Archivio del Tag ‘crisi’
-
Guerra nel Pacifico: l’export dell’Asia non vuole più i dollari
I maggiori paesi asiatici si sono stancati di accettare “carta straccia” in cambio di merci, e stanno abbandonando il dollaro: per questo, stavolta, il rischio di guerra – nel Pacifico – è vicinissimo. Lo sostiene un analista economico come Alberto Micalizzi, allarmato dalla «necessità impellente» dell’America di sostenere la propria economia basata sul debito estero. «Qui non stiamo parlando di interessi strategici di natura politica, di giochi sul prezzo delle materie prime, di pipeline di gas o petrolio o di tatticismi di altro tipo. Stiamo parlando del fatto che gli Usa iniziano a incontrare difficoltà nel finanziare i circa 500 miliardi di dollari di deficit annuo generati dalla bilancia commerciale, cronicamente in passivo perché consumano più di quanto producono e qualcuno deve accettare di rifornirli in cambio di dollari». Tutto questo, sottolinea Micalizzi, sorregge da decenni il tenore di vita degli statunitensi. E la metà del debito estero Usa – precisamente 2.632 miliardi di dollari – è contratto verso quattro paesi dell’estremo oriente». Cina, Giappone, Taiwan e Hong Kong: sono i principali esportatori di merci verso gli Usa, «cioè quelli che finora hanno retto il gioco del disavanzo commerciale» che tiene in piedi l’asimmetrica economia statunitense. Il problema? I fornitori asiatici ci stanno “ripensando”.
-
Buoni propositi: le velleità dei 5 Stelle su Ue, Nato, mondo
Ancora incerto, il programma dei 5 Stelle. Ma forse un po’ meno vago, dopo la consultazione online che, secondo il blog di Grillo, attraverso la piattaforma “Rousseau” ha coinvolto quasi 25.000 iscritti, impegnati a esprimersi sulle linee generali da seguire in politica estera. Un’apertura di credito proviene da una fonte critica come “Contropiano”, che si definisce “giornale comunista online” e mostra un cauto interesse per il verdetto dei grillini: «Sicuramente non è un programma che piacerà all’establishment, alla Nato e all’Unione Europea che ha ingranato la quarta sul piano delle spese militari». Visto così, secondo “Contropiano”, il mondo entro cui dovrebbe articolarsi la politica estera del M5S «appare in aperta controtendenza con quella con cui i governi italiani di destra o centro-sinistra hanno ingabbiato e reso subalterno il paese nei decenni scorsi». Beninteso: «La politica estera del M5S non annuncia rotture, né verso la Nato né verso l’Unione Europea», ovviamente. Eppure, «parla di “adeguamento” della prima e di “riforma” della seconda». Per il newsmagazine “comunista”, si tratta di «un velleitarismo moderato che in qualche modo alimenta l’idea che tali apparati possano essere “riformati” sulle base di buone ragioni».Sulla Nato, 4.547 grillini “votano” per un «adeguamento dell’alleanza atlantica al nuovo contesto multilaterale», cioè «in un’ottica esclusivamente difensiva». L’impegno è a sottoporre al Parlamento «un’agenda per il disimpegno dell’Italia da tutte le missioni militari della Nato in aperto contrasto con la lettera e lo spirito dell’articolo 11 della nostra Costituzione». In più, i grillini considerano il territorio italiano «indisponibile per il deposito e il transito di armi nucleari, batteriologiche e chimiche», nonché «per installazioni e addestramenti che ledano la salute degli italiani». Più popolare, nella consultazione interna, la mozione sull’Europa, scelta da 8.529 iscritti. Chiedono «un’Europa senza austerità», per la quale il Movimento 5 Stelle annuncia di voler farsi promotore «di un’alleanza con i paesi dell’Europa del Sud per superare definitivamente le politiche di austerità e rigore, facendo fronte comune per ottenere una profonda riforma dell’Eurozona e dell’Unione Europea».Si tratta di «argomentazioni non dissimili da quelle della sinistra europea», secondo “Contropiano”, che fa notare come «la Grecia di Tsipras le smentisce nei fatti, mentre il mondo non ha ancora notizia di un paese che sia riuscito a modificare la natura della Nato». Ecco il punto: «La vera incognita rimane quella della coerenza tra enunciazioni e fatti». E quello che s’è visto finora nel governo della capitale, da parte dei 5 Stelle, «non induce alla fiducia». Il problema è serio: «Sul piano locale come su quello internazionale, perseguire una rottura dell’esistente presuppone una solidità politica e personale e un impianto di idee consolidato che fino ad oggi non ha dato grandi prove di sé». In cima ai desiderata della base grillina, votato da oltre 10.000 attivisti, campeggia il capitolo “contrasto ai trattati internazionali come Ttip e Ceta” (in realtà il Ttip è tecnicamente defunto, sostituito dal Misds, di cui i 5 Stelle non parlano, così come del Ceta, l’insidioso trattato sulla privatizzazione dei servizi). Seguono il capitolo su “Europa senza austerità” e la voce “ripudio della guerra”. A seguire: “smantellamento della Troika”, “disarmo come premessa alla pace”, “Russia: un partner economico e strategico contro il terrorismo”. In coda: “riformare la Nato”, “risoluzione dei conflitti in Medio Oriente” e “nuovi scenari di alleanze per l’Italia”.In tema di sovranità, si parla di «cooperazione e dialogo tra le popolazioni», sorvolando però sulla forma più essenziale di sovranità, quella monetaria e finanziaria. Quallo allo “smantellamento della Troika”, il M5S sfodera toni bellicosi nella forma ma pletorici, innocui nella sostanza. Annuncia che «si opporrà in ogni modo a tutti quei ricatti dei mercati e della finanza internazionale travestiti da “riforme”», senza spiegare cosa opporrà, in concreto, al potere di ricatto della finanza privata. «In particolare», aggiunge la nota, il Movimento 5 Stelle «si impegnerà allo smantellamento del Mes (Fondo “Salva Stati”) e della cosiddetta “Troika”, organismi sovranazionali che hanno appaltato la democrazia delle popolazioni imponendo, senza nessun mandato popolare, le famigerate “rigorose condizionalità”», cioè le misure imposte dall’euro (di cui i 5 Stelle continuano a non parlare).Ai seguaci di Grillo, il menù “politica estera” è stato presentato direttamente dal leader, via web, mediante proposte già preconfezionate: solo su quelle era possibile pronunciarsi. Testi “facili” e infarciti di annunci poco impegnativi, del tipo: «Combatteremo in ogni sede possibile le pratiche oggi utilizzate dalle multinazionali per eludere il fisco mediante “triangolazioni internazionali”». Addirittura, i grillini aggiungono che “lavoreranno” «per la riforma dell’architettura finanziaria internazionale», aumentando a tal fine «la cooperazione con tutti quegli organismi, come il G7 più Cina, che si impegnano in questa direzione». Niente di pratico, insomma, per affrontare – per le corna – il toro della crisi europea, incarnato dalla privatizzazione della moneta. Nonostante la sua vaghezza, comunque, “Contropiano” non cestina la possibile agenda dei grillini, sforzandosi di scorgervi il bicchiere mezzo pieno: «Se su questo programma di politica estera il M5S mostrerà coerenza e conseguenza – scrive il newsmagazine – sarebbe indubbiamente un cambio di passo significativo per il dibattito pubblico sul nostro paese e le sue relazioni con il mondo».Ancora incerto, il programma dei 5 Stelle. Ma forse un po’ meno vago, dopo la consultazione online che, secondo il blog di Grillo, attraverso la piattaforma “Rousseau” ha coinvolto quasi 25.000 iscritti, impegnati a esprimersi sulle linee generali da seguire in politica estera. Un’apertura di credito proviene da una fonte critica come “Contropiano”, che si definisce “giornale comunista online” e mostra un cauto interesse per il verdetto dei grillini: «Sicuramente non è un programma che piacerà all’establishment, alla Nato e all’Unione Europea che ha ingranato la quarta sul piano delle spese militari». Visto così, secondo “Contropiano”, il mondo entro cui dovrebbe articolarsi la politica estera del M5S «appare in aperta controtendenza con quella con cui i governi italiani di destra o centro-sinistra hanno ingabbiato e reso subalterno il paese nei decenni scorsi». Beninteso: «La politica estera del M5S non annuncia rotture, né verso la Nato né verso l’Unione Europea», ovviamente. Eppure, «parla di “adeguamento” della prima e di “riforma” della seconda». Per il newsmagazine “comunista”, si tratta di «un velleitarismo moderato che in qualche modo alimenta l’idea che tali apparati possano essere “riformati” sulle base di buone ragioni».
