della Luna, “Elites e migrazione, falsa morale e veri interessi”, dal blog di Della Luna del 15 agosto 2016).Poteri forti, interessi fortissimi. Attraverso i media da loro gestiti, giustificano l’immigrazione di massa come rimedio alla denatalità dei paesi occidentali. Ma la giustificazione non regge, secondo Marco Della Luna, «perché quelli sono i medesimi poteri (interessi) forti che hanno indotto la denatalità, soprattutto attraverso la loro politica monetaria deflazionistica e recessiva la quale, assieme al modello sociale ad essa collegato, al contrario delle sue promesse di sviluppo e stabilità, ha tolto lavoro e prospettive per il futuro, nonché partecipazione democratica». Sono i medesimi super-poteri che «mantengono quella politica nonostante i suoi effetti, e che con essa si sono arricchiti e potenziati politicamente». Sono sempre loro a produrre i flussi migratori, «fomentando o conducendo direttamente guerre in Africa e Asia, per i loro interessi petroliferi, minerari, militari e per vendere armi, e praticandovi il land grabbing», la “rapina” delle loro terre. Poteri che «permettono ai comitati d’affari» anche italiani, «in veste politica o religiosa», di «speculare e rubare sul traffico dell’accoglienza», al riparo del Vaticano e dei mass media «moraleggianti». Tutto questo permette ai grandi padroni di «giocare al ribasso sui salari grazie alla manodopera immigrata».
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Francia in tumulto: si prepara a minacciare l’uscita dall’Ue
Sei francesi su dieci voterebbero per uscire dall’Unione Europea. Lo dicono i sondaggi, all’indomani del Brexit, in una Francia devastata dall’opaco terrorismo targato Isis. Protefa in patria, il professor François Heisbourg, presidente dell’istituto di studi strategici di Parigi, in un saggio di tre anni fa anticipò “La Fine del Sogno Europeo”. Sosteneva che il «cancro dell’euro» dovesse essere estirpato per salvare quel che resta del progetto europeo: «Il sogno è diventato un incubo. Non ci basterà negare la realtà per evitarlo, e Dio sa quanto la negazione sia stato il modo di operare delle istituzioni europee per lungo tempo». Heisbourg è stato ignorato, rileva Ambrose Evans-Pritchard, ma gli eventi si stanno svolgendo esattamente come lui temeva. Nel centrodestra, Sarkozy annuncia una grande svolta anti-Ue con la quale spera di contendere voti a Marine Le Pen. E dal centrosinistra, l’ex ministro Montebourg sfida apertamente Hollande, dichiarando che ormai i trattati europei sono da considerarsi carta straccia: la Francia non può più continuare a prendere ordini da Bruxelles.La lunga crisi economica in cui è sprofondata la Francia sta per riscuotere il suo tributo, politicamente parlando: «Ha mandato in pezzi prima il centrodestra e poi il centrosinistra francese, e ora minaccia la stessa Quinta Repubblica», scrive Evans-Pritchard sul “Telegraph”, in un articolo tradotto da “Voci dall’Estero”. L’ex presidente gollista Nicolas Sarkozy è tornato alla ribalta mediatica «lanciando la scommessa del proprio ritorno sulla scena con la proposta di un pacchetto di politiche di ultra-destra mai viste in tempi recenti nelle democrazie europee occidentali». Ma il tumulto nella sinistra è altrettanto rivelatore: Arnaud Montebourg, l’enfant terrible del partito socialista, ha lanciato la propria sfida contro il governo Hollande, definito «regime politico da destra tedesca». Nel mirino, Bruxelles: «Penso che l’Unione Europea sia arrivata a fine corsa, e la Francia non ha più alcun interesse a farvi parte. L’Unione Europea ci ha lasciati impantanati in una crisi anche molto tempo dopo che il resto del mondo