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Ha inghiottito il mondo, è il mostro chiamato neoliberismo
Il neoliberismo è come la mafia: non esiste, si diceva un tempo, in Sicilia. Poi sono arrivate le bombe: così, la mafia “esiste”, ormai ufficialmente, da decenni. E adesso che anche la bomba neoliberista ha fatto morti e feriti in tutto il mondo, lo ammettono: il neoliberismo esiste, parola del Fmi. Nell’estate 2017, tre ricercatori del Fondo Monetario hanno ribaltato l’idea quella parola non sia altro che un artificio politico: il loro “paper”, scrive Steven Metcalf sul “Guardian”, individua chiaramente un’agenda neoliberista, che ha sravolto il pianeta: ha spinto la deregolamentazione delle economie in tutto il mondo, ha forzato l’apertura dei mercati nazionali al libero commercio e alla libera circolazione dei capitali, ha richiesto la riduzione del settore pubblico tramite l’austerità o le privatizzazioni. Parlano i dati statistici: la diffusione delle politiche neoliberali a partire dal 1980 ha coinciso con la crisi della crescita, i cicli economici a singhiozzo e il dilagare delle diseguaglianze. Neoliberismo? «E’ un termine vecchio, risalente agli anni Trenta, ma è stato rivitalizzato come un modo per descrivere la nostra politica attuale o, più precisamente, l’ordine delle idee consentite dalla nostra politica», fino al punto da plagiare la nostra mente: siamo meno umani e più soli, individui in feroce competizione tra loro.All’indomani della crisi finanziaria del 2008, scrive Metcalf in un articolo ripreso da “Voci dall’Estero”, il termine neoliberismo è stato un modo per attribuire la responsabilità della débacle: non a un partito politico di per sé, ma ad un establishment che aveva ceduto la sua autorità al mercato. Per i democratici Usa e i laburisti inglesi, questa cessione è stata descritta come un grottesco tradimento dei loro principi: Bill Clinton e Tony Blair, è stato detto, hanno abbandonato gli impegni tradizionali della sinistra, in particolare nei confronti dei lavoratori, a favore di un’élite finanziaria globale e di politiche autoritarie (che li hanno arricchiti). E nel fare questo, hanno permesso un terribile aumento delle diseguaglianze. Ormai l’accusa di neoliberismo è un’arma retorica, «un modo per la gente di sinistra di gettare le colpe su quelli che stanno anche un centimetro alla loro destra». Ma il neoliberismo, osserva Metcalf, è anche un filtro attraverso cui guardare il mondo: «I pensatori politici più ammirati da Thatcher e da Reagan hanno contribuito a modellare l’ideale della società come una sorta di mercato universale (e non, ad esempio, una polis, una sfera civile o una sorta di famiglia) e gli esseri umani come dei calcolatori di profitti e perdite (e non come beneficiari di previdenze o titolari di diritti e doveri inalienabili)».Naturalmente, si trattava di «indebolire lo Stato sociale e l’obiettivo della piena occupazione», nel frattempo abbattendo le tasse e spianando la strada al business senza regole. E’ anche e soprattutto «un modo per riordinare la realtà sociale, e ripensare il nostro status come individui isolati». Basta vedere «in quale maniera pervasiva siamo invitati a pensare a noi stessi come proprietari dei nostri talenti e iniziative, con quanta disinvoltura ci viene detto di competere e adattarci». Lo stesso linguaggio, prima limitato alle semplificazioni didattiche che descrivono i mercati delle materie prime (concorrenza, trasparenza, comportamenti razionali) ora «è stato applicato a tutta la società, fino a invadere la realtà della nostra vita personale», ridotta a marketing permanente. Neoliberismo non significa solo «politiche a favore del mercato o compromessi col capitalismo finanziario fatti dai partiti socialdemocratici falliti». È anche «la denominazione di una premessa che, silenziosamente, è arrivata a regolare tutta la nostra pratica e le nostre credenze», come se la concorrenza fosse «l’unico legittimo principio di organizzazione dell’attività umana».Non appena il neoliberismo – certificato come reale – ha «reso evidente l’ipocrisia universale del mercato», allora «i populisti e i fautori dell’autoritarismo sono arrivati al potere». Negli Usa, Hillary Clinton, cioè «il super-cattivo dei neoliberal», ha perso nei confronti di Trump, «un uomo che sapeva solo quanto basta per fingere di odiare il libero scambio». Contro la globalizzazione, scrive Metcalf, si è riaffermata l’identità nazionale nel modo più duro possibile: da una parte la Brexit e, oltreoceano, «un folle a ruota libera» alla Casa Bianca. «Non è solo che il libero mercato produce una piccola squadra di vincitori e un enorme esercito di perdenti – e i perdenti, in cerca di vendetta, si sono rivolti alla Brexit e a Trump. C’era, sin dall’inizio, una relazione inevitabile tra l’ideale utopistico del libero mercato e il presente distopico in cui ci troviamo; tra il mercato come dispensatore unico di valore e tutore della libertà, e la nostra attuale caduta nella post-verità e nell’illiberalismo», afferma l’analista inglese, secondo cui – per capire bene il fenomeno – è meglio archiviare i Clinton e tornare alla radice del male: «C’era una volta un gruppo di persone che si definivano neoliberali, e lo facevano con molto orgoglio, e ambivano a una rivoluzione totale nel pensiero».Il più importante fra di loro, l’economista austriaco Friedrich von Hayek, «non pensava di conquistare una posizione nello spettro politico, o di giustificare i ricchi, o aggrapparsi ai margini della microeconomia: pensava di risolvere il problema della modernità». Per Hayek, «il mercato non agevolava semplicemente il commercio di beni e servizi: rivelava la verità». Solo che «la sua ambizione si è rovesciata nel suo opposto». Ovvero: «Grazie alla nostra venerazione sconsiderata del libero mercato, la verità potrebbe essere scacciata del tutto dalla vita pubblica», scrive Metcalf. Quando nel 1936 Friedrich Hayek ebbe “l’illuminazione”, pensò di aver incontrato qualcosa di inedito: «Come può la combinazione di frammenti di conoscenze esistenti in menti diverse – ha scritto – portare a risultati che, se dovessero essere perseguiti deliberatamente, richiederebbero una conoscenza da parte del regista che nessuno può possedere?». Non era tecnicismo economistico, né una polemica reazionaria contro il collettivismo: «Era un modo di far nascere un mondo nuovo», sostiene Metcalf. «Con crescente eccitazione, Hayek capì che il mercato potrebbe essere considerato come una sorta di mente».La “mano invisibile” di Adam Smith ci aveva già consegnato la concezione moderna del mercato: una sfera autonoma dell’attività umana e quindi, potenzialmente, un oggetto valido di conoscenza scientifica. Ma Smith era un moralista del XVIII secolo, «pensava che il mercato fosse giustificato solo alla luce della virtù individuale, e temeva che una società governata da nient’altro che dall’interesse personale allo scambio non fosse affatto una società». Il neoliberismo? «E’ Adam Smith senza il suo timore», dice Metcalf. «Che Hayek sia considerato il padre del neoliberalismo – uno stile di pensiero che riduce tutto all’economia – è un po’ assurdo, dato che era un economista mediocre. Era solo un giovane e oscuro tecnocrate viennese quando era stato reclutato alla London School of Economics per competere con la stella nascente di John Maynard Keynes a Cambridge, o addirittura contrastarla». Il piano fallì, e l’Hayek contrapposto a Keynes fu una disfatta. La “Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” di Keynes, pubblicata nel 1936, fu accolta come un capolavoro. «Dominava la discussione pubblica, specialmente tra i giovani economisti inglesi in formazione, per i quali Keynes, brillante, affascinante e ben inserito socialmente, rappresentava un modello ideale».Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, continua Metcalf, molti eminenti sostenitori del libero mercato si erano avvicinati al modo di pensare di Keynes, riconoscendo che il governo aveva un ruolo da svolgere nella gestione di un’economia moderna. L’eccitazione iniziale su Hayek si era dissipata. La sua peculiare idea che non fare niente avrebbe potuto curare una depressione economica era stata screditata in teoria e nella pratica. Più tardi, lo stesso Hayek ammise addirittura di aver sperato che il suo lavoro di critica a Keynes venisse semplicemente dimenticato. Nel 1936 era un accademico senza pubblicazioni e senza un futuro scontato. «Adesso viviamo nel mondo di Hayek, come abbiamo vissuto una volta in quello di Keynes». Lawrence Summers, il consigliere di Clinton ed ex rettore dell’università di Harvard, ha affermato che la concezione di Hayek del sistema dei prezzi è «un’impresa penetrante e originale, alla pari della microeconomia del XX secolo», nonché «la cosa più importante da imparare oggi in un corso di economia». Il pensiero di Keynes, un uomo che non ha vissuto né previsto la guerra fredda, era comunque «riuscito a penetrare in tutti gli aspetti del mondo della guerra fredda». Allo stesso modo, osserva Metcalf, «anche ogni aspetto del mondo post-1989 è imbevuto del pensiero di Hayek».L’economista austriaco aveva una visione globale: un modo di strutturare tutta la realtà sul modello della concorrenza. Comincia col dire che le attività umane sono una forma di calcolo economico e possono così assimilate ai concetti fondamentali di ricchezza, valore, scambio, costo – e soprattutto: prezzo. «I prezzi sono un mezzo per allocare le risorse scarse in modo efficiente, secondo necessità e utilità, in base alla domanda e all’offerta». Perché il sistema dei prezzi funzioni in modo efficiente, i mercati devono essere liberi e concorrenziali. «Da quando Smith aveva immaginato l’economia come una sfera autonoma – prosegue Metcalf – esisteva la possibilità che il mercato non fosse solo un pezzo della società, ma la società nel suo complesso». Uomini e donne che «hanno bisogno solo di seguire il proprio interesse personale e competere per le risorse scarse». Attraverso la concorrenza diventa possibile, per citare il sociologo Will Davies, «discernere chi e che cosa ha valore». E così, rileva Metcalf , nel pensiero di Kayek non ha più alcun posto «tutto ciò che una persona che conosce la storia vede come necessari baluardi contro la tirannia e lo sfruttamento: una classe media prospera e una sfera civile, istituzioni libere, suffragio universale, libertà di coscienza, dimensione collettiva, religione e stampa».In Hajek viene mancare «il riconoscimento di fondo che l’individuo è portatore di dignità». L’austriaco, infatti, «ha incorporato nel neoliberalismo l’ipotesi che il mercato fornisca tutta la protezione necessaria contro l’unico reale pericolo politico: il totalitarismo. Per evitare questo, lo Stato deve solo mantenere libero il mercato. Quest’ultimo è ciò che rende il neoliberalismo “neo”. È una modifica fondamentale della credenza precedente in un mercato libero e uno Stato minimo, noto come “liberalismo classico”». Nel liberalismo classico, infatti, i commercianti semplicemente chiedevano allo Stato di “lasciar fare” a loro. Il neoliberismo, invece, «riconosce che lo Stato deve essere attivo nell’organizzazione di un’economia di mercato». E quindi, «le condizioni che consentono il libero mercato devono essere conquistate politicamente». Per questo, «lo Stato deve essere riprogettato per sostenere il libero mercato in modo costante e continuativo». E non è tutto: «Ogni aspetto della politica democratica, dalle scelte degli elettori alle decisioni dei politici, deve essere sottoposto ad un’analisi puramente economica. Il legislatore è obbligato a lasciare abbastanza le cose come stanno per non distorcere le azioni naturali del mercato e così, idealmente, lo Stato fornisce un quadro giuridico fisso, neutrale e universale in cui le forze di mercato operano spontaneamente».La direzione consapevole del governo non è mai preferibile ai “meccanismi automatici di aggiustamento“, cioè il sistema dei prezzi, che non è solo efficiente, ma massimizza la libertà, o l’opportunità per gli uomini e le donne di fare scelte libere sulla propria vita. «Mentre Keynes volava tra Londra e Washington, creando l’ordine del dopoguerra, Hayek se ne stava imbronciato a Cambridge». Era stato mandato lì durante le evacuazioni di guerra, e si lamentava di essere circondato da «stranieri» e «orientali di tutti i tipi», nonché da «europei di praticamente tutte le nazionalità, ma solo pochissimi dotati di una reale intelligenza». Bloccato in Inghilterra, senza alcuna influenza o credibilità, Hayek aveva solo la sua idea a consolarlo: «Un’idea così grande che un giorno avrebbe fatto mancare il terreno sotto i piedi a Keynes e a qualsiasi altro intellettuale». Lasciato libero di funzionare, il sistema dei prezzi funziona come una sorta di mente: «E non come una mente qualsiasi, ma una mente onnisciente: il mercato calcola ciò che gli individui non possono afferrare».Rivolgendosi a lui come a un compagno d’armi intellettuale, il giornalista americano Walter Lippmann scrisse a Hayek dicendo: «Nessuna mente umana ha mai colto l’intero schema di una società. Nella migliore delle ipotesi, una mente può cogliere la propria versione dello schema, qualcosa di molto più limitato, che sta alla realtà come una sagoma sta a un uomo reale». Affermazione forte: il mercato è un sistema per conoscere le cose che supera radicalmente la capacità di ogni mente individuale. «Un tale mercato non è tanto una convenzione umana, da manipolare come qualsiasi altra cosa, quanto una forza da studiare e da placare», scrive Metcalf. «L’economia cessa di essere una tecnica – come credeva Keynes – per raggiungere fini sociali desiderabili, come la crescita o la stabilità del valore della moneta. L’unico fine sociale è il mantenimento del mercato stesso. Nella sua onniscienza, il mercato costituisce l’unica forma legittima di conoscenza, davanti alla quale tutti gli altri modi di riflessione sono parziali, in entrambi i sensi della parola: comprendono solo un frammento di un intero e rispondono a un interesse particolare. A livello individuale, i nostri valori sono solo personali, o semplici opinioni; a livello collettivo, il mercato li converte in prezzi, o fatti oggettivi».Via dall’ateneo, Hayek non ebbe mai un incarico permanente che non fosse pagato da grandi sponsor aziendali. «Anche i suoi colleghi conservatori dell’università di Chicago – l’epicentro globale del dissenso libertario negli anni ’50 – consideravano Hayek come un portavoce reazionario, un “uomo di squadra della destra” con uno “sponsor di squadra della destra”, come si suol dire». Ancora nel 1972, quando un amico andò a trovare Hayek a Salisburgo, «trovò un uomo anziano prostrato nell’autocommiserazione, convinto che il lavoro della sua vita era stato inutile: nessuno si interessava a quello che aveva scritto!». C’era, però, qualche segno di speranza: Hayek era il filosofo politico preferito di Barry Goldwater e a quanto si dice anche di Ronald Reagan. Poi c’era Margaret Thatcher, che «esaltava Hayek di fronte a tutti e prometteva di mettere insieme la sua filosofia del libero mercato con una ripresa dei valori vittoriani: famiglia, comunità, lavoro duro». Hayek si incontrò privatamente con la “lady di ferro” nel 1975, proprio nel momento in cui lei, appena nominata leader dell’opposizione, si stava preparando a mettere in pratica la sua Grande Idea per consegnarla alla storia.L’incontro durò mezz’ora. Al termine, lo staff della Thatcher chiese ad Hayek cosa ne pensasse. «Per la prima volta in 40 anni, il potere restituiva a Friedrich von Hayek la tanto preziosa immagine che egli aveva di se stesso, l’immagine di un uomo che poteva sconfiggere Keynes e ricostruire il mondo». Rispose: «Lei è veramente bella». La Grande Idea di Hayek non è granché, come idea, fino a che non la ingigantisci. Continua Metcalf. «Processi organici, spontanei ed eleganti che, come un milione di dita sul tavolo di una seduta spiritica, si coordinano per creare risultati che altrimenti sarebbero accidentali. Applicata ad un mercato reale – il mercato della pancetta di maiale o i futures del granturco – questa rappresentazione dei fatti è poco più che un’ovvietà. Può essere ampliata per descrivere come i vari mercati, delle materie prime e del lavoro e anche lo stesso mercato della moneta, compongano quella parte della società conosciuta come “l’economia“. Questo è meno banale, ma ancora irrilevante; un keynesiano accetta tranquillamente questa rappresentazione. Ma cosa succede se le facciamo fare un passo avanti? Cosa succede se concepiamo tutta la società come una sorta di mercato?».Più l’idea di Hayek si espande, più diventa reazionaria, più si nasconde dietro la sua pretesa di neutralità scientifica – e più permette alla scienza economica di collegarsi alla tendenza intellettuale più importante dell’Occidente sin dal 17° secolo, continua Metcalf. «L’ascesa della scienza moderna ha generato un problema: se il mondo universalmente obbedisce alle leggi naturali, cosa significa essere esseri umani? L’essere umano è semplicemente un oggetto nel mondo, come qualsiasi altra cosa?». Tutta la cultura politica del dopoguerra gioca a favore di Keynes e di un forte ruolo dello Stato nella gestione dell’economia. Ma tutta la cultura accademica postbellica si trova a favore della Grande Idea di Hayek. «Prima della guerra, anche l’economista più conservatore pensava al mercato come lo strumento per un obiettivo limitato, l’efficiente allocazione delle risorse scarse. Fin dai tempi di Adam Smith a metà del 1700, e