-
Goldman Sachs: salvare i lavoratori, il futuro sarà dei robot
Di certo le immense innovazioni tecnologiche beneficeranno l’umanità nel futuro distante, ma nel breve-medio termine esse pongono problemi di occupazione molto gravi. E’ ovvio che per i disoccupati da New Technology non v’è nessuna consolazione se pensano a un futuro spaziale. Il problema è che non sarà colpa dei politici se l’innovazione, l’automazione e l’outsourcing colpiranno schiere d’impiegati e operai. E’ un fatto immutabile che i ruoli d’impiego rimasti (pochi) saranno tutti concentrati nel coordinamento, organizzazione e supervisione dei software, dei robots e dei Cobots che faranno il lavoro reale. Non v’è dubbio che gli investimenti odierni nelle nuove tecnologia distruggeranno milioni di posti di lavoro. Possiamo marginalmente consolarci immaginando di ridirigere masse di lavoratori in quelle mansioni dove ancora fra 50 o 100 anni i software non saranno arrivati. Tuttavia questo è assai insufficiente. Il problema, per milioni di umani, sarà – chiaro e tondo – che i lavori di consolazione che gli saranno offerti non saranno graditi, né appetibili, né possibili.Allora, l’unica scappatoia in questo futuro totalmente inevitabile sarà un nuovo approccio alla “condivisione del rischio”, là dove dovrà essere chiesto al Capitale di condividere, di assorbire parte delle perdite necessarie a mantenere gli umani al lavoro. Intendiamo sacrifici del Capitale per la ri-formazione del personale affinché imparino capacità sociali mai conosciute, ma non per questo indigeribili; ci vorranno incentivi statali per la formazione nei lavori dedicati ai servizi umani delle corporations; dovranno essere richieste strutture finanziarie innovative che sappiano vedere una remunerazione nell’investimento sulle risorse umane piuttosto che robotiche; dovranno essere abbassate le barriere per accedere a certe professioni non sostituibili dall’automazione; ma soprattutto finanze e crediti ampiamente disponibili nella creazione di piccole aziende, che per forza necessitano di impiegati umani e non di incredibilmente dispendiose automazioni di Ai (intelligenza artificiale) o robots; infine incentivi alla nascita dell’azienda individuale nel settore dei servizi umani.(Goldman Sachs, recente report della più famigerata banca d’affari del mondo, ripreso in estratto da Paolo Barnard nel suo blog il 10 aprile 2017, sotto il titolo, sarcastico, “Finalmente un sindacato che sa vedere nel futuro e proteggere tuo figlio”. Il “sindacato” sarebbe la Goldman, chiamata anche “Vampire Squid”, il calamaro-vampiro, avendo ideato titoli tossici e gestito manipolazioni dei governi di mezzo mondo. Eppure oggi sembrano «gente seria, dalla parte dei lavoratori», se paragonati a Cgil, Cisl e Uil, sempre più inutili. A differenza dei sindacati, secondo Barnard, proprio Goldman Sachs «sa come affrontare il terzo millennio della fine della metalmeccanica, della fine delle braccia lavoranti in fabbriche, nei campi, e persino dei cervelli ai piani più alti delle aziende: tutti rimpiazzati fra poco da Artificial Intelligence, Drones, Robots e Cobots». La Camusso e soci? Lasciamo perdere: «Il dialogo occupazionale del futuro», sostiene Barnard, «è coi cervelli pensanti del Vero Potere, nel comune interesse che oggi anche loro stanno gradualmente capendo»).Di certo le immense innovazioni tecnologiche beneficeranno l’umanità nel futuro distante, ma nel breve-medio termine esse pongono problemi di occupazione molto gravi. E’ ovvio che per i disoccupati da New Technology non v’è nessuna consolazione se pensano a un futuro spaziale. Il problema è che non sarà colpa dei politici se l’innovazione, l’automazione e l’outsourcing colpiranno schiere d’impiegati e operai. E’ un fatto immutabile che i ruoli d’impiego rimasti (pochi) saranno tutti concentrati nel coordinamento, organizzazione e supervisione dei software, dei robots e dei Cobots che faranno il lavoro reale. Non v’è dubbio che gli investimenti odierni nelle nuove tecnologia distruggeranno milioni di posti di lavoro. Possiamo marginalmente consolarci immaginando di ridirigere masse di lavoratori in quelle mansioni dove ancora fra 50 o 100 anni i software non saranno arrivati. Tuttavia questo è assai insufficiente. Il problema, per milioni di umani, sarà – chiaro e tondo – che i lavori di consolazione che gli saranno offerti non saranno graditi, né appetibili, né possibili.
-
Armi silenziose per guerre tranquille, mentre noi dormiamo
Guardare una città dall’alto è come vedere un grande formicaio, migliaia di persone viaggiano freneticamente senza mai fermarsi a chiedersi perché corrono. Le scadenze, il lavoro e il tempo le tiene prigioniere mentre tutto intorno a loro sembra essere fermo e statico: ognuno di noi vive un mondo, quello ufficiale in cui vige la morale religiosa, la legge dei “buoni” e l’economia del business. In realtà noi siamo intrappolati in un altro mondo, quello ufficioso, in cui la democrazia non esiste più perché il potere lo hanno attribuito alle istituzioni sovranazionali, la libertà è un’illusione perché il controllo dei nostri istinti e dei nostri pensieri è già in atto, e la legge è quella del Governo Mondiale che mediante le sue sfere di controllo gestisce il sistema. La cibernetica è la nuova scienza sociale, è lo schema per controllare i sistemi complessi come quello nostro, in cui il biologico e l’economico si fondono. Un sistema cibernetico equilibrato crea una struttura a celle, in cui gli elementi interagiscono in modo da aumentare il valore della produzione, e ha la grande proprietà dell’autoregolamentazione. In altre parole, è fatto in modo che dopo ogni azione si attivi subito una contro-reazione, un evento che si dirige verso uno scenario crea automaticamente le condizioni per un evento con tendenza inversa che annulla il primo…È un ecosistema vero e proprio, un essere che vive, perché è in grado di far fronte da solo alle situazioni che mettono in discussione la sua esistenza. Sistemi del genere hanno una grande stabilità nel tempo, e possono funzionare bene solo se li guida un codice etico, un obiettivo che sia nell’interesse di tutti gli uomini. Questo tuttavia non sta accadendo, perché l’intero sistema lavora per soddisfare gli interessi di una classe ben più ristretta, degli Illuminati, degli dèi che non permetteranno mai che la scienza liberi il popolo. Ora utilizzano contro le popolazioni inermi delle armi biologiche, spingono gli uomini a non vivere ma a sopravvivere, invece di gettare proiettili mettono catene tramite i data base; invece di inviare soldati, innescano delle bombe tramite dei computer e sotto gli ordini dei vostri generali, che sono i banchieri. Certamente non fanno niente di evidente, perché non vediamo esplosioni oppure danni fisici, ma la nostra vita sociale viene distrutta ogni giorno dal finto progresso. Le masse e il pubblico non potranno mai capire quest’arma e dunque non potrà credere che non siamo realmente attaccati, se non avviene un fatto criminoso reale.Pensate a che fino ha fatto la democrazia: lei non esiste più ma nessuno lo dice. Il margine di azione degli Stati è sempre più ridotto dagli accordi economici internazionali sui quali non è stato chiesto l’opinione dei cittadini del mondo. Una sospensione proclamata della democrazia avrebbe provocato una rivoluzione, e se non è successo è perché è stato deciso di mantenere una democrazia di facciata: i cittadini continuano a votare, i programmi politici di “destra” e di “sinistra” sono gli stessi. Le elezioni, i telegiornali continuano di esistere, ma sono stati svuotati del loro contenuto. Un telegiornale contiene al massimo 2 a 3 minuti di cronaca sui fatti del giorno, mentre il resto sono argomenti di facciata, di reality-show sulla vita quotidiana. Le analisi dei giornalisti specializzati sono state eliminate, e l’informazione passa attraverso la censura, che consiste non nell’omettere le notizie ma nell’annegarle in un diluvio di notizie insignificanti diffuse da una moltitudine di mezzi con contenuto simile in modo che sembra esistere la pluralità e la democrazia.Tutta la finezza della censura moderna risiede nell’assenza di censori. Questi sono stati sostituiti efficacemente dalla “legge del mercato”, che fornisce i mezzi per finanziare il lavoro di inchiesta. Eventi importanti saranno lievemente accennati, e poi affiancati a notizie di inutili, mentre un attentato verrà trattato con reportage sulle strade e tra le persone per esagerare il dramma. Le informazioni vengono presentate con una tale confusione, affiancate tra di loro anche se di diversa importanza, e questo non permette la memorizzazione delle notizie, che rimangono della mente dello spettatore solo se presentate in modo strutturato e catalogato. Una peggiore memorizzazione colpisca la popolazione con l’amnesia, in modo da essere più semplice da manipolare… La manipolazione mediatica è solo uno degli elementi della strategia del “diversivo”, che consiste nel deviare l’attenzione dal pubblico dai problemi importanti, con una marea continua di distrazioni: tenere il pubblico occupato per creare armi silenziose per guerre tranquille. Questa strategia è indispensabile per impedire il pubblico di interessarsi alle conoscenze essenziali della scienza, dell’economia, della psicologia, della neurobiologia, e infine della cibernetica.Per rendere efficace quest’arma silenziosa occorre innanzitutto mantenere il pubblico ignorante dei principi di base della conoscenza. Per creare l’ignoranza, la creatività e le attività mentali sono stati sabotati fornendo dei programmi di educazione di bassa qualità in matematica, logica, di economia. Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella stupidità; fare in modo che il pubblico sia incapace di comprendere le tecnologie ed i metodi utilizzati per il suo controllo e la sua schiavitù. La qualità dell’educazione data alle classi inferiori deve essere bassa in modo tale che l’ignoranza isoli le classi inferiori dalle classi superiori; le persone vengono incoraggiate in pubblico a cullarsi nella mediocrità, o nell’essere stupide, volgari e incolte. Alla fine l’individuo si convincerà che lui è il solo responsabile della sua disgrazia, a causa dell’insufficienza della sua intelligenza, delle sue capacità, o dei suoi sforzi. Così, invece, al posto di rivoltarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto-svaluta e si colpevolizza e generando in lui uno stato depressivo che inibisce ogni reazione, dunque nessuna rivoluzione.La regola generale è che c’è un profitto nella confusione; più la confusione è grande, più il profitto è grande: il migliore approccio è di creare dei problemi, e poi di offrire delle soluzioni, con uno schema “problema-reazione-soluzione”. Per fare accettare una misura inaccettabile, basta applicarla progressivamente, in maniera graduale, per una durata di 10 anni; avrebbe provocato una rivoluzione se fosse stata applicata brutalmente. In alternativa, una decisione impopolare per essere accettata deve essere presentata come “dolorosa ma necessaria”, ottenendo in consenso presente per un’applicazione nel futuro: è sempre più facile accettare un sacrificio futuro che non un sacrificio immediato, anche perché si spera sempre che “in futuro tutto andrà meglio”. Pensate all’euro, e riflettete su quello che è stato ieri, quello che è oggi, e vedrete anche cosa sarà domani. Per circuire l’analisi razionale e il senso critico degli individui è sufficiente far leva sul piano emozionale: le porte dell’inconscio degli individui si spalancheranno, e allora potranno essere immesse idee, desideri, paure.Questo, grazie al fatto che conoscono l’individuo meglio di quanto lui possa conoscere se stesso; grazie alla biologia, la neurobiologia, e la psicologia applicata, il “sistema” è giunto ad una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia fisicamente che psicologicamente. Il sistema è arrivato a conoscere l’individuo medio meglio di quanto questo non si conosca da sé. Ciò significa che nella maggioranza dei casi, il sistema detiene un più grande controllo ed un più grande potere sugli individui, superiore al potere