ne era uscito». Montebourg chiede una sospensione unilaterale delle leggi europee sul lavoro: «Per quanto mi riguarda, gli attuali trattati sono scaduti». E annuncia uno “sciopero” contro l’Ue: «Non possiamo più accettare questa Europa».In altre parole, spiega Evans-Pritchard, Montebourg «se ne vuole andare da dentro – come stanno già facendo la Polonia e l’Ungheria – cioè senza sollevare nessuna clausola tecnica o legale». E la sua accusa contro Hollande è devastante: le politiche di rigore hanno inevitabilmente portato a milioni di persone disoccupate. «Non si sono mai smossi dal loro catechismo e dalle loro false certezze», dice Montebourg. I socialisti hanno pagato un prezzo salato per la loro cieca arroganza: hanno ottenuto solo il 15% dei voti dalla classe lavoratrice nelle recenti elezioni, mentre il Front National di Marine Le Pen ha mietuto il 55%. La doppia contrazione – fiscale e monetaria – ha gettato la già prostrata economia dell’Eurozona in una seconda recessione, osserva Evans-Pritchard. «Tutto ciò è stato aggravato da una stretta fiscale che è andata ben oltre qualsiasi possibile dose terapeutica, ed è stata imposta da un ministro delle finanze tedesco accecato da un’ideologia pre-moderna», il terribile Wolfgang Shaeuble, «e seguita servilmente da tutti gli altri». Ed ecco il punto: «La Francia avrebbe forse potuto mobilitare una maggioranza di paesi europei per bloccare questa follia, ma né Sarkozy né Hollande sono stati disposti ad affrontare Berlino».Entrambi i presidenti francesi «sono rimasti legati religiosamente all’accordo franco-tedesco, o almeno alla sua illusione totemica». Il risultato? «Un decennio perduto, e una retrocessione del lavoro che ridurrà le prospettive di crescita dell’Eurozona per molti anni ancora». Osserva ancora il giornalista economico inglese: «Non sapremo mai se la disoccupazione giovanile di massa nei quartieri nordafricani delle città francesi ha avuto un ruolo nella diffusione della metastasi jihadista lo scorso anno, ma certamente è stato uno degli ingredienti». Per contro, la tendenza anti-Ue che ormai investe trasversalmente la Francia dimostra che, se la “regia occulta” del terrorismo mirava a ottenere la rassegnazione dei francesi anche rispetto alle misure più impopolari dettate dall’élite finanziaria, come la Loi Travail, il Jobs Act transalpino, i francesi non ci stanno. Anche perché l’analisi della situazione è deprimente: «L’austerità fiscale è terminata, ma l’economia francese non è ancora abbastanza forte da risolvere le patologie sociali che tormentano il paese. Nel secondo trimestre la crescita è ritornata a zero».Per Evans-Pritchard, «il grande danno politico, comunque, si è già consumato: non serve aggiungere che la Francia ha anche una serie di problemi economici che non c’entrano con l’Ue. Il modello sociale è basato su tasse punitive sull’occupazione e crea uno dei peggiori cunei fiscali al mondo. Appena un quarto dei francesi tra i 60 e i 64 anni lavorano, rispetto al 40% della media Ocse. Questo è dovuto a incentivi per il pensionamento precoce. Lo Stato spende il 56% del Pil, cioè l’equivalente dei paesi nordici, senza però avere la flessibilità del lavoro che c’è nei paesi nordici». E ancora: «Ci sono 360 diverse tasse, alcune delle quali in vigore da prima della Rivoluzione Francese. I sindacati hanno per legge un presidio in tutte le aziende oltre i 50 dipendenti, eppure hanno un tasso di partecipazione di appena il 7%». Per Brigitte Granville, economista alla Queen Mary University di Londra, «è un inferno che purtroppo non ha nemmeno la poesia di Dante». Di fatto, «si è tergiversato per tutti gli anni del boom