fino ai membri fondatori della scuola di Chicago negli anni del dopoguerra, vi era la credenza comune che gli obiettivi finali della società e della vita, si trovavano nella sfera non-economica». Lo scrive nel 1922 il saggio “Etica e interpretazione economica” di Frank Knight, che giunse a Chicago due decenni prima di Hayek: «La critica economica razionale dei valori dà risultati ripugnanti per il buon senso: l’uomo economico è egoista e spietato, degno di condanna morale».Gli economisti, prosegue Metcalf, avevano dibattutto aspramente per 200 anni su come considerare i valori sui quali si organizza una società mercantile, al di là di un semplice calcolo e interesse personale. Knight, insieme ai suoi colleghi Henry Simon e Jacob Viner, si trovava davanti a Franklin Delano Roosevelt e agli interventi sul mercato del New Deal. Quegli economisti «fondarono l’università di Chicago facendone quel tempio intellettualmente rigoroso dell’economia del libero mercato che rimane ancora oggi». Tuttavia, Simons, Viner e Knight iniziarono tutti la loro carriera prima che l’inarrivabile prestigio dei fisici atomici riuscisse a far fluire enormi somme di denaro nel sistema universitario e lanciasse la moda postbellica per la scienza “dura”. «Non adoravano le equazioni o i modelli, e si preoccupavano di questioni non scientifiche. Più esplicitamente, si preoccupavano di questioni di valore, dove il valore era assolutamente distinto dal prezzo». Non che fossero meno dogmatici di Hayek o più disposti a “perdonare” lo Stato per e le tasse e la spesa pubblica. «Semplicemente, riconoscevano come principio fondamentale che la società non era la stessa cosa del mercato, e che il prezzo non era la stessa cosa del valore».Questo, continua Metcalf, ha fatto sì che Simons, Viner e Knight venissero completamente dimenticati dalla storia. «È stato Hayek che ci ha mostrato come arrivare dalla condizione senza speranza della relatività umana alla maestosa oggettività della scienza. La Grande Idea di Hayek funge da anello mancante tra la nostra natura umana soggettiva e la natura stessa. Così facendo, pone qualsiasi valore che non possa essere espresso come un prezzo – il verdetto del mercato – su un piano incerto, come nient’altro che un’opinione, una preferenza, folklore o superstizione». Ma più di chiunque altro, «anche più di Hayek stesso», è stato il grande economista del dopoguerra di Chicago, Milton Friedman, che «ha contribuito a convertire i governi e i politici al potere alla Grande Idea di Hayek». Prima, però, ha dovuto rompere con i due secoli precedenti e dichiarare che l’economia è «in linea di principio indipendente da qualsiasi posizione etica particolare o da giudizi normativi», e che è «una scienza oggettiva, nello stesso senso di qualsiasi scienza fisica». I valori del vecchio ordine mentale normativo erano viziati, erano «differenze su cui gli uomini alla fine possono solo combattere». Detto con altre parole, da una parte c’è il mercato, e dall’altra il relativismo. «I mercati possono essere facsimili umani di sistemi naturali, e come l’universo stesso, possono essere senza autori e senza valore».Ma l’applicazione della Grande Idea di Hayek ad ogni aspetto della nostra vita, sottolinea Metcalf, nega ciò che di noi è più caratteristico: «Nel senso che assegna ciò che è più umano degli esseri umani – la nostra mente e la nostra volontà – agli algoritmi e ai mercati, lasciandoci meccanici, come zombi, rappresentazioni rattrappite di modelli economici». Espandere l’idea di Hayek sino a promuovere radicalmente il sistema dei prezzi a una sorta di “onniscienza sociale” significa «ridimensionare radicalmente l’importanza della nostra capacità individuale di ragionare, la nostra capacità di trovare le giustificazioni delle nostre azioni e credenze e valutarle». Di conseguenza, la sfera pubblica, cioè lo spazio in cui offriamo ragioni e contestiamo le ragioni degli altri, «cessa di essere lo spazio della deliberazione e diventa un mercato di click, “like” e “retweet”». Internet? «E’ la preferenza personale enfatizzata dall’algoritmo: uno spazio pseudo-pubblico che riecheggia la voce dentro la nostra testa. Piuttosto che uno spazio di dibattito in cui facciamo il nostro cammino, come società, verso il consenso, ora c’è un apparato di affermazione reciproca chiamato banalmente “mercato delle idee”».«Quello che appare pubblico e chiaro è solo un’estensione delle nostre preesistenti opinioni, pregiudizi e credenze, mentre l’autorità delle istituzioni e degli esperti è stata spiazzata dalla logica aggregativa dei grandi dati», sostiene Metcalf. «Quando accediamo al mondo attraverso un motore di ricerca, i suoi risultati vengono classificati, per come la mette il fondatore di Google, “ricorrentemente” – da un’infinità di singoli utenti che funzionano come un mercato, in modo continuo e in tempo reale». A parte l’utilità straordinaria della tecnologia digitale, «una tradizione più antica e umanistica, che ha dominato per secoli, aveva sempre distinto fra i nostri gusti e preferenze – i desideri che trovano espressione sul mercato – e la nostra capacità di riflessione su quelle preferenze, che ci consente di stabilire ed esprimere valori». Un sapore è definito come una preferenza su cui non si discute, dice il il filosofo ed economista Albert Hirschman: un gusto che si può contestare diventa un valore. Uomini e donne, dice Hirschman, hanno anche la capacità di rivedere i loro desideri, volontà e preferenze, per chiedersi se valga la pena di volere quelle cose. E’ decisivo: «Modelliamo noi stessi e le nostre identità sulla base di questa capacità di riflessione».Ragiona Metcalf: «L’uso del potere di riflessione del singolo individuo è la ragione; l’uso collettivo di questi poteri di riflessione è la ragione pubblica; l’uso della ragione pubblica per approvare le leggi e la linea politica è la democrazia. Quando forniamo ragioni per le nostre azioni e credenze, ci realizziamo: individualmente e collettivamente, decidiamo chi e che cosa siamo». Secondo la logica della Grande Idea di Hayek, invece, queste espressioni della soggettività umana senza la ratifica del mercato sono senza significato – come ha detto Friedman, «non sono altro che relativismo, ogni cosa risultando buona come qualsiasi altra». Quando l’unica verità oggettiva è determinata dal mercato, tutti gli altri valori hanno lo status di mere opinioni; tutto il resto è aria fritta relativistica. Ma il “relativismo” di Friedman «è un insulto assurdo, visto che tutte le attività umane sono “relative”, a differenza delle scienze». Sono relative alla condizione (privata) di avere una mente, e alla necessità (pubblica) di ragionare e comprendere, anche quando non possiamo aspettarci delle prove scientifiche. E quando i nostri dibattiti non sono più risolte con ragionamenti, allora l’esito sarà determinato dall’arbitrio del potere. «È qui che il trionfo del neoliberismo si traduce nell’incubo politico che viviamo oggi».Il grande progetto di Hayek, concepito negli anni ’30 e ’40 per impedire di ricadere nel caos politico e nel fascismo, «ha sempre coinciso con questo abominio stesso che voleva impedire che accadesse», rivela Metcalf. Era un’idea «fin dall’inizio intrisa della cosa stessa da cui sosteneva di proteggereci», anche perché «la società riconcepita come un gigante mercato porta ad una vita pubblica ridotta a uno scontro tra mere opinioni, finché il pubblico frustrato non si rivolge, infine, ad un uomo forte come ultima risorsa per risolvere i suoi problemi, altrimenti ingestibili». Nel 1989, un giornalista americano bussò alla porta di un ormai novantenne Hayek. «Non era più l’uomo di una volta, sprofondato nella sconfitta per mano di Keynes». La Thatcher gli aveva appena scritto, con un tono di trionfo epocale, che niente di ciò che lei e Reagan avevano compiuto «sarebbe stato possibile senza i valori e le idee che ci hanno portato sulla strada giusta e fornito la giusta direzione». Hayek ora era soddisfatto di se stesso e ottimista sul futuro del capitalismo. Vedeva «un maggiore apprezzamento per il mercato tra le giovani generazioni». Diceva: «Oggi i giovani disoccupati di Algeri e Rangoon non protestano per uno Stato sociale pianificato a livello centrale, ma per le opportunità: la libertà di acquistare e vendere – jeans, automobili, qualunque cosa – a qualsiasi prezzo che il mercato possa sostenere».Sono passati trent’anni, e si può giustamente dire che la vittoria di Hayek non ha rivali, conclude Metcalf: viviamo in un “paradiso” costruito dalla sua Grande Idea. E’ vero, purtroppo: ogni giorno «ci sforziamo di diventare più perfetti come acquirenti e venditori, isolati, discreti, anonimi, e ogni giorno consideriamo il desiderio residuo di essere qualcosa di più di un consumatore come