e al controllo che gli individui hanno su se stessi. Se siete in cerca di una prova, non cercate la risposta al di fuori di voi stessi ma dentro di voi. Chiedetevi come faranno a impiantare le pulci e i chip nel nostro corpo, o meglio, chiedetevi cosa oggi stanno facendo per realizzare l’impianto delle pulci. Stanno nascondendo i trapianti ad uso medico, per diminuire la diffidenza istintiva della gente sull’intrusione della macchina nel corpo, viene promossa la moda dei piercing, per abituare il la gente all’intrusione degli oggetti materiali nel corpo, viene reso obbligatorio il trapianto per l’identificazione degli animali domestici.Potrebbero anche organizzare, o lasciare organizzare, un attentato nucleare in una città occidentale per rendere obbligatori i trapianti di localizzazione e di identificazione per ogni individuo, in nome della “sicurezza” e della “lotta contro il terrorismo”… Pensateci bene, riflettete, non sarebbe tanto assurdo parlare di una città europea, che possiede il nucleare, e ha già subito minacce terroristiche, in un periodo di gravi scontri ideologici tra diverse culture religiose. Tutti nel profondo della loro coscienza sanno che qualcosa non va. Voi lo sapete ma non potete esprimervi, non potrete mai affrontare questo problema intelligentemente, perché è un’arma biologica, che non permetterà che gridiate e chiediate aiuto, perchè non sapete associarvi ad altri per difendervi. Questo veleno è iniettato lentamente fino ad indurre tutti ad adattarsi anche alla sua presenza, per cominciare a tollerare le sue ripercussioni fino a che la pressione psico-economica alienerà la vostra mentre, e quando noi resistere più lentamente vi abbandonerete al suicidio o asseconderete in sistema. Attacca le capacità, le opportunità degli individui della società, la loro mobilità, per manipolali; infetta le vostre fonti di energia sociali e naturali, le vostre forze deboli psichiche, mentali e emozionali. Guardate la vostra vita ed i vostri sacrifici, sarete tutti complottisti…(“Armi silenziose per guerre tranquille”, dal blog “Etelboro” del 20 settembre 2006).Guardare una città dall’alto è come vedere un grande formicaio, migliaia di persone viaggiano freneticamente senza mai fermarsi a chiedersi perché corrono. Le scadenze, il lavoro e il tempo le tiene prigioniere mentre tutto intorno a loro sembra essere fermo e statico: ognuno di noi vive un mondo, quello ufficiale in cui vige la morale religiosa, la legge dei “buoni” e l’economia del business. In realtà noi siamo intrappolati in un altro mondo, quello ufficioso, in cui la democrazia non esiste più perché il potere lo hanno attribuito alle istituzioni sovranazionali, la libertà è un’illusione perché il controllo dei nostri istinti e dei nostri pensieri è già in atto, e la legge è quella del Governo Mondiale che mediante le sue sfere di controllo gestisce il sistema. La cibernetica è la nuova scienza sociale, è lo schema per controllare i sistemi complessi come quello nostro, in cui il biologico e l’economico si fondono. Un sistema cibernetico equilibrato crea una struttura a celle, in cui gli elementi interagiscono in modo da aumentare il valore della produzione, e ha la grande proprietà dell’autoregolamentazione. In altre parole, è fatto in modo che dopo ogni azione si attivi subito una contro-reazione, un evento che si dirige verso uno scenario crea automaticamente le condizioni per un evento con tendenza inversa che annulla il primo…
-
Schulz: senza l’euro Berlino non teme la Cina, ma l’Italia
«Senza l’euro, la Germania non dovrebbe temere la Cina, ma l’Italia». Parola di Martin Schulz, intervistato da Konstantin von Hammerstein e Gordon Repinski dello “Spiegel”. Colloquio illuminante, che risale al 2012: «Oltre a dimostrare come in cinque anni non sia stato fatto nulla per risolvere i problemi della Ue», scrive “Voci dall’Estero”, che ha tradotto l’articolo e ora lo ripropone, «chiarisce il pensiero dell’odierno avversario della Merkel, sedicente socialdemocratico e possibile futuro cancelliere tedesco», laddove dice che «l’Europa è vitale per gli interessi nazionali» (quelli tedeschi, ovviamente). «Le sue parole di apparente accondiscendenza verso i paesi periferici vanno lette così: è meglio mantenere gli altri paesi nella condizione di inoffensive colonie». Per “Voci dall’Estero”, una sua affermazione è particolarmente rivelatrice: senza più la moneta unica governata a Francoforte dai poteri finanziari cui risponde la Bce, e con il ritorno a un marco rivalutato, Berlino non dovrebbe affatto guardarsi dalla la Cina, bensì da paesi come l’Italia e la Francia. Preso nota? «Tutti gli elettori italiani e francesi ne dovrebbero essere consapevoli».I giornalisti dello “Spiegel” citano il filosofo Jürgen Habermas: vista la crisi dell’euro ci sarebbero solo due strategie possibili per l’Europa, tornare alle monete nazionali o andare verso un’unione politica. «Sì», ammette Schulz, «avremmo dovuto introdurre l’unione politica assieme all’euro». Ma ormai è tardi: «Non ha senso stare a lamentarsi delle opportunità mancate, questo è il momento di agire rapidamente nel breve termine». Rifare l’Ue da cima a fondo? «Non è un’esigenza pressante, in questo momento». Ma la Germania è interessata a discutere della possibile introduzione di un’unione politica? Macché: «Questo è un drammatico errore. Come se un cambiamento strutturale potesse risolvere i problemi nel breve termine». La crisi politica è «sistemica», ammette Schulz, ma il problema – avvertito nel 2012 – è soprattutto l’agonia della Grecia nonché la speculazione sui tassi d’interesse contro Spagna, Italia e Portogallo. Carta vincente? Gli eurobond garantiti dalla Bce, ma «l’Olanda non li vuole, la Finlandia non li vuole, e la Germania assolutamente non li vuole».Perché invece Martin Schulz li vuole? «Perché abbiamo un’area valutaria ed economica comune, e questo significa che, di fatto, i singoli paesi non hanno più sovranità sulla propria moneta. Anche la Germania appartiene a quest’area. Perché, dunque, non dovremmo applicare degli strumenti di politica monetaria a livello transnazionale?». Semplice: perché il Trattato di Maastricht, ricorda lo “Spiegel”, stabilisce che nessun paese deve essere responsabile per il debito di un altro paese: è la cosiddetta clausola di “non salvataggio”. Il politico tedesco, esponente della Spd, protesta: quella clausola non dev’essere «un dogma intoccabile». Inoltre, sul tetto al decifit, «Francia e Germania hanno violato le regole». Dunque, se nel loro caso «si è potuto interpretare i trattati in modo così flessibile», perché mai allora «non lo possiamo rifare adesso con gli eurobond?». Non si scappa: o si crea un fondo di ammortamento del debito, garantito dall’insieme dei paesi Ue, o si concedono «autorizzazioni bancarie al Meccanismo Europeo di Stabilità (Esm), il fondo permanente di salvataggio, in modo che possa prendere a prestito denaro dalla Bce come qualsiasi altra banca».Purtroppo, fa notare lo “Spiegel”, l’opinione pubblica tedesca non è d’accordo su una condivisione del debito. «Questa affermazione è assolutamente vera», ammette Schulz, «e mi preoccupa molto. Ciò di cui abbiamo bisogno è di spiegare alla gente quali sono le alternative». Per esempio? «Reintrodurre il marco. Sarebbe una valuta estremamente forte, che renderebbe le esportazioni tedesche molto più costose». Secondo l’ex presidente del Parlamento Europeo, «l’industria automobilistica tedesca dovrebbe temere non più la Cina, ma la Francia e l’Italia, la Peugeot, la Citroën e la Fiat». Per Schulz, senza più l’euro, «la Germania diventerebbe troppo grande per l’Europa ma troppo piccola per il mondo. A questo dovrebbero pensare quelli che chiedono un’uscita della Grecia dall’Eurozona». E per quanto riguarda l’Italia? «Per molto tempo l’Italia è stata governata da alcuni tra i politici meno professionali che si siano mai visti. Eppure non c’era molta pressione in termini di speculazione». Poi è arrivato Mario Monti, che Schulz definisce «quel tipo di leader che di solito si vede solo nei film, un distinto professore che non accetta nemmeno un cuoco nella sua residenza a Palazzo Chigi», l’uomo «di cui i mercati non si fidano».Quanto all’austerity – siamo nel 2012 – Schulz la vedeva così: «Monti sta facendo dei tagli, ma tutto quello che lui riesce a risparmiare va a coprire l’aumento dei tassi di interesse. E quando dice: “Mio Dio, gente, aiutatemi”. Noi cosa rispondiamo? Rispondiamo: “Devi fare altri tagli, l’Italia deve arrangiarsi e uscirne da sola”. Ma non funzionerà. Voglio esser chiaro su questo». Spiegazione: «L’Italia è uno degli otto paesi più industrializzati. Cosa succede se un paese del G8 e dell’Unione Europea va in bancarotta? Qualcuno pensa che la Germania non ne risentirà? L’Italia è uno dei nostri mercati più importanti. No, in questo modo non andiamo da nessuna parte. Dobbiamo dare licenza bancaria all’Esm, tagliare i tassi di interesse». E cioè: allentare il rigore. Toccherebbe alla Germania, pagare? Schulz smentisce: Italia e Germania si sobbarcano, da sole, il 38% dei costi dell’Esm. «State dando troppa attenzione alla nuova retorica nazionalista della Germania, dice Schulz, secondo cui «la grande maggioranza della popolazione è favorevole all’idea di un’unione moderna e illuminata di paesi che dimostrano solidarietà». E cita il regista Wim Wenders: ha detto che «l’idea di Europa è diventata quella di un’amministrazione, e adesso la gente pensa che l’amministrazione sia l’idea stessa di Europa. Ma questo non vuol dire che dobbiamo rinunciare all’idea. Significa che dobbiamo cambiare l’amministrazione».Era cinque anni fa. Nel frattempo, non è cambiato niente. Lo stesso Schulz, tipico esponente della “sinistra” ultra-europeista, ammette di temere l’opinione pubblica, la consultazione popolare, specie di fronte a referendum che impegnino anche i tedeschi a pronunciarsi sulla crescente centralizzazione del potere a Bruxelles. «A differenza di altri paesi – premette – la Germania non ha avuto esperienza di referendum». E che dire del leader dell’Spd, Sigmar Gabriel, determinato a lasciar votare la gente sull’Unione Europea? «È un rischio», dichiara Schulz. «I referendum pongono sempre delle minacce quando si parla di politica europea, perché la politica europea è complessa. Sono sempre un’opportunità per quelle parti politiche alle quali piace semplificare le questioni. La politica europea è sempre un intreccio di razionalità e di emozioni. Il problema di noi politici europei è che affrontiamo tutto con fredda razionalità, e poi ci chiediamo perché non riusciamo a coinvolgere emotivamente le persone». Domanda diretta: «Lei non si fida della gente?». Risposta, altrettanto diretta: «Io mi fido, ma non è contrario alla democrazia essere scettici. I referendum sono uno strumento democratico, ma lo sono anche le decisioni raggiunte da una democrazia parlamentare. Sono per un’estrema cautela quando si tratta di referendum. Anche in Germania».«Senza l’euro, la Germania non dovrebbe temere la Cina, ma l’Italia». Parola di Martin Schulz, intervistato da Konstantin von Hammerstein e Gordon Repinski dello “Spiegel”. Colloquio illuminante, che risale al 2012: «Oltre a dimostrare come in cinque anni non sia stato fatto nulla per risolvere i problemi della Ue», scrive “Voci dall’Estero”, che ha tradotto l’articolo e ora lo ripropone, «chiarisce il pensiero dell’odierno avversario della Merkel, sedicente socialdemocratico e possibile futuro cancelliere tedesco», laddove dice che «l’Europa è vitale per gli interessi nazionali» (quelli tedeschi, ovviamente). «Le sue parole di apparente accondiscendenza verso i paesi periferici vanno lette così: è meglio mantenere gli altri paesi nella condizione di inoffensive colonie». Per “Voci dall’Estero”, una sua affermazione è particolarmente rivelatrice: senza più la moneta unica governata a Francoforte dai poteri finanziari cui risponde la Bce, e con il ritorno a un marco rivalutato, Berlino non dovrebbe affatto guardarsi dalla la Cina, bensì da paesi come l’Italia e la Francia. Preso nota? «Tutti gli elettori italiani e francesi ne dovrebbero essere consapevoli».