dell’euro e ora è troppo tardi. Ora la Francia è intrappolata nella camicia di forza dell’unione monetaria». Secondo il Fmi, il tasso di cambio reale è sopravvalutato del 9% (e rispetto alla Germania del 16%). «L’unico modo pratico con cui la Francia può riguadagnare competitività è tramite una profonda deflazione rispetto al resto dell’Eurozona, ma questo prolungherebbe la crisi e sarebbe devastante per il Pil e la dinamica del debito. Sarebbe autolesionista».Per Evans-Pritchard, Montebourg ha ragione a concludere che la Francia sarà paralizzata fino a che non riprenderà gli strumenti della propria sovranità. Quanto a Sarkozy, sta «aggirando questo elemento essenziale». Il suo manifesto-shock «chiede la fine del primato legale Ue rispetto alla legge francese e chiede l’abrogazione del Trattato di Lisbona, quello stesso trattato che lui, Sarkozy, aveva introdotto con prepotenza al Parlamento francese dopo che era stato respinto dagli elettori francesi in un referendum sotto la guisa di “Costituzione Europea”». Ma il suo maggior ardore, continua Evans-Pritchard, è riservato alla guerra culturale e alla “riduzione drastica” del numero degli stranieri. «Sarkozy promette di porre sotto controllo l’Islam in Francia, con gli imam che dovrebbero riferire le proprie attività al ministero degli interni». L’appello di Sarkozy alla “identità francese” punta direttamente al Front National, «e questo dice molto sulla devastazione dello scenario politico dopo anni di depressione».Marine Le Pen è davanti a Sarkozy nei sondaggi, con un sostegno dell’elettorato vicino al 30% grazie a un impetuoso mix di ricette economiche di sinistra e nazionalismo di destra, con un richiamo diretto agli anni ’30. Ha promesso di «far finire l’incubo dell’Unione Europea». Un sondaggio Pew risalente a giugno svela il 61% degli elettori francesi ha un’opinione “sfavorevole” dell’Ue, un dato addirittura più alto che in Gran Bretagna. Il professor Thomas Guénolé della “Sciences Po” di Parigi avverte: «Per quanto possa sembrare incredibile, un referendum sul ‘Frexit’ verrebbe probabilmente perso dalla fazione europea. Come nel Regno Unito, il ‘leave’ vincerebbe». Per “Le Figaro”, il Brexit ha cambiato profondamente la situazione: «I sostenitori della costruzione europea avevano preso l’abitudine di difendere l’Europa con argomenti catastrofisti, con l’idea che l’uscita avrebbe provocato nuove guerre o collassi economici. Ma ora la Gran Bretagna sta uscendo ed è evidente che non avverrà nessun cataclisma economico e nessuna grossa crisi geopolitica».Sei francesi su dieci voterebbero per uscire dall’Unione Europea. Lo dicono i sondaggi, all’indomani del Brexit, in una Francia devastata dall’opaco terrorismo targato Isis. Protefa in patria, il professor François Heisbourg, presidente dell’istituto di studi strategici di Parigi, in un saggio di tre anni fa anticipò “La Fine del Sogno Europeo”. Sosteneva che il «cancro dell’euro» dovesse essere estirpato per salvare quel che resta del progetto europeo: «Il sogno è diventato un incubo. Non ci basterà negare la realtà per evitarlo, e Dio sa quanto la negazione sia stato il modo di operare delle istituzioni europee per lungo tempo». Heisbourg è stato ignorato, rileva Ambrose Evans-Pritchard, ma gli eventi si stanno svolgendo esattamente come lui temeva. Nel centrodestra, Sarkozy annuncia una grande svolta anti-Ue con la quale spera di contendere voti a Marine Le Pen. E dal centrosinistra, l’ex ministro Montebourg sfida apertamente Hollande, dichiarando che ormai i trattati europei sono da considerarsi carta straccia: la Francia non può più continuare a prendere ordini da Bruxelles.