un’espressione di nostalgia, o di elitismo». Tutto era iniziato come una visione intellettuale «onestamente apolitica», ma quel pensiero si è trasformato «in una politica ultra-reazionaria». Aggiunge Metcalf, amaramente: «Quando abbiamo abbandonato, per il suo imbarazzante residuo di soggettività, la ragione come una forma di verità e abbiamo reso la scienza l’unico arbitro del reale e del vero, abbiamo creato un vuoto che la pseudo-scienza è stata ben felice di riempire». L’autorità del professore, del riformatore, del legislatore o del giurista «non deriva dal mercato, ma da valori umanistici come la passione civile, la coscienza o il desiderio di giustizia». Ma queste figure erano state private di rilevanza molto tempo prima che Trump cominciasse a squalificarle. E’ una storia ormai lunga quasi un secolo: e non c’è ancora in circolazione un vaccino efficace contro il virus mortale, il veleno psico-economico del neoliberismo.Il neoliberismo è come la mafia: non esiste, si diceva un tempo, in Sicilia. Poi sono arrivate le bombe: così, la mafia “esiste”, ormai ufficialmente, da decenni. E adesso che anche la bomba neoliberista ha fatto morti e feriti in tutto il mondo, lo ammettono: il neoliberismo esiste, parola del Fmi. Nell’estate 2017, tre ricercatori del Fondo Monetario hanno ribaltato l’idea quella parola non sia altro che un artificio politico: il loro “paper”, scrive Steven Metcalf sul “Guardian”, individua chiaramente un’agenda neoliberista, che ha sravolto il pianeta: ha spinto la deregolamentazione delle economie in tutto il mondo, ha forzato l’apertura dei mercati nazionali al libero commercio e alla libera circolazione dei capitali, ha richiesto la riduzione del settore pubblico tramite l’austerità o le privatizzazioni. Parlano i dati statistici: la diffusione delle politiche neoliberali a partire dal 1980 ha coinciso con la crisi della crescita, i cicli economici a singhiozzo e il dilagare delle diseguaglianze. Neoliberismo? «E’ un termine vecchio, risalente agli anni Trenta, ma è stato rivitalizzato come un modo per descrivere la nostra politica attuale o, più precisamente, l’ordine delle idee consentite dalla nostra politica», fino al punto da plagiare la nostra mente: siamo meno umani e più soli, individui in feroce competizione tra loro.
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Italia sconfitta: non solo calcio, è il paese a non vincere più
«Personalmente vedo l’uscita dell’Italia dal girone finale dei mondiali di calcio come la Nemesi, la giusta punizione per un paese cantato da Dante quale regno dell’ignavia». Mai definizione fu più azzeccata, per Mitt Dolcino, che ricorda: nel 1996 la sconfitta con la Corea fermò l’invasione dei calciatori stranieri in Italia, concentrandosi sugli italiani e portando in dote il mondiale 15 anni dopo. Che farà l’Italia, ora che anche i giovani italiani scappano? Dettaglio: queste note profetiche, Dolcino le ha scritte (su “Scenari Economici”) prima di conoscere l’esito del catastrofico match di San Siro, conclusosi a reti inviolate tra le lacrime dell’eroe nazionale Buffon. Calcio a parte: un segnale sinistro, simbolico e inquietante, per un’Italia che non riesce più a vincere. Fuor di metafora: «C’è una regola abbastanza affidabile: vittorie ricorrenti nello sport arrivano quando un paese funziona, nel caso del calcio quando l’economia “tira” almeno in certi settori in cui il paese rappresentato eccelle». Questo vale certamente per l’Italia, assicura Dolcino: i 4 mondiali di calcio vinti dalla nazionale azzurra «sono arrivati a seguito di grandi miglioramenti differenziali a livello economico». Anche il mitico “mundial” spagnolo del 1982, quello di Bearzot (con Pertini al seguito) arrivò dopo l’aggancio della ripresa Usa spinta da Reagan.Stesso discorso per i mondiali pre-bellici, continua Dolcino, in cui «la crescita innescata dalle conquiste fasciste – prima di fare la follia di seguire Hitler – aveva dato nuova linfa alla speranza italica». La stessa “ratio” vale anche per il mondiale del 2006, quando l’Italia «era il darling europeo degli anglosassoni, con la proficua guerra in Iraq, mentre Germania e Francia arrancavano nel Vecchio Continente, incazzate con gli italiani troppo filo-Usa». Tutto sommato «anche per Italia ’90 si poteva vincere», visto che «l’economia italiana pre-Tangentopoli tirava alla grande». Dolcino ricorda anche «i trionfi sportivi del venerato Moro di Venezia figlio di Montedison, azienda poi svenduta ai francesi per via di una tangente pagata alla magistratura milanese». Agli sfortunati mondiali Usa 2000 «si poteva vincere sulle ali dell’illusione speranzosa – mal riposta – della scellerata entrata nell’euro». Oggi, invece, «l’Italia è letteralmente annichilita dallo schema che la Germania ha imposto attraverso l’euro, un piano per affossare il più grande alleato Usa non-anglosassone in Europa».Peggio: «L’Italia è prossima al fallimento economico». Nei piani franco-tedeschi «il prossimo anno arriverà la Troika per disporre degli asset nazionali più preziosi, in presenza di una classe politica nazionale non-eletta che, da 4 governi, fa gli interessi stranieri e non quelli italiani». Non poteva conoscere il risultato di Italia-Svezia, Dolcino, quando scriveva: «Pensate davvero che possa vincere i mondiali un paese al collasso, prossimo al fallimento, con l’Inps che deve attingere per oltre 100 miliardi di euro annui ai bilanci statali per non fallire?». Pensate davvero che possa farcela, un paese «con crescita del Pil nulla o quasi, con centinaia di migliaia di disperati che arrivano sulle coste», quelli che per la sinistra «saranno il futuro»? Questo è un paese «con le tasse più alte d’Europa per le imprese». In altre parole: così, non si va da nessuna parte (nemmeno ai mondiali di calcio, infatti). Il parallelo con il pallone è suggestivo e impietoso: «Il Milan del Cavaliere vinceva perchè l’economia tirava, perchè il Cavaliere fu un grande condottiero sportivo, perchè c’erano delle nicchie con enorme valore associato che permettevano al calcio italiano di eccellere».Oggi c’è qualcosa o qualcuno che eccelle in Italia? Voi direte, la Ferrari o qualcosa del genere. Vero, ma allora dovreste tifare Olanda, visto che la sede è là». Colpa delle delocalizzazioni? Certo, «imposte da tasse altissime, come conseguenza del rigore euro-imposto». La fuga delle aziende ormai ha lasciato «il deserto economico (e sociale)», vale a dire «un paese con bassi stipendi, dormitorio di vecchi, a forte emigrazione di italiani capaci e formati, serbatoio di manodopera a basso costo, con masse consumanti ma non risparmianti in quanto il valore aggiunto deve rimanere per forza oltre Gottardo. E tutto questo per preciso volere euro-tedesco». Come non far giungere il nostro sentito grazie agli ultimi quattro premier, tutti rigorosamente non-eletti? Monti e Letta, Renzi e Gentiloni: grazie, «per non aver difeso il paese». Scriveva Dolcino, alla vigilia di Italia-Svezia: «Sappiate che non gioirò per l’eventuale mancata qualifica, spero anzi che l’Italia possa farcela. Ad ogni modo non tutto il male vien per nuocere: se la mancata qualifica potesse essere utile a farvi capire che l’Italia è davvero nella cacca fino al collo – al contrario di quello che i media cooptati al potere europeo vogliono farvi credere, per tenervi tranquilli – beh, questo sarebbe davvero un ottimo risultato. Meglio di una vittoria sportiva».Campane a morto per l’Italia: «Personalmente vedo l’uscita dal girone finale dei mondiali di calcio come la Nemesi, la giusta punizione per un paese cantato da Dante quale regno dell’ignavia». Mai definizione fu più azzeccata, per Mitt Dolcino, che ricorda: nel 1996 la sconfitta con la Corea fermò l’invasione dei calciatori stranieri in Italia, concentrandosi sugli italiani e portando in dote il mondiale 15 anni dopo. Che farà l’Italia, ora che anche i giovani italiani scappano? Dettaglio: queste note profetiche, Dolcino le ha scritte (su “Scenari Economici”) prima di conoscere l’esito del catastrofico match di San Siro, conclusosi a reti inviolate tra le lacrime dell’eroe nazionale Buffon. Calcio a parte: un segnale sinistro, simbolico e inquietante, per un’Italia che non riesce più a vincere. Fuor di metafora: «C’è una regola abbastanza affidabile: vittorie ricorrenti nello sport arrivano quando un paese funziona, nel caso del calcio quando l’economia “tira” almeno in certi settori in cui il paese rappresentato eccelle». Questo vale certamente per l’Italia, assicura Dolcino: i 4 mondiali di calcio vinti dalla nazionale azzurra «sono arrivati a seguito di grandi miglioramenti differenziali a livello economico». Anche il mitico “mundial” spagnolo del 1982, quello di Bearzot (con Pertini al seguito) arrivò dopo l’aggancio della ripresa Usa spinta da Reagan.