-
Fonti Usa: Siria, l’attacco coi gas è opera di Israele e sauditi
Il giornalista pluripremiato che indagò sul caso Iran-Contra, Robert Parry, sostiene che l’attacco con armi chimiche in Siria sia stato lanciato da una base congiunta saudita-israeliana per le operazioni speciali situata in Giordania, secondo quanto gli hanno riferito le sue fonti di intelligence. Gli analisti dei servizi segreti Usa hanno stabilito che un drone è stato responsabile dell’attacco e «alla fine sono giunti a ritenere che il volo sia stato lanciato in Giordania da una base per operazioni speciali saudita-israeliana a sostegno dei ribelli siriani», secondo la fonte. «La ragione sospettata per l’uso del gas velenoso era quella di creare un incidente che avrebbe rovesciato l’annuncio dell’amministrazione Trump di fine marzo sul fatto che non stesse più cercando la rimozione del presidente Bashar al-Assad», scrive Parry. Come evidenziammo già nel 2013, dopo un altro attacco con armi chimiche presso Al-Ghouta che venne attribuito ad Assad, i ribelli ammisero spontaneamente al corrispondente della “Associated Press” Dale Gavlak che erano stati riforniti delle armi dall’Arabia Saudita, ma avevano «maneggiato le armi in modo improprio e fatto partire le esplosioni».Il retroterra professionale di Parry conferisce credibilità alle informazioni. A suo tempo aveva dato copertura informativa allo scandalo Iran-Contra per l’“Associated Press” e per il settimanale “Newsweek” e successivamente fu insignito del premio George Polk per il suo lavoro sulle questioni di intelligence. La tesi secondo cui l’incidente ha costituito un’operazione “false flag” intesa a creare una giustificazione per degli attacchi aerei è stata ventilata anche dall’ex parlamentare Ron Paul così come da numerose altre voci di spicco, compreso lo stesso Vladimir Putin, che ha continuato a mettere in guardia sul fatto che i ribelli potrebbero ora mettere in scena un incidente simile a Damasco per pungolare gli Stati Uniti al rovesciamento di Assad. A chiunque si attribuisca la responsabilità dell’attacco, ciò non toglie nulla all’orrore di questo evento e al fatto che persone innocenti e bambini siano morti. Nel riscontrare quanto sia pesante nelle asserzioni ma priva di prove vere e proprie, Parry ha respinto la relazione di quattro pagine pubblicata dal Consiglio di Sicurezza Nazionale e diffusa dal presidente Trump, che accusa il governo siriano per l’attacco chimico.Il libro bianco afferma che «non possiamo rilasciare pubblicamente tutte le notizie di intelligence disponibili su questo attacco a causa della necessità di proteggere fonti e metodi», anche se, come sottolinea Parry, «in situazioni altrettanto tese in passato, i presidenti Usa hanno rilasciato dati sensibili di intelligence per dare man forte alle asserzioni del governo Usa, tra cui la divulgazione dei voli di spionaggio U-2 da parte di John F. Kennedy nel corso della crisi missilistica cubana del 1962 e la rivelazione di Ronald Reagan sulle intercettazioni elettroniche dopo l’abbattimento sovietico del volo 007 della Korean Airlines nel 1983». Parry ha sfidato l’amministrazione Trump a rendere le sue prove disponibili pubblicamente, ma ha anche chiesto lumi sul motivo per cui sia il direttore della Cia, Mike Pompeo, sia il direttore della National Intelligence, Dan Coats, non apparivano in una foto rilasciata dalla Casa Bianca, che mostra il presidente e una dozzina dei suoi consiglieri monitorare l’attacco missilistico del 6 aprile da una stanza nella sua tenuta di Mar-a-Lago in Florida. «Data la casistica sporadica in cui dal presidente Trump si ottengono i fatti correttamente, lui e la sua amministrazione dovrebbero fare uno sforzo in più per presentare prove inconfutabili a sostegno delle sue valutazioni, non solo insistendo sul fatto che il mondo deve “fidarsi di noi”», conclude Parry.(Paul Joseph Watson, “Fonti intelligence Usa: l’attacco chimico in Siria partito da base saudita”, da “Infowars” del 13 aprile 2017, tradotto e ripreso da “Megachip”).Il giornalista pluripremiato che indagò sul caso Iran-Contra, Robert Parry, sostiene che l’attacco con armi chimiche in Siria sia stato lanciato da una base congiunta saudita-israeliana per le operazioni speciali situata in Giordania, secondo quanto gli hanno riferito le sue fonti di intelligence. Gli analisti dei servizi segreti Usa hanno stabilito che un drone è stato responsabile dell’attacco e «alla fine sono giunti a ritenere che il volo sia stato lanciato in Giordania da una base per operazioni speciali saudita-israeliana a sostegno dei ribelli siriani», secondo la fonte. «La ragione sospettata per l’uso del gas velenoso era quella di creare un incidente che avrebbe rovesciato l’annuncio dell’amministrazione Trump di fine marzo sul fatto che non stesse più cercando la rimozione del presidente Bashar al-Assad», scrive Parry. Come evidenziammo già nel 2013, dopo un altro attacco con armi chimiche presso Al-Ghouta che venne attribuito ad Assad, i ribelli ammisero spontaneamente al corrispondente della “Associated Press” Dale Gavlak che erano stati riforniti delle armi dall’Arabia Saudita, ma avevano «maneggiato le armi in modo improprio e fatto partire le esplosioni».
-
Magaldi: riusciranno i 5 Stelle a dirci cosa vogliono fare?
Prima o poi ce la faranno, i 5 Stelle, a farci sapere come governerebbero l’Italia? Ce l’hanno, qualche idea, su come regolarsi con l’Ue e la Bce? «Insomma: qual è l’approdo programmatico sostanziale del Movimento 5 Stelle? Ancora non ce ne siamo accorti. Se poi si accontentano di ottenere il consenso, prendere tante poltrone e stare lì a fare come stanno facendo a Roma, allora povera Italia». Parola di Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, reduce da un forum a Roma sul futuro della democrazia con Nino Galloni, Giulietto Chiesa, Ferdinando Imposimato. Una due giorni nella quale si è anche parlato di un ipotetico, futuro partito (il Pdp, Partito Democratico Progressista), da mettere in campo se la politica italiana continuasse a “dormire”, cioè a subire i diktat dell’oligarchia finanziaria che manovra dagli uffici di Bruxelles. Nell’ultimo collegamento con David Gramiccioli su “Colors Radio” (filo diretto con gli ascoltatori, per discutere dei maggiori temi dell’attualità, anche internazionale) a tenere banco sono le primarie del Pd e le schermaglie tra Renzi e i 5 Stelle: ancora una volta nulla di strategico in vista, per il futuro dell’Italia, alle prese con una crisi ormai cronica, per risolvere la quale nessuno propone vere ricette. Una su tutte: costringere l’Ue a rimangiarsi i suoi trattati-capestro.Se le primarie del Pd sembrano annunciare una scontata vittoria di Renzi, Magaldi si permette «un piccolo endorsement» in favore di Michele Emiliano: «Quantomeno, sembra cogliere alcune istanze di denuncia della inefficacia assoluta sul piano del rapporto tra l’Italia e l’Europa, che è il vero tema fondante». Tralasciando l’incolore Andrea Orlando, già ministro renziano, continua «la pantomima» di Renzi, che «si continua a proporre come uno che risolverà il rapporto con l’austerity». La verità è tristemente un’altra: «Ha avuto due anni, per farlo: non l’ha fatto. C’è anzi una continuità sostanziale del governo Renzi rispetto a quelli di Letta e Monti, cioè una subalternità di questo grande paese, l’Italia, rispetto ai trattati europei e a un’egemonia, svolta attraverso alcune cancellerie, da parte di gruppi sovranazionali che rendono sempre più insopportabile la camicia di forza imposta al vecchio continente». Pensando sempre agli elettori Pd, Magaldi ipotizza che «forse, un voto a Emiliano testimonierebbe meglio l’esistenza di un malessere necessario e giusto, rispetto alle figure di Orlando e Renzi, che rappresentano la continuità». Ma se il Pd piange, di sicuro i 5 Stelle non ridono: o meglio, non hanno ancora spiegato con quali misure attuerebbero una politica davvero alternativa.«Mi fa piacere che ci stato un bell’evento, a Ivrea», premette Magaldi, riferendosi alla convention tematica guidata da Davide Casaleggio. «Ma il Movimento 5 Stelle ha bisogno di evolvere», insiste il presidente del Movimento Roosevelt. «Lo ripeto, e voglio essere noioso come un moscone socratico: il giorno in cui, giustamente, non votando né il centrodestra né il centrosinistra (legge elettorale permettendo), il Movimento 5 Stelle andasse al governo, non staremmo meglio – dopo qualche mese, o anno, di questo governo – se dovessimo scoprire che le cose vanno esattamente come vanno nel governo della città di Roma». Quindi, per favore, «si diano una svegliata, i 5 Stelle: qui non si tratta di autocelebrarsi. E’ passata la fase politica dell’auto-compiacimento per la novità – e del piagnisteo (giusto, perché gli altri ti delegittimano)». Peraltro, «saranno brutte, le parole di Renzi verso il Movimento 5 Stelle, ma non sono nemmeno tenere quelle dei 5 Stelle verso Renzi». Ma stiamo parlano di quisiquilie: «Il problema è che c’è un’età per tutto». Magaldi cita Jean-Paul Sartre e il suo saggio “L’età della ragione” per dire che è venuta “l’età della ragione”, della maturità, anche per il Movimento 5 Stelle. «Non può continuare così: è come votarsi al fallimento».«Le linee-guida su cui il Movimento 5 Stelle chiede il consenso sono ormai fragili», osserva Magaldi. «Ha bisogno, il Movimento 5 Stelle, di una iniezione di idee forti». Per esempio: «Cosa pensa, il Movimento 5 Stelle, e cosa ha detto, a proposito dell’eliminazione del Fiscal Compact, e del pareggio di bilancio dalla Costituzione?». Per ora, silenzio. «E’ inutile invocare il referendum sull’euro», se poi non si dice chiaramente che il futuro governo pentastellato – come prima mossa – andrebbe a Strasburgo, a Bruxelles, «a dire: o noi riscriviamo i trattati, oppure in Italia ne sospendiamo la vigenza». Domande ancora senza risposta: «Che programma c’è? Esiste un piano per una moneta complementare, per alimentare una ripresa economica anche con questi trattati? E poi: quale paradigma per la spesa pubblica e per gli investimenti? Queste – ribadisce Magaldi – sono le cose che possono sostanziare un governo sano e giusto per il paese, non i discorsi sui vitalizi o le fumosità sulla democrazia diretta». Dai 5 Stelle, finora, nessun segnale in questa direzione: «Se vincessero le prossime elezioni, non sappiamo ancora come si comportebbero, rispetto alle questioni più cruciali per il futuro del paese».Prima o poi ce la faranno, i 5 Stelle, a farci sapere come governerebbero l’Italia? Ce l’hanno, qualche idea, su come regolarsi con l’Ue e la Bce? «Insomma: qual è l’approdo programmatico sostanziale del Movimento 5 Stelle? Ancora non ce ne siamo accorti. Se poi si accontentano di ottenere il consenso, prendere tante poltrone e stare lì a fare come stanno facendo a Roma, allora povera Italia». Parola di Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, reduce da un forum a Roma sul futuro della democrazia con Nino Galloni, Giulietto Chiesa, Ferdinando Imposimato. Una due giorni nella quale si è anche parlato di un ipotetico, futuro partito (il Pdp, Partito Democratico Progressista), da mettere in campo se la politica italiana continuasse a “dormire”, cioè a subire i diktat dell’oligarchia finanziaria che manovra dagli uffici di Bruxelles. Nell’ultimo collegamento con David Gramiccioli su “Colors Radio” (filo diretto con gli ascoltatori, per discutere dei maggiori temi dell’attualità, anche internazionale) a tenere banco sono le primarie del Pd e le schermaglie tra Renzi e i 5 Stelle: ancora una volta nulla di strategico in vista, per il futuro dell’Italia, alle prese con una crisi ormai cronica, per risolvere la quale nessuno propone vere ricette. Una su tutte: costringere l’Ue a rimangiarsi i suoi trattati-capestro.