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La meglio gioventù è questa, che scava tra le macerie
Ero a L’Aquila, come volontario. Pareva il fronte. Un veneto di ventotto anni mi passava le brande da campo, mentre un toscano ed io, le posizionavamo dentro la tenda, qualificati da anni di corsi ed esercitazioni. Eravamo stanchi insieme; nei giorni passati tra le macerie, fusi nel nostro essere italiani. Contrariamente al pensiero comune, fratello è chi parla la mia lingua, riconosce il mio confine e condivide la mia tragedia. Amico è tutto il resto. Sardi, veneti, laziali, toscani. Liceali, universitari, disoccupati, già sposati. Giovanotti già dati per dispersi nelle pagine della storia. L’Aquila, Emilia Romagna, Genova. Amatrice. Centro Italia. La meglio gioventù, spala e scava. La meglio gioventù sta tra fango e macerie, la trovi là, a donare il proprio sangue, non la cercate nelle rivolte di piazza, i tempi cambiano. Non la cercate in un bonifico, è squattrinata, né a chiedere un mutuo o nei parchi, nei villaggi vacanze, tra le tette della donna o negli aeroporti verso l’estate arrembante; neanche nelle sezioni di partito. Non esistono più.Che la terra abbia tremato o si sia sciolta come il pianto dei disperati, la gioventù d’Italia ha risposto all’appello. Una corsa, vera, che fotografa i tempi. Non c’è colore, né distinzione. Un minimo comune multiplo, una linea di continuità, non esclusivamente tappe di un unico dolore. Tra drammi incredibili che piegano i rami carichi di una quercia stanca in mezzo al Mediterraneo. Tra drammi che sono, però, un segnale che incarna una speranza da non sottovalutare, rappresentano un esempio. Se il divenire storico vuole etichettare i propri eventi per ricordare dove li aveva messi, allora forse, ci siamo. Forse sarà questo che identificherà la “Generazione Duemila”, quella dei millenials – ufficialmente buona a nulla, lobotomizzata su un divano, costretta a pensarla alla stessa maniera, a frequentare vernissage o a fraternizzare con le Ong, a dimenticare davanti alla Playstation, annichilita e vecchia tuffarsi in un tormentone per avere un’overdose di vitalità, costretta a morire intirizzita ancora prima dei vent’anni – che come un milite ignoto, esiste senza un nome, un cognome, un volto. Allora sarà questo agire spontaneo e ripetuto che potrebbe offrirle un appellativo, fornendole una carta d’identità agli occhi della storia, come prima d’essa, ogni blocco generazionale.Tragedie in cui i giovani italiani c’erano, al pieno della loro gioventù, delle loro braccia forti e di un cuore pulsante. Come nel lontano 1966, con l’Inghilterra, per la prima ed unica volta, campione del mondo e Firenze sotto strati d’acqua e miseria, si rivedono i fanti della dignità. Volontari. Ragazzi e ragazze, figli della normalità, con i jeans sporchi ed i calli alle mani, come i loro padri. Con la divisa gialla e blu, con quella rossa. Una cordata che va oltre il senso bigotto e populista di solidarietà, un esercito armato di pala e piccone che supera le mode ed accorre, si scrolla da dosso la muffa da annichilimento ed accorre, lascia a casa fidanzata e genitori, curriculum, portfolio, disoccupazione ed accorre. Nessuna santificazione in un estasi di Gloria, piuttosto un segnale di vita: i giovani d’Italia ci sono. Spicca un ritorno all’origine che ossigena le anime e rinvigorisce la coscienza nazionale. Si torna a vedere esempi puliti tra i pezzi di case venuti giù come un apocalisse di stelle cadenti. Come per L’Aquila, l’Emilia Romagna, Genova, Amatrice e per tante altre ferite, c’erano i volontari della Protezione Civile, della Croce Rossa Italiana, con le proprie divise, le chiamate a casa per rassicurare ed i panini a pranzo e cena tra una tenda da montare e