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Magaldi: sveglia, Renzi. Ribellati all’Ue, o sarà la catastrofe
Matteo, sveglia: devi cambiare rotta adesso, in extremis, dichiarando guerra all’austerity. Oppure, «dopo il bagno di sangue delle elezioni» sarà troppo tardi. Non ci saranno vincitori, ma un grande sconfitto, il Pd. E l’Italia dovrà rassegnarsi all’ennesimo non-governo, prono ai diktat di Bruxelles. Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, insiste su Renzi: ancora per qualche mese, l’ex rottamatore sarebbe l’unico potenziale vettore di consenso, su cui far convergere una piattaforma keynesiana in grado di ribaltare il tavolo europeo. Non lo è il Movimento 5 Stelle, nel cui programma l’Europa è assente. Non lo è Berlusconi, «che un giorno attacca la Merkel e il giorno dopo ne cerca l’amicizia, tramite Tajani». E non lo è neppure Salvini, «che dice “no a quest’Europa” ma poi non ha ricette alternative al liberismo classico». Beninteso: «A Palazzo Chigi non ci andrà, Salvini, perché le prossime elezioni – che non vincerà nessuno – regaleranno all’Italia l’ennesimo governo di basso profilo, con un premier né carne né pesce che vada bene agli uni e agli altri». E questa sarebbe anche la fine di Matteo Renzi, cioè di quella che milioni di italiani hanno percepito come come l’ultima spiaggia, l’ultima vera speranza di cambiamento. Ha bluffato, Renzi? Certamente. Dunque gli resta un’ultima possibilità: aprire, davvero, le ostilità con Berlino, Francoforte e Bruxelles. Viceversa, dopo il voto, sarebbe politicamente morto.«A differenza di altri, Renzi potrebbe in extremis dare corpo a quelle che, peraltro, sono sue enunciazioni», afferma Magadi, ai microfoni di “Colors Radio”. «Giustamente, oggi Renzi chiama in causa la vigilanza di Bankitalia su diverse vicende mal gestite – Bankitalia governata a suo tempo da Mario Draghi». Certo, si dirà che lo fa «per stornare gli attacchi ricevuti su Banca Etruria». Ed è paradossale che Berlusconi, «defenestrato a suo tempo soprattutto per volere di Draghi e delle consorterie massoniche di cui Draghi è parte», si schieri oggi in difesa del suo ex killer politico, Mario Draghi. «Ma questo fa parte del gioco di Berlusconi: da un lato chiede al Parlamento di vigilare sulle vicende dello spread del 2011, talvolta alimentando l’idea che ci sia stato un golpe a suo sfavore, ma poi va a lisciare il pelo di colui che è stato, insieme a Napolitano e altri, il burattinaio di quel golpe, che ha insediato Mario Monti a Palazzo Chigi». Se questo è il centrodestra, il centrosinistra sta ancora peggio: ma non solo per colpa di Renzi, sostiene Magaldi. «Oggi ad esempio assistiamo alle uscite di Veltroni, che dà consigli non richiesti». Veltroni, cioè «colui che ha portato il Pd alla prima sconfitta, facendo il modo che Prodi perdesse il governo».Sia chiaro, nessun rimpianto: «Prodi è tra coloro che dovrebbero chiedere scusa agli italiani, avendo (al pari di Berlusconi) governato malissimo l’ingresso dell’Italia in Europa, la sua permanenza e in generale gli ultimi 25 anni di storia», precisa Magaldi. Che però insiste: non è colpa di Renzi se il Pd, che doveva essere «la quintessenza del progressismo in Italia, raccogliendo forze nuove della società civile e politica», si è ridotto fin dall’inizio a essere soltanto «la fusione tra Margherita e Ds», nonché «l’ennesima propagazione del mondo post-comunista, Pci-Pds». Matteo Renzi? «Non è il responsabile del declino del Pd, perché Bersani – prima di lui – ha fatto molto peggio: ha appoggiato il governo Monti, la sciagurata introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione e la riforma delle pensioni della sciaguratissima ministra Fornero. Dovrebbe tacere, Bersarni: vergognarsi, e non mettere l’articolo 1 della Costituzione accanto al simbolo altrettanto grottesco del Mdp, “movimento democratico progressista”». Per Magaldi, Bersani, D’Alema e soci «sono molto peggio di Renzi, e non a caso i sondaggi li danno a percentuali risibili: non sono credibili né come alternativa a sinistra del Pd, né per rifare il centrosinistra su basi diverse da quelle renziane».Detto questo, continua Magaldi, anche Renzi ha le sue responsabilità. «Per questo, se ha un minimo senso di autoconservazione, è importante che – in modo fulmineo – cambi rotta: gli italiani non gli perdonano di esser stato un affabulatore, qualcuno che ha promesso, che ha dato delle speranze». Alle ultime europee, il Pd renziano aveva superato il 40%? Logico: «Molti hanno creduto in Renzi, nel suo piglio giovanile, nella sua capacità di comunicazione, nel suo ottimismo. Molti hanno pensato che fosse la carta giusta. Gli hanno creduto quando l’hanno sentito parlare di una nuova Europa, quando ha detto che le cose che aveva in mente avrebbero riportato occupazione e benessere». Le cose, come sappiamo, non sono andate esattamente così. Nel suo libro, “Avanti”, oggi Renzi si lamenta: sostiene di non essere stato compreso. Ammette di aver commesso degli errori (solo veniali, però) e non si rende conto che il Jobs Act ha accentuato la precarierà del lavoro. In teoria non sarebbe sbagliata l’idea delle “tutele crescenti”, dice Magaldi, ma è insostenibile in questo contesto politico-economico: «Se invece si desse per Costituzione il diritto al lavoro, questo consentirebbe anche di abbandonare le vecchie tutele – ma allora non ci sarebbe neppure più bisogno del Jobs Act».Il vero problema che la politica italiana – Renzi compreso – finge di ignorare, è il carattere artificioso della crisi, ormai disastrosa: viviamo da decenni «in un clima di economia asfittica e di impossibilità delle istituzioni di rilanciare lavoro, occupazione e benessere, rinnovando infrastrutture divenute fatiscenti». E quindi, «in un paese pesantemente trattenuto anche dal Patto di Stabilità che frena gli enti locali, è inutile che Renzi venga a dire che non è stato compreso e che ha i nemici in casa». Renzi, aggiunge Magaldi, deve decidersi «in tempi rapidissimi», perché dopo le elezioni sarà già tardi. Deve scegliere «se davvero vuole essere quello che dà un nuovo passo all’Italia». Per farlo, però, «deve abbracciare un paradigma politico-economico che è alternativo a quello dell’austerity». E’ inutile che continui a vantarsi di litigare quotidianamente con i partner europei: «Tutti hanno visto il suo abbaiare e poi il suo sostanziale andare a baciare più volte l’anello di Angela Merkel e degli altri potenti, di quella che qualcuno definirebbe Euro-Germania, ma che non è altro che un meccanismo asservito a interessi sovranazionali di carattere privato». In sostanza, dice Magaldi, se Renzi non esce dal letargo non lo farà nessun altro: nemmeno Salvini e la Meloni avrebbero la forza necessaria a scuotere il paese.