-
Davide Casaleggio, poco o nulla di fronte a problemi epocali
La recente convention di Ivrea, fatta per ricordare Casaleggio senior e lanciare i lineamenti di visione della società da parte di Casaleggio junior, è sembrata, a molti osservatori non certo pro Pd, piuttosto deludente. Visto il filo conduttore della giornata di Ivrea, il futuro, non si può dire però che questa dimensione temporale sia stata fatta intravedere agl italiani. Non è venuta fuori un’idea di società, verso la quale un eventuale governo M5S tenderebbe, quanto una serie di immagini da proporre a differenti segmenti di pubblico. Niente di male, solo che qui non si cerca di proporre una nuova serie di paste da cucina (gli spaghetti a un tipo di pubblico, le pennette lisce ad un altro e il brand per tutti) ma si è davanti a una crisi economica storica, ad un Pil in declino da un trentennio ad una società con problemi drammatici ed inediti. Un’idea di futuro invece deve connettere, e mobilitare, un’intera società. Non per il rispetto dell’etichetta ma perché il M5S vuol governare da solo e che, per farlo secondo la legge elettorale attuale, deve raggiungere il 40% ovvero almeno 1/3 in più in più dei voti attuali. Sempre, s’intende, seguendo le stime delle attuali intenzioni di voto.Per arrivare a questo risultato la mobilitazione deve essere inedita, almeno per questi anni, e per ora questo non si è visto. La stessa definizione che Davide Casaleggio dà del Movimento 5 Stelle («siamo Netflix, mentre i partiti sono ancora Blockbuster») non pare adatta a suscitare questa mobilitazione. Confonde, infatti, l’immaginario dell’impresa della comunicazione con quello dell’impresa tout court e quello dell’impresa tout court con quello della società. L’idea di futuro di una impresa e quello di una società, per quanto intrisa di aziendalismo come la nostra, vanno separate. Lo stesso Berlusconi, che scese in campo portandosi dietro un immaginario di ricchezza non comparabile con quello della Casaleggio, per prendere voti di massa a livello di opinione dovette ricorrere alla coltivazione, reiterata, di un immaginario di maschio-alfa che stava molto più nel profondo della società italiana di quello dell’impresa. Cercare di costruire un futuro con un immaginario da start-up è, infatti, prepararlo allo stesso rischio di fine precoce che corrono questo tipo di aziende.Davide Casaleggio aveva poi aperto, sul “Corriere della Sera”, all’interrogativo principale della giornata di Ivrea: la rivoluzione robotica e il suo impatto nella società. Roba un po’ schematica, sulla velocità della rivoluzione tecnologica ci sarebbe più da ragionare che fare marketing, ma che sicuramente tocca la struttura della società italiana: dall’organizzazione del lavoro a quella dell’amministrazione dello Stato, della formazione, della ricerca scientifica e del diritto. Per non parlare del tipo di economia che si vuole, e in che modo produce ricchezza (e che tipo di ricchezza produce), in una società a forte tasso di invecchiamento. Questioni da far tremare i polsi, sulle quali non si è visto un lineamento di risposta, sempre tenute sullo sfondo grazie alla questione del “come” finanziare il reddito di cittadinanza. Quella del possibile impatto – sociale, economico, amministrativo – di questa misura rimane invece taciuta. E, essere generico su questi temi, non è solo un difetto di Casaleggio ma anche di tanta sinistra: pensare che il reddito di cittadinanza, misura comunque inevitabile, sia una sorta di derivato della carità (che una volta assolta fa sentire la società uguale a prima solo piu’ solidale) o una misura che riguarda comunque la periferia del corpo sociale.Non siamo più nel ‘900: il reddito di cittadinanza, se erogato davvero, non è una misura di equilibrio sociale che sta tra welfare e mercato. Di fronte a una rivoluzione tecnologica, che distrugge strutturalmente più posti di lavoro di quanti ne produce (a differenza, appunto, del ‘900), il reddito di cittadinanza ha un impatto fortissimo sul mercato del lavoro, sulla forma delle istituzioni e dell’amministrazione. Fa uscire strutturalmente dal lavoro, se è reddito di cittadinanza, non più una nicchia ma una parte consistente di società. In maniera inedita dalla rivoluzione industriale. Presupponendo cambiamenti tali da mettere in discussione anche la presa della forma impresa nelle pieghe della società e nella estrazione della ricchezza. È uno dei motivi, oltre al fatto che la ricchezza in Europa va nei paesi “core” come finiva nel nord ricco dell’Italia postunitaria, per cui questo paese non ha mai trasformato la propria struttura di welfare consociativo, tra le parti sociali come si era configurato nella sua epoca matura, in welfare di cittadinanza. Sarebbe saltata la struttura del potere reale tanto che gli attori in campo hanno preferito trasformare, di volta in volta, il welfare consociativo in uno strumento, in parte borbonico in parte neoliberista, di allineamento alle esigenze di sviluppo della Ue e dell’Eurozona. Insomma, problemi epocali ai quali è impossibile rispondere con un immaginario da start-up. Ma quando ti nutri, in modo totemico, del sapere dell’impresa certi salti in avanti non li puoi fare.Oltretutto, quando in tv Casaleggio jr. si è trovato davanti alla classica domanda, sul come finanziare il reddito di cittadinanza come antidoto alla disoccupazione tecnologica, ha risposto non cercando di conquistare nuovo pubblico ma parlando a quello già conquistato. Ha parlato infatti di «partire dal taglio delle pensioni d’oro», eccetera, ovvero la già vincente retorica sugli sprechi che, anche se fosse praticata allo spasimo, non arriverebbe mai a finanziare una posta di spesa così grande. Segno, perlomeno, di grande confusione, prima di tutto su cosa fare dopo l’evento epocale (e lo è) della rivoluzione tecnologica. Segno che, nonostante i desideri sul futuro, non si arriva a produrre novità politiche e non resta che parlare il solito linguaggio della “casta che ruba”. Davide Casaleggio ha anche aggiunto che, sul finanziamento del reddito di cittadinanza, in fondo, è una questione dei tecnici. Nel migliore dei casi siamo alla visione naif della politica che traccia un’idea e i tecnici la praticano. Quando invece ogni “dettaglio” tecnico porta, nel momento in cui va risolto, a drammatiche scelte politiche, oltretutto quando il provvedimento è destinato a produrre (complesse) ondate di impatto sulla struttura sociale e amministrativa.Qui ci vogliono non i tecnici ma idee di indirizzo politico chiare, e robustamente organizzate, per arrivare a praticare una riforma del welfare, dell’amministrazione e degli obiettivi dello Stato, tale è il reddito di cittadinanza altro che misura “tecnica”, che entrerebbero sicuramente in conflitto con Bruxelles e Francoforte (per non dire Berlino). Insomma, l’evento dell’associazione Gianroberto Casaleggio, che è distinta dal Movimento 5 Stelle, si è impantanato nei difetti della solita convegnistica di impresa che un giorno tocca l’idea di banda ultralarga e l’altro di Industria 4.0: un po’ di spettacolo, un tema di fondo magari azzeccato e tanta genericità a contorno dell’evento. L’invito al Ceo di Google Italia, al direttore della Trilateral e a quello del Tg7 (nonché a qualche sociologo che questa convegnistica se l’è fatta tutta in area Pd-Bassolino), da parte di Casaleggio, stavano in questa cornice. Il problema è che questo genere di convegnistica è fatta, soprattutto, per sviluppare il capitalismo di relazione in settori specializzati. Se il format viene riproposto per delineare il futuro di un paese, le crepe si vedono tutte. La forma start-up non è in grado di rappresentare la profondità di un paese come il nostro. Ma difficile che su quelle rive si cambi idea.Certo se dall’associazione Casaleggio c’è questa confusione in campo 5 Stelle, e ci riferiamo alla politica monetaria, le turbolenze non mancano. Il referendum, previsto come consultivo dal M5S, sulla permanenza nell’euro o meno assumerebbe, in questa cornice, i tratti della più spettacolare manna dal cielo per la speculazione finanziaria (che le borse “banchino” i referendum ormai è prassi consolidata) e quello della paralisi delle politiche di un paese in attesa del risultato. Sicuramente in tutto questo c’è molta propaganda ma anche occhi molto smaliziati stentano a trovarci coerenza e sostanza. Nessuno si augura un domani di riveder di nuovo pascolare i Gentiloni, i Renzi, gli Alfano, le Camusso. Ma bisogna anche essere consapevoli di cosa sta accadendo anche da altre parti della politica. Perché si sta preparando l’ennesima turbolenza per questo paese, comunque vada. E i convegni del genere “imprese per un paese che cambia” queste turbolenze non le governano, al massimo ne vengono governati. Oppure vengono spazzati via e avanti il prossimo.(“Davide Casaleggio, poco o nulla di fronte a problemi epocali”, da “Senza Soste” dell’11 aprile 2017).La recente convention di Ivrea, fatta per ricordare Casaleggio senior e lanciare i lineamenti di visione della società da parte di Casaleggio junior, è sembrata, a molti osservatori non certo pro Pd, piuttosto deludente. Visto il filo conduttore della giornata di Ivrea, il futuro, non si può dire però che questa dimensione temporale sia stata fatta intravedere agl italiani. Non è venuta fuori un’idea di società, verso la quale un eventuale governo M5S tenderebbe, quanto una serie di immagini da proporre a differenti segmenti di pubblico. Niente di male, solo che qui non si cerca di proporre una nuova serie di paste da cucina (gli spaghetti a un tipo di pubblico, le pennette lisce ad un altro e il brand per tutti) ma si è davanti a una crisi economica storica, ad un Pil in declino da un trentennio ad una società con problemi drammatici ed inediti. Un’idea di futuro invece deve connettere, e mobilitare, un’intera società. Non per il rispetto dell’etichetta ma perché il M5S vuol governare da solo e che, per farlo secondo la legge elettorale attuale, deve raggiungere il 40% ovvero almeno 1/3 in più in più dei voti attuali. Sempre, s’intende, seguendo le stime delle attuali intenzioni di voto.