brandelli di muro da buttar via.Dunque occorre necessariamente riflettere. Proprio come i coetanei classe ’66, divisi tra rivoluzioni culturali, pantaloni a zampa e capigliature alla Paul McCartney, anche i nostri, noti alle cronache per essere figli mai liberi della crisi di un’epoca, dei valori, dell’etica e del buon senso, lavoratori a prestazione gratuita, senza speranza, senz’arte né parte, tormentoni o stereotipi, bendati verso il futuro, stanno raggiungendo la redenzione agli occhi della storia? Forse l’emblema della Generazione Duemila potrà essere proprio il cuore grande, che va oltre ogni cosa, oltre il nichilismo, la velocità siderale, la plastica, il denaro, l’ingozzamento dei nostri tempi? Forse l’appellativo di questa generazione sarà “volontaria”. Potremmo pensare di ricordare, prima di sprofondare nell’oblio da Tablet sul divano, la generazione degli anni ’10 come i ragazzi del soccorso, la “Generazione Duemila”, quella dei volontari. E per pietà, non copriate ciò che vuole andare oltre con nessuna passerella elettorale, con nessuna passeggiata mediatica.(Emanuele Ricucci, “La meglio gioventù sta tra le macerie – la Generazione Duemila, quella dei volontari”, dal blog “Contraerea” su “Il Giornale” del 26 agosto 2016).Ero a L’Aquila, come volontario. Pareva il fronte. Un veneto di ventotto anni mi passava le brande da campo, mentre un toscano ed io, le posizionavamo dentro la tenda, qualificati da anni di corsi ed esercitazioni. Eravamo stanchi insieme; nei giorni passati tra le macerie, fusi nel nostro essere italiani. Contrariamente al pensiero comune, fratello è chi parla la mia lingua, riconosce il mio confine e condivide la mia tragedia. Amico è tutto il resto. Sardi, veneti, laziali, toscani. Liceali, universitari, disoccupati, già sposati. Giovanotti già dati per dispersi nelle pagine della storia. L’Aquila, Emilia Romagna, Genova. Amatrice. Centro Italia. La meglio gioventù, spala e scava. La meglio gioventù sta tra fango e macerie, la trovi là, a donare il proprio sangue, non la cercate nelle rivolte di piazza, i tempi cambiano. Non la cercate in un bonifico, è squattrinata, né a chiedere un mutuo o nei parchi, nei villaggi vacanze, tra le tette della donna o negli aeroporti verso l’estate arrembante; neanche nelle sezioni di partito. Non esistono più.
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Hillary o Trump, l’agenda del dopo-Obama la detta l’élite
Sta’ a vedere che alla fine vince Trump. Ma non “da solo contro tutti”, bensì appoggiato da una poderosa quota di establishment, in base a un piano preciso: la rinascita industriale degli Usa, rimpatriando le imprese delocalizzate, e il patto con la Russia di Putin per il rialzo del prezzo del petrolio, che converrebbe a entrambi e ai loro alleati, a cominciare dai sauditi. Lo scrive Pepe Escobar, cogliendo informazioni riservate provenienti dallo staff elettorale di Trump. Punto di partenza, la crescente insofferenza (anche di parte dell’élite) nei confronti della Clinton, vista come “protesi” di Wall Street. «Potenti interessi economici che supportano con discrezione Trump – lontano dal circo mediatico – sono convinti che questi sia in possesso della mappa per giungere alla vittoria», scrive Escobar. Il messaggio vincente? La denuncia della distruzione del comparto industriale statunitense e il crollo dei salari dovuto all’importazione illegale di lavoro «da nazioni dove gli stipendi valgono una manciata di dollari». Di mezzo c’è anche l’industria bellica, esportata oltre il Pacifico, cioè in zone controllate da russi e cinesi. Industrie che «vanno rimpatriate immediatamente».Quindi, scrive Escobar in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, Trump dovrebbe sfruttare il messaggio che il credito