«Salvini – amette Magaldi – è stato bravo a investire nella trasformazione della Lega come movimento non più settentrionale ma nazionale». Dal leader leghista arrivano «giuste critiche ad alcuni aspetti dell’Europa». Bene anche quando dice che i migranti vanno “aiutati a casa loro”: peccano non si ricordi una sola proposta concreta, della Lega, per aiutare davvero “a casa loro” i disperati che giungono sulle nostre coste. Soprattutto: «Salvini ha in mente un impianto economico che è tradizionale: le ricette che propone non sono troppo dissimili da quelle del liberismo classimo». Per primo, con lucidità, Salvini ha chiesto di abbattere le aliquote fiscali: «Ma non basta, serve di più. A Salvini, probabilmente, manca la la percezione della necessità di ricette keynesiane». Fa benissimo a chiedere le primarie nel centrodestra, che Magaldi gli augura di vincere: «Un giorno Salvini potrebbe evolvere, capendo meglio la necessità di un cambio di paradigma politico-economico: occorre comprendere la radice del problema, che riguarda la globalizzazione e il pensiero neliberista egemone nella cosiddetta austerity che ancora ispira tutti i governi europei».Per rompere questo pensiero unico, dice ancora Magaldi, occorre che Salvini e altri «cambino il loro modo di guardare alla società e all’economia, ma ancora questo passo non l’hanno fatto». Perché «non basta dire no a quest’Europa», serve una vera e propria rivoluzione copernicana nel modo di intendere la sovranità democratica, mettendo fine al dominio ideologico dell’élite che ha dogmatizzato il neoliberismo, fino a traformare l’Europa in un inferno di sofferenze sociali. «Io sono un europeista – chiarisce Magaldi – ma mi vergogno di come l’europeismo sia stato tradito da questi anti-europeisti che oggi portano il vessillo delle istituzioni europee». Sarebbe questa l’unica battaglia giusta, necessaria e urgentissima, per poter dare un senso alle prossime elezioni. Che invece, avanti di questo passo, nessuno vincerà davvero: né il Renzi dormiente, né lo stesso Salvini. «Nessuno dei leader di punta, quelli cioè troppo caratterizzanti, aerriverà a Palazzo Chigi: nessuno di loro potrà essere a capo di un governo di coalizione. E nessuno le vincerà, le prossime elezioni: non il centrodestra, né il Movimento 5 Stelle. E non il centrosinistra, che anzi si prepara alla catastrofe».Matteo, sveglia: devi cambiare rotta adesso, in extremis, dichiarando guerra all’austerity. Oppure, «dopo il bagno di sangue delle elezioni» sarà troppo tardi. Non ci saranno vincitori, ma un grande sconfitto, il Pd. E l’Italia dovrà rassegnarsi all’ennesimo non-governo, prono ai diktat di Bruxelles. Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, insiste su Renzi: ancora per qualche mese, l’ex rottamatore sarebbe l’unico potenziale vettore di consenso, su cui far convergere una piattaforma keynesiana in grado di ribaltare il tavolo europeo. Non lo è il Movimento 5 Stelle, nel cui programma l’Europa è assente. Non lo è Berlusconi, «che un giorno attacca la Merkel e il giorno dopo ne cerca l’amicizia, tramite Tajani». E non lo è neppure Salvini, «che dice “no a quest’Europa” ma poi non ha ricette alternative al liberismo classico». Beninteso: «A Palazzo Chigi non ci andrà, Salvini, perché le prossime elezioni – che non vincerà nessuno – regaleranno all’Italia l’ennesimo governo di basso profilo, con un premier né carne né pesce che vada bene agli uni e agli altri». E questa sarebbe anche la fine di Matteo Renzi, cioè di quella che milioni di italiani hanno percepito come come l’ultima spiaggia, l’ultima vera speranza di cambiamento. Ha bluffato, Renzi? Certamente. Dunque gli resta un’ultima possibilità: aprire, davvero, le ostilità con Berlino, Francoforte e Bruxelles. Viceversa, dopo il voto, sarebbe politicamente morto.
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Caro Mattarella, io mi dimetto da italiano: siamo in sfacelo
Egregio presidente della Repubblica, dottor Sergio Mattarella, è da molto tempo che desidero esternarle il mio sentimento di disagio che provo vivendo nella nostra amata Italia. In questi tempi segnati da continui accadimenti, mi sento motivato e convinto di raccontarle il disagio che vive, quotidianamente, un imprenditorie italiano. Centinaia sono le motivazioni che mi costringono, miste a rabbia, rammarico, tristezza e dispiacere ad annunciarle che in nessun modo intendo continuare a patrocinare lo sfacelo attorno a me. Voglio restituire la mia carta d’identità. Voglio diventare apolide, in un mondo capace solamente di infangare il tricolore. Sì, signor presidente, mi dimetto. Lo faccio anch’io per una volta, non mi sento e non voglio più essere italiano. Cancellatemi dagli elenchi, cancellatemi dall’anagrafe, cancellatemi dalla memoria dello Stato. Questa è la scelta più sofferta e dolorosa che io abbia mai dovuto compiere. Sono nato e cresciuto qui, tra queste Alpi, tra questi fiumi, tra questi mari, dentro a questo sole e immerso nel sentire ed ardire che bagna il tricolore. Amo il mio paese e mi sono sempre sentito orgoglioso di essere italiano. Ma adesso il logorio ha vinto ed è proprio per questo che voglio portare avanti, fino in fondo, questa scelta.Dopo un’oculata riflessione, durata circa vent’anni ed iniziata con l’età della ragione, guardandomi intorno e facendo una precisa disamina di quanto accaduto, in particolare negli ultimi anni, non posso che confermare quanto scrittole nel primo paragrafo. Crisi economica, mancanza di aiuti agli italiani costretti in degenza economica, le continue pagliacciate da parte dei partiti istituzionali ed aziende sane capaci di fornire lavoro a migliaia di persone portate dallo Stato al fallimento. Questo lo scenario targato Italia 2017. Il governo mantiene e difende, esclusivamente, clandestini, extracomunitari ed immigrati. Chiunque, l’importante che non sia italiano. Il tutto mentre i giovani, figli di questa terra, sono costretti a scappare dal proprio paese. Lo fanno perché non sono tutelati e non hanno nessuna garanzia di trovare un impiego solido, capace di donare speranza nell’avvenire. Nel mentre gli anziani, dopo una vita spesa facendo sacrifici su sacrifici, vedono riconosciuta da questo Stato una pensione da miseria. Inoltre vogliamo parlare degli italiani costretti a dormire in macchina? Uomini e donne scaraventati fuori dal loro nido perché non possono più far fronte ad un mutuo, le banche li strangolano, oppure sfratti dagli alloggi popolari.In questo scempio, le forze dell’ordine sono costrette a lavorare senza nessun tipo di garanzia, trattati peggio dei delinquenti e utilizzando mezzi completamente obsoleti. Infine le famiglie costrette ancora nei container in attesa di un alloggio dopo i, vari, terremoti che hanno sconquassato lo stivale. Chiedere in Irpinia come vivono, a distanza di 37 anni, da quando la terra tremò lasciando le certezze un lontano ricordo. Senza dimenticare il livello vessatorio a cui sono arrivate le tasse nella nostra nazione. Gli esattori, inesorabili vampiri, pronti ad avventarsi sul nostro estenuante ed umile lavoro. Proprio per questi motivi decido di rifiutare la nazionalità italiana e di dimettermi dal ruolo di cittadino italiano. Dalla data odierna mi considero apolide e pertanto richiederò accesso agli aiuti dedicati ai cittadini stranieri residenti sul nostro territorio, oppure in attesa del permesso di soggiorno. Non voglio essere più italiano, quindi rinuncio a tale incombenza. Ci era rimasta un’unica arma a disposizione: il voto. Ormai, ritengo, inutile anche questa espressione democratica da parte dei cittadini. Le malefatte, trasversali, della nostra infausta classe politica – maggioranza, minoranza, sinistra, destra, centro e a stelle – mi rendono certo che nessuno, politicamente parlando, può invertire la rotta in cui l’Italia si è immessa.In questo marasma cito le parole di uno dei padri della patria, Dante Alighieri: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!”