-
Berlino ha stravinto, ora può solo scegliere come perdere
L’euro sta per crollare, questo è certo: ma agli Usa conviene che l’Europa finisca ko? Secondo l’economista Alberto Bagnai, sarebbe meglio la seconda opzione: aiutare l’Europa a uscire dall’euro in modo non disastroso, dando comunque per scontato che la moneta unica europea è ormai al capolinea, visto che l’unione monetaria è stata «la peggiore strada possibile» per rimodellare l’unità europea oltre la Nato, caduto il Muro di Berlino. «Una cattiva economia non può generare una buona politica», afferma Bagnai: «Quello che avrebbe dovuto unire l’Europa oggi la sta lacerando». La Gran Bretagna ha già deciso di togliere il disturbo, mentre l’Europa continentale è di fronte a una scelta: alzare il livello dello scontro con Berlino o arrendersi all’egemonia della Germania. «Gli Stati Uniti, come qualsiasi altro attore a livello globale, devono porsi di fronte a questa realtà: l’euro ha dissepolto senza motivo la questione tedesca, provocando esattamente ciò che avrebbe dovuto prevenire». A Washington l’ardua sentenza: meglio un’Europa sul lastrico o un partner ancora in piedi, relativamente solido?«Se gli Stati Uniti decidono che a loro conviene avere a che fare con un’Europa politicamente divisa, economicamente a pezzi e socialmente instabile, allora sostenere l’euro è per loro la scelta migliore», quella del “divide et impera”. Ma siamo sicuri che convenga, a Washington? Se invece gli Stati Uniti ritengono che un’Europa in buona salute dal punto di vista politico ed economico possa essere un alleato più utile sullo scenario globale, allora – sempre secondo l’analisi di Bagnai, ripresa da “Voci dall’Estero” – dovrebbero «promuovere uno smantellamento controllato dell’euro». Attenzione: «Disfare l’euro non sarà privo di costi». In ogni caso, però, «saranno costi comunque inferiori a quelli che comporta l’alternativa», ovvero il protrarre questa paurosa stagnazione dell’economia europea e quindi mondiale, oltre al rischio crescente di una grave crisi finanziaria. Stagnazione che, peraltro, produce gravi conseguenze sull’economia globale, derivando anche da «regole europee sbagliate per gestire gli enormi squilibri creati da istituzioni europee viziate in partenza».L’integrazione economica europea, insiste Bagnai, ebbe un ruolo-chiave nel promuovere la prosperità della parte occidentale del continente, quando quella orientale era sotto il dominio dell’Urss. Poi, di colpo, la caduta la Cortina di Ferro «riportò sulla scena quella che era stata per secoli la causa principale di grandi sofferenze: la difficile relazione tra Francia e Germania». Il motivo del fallimento dell’euro, definito “sbrigativo matrimonio di convenienza” tra Parigi e Berlino? «E’ lo stesso che diede il colpo di grazia agli accordi di Bretton Woods», che stabilirano il dollaro come valuta internazionale: «Entrambe le due istituzioni promuovono la nascita di squilibri esterni, anche se per ragioni diverse». C’è sempre un peccato originale: quello del sistema di Bretton Woods «era stato l’adozione della valuta di uno Stato come valuta mondiale», mentre quello dell’euro «è stato l’adozione di una valuta senza Stato come valuta regionale». Il loro difetto comune? «La presenza di un tasso di cambio fisso, che impedisce l’aggiustamento della bilancia dei pagamenti».Il sistema di Bretton Woods è durato a lungo, ricorda Bagnai, grazie al carattere dei mercati finanziari, che allora erano regolamentati, e alla capacità di visione del paese leader, gli Stati Uniti. «Di entrambe le cose non c’è traccia in Eurozona, dove è promossa una libertà di movimento dei capitali senza restrizioni, in assenza di qualsivoglia autorità regionale di supervisione, e dove il leader regionale, la Germania, è con ogni evidenza ossessionato da una oltremodo miope smania di accrescere il più possibile il suo surplus esterno». L’estrema rigidità dell’euro «ha incentivato il mercantilismo», cioè «la tentazione di tesaurizzare i capitali internazionali invece di reinvestirli nell’economia mondiale», e la pulsione mercantilista orienta il commercio a vantaggio dei paesi del nucleo centrale, la cui valuta in termini reali è sottovalutata, preservando il valore delle loro attività nette sull’estero. «Ma il presunto vincitore nella gara dell’euro, la Germania, si ritrova ora in un vicolo cieco», continua Bagnai. «Se vuole mantenere in vita l’Eurozona, deve accettare le politiche monetarie estremamente espansive della Bce». Viceversa, «una politica monetaria più restrittiva darebbe sollievo ai creditori, ma esattamente per lo stesso motivo provocherebbe il crollo istantaneo dei paesi debitori, rendendo loro ben difficile sostenere il debito».Se invece crescessero i redditi, nei paesi debitori, questo «rilancerebbe il debito estero, tornando a incentivare gli squilibri che hanno provocato la crisi». Secondo il Tesoro Usa, la Germania è riuscita a stravincere «grazie a manipolazioni del Forex», il mercato globale decentralizzato, nel quale tutte le valute del mondo vengono scambiate in ogni momento ad un prezzo concordato. I tedeschi si sono serviti di un euro «fortemente svalutato» per sfruttare gli Usa e gli altri partner commerciali: questa l’accusa di Peter Navarro, capo del National Trade Council degli Stati Uniti, secondo cui «l’euro è un marco travestito». Ma ora, aggiunge Bagnai, Berlino può solo scegliere come perdere: tutto in un colpo (per il collasso dei suoi debitori) o a poco a poco (a causa di tassi di interesse nulli o negativi). L’Europa è in declino, conclude l’economista, ma è ancora troppo grande per crollare senza terremotare il resto del mondo. Secondo i massimi economisti Usa, l’euro ha le ore contate. «La causa più probabile sarà un collasso del sistema bancario italiano, che trascinerà con sé quello tedesco. È nell’interesse di qualsiasi potere politico, certamente dei vacillanti leader europei, ma probabilmente anche degli Stati Uniti, gestire – piuttosto che subire – questa conclusione».L’euro sta per crollare, questo è certo: ma agli Usa conviene che l’Europa finisca ko? Secondo l’economista Alberto Bagnai, sarebbe meglio la seconda opzione: aiutare l’Europa a uscire dall’euro in modo non disastroso, dando comunque per scontato che la moneta unica europea è ormai al capolinea, visto che l’unione monetaria è stata «la peggiore strada possibile» per rimodellare l’unità europea oltre la Nato, caduto il Muro di Berlino. «Una cattiva economia non può generare una buona politica», afferma Bagnai: «Quello che avrebbe dovuto unire l’Europa oggi la sta lacerando». La Gran Bretagna ha già deciso di togliere il disturbo, mentre l’Europa continentale è di fronte a una scelta: alzare il livello dello scontro con Berlino o arrendersi all’egemonia della Germania. «Gli Stati Uniti, come qualsiasi altro attore a livello globale, devono porsi di fronte a questa realtà: l’euro ha dissepolto senza motivo la questione tedesca, provocando esattamente ciò che avrebbe dovuto prevenire». A Washington l’ardua sentenza: meglio un’Europa sul lastrico o un partner ancora in piedi, relativamente solido?