bancario vada legato alla ricostruzione della moribonda industria statunitense, «alzando i dazi o sfruttando i cambi di valuta». I sostenitori di Trump puntano il dito contro il credito bancario: «Non dovrebbe essere utilizzato per facilitare la manipolazione dei valori delle Borse. Non dovrebbe esserci credito per la speculazione e assolutamente per gli hedge fund. Bisogna sbarazzarsi di questi mezzi speculativi alzando le tasse sugli introiti a breve termine dati dal trading, interrompendo i vantaggi fiscali sui prestiti e bloccando il credito a favore della speculazione». Questo spiega bene l’avversione viscerale di Wall Street nei confronti di Trump, da Bloomberg a Lloyd Blankfein, il boss di Goldman Sachs. «Chiunque conosca Wall Street – scrive Escobar – sa bene che ogni mercato, ogni bene e ogni indice viene manipolato da grossi movimenti di fondi». I sostenitori di Trump insediati a New York indicano i veri avversari da abbattere: «Dovremmo fare in modo che i Carl Icahan e i George Soros si trovino un vero lavoro, ultratassando i loro profitti derivanti da speculazione».E insistono: «In questa nazione ci servono gli Henry Ford che creino industrie, non i saccheggiatori di Wall Street che si arricchiscono come hanno fatto nel 2008, per poi ritrovarsi a utilizzare il loro peso per far coprire i buchi alla politica, mentre milioni di cittadini venivano buttati fuori dalle loro case». Secondo questa tabella di marcia, la lotta all’immigrazione illegale e alle speculazioni finanziarie creerebbe un “rinascimento industriale” negli Usa, per ricostruire tutte le Detroit che stanno andando allo sfascio. La strategia: «Sostituire milioni di lavoratori immigrati con milioni di disoccupati statunitensi», che sarebbero almeno il 23% della popolazione adulta. Alcune di queste idee sono già entrate nel programma economico annunciato da Trump, aggiunge Escobar. Ce la farà? I sondaggi puntano ancora alla Clinton, ma i sostenitori di Trump non si fidano, dicono che sono manipolati. E poi c’è l’isteria anti-russa che ormai galoppa. Hillary ha paragonato Putin a Hitler, mentre Trump ripete di essere pronto a fare affari con Mosca, cominciando con un’azione congiunta per sbarazzarsi dell’Isis. Falso problema, la Russia: chiunque sarà alla Casa Bianca dopo Obama, farà davvero un accordo strategico coi russi.Lo afferma «una fonte vicina ai piani dei Veri Padroni dell’Universo», riferisce Escobar. Fonte che va dritta al punto: «Per quanto riguarda la Russia, la decisione viene dall’alto, dove è in corso la battaglia. La decisione viene presa sopra le teste di Hillary e Donald: se Hillary verrà eletta le verrà imposto di riprendere i contatti, in caso così venga deciso. Se vincerà Trump è semplice. In caso non venisse eletto, allora la mancata elezione verrà comunque utilizzata come catalizzatore per un cambio di politica nei confronti della Russia. La vera guerra è dietro le quinte». Così come per le manipolazioni sulle valute, che «verranno impedite», e per la fine della “guerra del petrolio”, venduto finora a prezzi stracciati per colpire la Russia. Come dicono i sostenitori di Trump, «è un obiettivo nazionale degli Usa, perché un valore di mercato più alto renderebbe gli Stati Uniti stessi indipendenti dal punto di vista energetico. Ciò è parte significativa della rivoluzione di Trump». Secondo fonti vicine alla leadership dell’Arabia Saudita, aggiunge Escobar, sauditi e russi hanno già avviato un pre-negoziato sulla crescita del prezzo del greggio fino ai 100 dollari al barile. Il Pentagono non potrebbe opporsi, perché, dice un sostenitore di Trump, «è negli interessi del complesso militare-industriale raggiungere l’obiettivo di una totale indipendenza energetica e rimpatriare tutte le industrie belliche sul