. Divina Commedia di una nazione alla deriva. Per come la politica da seconda repubblica, in linea continua con la prima, agisce e rappresenta la nazione è opportuno e necessario voltargli le spalle. Si votassero da soli. Oppure si facciano votare da chi li ritiene adeguati e si riconosce nella loro cronica incapacità professionale e indegnità morale. Vent’anni in cui ci hanno tolto tutto, anche i sogni, quelli nostri e delle generazioni che verranno. Ci hanno rubato l’unico valore a cui tutti potevano accedere: la libertà. Mi assale e sprofondo in un indomabile senso di vergogna. Lottare? Sì, l’ho fatto con i mezzi che avevo a disposizione, ma purtroppo lottare in questo paese non porta a nulla concreto. Perché questo sistema ed il Dna del nostro popolo, opportunista e disunito, non vuole cambiare o cambierà solo davanti ad un pallone da calcio. La mia, sia chiaro, non è una resa, ma una presa di coscienza della situazione attuale. La lascio alle sue incombenze, citando un altro grande siciliano, Franco Battiato: “Povera patria. Schiacciata dagli abusi del potere di gente infame, che non sa cos’è il pudore si credono potenti e gli va bene quello che fanno e tutto gli appartiene. Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni. Questo paese è devastato dal dolore. Ma non vi danno un po’ di dispiacere quei corpi in terra senza più calore?”.(Andrea Pasini, “Non voglio più essere un italiano”, dal blog di Pasini sul “Giornale” del 1° novembre 2017. Giovane imprenditore, Pasini gestisce il blog “Senza paura” sul quotidiano diretto da Alessandro Sallusti).Egregio presidente della Repubblica, dottor Sergio Mattarella, è da molto tempo che desidero esternarle il mio sentimento di disagio che provo vivendo nella nostra amata Italia. In questi tempi segnati da continui accadimenti, mi sento motivato e convinto di raccontarle il disagio che vive, quotidianamente, un imprenditorie italiano. Centinaia sono le motivazioni che mi costringono, miste a rabbia, rammarico, tristezza e dispiacere ad annunciarle che in nessun modo intendo continuare a patrocinare lo sfacelo attorno a me. Voglio restituire la mia carta d’identità. Voglio diventare apolide, in un mondo capace solamente di infangare il tricolore. Sì, signor presidente, mi dimetto. Lo faccio anch’io per una volta, non mi sento e non voglio più essere italiano. Cancellatemi dagli elenchi, cancellatemi dall’anagrafe, cancellatemi dalla memoria dello Stato. Questa è la scelta più sofferta e dolorosa che io abbia mai dovuto compiere. Sono nato e cresciuto qui, tra queste Alpi, tra questi fiumi, tra questi mari, dentro a questo sole e immerso nel sentire ed ardire che bagna il tricolore. Amo il mio paese e mi sono sempre sentito orgoglioso di essere italiano. Ma adesso il logorio ha vinto ed è proprio per questo che voglio portare avanti, fino in fondo, questa scelta.
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‘Edoardo Agnelli era un Sufi, ma con parenti nel B’nai B’rith’
Edoardo Agnelli era un Sufi: lo scomodo figlio dell’Avvocato, morto il 15 novembre del 2000, era approdato all’ala mistica dell’Islam. Una mosca bianca, nell’impero Fiat, oggi retto da una famiglia «il cui capostipite fa parte del B’nai B’rith», cioè dell’élite massonica del sionismo più reazionario. Lo afferma l’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, che pubblica su Facebook una foto del giovane Agnelli raccolto in preghiera: «Se le fonti sono giuste», scrive Carpeoro, la foto è stata scattata a Teheran il 27 marzo 1981 durante la Preghiera del Venerdì, condotta dall’ayatollah Seyyed Khamenei, “guida suprema” della repubblica islamica. Edoardo, in prima fila sulla destra, prega insieme a un Imam «che è famoso per aver avuto forme di collaborazione anche con Battiato». Si tratta di un religioso musulmano che, «appartenendo alla parte sciita dell’ambiente islamico, era anche uno dei capi del movimento Sufi». Molto si è detto sul mistero della fine di Edoardo Agnelli, trovato morto ai piedi di un viadotto dell’autostrada Torino-Savona 17 anni fa. Si era anche parlato della sua insofferenza verso il potere, delle sue inclinazioni mistiche e della sua vicinanza all’Islam. In diretta web-streaming, Carpeoro mette a fuoco il problema in modo più preciso: «Che risulti a me, Edoardo Agnelli era diventato Sufi».L’impatto sulla famiglia, di una scelta così radicale? «Per l’Avvocato, bastava che Edoardo non mettesse piede in azienda», dichiara Carpeoro a Fabio Frabetti di “Border Nigths”. «Poi lì c’è un entourage, però, che mal sopportava questo, sicuramente». E aggiunge: oggi siamo passati da un Sufi a una famiglia il cui capostipite, «che poi è il marito di Margherita Agnelli», cioè lo scrittore e giornalista Alain Alkann, appartiene al B’nai B’rith, espressione «di un certo sionismo reazionario che ha fatto tanti danni alla cultura israeliana». Il primo che si è scagliato contro questo tipo di potere «è un grande personaggio della cultura ebraica che si chiama Moni Ovadia», dice Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. B’nai B’rith? Per Wikipedia, si tratta di una innocua loggia di ebrei, di prevalente origine tedesca, nata un secolo prima dello Stato di Israele: fondata il 13 ottobre del 1843 a New York. Da allora, i “figli dell’alleanza” hanno una missione ufficiale: assistere i poveri. «L’organizzazione partecipa a numerose attività legate ai servizi sociali, tra cui la promozione dei diritti degli ebrei, l’assistenza negli ospedali e alle vittime dei disastri». Inoltre, la “lega dei fratelli” stanzia premi per gli studenti di scuole ebraiche e combatte l’antisemitismo tramite il suo Center for Human Rights and Public Policy.Oltre alle sue attività sociali, continua Wikipedia, il B’nai B’rith è anche un sostenitore dello Stato di Israele: insieme all’Aipac, potente lobby ebraica di Washington, la super-massoneria ebraica ha finanziato associazioni giovanili e studentesche. Ma, secondo Carpeoro, non sono soltanto umanitari gli scopi del B’nai B’rith, che apparterrebbe a pieno titolo al panorama delle potentissime superlogge internazionali, in strettissimo contatto con il Mossad, l’intelligence di Tel Aviv: sempre secondo Carpeoro, oltre ad Alain Elkann (cognato di Edoardo Agnelli), al B’nai B’rith apparteneva l’anziano Lion Klinghoffer, ucciso dal commando palestinese che dirottò la nave la crociera Achille Lauro nel 1985, da cui poi la crisi di Sigonella, con i carabinieri inviati da Craxi a proteggere i dirottatori, che i marines volevano catturare. Una tensione senza precedenti, in ambito Nato, che probabilmente costò il futuro politico dello stesso Craxi: «La sua telefonata con Reagan – racconta Carpeoro, allora vicino al leader socialista – fu deliberatamente mal tradotta, in diretta, dal politologo statunitense Michael Ledeen: cosa che Craxi non gli perdonò mai, perché compromise i suoi rapporti col presidente Usa».Di Ledeen, Carpeoro ha parlato spesso, anche nel suo saggio (uscito nel 2016) che denuncia la manipolazione atlantica dell’opaco neo-terrorismo europeo targato Isis. Ledeen? «All’epoca era vicino a Craxi, ma al tempo stesso anche a Di Pietro. Poi, in tempi assai più recenti, è stato al fianco di Renzi ma anche del grillino Di Maio». L’altra notizia? «Lo stesso Ledeen è un autorevole esponente del B’nai B’rith». Dunque il