-
Massoni al potere? Magaldi: chiedete a Monti e Napolitano
«Dal punto di vista giuridico, ha detto bene il gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Stefano Bisi: non si capisce perché la commissione antimafia pretenda gli elenchi degli iscritti al Goi e non anche quelli dei partiti o dei sindacati. Sono tutte associazioni legali. E lo Stato di diritto, che si vuole garantire con la lotta alla mafia, si tutela anche con il rispetto della privacy di chi – i massoni ordinari e per lo più inoffensivi – troppo spesso in Italia sono stati oggetto di demonizzazione e caccia alle streghe». Così Gioele Magaldi, leader del Grande Oriente Democratico, interpellato da Fabrizio Caccia del “Corriere della Sera” sulla polemica tra la massoneria italiana e Rosy Bindi, che Magaldi – presidente del Movimento Roosevelt – accusa di guidare una «caccia alle streghe antimassonica» col pretesto della lotta alla mafia. «I mafiosi, peraltro, si possono annidare anche in organizzazioni religiose, cui però non si chiedono liste». Magaldi contrattacca: se proprio vuole saperne di più, riguardo ad affiliazioni massoniche, perché la Bindi non si rivolge a Monti e Napolitano?«Inviterei Rosy Bindi a chiedere conto al senatore a vita Mario Monti e all’ex presidente Giorgio Napolitano delle influenze nefaste che le loro rispettive superlogge di appartenenza, “Babel Tower” e “Three Eyes”, hanno avuto sulla vita istituzionale e socio-economica dell’Italia», dichiara Magaldi, che chiede alla commissione antimafia di acquisire, agli atti, il suo libro “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere), nel quale rivela il ruolo di 36 Ur-Lodges internazionali (logge madri) indicate come “grandi manovratrici” delle maggiori trame di potere, in tutti i paesi, fino al pesante condizionamento dei governi, incluso quello italiano. «Senatori (Laura Bottici in particolare) e deputati M5S hanno presentato interrogazioni parlamentari sugli inquietanti legami massonici sovranazionali di ispirazione neoaristocratica che hanno ispirato l’incarico di governo dato dal “fratello” Napolitano al “fratello” Monti nel 2011, inaugurando uno degli esecutivi più rovinosi della storia della repubblica», dichiara Magaldi al giornalista del “Corriere”.In Italia, ricorda Magaldi, le principali comunioni massoniche sono il Goi, la Gran Loggia d’Italia, la Gran Loggia Regolare d’Italia e la Camea, «guidata dal mio fraterno amico Roberto Luongo». Poi, aggiunge, vi sono una moltitudine di comunioni (obbedienze) minori, per un totale di qualche decina di migliaia di massoni “ordinari”. «Ma, in Italia, come altrove – precisa Magaldi – a contare davvero non sono più queste comunioni (federazioni di logge su base nazionale), bensì le reti delle superlogge sovranazionali (Ur-Lodges)», a cui è dedicato l’esplosivo saggio uscito a fine 2014, in uscita in Spagna e in via di pubblicazione anche in inglese, francese, tedesco, russo, cinese e arabo. Magaldi, che nel suo libro ha “messo in piazza” i nomi dei massimi responsabili della svolta autoritaria e “neo-aristocratica” della politica internazionale, dominata da un’élite super-massonica “reazionaria”, denuncia al tempo stesso «i pregiudizi italioti verso la massoneria», e nel suo libro ricorda che «i massoni delle reti sovranazionali», in passato, hanno «costruito la contemporaneità, le società aperte, libere e democratiche, laiche, tolleranti e fondate sullo Stato di diritto». I giornali cadono dalle nuvole, quando si parla di massoneria di potere? «Li invito alla lettura del mio libro – conclude Magaldi – il cui sottotitolo “Società a responsabilità illimitata” lascia intuire qualcosa su cui i media faranno bene a riflettere con minore superficialità di quella adottata sinora».«Dal punto di vista giuridico, ha detto bene il gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Stefano Bisi: non si capisce perché la commissione antimafia pretenda gli elenchi degli iscritti al Goi e non anche quelli dei partiti o dei sindacati. Sono tutte associazioni legali. E lo Stato di diritto, che si vuole garantire con la lotta alla mafia, si tutela anche con il rispetto della privacy di chi – i massoni ordinari e per lo più inoffensivi – troppo spesso in Italia sono stati oggetto di demonizzazione e caccia alle streghe». Così Gioele Magaldi, leader del Grande Oriente Democratico, interpellato da Fabrizio Caccia del “Corriere della Sera” sulla polemica tra la massoneria italiana e Rosy Bindi, che Magaldi – presidente del Movimento Roosevelt – accusa di guidare una «caccia alle streghe antimassonica» col pretesto della lotta alla mafia. «I mafiosi, peraltro, si possono annidare anche in organizzazioni religiose, cui però non si chiedono liste». Magaldi contrattacca: se proprio vuole saperne di più, riguardo ad affiliazioni massoniche, perché la Bindi non si rivolge a Monti e Napolitano?
-
Conflitto mondiale in arrivo? Meyssan: no, è solo teatro
E’ ufficiale: non si capisce più niente, della pericolosa tensione che sta scuotendo il mondo, con epicentro – tanto per cambiare – il Medio Oriente. Sul “Giornale”, Marcello Foa si allarma seriamente: Donald Trump avrebbe appena mobilitato 150.000 riservisti: «Per fare cosa? Un attacco in grande stile alla Siria? Colpire prima Damasco e poi Teheran? In Corea del Nord? Purtroppo la sciagurata svolta di Donald Trump – che si è arreso ai neoconservatori facendo propria l’agenda strategica che in campagna elettorale aveva promesso di combattere – autorizza qualunque ipotesi. Anche quella più drammatica e sconvolgente di una guerra alla Russia di Putin». Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, offre (da mesi) una lettura diversa: quella di Trump, «membro della cordata anti-Bush», sarebbe sempre stata soltanto una tragica farsa, che rivela la guerra interna, ai piani alti, tra gli oligarchi del pianeta: «Sanno che le risorse energetiche stanno finendo, quindi sgomitano per conquistarsi un posto in prima fila da cui sperano di attuare un Piano-B, ciascuno il suo». E, a proposito di “teatro”, dalla Siria un reporter come Thierry Meyssan avverte: l’offensiva anti-siriana, e quindi anti-russa, è solo apparente, affidata a missili “di cartone”, appositamente fuori bersaglio.Se sul suolo siriano sono potuti cadere 59 Tomahawk, scrive Meyssan su “Megachip”, è solo perché Mosca ha “spento” le batterie degli S-400, i suoi missili anti-missile, consentendo cioè a Trump di compiere la sua “performance teatrale”, che rappresenta un disperato tentativo di recuperare consenso interno, dopo i recenti rovesci. Non la pensa così Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan, che – in campagna elettorale – difese la dignità delle istanze di Trump (la distensione con la Russia) denunciando il bellicismo “politically correct” della Clinton, strumento dei “falchi” neocon. Per Craig Roberts, quella di Trump non è cosmesi tattica: si tratta di una svolta vera e propria, che dimostrerebbe la resa del neopresidente all’establishment di Washington, quello che lavora per il “regime change” anche a Mosca, dove spera di rovesciare Putin, che è sotto assedio da anni: la guerra in Siria, quella in Ucraina, le sanzioni alla Russia. Meyssan, al contrario, sostiene che la partita non è ancora chiusa: le «troppe, strane incongruenze» dell’affaire siriano dimostrerebbero che il gruppo di Trump, sottobanco, sta giocando una sfida doppia: cercare di tener buoni i neocon, con concessioni di facciata per salvare la sua poltrona (e forse la sua stessa vita), e sparigliare le carte mettendo in crisi, alla fine, il “partito dell’Isis”, che ha il cervello a Washington e i tentacoli in Medio Oriente.Secondo Meyssan, Trump non ha «improvvisamente cambiato bandiera». Al contrario, asarebbe in corso una complessa pretattica. Lo dimostrerebbero svariati indizi. Tanto per cominciare, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’argomento di un attacco chimico perpetrato da Damasco non era sostenuto dal rappresentante del segretario generale, che infatti ha sottolineto «l’impossibilità, in questa fase, di sapere come questo attacco avrebbe potuto aver luogo». L’unica fonte sono gli “Elmetti Bianchi”, «vale a dire un gruppo di Al Qaeda a cui l’M16 britannico sovrintende ai fini della sua propaganda». Inoltre, aggiunge Meyssan, «tutti gli esperti militari sottolineano che i gas da combattimento devono essere dispersi tramite tiri d’obice e mai, assolutamente mai, tramite bombardamenti aerei». L’attacco americano alla base siriana? «Si è caratterizzato per la sua brutalità apparente: i 59 missili Bgm-109 Tomahawk avevano una capacità combinata equivalente a quasi il doppio della bomba atomica di Hiroshima. Tuttavia, l’attacco è stato anche caratterizzato dalla sua inefficienza: sebbene vi siano stati dei martiri caduti nel tentativo di spegnere un incendio, i danni sono risultati essere così poco importanti che la base funzionava nuovamente già all’indomani».Per Meyssan, è inevitabile constatare sia il fatto questa operazione «è solo una messa in scena: in questo caso, possiamo capire meglio il fatto che la difesa aerea russa non abbia reagito». Ciò implica che «i missili anti-missile S-400, il cui funzionamento è automatico, sono stati disattivati volontariamente in anticipo». Motivazione? «Tutto è accaduto come se la Casa Bianca avesse immaginato uno stratagemma inteso a condurre i suoi alleati in una guerra contro gli utilizzatori di armi chimiche, vale a dire contro i jihadisti. Infatti, fino ad oggi, secondo le Nazioni Unite, i soli casi documentati di uso di tali armi in Siria e in Iraq sono stati attribuiti a loro». Nel corso degli ultimi tre mesi, continua Meyssan, gli Stati Uniti hanno rotto con la politica del repubblicano George Bush Jr. (che firmò la dichiarazione di guerra del “Syrian Accountablity Act”) e di Barack Obama (che sostenne le “primavere arabe”, ossia la riedizione della “Grande rivolta araba del 1916”, organizzata dai britannici). «Tuttavia – aggiunge Meyssan – Donald Trump non era riuscito a convincere i suoi alleati, in particolare tedeschi, britannici e francesi». E ora, «saltando su quel che sembra essere un cambiamento radicale nella politica Usa, Londra ha fatto molte dichiarazioni contro la Siria, la Russia e l’Iran. E il suo ministro degli esteri, Boris Johnson, ha cancellato la sua visita a Mosca».Ma attenzione, ragiona Meyssan: «Se Washington ha cambiato la sua politica, per quale motivo il segretario di Stato Rex Tillerson ha tuttavia confermato la sua visita a Mosca? E perché dunque il presidente Xi Jinping, che si trovava a essere ospite del suo omologo statunitense durante il bombardamento di Chayrat, ha reagito in modo così molle, laddove il suo paese ha fatto uso per ben 6 volte del suo diritto di veto al fine di proteggere la Siria al Consiglio di sicurezza?». Non solo. «In mezzo a questo unanimismo oratorio e a queste incongruenze di fatto – osserva Meyssan – il vice consigliere del presidente Trump, Sebastian Gorka, moltiplica i messaggi che vanno in direzione contraria. Assicura che la Casa Bianca considera sempre il presidente Assad come legittimo e i jihadisti come il nemico». Gorka, spiega Meyssan, «è uno stretto amico del generale Michael T. Flynn che aveva concepito il piano di Trump contro i jihadisti in generale e Daesh in particolare». Come dire: non fatevi incantare dal “teatro” in corso: la verità è molto lontana dalla versione che campeggia nelle prime pagine. All’Onu, la Bolivia ha persino formulato il sospetto che l’attacco coi gas, in Siria, non sia neppure avvenuto. Tempo fa, la Russia esibì la sua potenza missilistica con il lancio di missili Kalibr, supersonici e “invisibili”: partiti da navi nel remoto Mar Caspio, centrarono al millimero tutti gli obiettivi. Il 7 aprile, dal vicinissimo Mediterraneo, gli Usa hanno sparato 59 Tomahawk su una base aerea, senza nemmeno danneggiarne la pista. Strano, no?E’ ufficiale: non si capisce più niente, della pericolosa tensione che sta scuotendo il mondo, con epicentro – tanto per cambiare – il Medio Oriente. Sul “Giornale”, Marcello Foa si allarma seriamente: Donald Trump avrebbe appena mobilitato 150.000 riservisti: «Per fare cosa? Un attacco in grande stile alla Siria? Colpire prima Damasco e poi Teheran? In Corea del Nord? Purtroppo la sciagurata svolta di Donald Trump – che si è arreso ai neoconservatori facendo propria l’agenda strategica che in campagna elettorale aveva promesso di combattere – autorizza qualunque ipotesi. Anche quella più drammatica e sconvolgente di una guerra alla Russia di Putin». Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, offre (da mesi) una lettura diversa: quella di Trump, «membro della cordata anti-Bush», sarebbe sempre stata soltanto una tragica farsa, che rivela la guerra interna, ai piani alti, tra gli oligarchi del pianeta: «Sanno che le risorse energetiche stanno finendo, quindi sgomitano per conquistarsi un posto in prima fila da cui sperano di attuare un Piano-B, ciascuno il suo». E, a proposito di “teatro”, dalla Siria un reporter come Thierry Meyssan avverte: l’offensiva anti-siriana, e quindi anti-russa, è solo apparente, affidata a missili “di cartone”, appositamente fuori bersaglio.