territorio nazionale».Escobar non si sbilancia: «Non ci sono prove che questo programma tanto ambizioso e controverso possa essere venduto agli strateghi di Jp Morgan o ai fratelli Koch. Trump che crea un partito trasversale o addirittura un movimento che trascenda i partiti potrà funzionare solo se membri di peso delle élite di potere lo sosterranno, altrimenti è impossibile che ciò accada». Quello che invece continua senza sosta è «una campagna di disinformazione di massa, un bel remix delle valanghe antisovietiche della prima guerra fredda: la Macchina dei Media della Clinton sta addirittura attaccando Michael Flynn, ex capo della Dia, che supporta Trump», dopo aver sostenuto che Obama e la Clinton erano fondatore e co-fondatrice dell’Isis. La situazione, oggi: «Trump non sta raccogliendo abbastanza denaro per controbilanciare l’incredibile macchina dei soldi della Clinton». Se invece vincerà “The Donald”, vorrà dire che “qualcuno” l’avrà aiutato in modo determinante. Il vero potere, quello a cui il premier britannico Benjamin Disraeli alluse parlando con il nipote: «Vedi, mio caro Coningsby, il mondo è governato da personaggi molto differenti da quelli che si immagina chi non sta dietro le quinte».Sta’ a vedere che alla fine vince Trump. Ma non “da solo contro tutti”, bensì appoggiato da una poderosa quota di establishment, in base a un piano preciso: la rinascita industriale degli Usa, rimpatriando le imprese delocalizzate, e il patto con la Russia di Putin per il rialzo del prezzo del petrolio, che converrebbe a entrambi e ai loro alleati, a cominciare dai sauditi. Lo scrive Pepe Escobar, cogliendo informazioni riservate provenienti dallo staff elettorale di Trump. Punto di partenza, la crescente insofferenza (anche di parte dell’élite) nei confronti della Clinton, vista come “protesi” di Wall Street. «Potenti interessi economici che supportano con discrezione Trump – lontano dal circo mediatico – sono convinti che questi sia in possesso della mappa per giungere alla vittoria», scrive Escobar. Il messaggio vincente? La denuncia della distruzione del comparto industriale statunitense e il crollo dei salari dovuto all’importazione illegale di lavoro «da nazioni dove gli stipendi valgono una manciata di dollari». Di mezzo c’è anche l’industria bellica, esportata oltre il Pacifico, cioè in zone controllate da russi e cinesi. Industrie che «vanno rimpatriate immediatamente».
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Panico referendum, Stiglitz: italiani, se votate crolla l’euro
Joseph Stiglitz, già Premio Nobel per l’economia, dichiara che teme una catastrofe per l’Europa, in particolare per quanto riguarda l’Italia: se vincesse il No nel referendum, potrebbe seguirne il crollo dell’euro. Di conseguenza, invita Renzi a “rinunciare al referendum” disdicendo la consultazione popolare. Stiglitz non è un giurista, dice Aldo Giannuli, ma almeno potrebbe informarsi prima di aprir bocca. Il referendum? Non dipende dalla volontà di Renzi, ma dalla Costituzione: che prevede norme precise in caso di revisioni costituzionali. Referendum confermativo obbligatorio, se la riforma della Carta non è approvata dai 2/3 di ciascuna camera, oppure se ne facciano richiesta 500.000 elettori o il 20% dei parlamentari. «E non è scritto da nessuna parte che possa essere revocato, rinviato o anche solo sospeso», tantomeno dal presidente del Consiglio: «Si chiamerebbe colpo di Stato». Se desse retta a Stiglitz, Renzi «potrebbe essere arrestato per attentato alla Costituzione». Ad allarmare però non è l’ignoranza del Nobel americano, ma il pensiero retrostante: «Se c’è pericolo per gli assetti di potere esistenti, e in particolare quelli monetari, si sospendono le garanzie costituzionali e si toglie la parola