-
Nuovo disordine mondiale: morti gli Stati, c’è solo il denaro
L’attuale situazione internazionale desta in molti preoccupazione e sorpresa: non esiste un ordine mondiale, stiamo scivolando verso l’anarchia internazionale e questo fa temere l’approssimarsi di nuove guerre, sino all’esplosione di un nuovo grande conflitto mondiale. Passi per la preoccupazione: in effetti c’è un allargamento delle aree di scontro con archi di crisi di migliaia di chilometri, dalla Libia all’Afghanistan, dalla Siria all’Ucraina e forse l’Estonia, dalla Corea alle isole Senkaku-Diaoyu che potrebbe allungarsi sino alle Paracel; per non dire dell’iperterrorismo. In effetti il timore di una escalation che porti ad un conflitto generalizzato è plausibile. Quello che, invece, è strano è la sorpresa della quale ci sorprendiamo. L’ordine mondiale è sempre stato pensato come equilibrio fra Stati; ma, con l’avvento della globalizzazione neoliberista, ci è stato spiegato che gli Stati nazionali erano solo una reliquia del passato destinata a rapida scomparsa; comunque, dovevano astenersi da qualsivoglia politica economica, che non fosse nell’ambito della più stretta ortodossia mercatista. Nello stesso tempo è iniziata una frenetica delocalizzazione di gran parte della manifattura dai paesi occidentali a quelli di Asia, Africa ed America Latina, che ha modificato fortemente il Pil di quei paesi consentendo loro una spesa militare senza precedenti. E tutto questo ha provocato un marcato riallineamento dei rapporti di forza fra i diversi paesi.Quanto alle sconclusionate avventure degli Usa nei paesi mediorientali e della loro misera conclusione non è neppure il caso di dire. E, date queste premesse, perché mai sarebbe dovuta andare diversamente? E’ andata come era logico che andasse. L’idea che la globalizzazione sarebbe stata un’epoca di stabile “ordine mondiale”, nonostante il deperimento degli Stati nazionali, si basava essenzialmente sulla convinzione che di Stato ne bastasse uno, quello Usa, di cui tutti gli altri sarebbero stati solo pallide agenzie locali. Molto successo ebbe chi (Negri) parlava di un mitico Impero acefalo, di cui gli Usa erano solo il principale braccio esecutivo, non si capisce al servizio di quale cervello, una sorta di Impero-processo che superava definitivamente l’ordine westfalico verso non si sa bene cosa. E c’era anche chi (Huntington) parlava, con maggiore realismo, di un ordine mondiale fondato su sette o otto modelli di civiltà, raccolti intorno ad una nazione guida, ma pur sempre basato sull’egemonia occidentale, se non proprio americana e basta. Ma le cose non sono andate in questo senso, e la realtà si è dimostrata molto più fantasiosa dei progettisti del nuovo ordine mondiale.L’esperienza storica dimostra che, quando emerge un credibile disegno egemonico, si forma una coalizione dei soggetti più deboli (o comunque di quanti se ne sentono aggrediti) contro di esso e, non di rado, la coalizione vince. Waterloo, Stalingrado, Verdun, stanno lì a dimostrarlo. E’ accaduto anche questa volta, prima con la Comunità di Shanghai, a guardia dello spazio strategico cino-russo, e poi con la formazione del Bric, che alleava una ex grande potenza in via di ripresa (la Russia) con tre emergenti (Cina, India, Brasile), e cui, poco dopo, si aggiungeva il Sud Africa. Nasceva così l’embrione di un incerto ordine mondiale basato su una sola grande potenza ed un certo numero di grandi potenze regionali. La prima era l’unica in grado di intervenire in ogni angolo del pianeta, grazie alle sue 745 basi militari, alle sue 7 flotte e al predominio satellitare, ma le altre in grado di difendere militarmente il proprio spazio strategico. Per di più la globalizzazione moltiplicava i piani di scontro rendendoli insieme interdipendenti (economia, finanza, guerra cognitiva, soft power, guerra coperta, iperterrorismo) e la stessa dimensione spaziale acquisiva tre nuove sfere (sottosuolo marino, cyber-spazio e spazio satellitare) per cui la difesa del predominio assoluto, in ogni dimensione e su ciascun piano di scontro, comporta costi proibitivi, e questo rende sempre più imperfetto quel predominio unilaterale che sembrava destinato a durare a lungo nel tempo.Negli interstizi di questo ordine ineguale, si inserivano man mano nuovi attori di minore peso (Indonesia, Messico, Turchia, Egitto, Arabia Saudita, Argentina, Venezuela, Vietnam, Pakistan, le due Coree, eccetera), ma che iniziavano a giocare in autonomia una propria partita nella sfera di appartenenza. Nello stesso tempo, i pilastri delle alleanze occidentali iniziavano a indebolirsi, mostrando vistose crepe: l’Unione Europea, priva di un progetto strategico di sé, iniziava a naufragare con il riemergere dei protagonismi nazionali, la Nato andava perdendo senso, sotto i colpi dell’unilateralismo americano voluto da Bush e poi solo parzialmente smentito da Obama, nel Fmi iniziava a sentirsi la pressione dei nuovi soggetti (Cina in testa) e fra Usa ed Europa iniziavano a manifestarsi i sintomi di una guerra commerciale e monetaria. E il mondo ha iniziato a dividersi in tre aree, così come lo descrive la copertina del libro di Di Nolfo: quella verde del blocco occidentale (Usa, Ue, Australia, Giappone), quella gialla dell’area Bric (India, Russia, Cina, Brasile, cui aggiungeremmo il Sud Africa e i paesi intermedi fra Russia e Cina) e quella viola, che definiremmo “della turbolenza”, che include l’America Latina ispanofona, l’Africa, i paesi islamici e singole aree asiatiche come il Vietnam. Il tutto in un equilibrio precario pronto a far pendere un piatto della bilancia o l’altro.Inizialmente la sfida degli emergenti venne taciuta o avanzata con grande timidezza, tanto che, ancora nel 2012, Kupchan poteva illudersi che il predominio americano, vuoi per i rapporti di forza militari, vuoi per quelli finanziari, non era destinato ad affievolirsi, per cui l’odine mondiale sarebbe rimasto lo stesso ancora per un tempo indefinito, e che eventuali sfidanti potevano al massimo sperare ciascuno di ottenere un rapporto preferenziale con gli Usa. Ma le cose non sono andate in questo modo e la presidenza Trump è solo una brusca accelerazione su una traiettoria precedente, che vede gli Usa come unica superpotenza, ma assediata dai suoi sfidanti e con un rapporto di forse sempre meno favorevole. Contrariamente a quello che la teoria delle relazioni internazionali ha sempre sostenuto, non sempre il peggior pericolo di guerra viene dall’anarchia internazionale; qualche volta è proprio l’ordine a generare il massimo disordine.(Aldo Giannuli, “Elogio del nuovo disordine mondiale”, dal blog di Giannuli del 30 marzo 2017; il post sintetizza un intervento di Giannuli su “Limes”).L’attuale situazione internazionale desta in molti preoccupazione e sorpresa: non esiste un ordine mondiale, stiamo scivolando verso l’anarchia internazionale e questo fa temere l’approssimarsi di nuove guerre, sino all’esplosione di un nuovo grande conflitto mondiale. Passi per la preoccupazione: in effetti c’è un allargamento delle aree di scontro con archi di crisi di migliaia di chilometri, dalla Libia all’Afghanistan, dalla Siria all’Ucraina e forse l’Estonia, dalla Corea alle isole Senkaku-Diaoyu che potrebbe allungarsi sino alle Paracel; per non dire dell’iperterrorismo. In effetti il timore di una escalation che porti ad un conflitto generalizzato è plausibile. Quello che, invece, è strano è la sorpresa della quale ci sorprendiamo. L’ordine mondiale è sempre stato pensato come equilibrio fra Stati; ma, con l’avvento della globalizzazione neoliberista, ci è stato spiegato che gli Stati nazionali erano solo una reliquia del passato destinata a rapida scomparsa; comunque, dovevano astenersi da qualsivoglia politica economica, che non fosse nell’ambito della più stretta ortodossia mercatista. Nello stesso tempo è iniziata una frenetica delocalizzazione di gran parte della manifattura dai paesi occidentali a quelli di Asia, Africa ed America Latina, che ha modificato fortemente il Pil di quei paesi consentendo loro una spesa militare senza precedenti. E tutto questo ha provocato un marcato riallineamento dei rapporti di forza fra i diversi paesi.