all’elettorato».Così, infatti, avevano già detto «quei due gioielli del pensiero democratico che rispondono ai nomi di Giorgio Napolitano e Mario Monti». Il popolo «non può esprimersi su cose così complesse per le quali non ha le conoscenze necessarie», perché queste cose «le devono decidere le élite, quelli che sanno». E la sovranità popolare sancita dalla Costituzione? «Be’, è un bell’ornamento che fa la sua figura, ma non è che ci dobbiamo proprio credere!». Per Giannuli, «qui sta venendo a galla il carattere elitario, oligarchico e antidemocratico dell’ideologia liberista, e non c’è più neppure il pudore di far finta di dirsi democratici». Certo, l’uscita di Stiglitz rivela il timore della vittoria del No, che ormai «inizia a diventare panico nei salotti buoni di politica e finanza». Renzi sa di rischiare grosso: in caso di vittoria del No, «a “dimetterlo” ci penserebbe il suo partito (e non penso all’inutile Bersani e al decorativo Cuperlo, ma ai ben più fattivi Franceschini, De Luca, Fassino, Rossi) che cercherebbe di mettere insieme i cocci e non trasformare la sconfitta referendaria in una irrimediabile débacle elettorale», scrive Giannuli.La legislatura potrebbe anche continuare grazie a Mattarella, Franceschini e Berlusconi, che potrebbero dar vita ad un “governo di scopo”. E il peggioramento della situazione economica, insieme a una «opportunissima bocciatura dell’Italicum da parte della Consulta» darebbero uno strepitoso alibi per farlo. Il “verdetto” della Corte Costituzionale è atteso per il 4 ottobre, ma i giudici potrebbero anche prendere tempo sospendere la decisione: «Se conferma l’Italicum, lo scontro sul referendum si radicalizzerebbe diventando l’ultima spiaggia contro il progetto di regime in atto. Se lo bocciasse, anche solo parzialmente, ci sarebbe un effetto di riflesso sul referendum, delegittimando il progetto renziano». Secondo Giannuli, Renzi «tradisce quella stessa paura che leggiamo nelle parole di Stigliz: non sappiamo se per un qualche sondaggio riservato, se per la previsione di una pronuncia sfavorevole della Corte o se per notizie che fanno temere un disastro bancario in ottobre, ma quello che si capisce è che Renzi cerca (invano, direi) di disinnescare la bomba, ritenendo più probabile la vittoria del No». Intanto, «ringraziamo Stiglitz per averci fornito questa ulteriore riprova sulla natura di questo referendum: uno scontro fra democrazia e oligarchia, senza mediazioni possibili: chi vincerà, chiunque esso sia, non farà prigionieri».Joseph Stiglitz, già Premio Nobel per l’economia, dichiara che teme una catastrofe per l’Europa, in particolare per quanto riguarda l’Italia: se vincesse il No nel referendum, potrebbe seguirne il crollo dell’euro. Di conseguenza, invita Renzi a “rinunciare al referendum” disdicendo la consultazione popolare. Stiglitz non è un giurista, dice Aldo Giannuli, ma almeno potrebbe informarsi prima di aprir bocca. Il referendum? Non dipende dalla volontà di Renzi, ma dalla Costituzione: che prevede norme precise in caso di revisioni costituzionali. Referendum confermativo obbligatorio, se la riforma della Carta non è approvata dai 2/3 di ciascuna camera, oppure se ne facciano richiesta 500.000 elettori o il 20% dei parlamentari. «E non è scritto da nessuna parte che possa essere revocato, rinviato o anche solo sospeso», tantomeno dal presidente del Consiglio: «Si chiamerebbe colpo di Stato». Se desse retta a Stiglitz, Renzi «potrebbe essere arrestato per attentato alla Costituzione». Ad allarmare però non è l’ignoranza del Nobel americano, ma il pensiero retrostante: «Se c’è pericolo per gli assetti di potere esistenti, e in particolare quelli monetari, si sospendono le garanzie costituzionali e si toglie la parola all’elettorato».