giovane Edoardo Agnelli, già scomodo anche per la Fiat (durissima una sua lettera al padre, all’epoca di Tangentopoli) poteva non essere più facilmente tollerato in una famiglia con componenti fortemente sioniste? La verità è più complessa, spiega Carpeoro, ricordando che Gianni Agnelli ha sposato la principessa Marella Caracciolo, sorella del fondatore de “L’Espresso”: «La linea materna di Edoardo è particolare: colta, raffinata, un po’ decadente». Il giovane Agnelli, semplicemente, «era molto più simile al ramo di sua madre che non a quello di suo padre». Lo conferma, nel modo più estremo possibile, il motto dei Sufi: “Nel mondo, ma non del mondo – nulla possedendo, da nulla essendo posseduti”.Quando a Torino si impose il ramo Elkann, ricorda Lapo in un’intervista rilasciata a Giovanni Minoli per “La Storia siamo noi”, Edoardo Agnelli era già stato “bruciato” una prima volta dalla scelta del cugino Giovannino (Giovanni Alberto, figlio di Umberto Agnelli) come successore dell’Avvocato al vertice dell’impero Fiat. Poi Giovannino morì e al suo posto, pochi giorni dopo il funerale nel dicembre 1997, ricorda Gigi Moncalvo su “Lo Spiffero”, nel consiglio di amministrazione della Fiat venne nominato John Elkann, che di anni ne aveva appena 22 e nemmeno era laureato. Nella sua ultima intervista, rilasciata a Paolo Griseri per il “Manifesto”, il 15 gennaio 1998, Edoardo Agnelli boccia la designazione di “Jaky”: «Considero quella scelta uno sbaglio e una caduta di stile, decisa da una parte della mia famiglia, nonostante e contro le perplessità di mio padre». E aggiunge: «Non si nomina un ragazzo pochi giorni dopo la morte di Giovanni Alberto, per riempire un posto». E ancora: «Si è preferito farsi prendere dalla smania con un gesto che io considero offensivo anche per la memoria di mio cugino».Nel documentario di Minoli, è lo stesso Lapo Elkann – non ancora travolto dal suo secondo scandalo sessuale, quello di New York – ad avere parole umanissime per Edoardo Agnelli: «Era una persona bella dentro e bella fuori. Molto più intelligente di quanto molti l’hanno descritto: un insofferente che soffriva, che alternava momenti di riflessività e momenti istintivi». Nella villa di famiglia a Villar Perosa, in val Chisone, non lontano dal Sestriere, «ci sono state tante gioie ma anche tanti dolori». Dice Lapo, di Gianni Agnelli: «Con tutto l’affetto e il rispetto che ho per lui e con le cose egregie che ha fatto nella vita, mio nonno era un padre non facile. Quel che ci si aspetta da un padre – dei gesti di tenerezza, non parlo di potere: i gesti normali di una famiglia normale – probabilmente mancavano». Lapo Elkann riconosce quanto abbia pesato, su Edoardo, l’indicazione di far entrare suo fratello, John Elkann, nell’impero Fiat: «Credo che la parte difficile sia stata prima, la nomina di Giovanni Alberto. Poi, “Jaky” è stata come una seconda costola tolta. Ma Edoardo si rendeva conto che non era una posizione per lui», così portato per l’introspezione filosofica e religiosa – addirittura pervasa del misticismo Sufi, quello dei Dervisci rotanti, la confraternita iniziatica fondata dal sommo poeta afghano Rumi nel 1200.A ben altra scuola esoterica, secondo Carpeoro, appariene invece l’ebreo Alain Elkann, classe 1950, nato a New York da padre francese e madre italiana, giornalista e scrittore, docente universitario in Pennsylvania. Suo padre, il rabbino Jean-Paul Elkann, banchiere e industriale, è stato presidente del Concistoro ebraico di Parigi. La madre di Alain, Carla Ovazza, discende da una famiglia di banchieri torinesi (e nel 1976 fu vittima di un sequestro di persona). Un suo zio, il banchiere Ettore Ovazza, fascista fino al 1938 e amico di Mussolini, aveva fondato il giornale ebraico antisionista “La Nostra Bandiera”, prima di essere assassinato nel 1943 dai nazisti. Giornalista e scrittore, Alain Elkann è stato sodale di Alberto Moravia e Indro Montanelli. Ha scritto romanzi e saggi, anche in collaborazione con personaggi prestigiosi come Elio Toaff, storico rabbino capo emerito di Roma, nonché l’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini e il Re di Giordania Abdullah. Tema a lui caro: la fede ebraica in rapporto alle altre religioni, e l’essere ebrei oggi. Dal 2004 è presidente della Fondazione del Museo Egizio di Torino, e ha collaborato con l’allora ministro Sandro Bondi (beni culturali).Alain Elkann è membro della Fondazione Italia-Usa e fa parte del comitato scientifico del Meis di Ferrara, il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, nonché di istituzioni universitarie italo-americane. Nel 2009 è stato anche insignito della Legion d’Onore, massima onorificenza francese. Ma ovviamente nel suo curriculum non c’è traccia dell’appartenenza al B’nai B’rith. Suo figlio, John, è oggi il reggente dell’impero industriale Fca, Fiat-Chrysler. Suo cognato Edoardo Agnelli morì suicida, senza un cenno di addio, o fu assassinato? E’ la domanda irrisolta a cui cerca di rispondere Minoli, nel suo reportage televisivo. «Se qualcuno mi dimostrasse che Edoardo è stato ucciso ne sarei in qualche modo felice, perché significherebbe che non era così disperato da fare questo gesto», dice il cugino, Lupo Rattazzi, convinto però che Edoardo fosse proprio deciso a farla finita. «L’inchiesta giornalistica sulla figura dell’erede mancato della famiglia Agnelli, e sulla sua tragica scomparsa – scrive Mario Baudino sulla “Stampa” – mette in fila tutti gli elementi, anche quelli controversi, di un avvenimento che, data la notorietà del protagonista, ha avuto negli anni anche interpretazioni assai dietrologiche».Soprattutto, aggiunge il giornalista, Minoli ricostruisce una personalità complessa e tormentata, e una vicenda umana dolorosa. A tenere aperto il giallo sulla fine di Edoardo Agnelli è la testimonianza di un pastore, che la mattina del 15 novembre del 2000 pascolava i suoi animali sulle rive del fiume Stura di Demonte: l’uomo sostiene di aver visto il cadavere di Edoardo Agnelli verso le 8.30, cioè molto prima che l’auto – abbandonata sul viadotto soprastante – avesse varcato il casello autostradale. Ma l’ex capo dei Ris di Parma, Luciano Garofalo, non dà credito alla testimonianza: la ritiene un tipico caso di auto-inganno della memoria. Se invece il pastore avesse ragione, scrive Baudino, «bisognerebbe pensare che sulla Croma di Edoardo Agnelli ci fosse, in quel momento, qualcun altro; anzi, che ci fosse sempre stato qualcun altro a bordo. Un giallo troppo complicato e inverosimile». C’è poi la tesi di una televisione iraniana, che aveva fatto scalpore con un documentario in cui prospettava l’ipotesi di un omicidio “sionista”, «commesso per eliminare un erede della dinastia italiana convertitosi all’Islam». Edoardo Agnelli, ricorda Baudino, era affascinato dalle fedi: si era laureato in storia delle religioni, con una tesi su quelle orientali. Era «affascinato dalla mistica Sufi», anche se «nessuno degli amici più intimi ha mai avuto il più lontano sentore che fosse diventato musulmano». A ricordarlo, oggi, c’è invece quella foto inequivocabile, postata su Facebook da Carpeoro.Edoardo Agnelli era un Sufi: lo scomodo figlio dell’Avvocato, morto il 15 novembre del 2000, era approdato all’ala mistica dell’Islam. Una mosca bianca, nell’impero Fiat, oggi retto da una famiglia «il cui capostipite fa parte del B’nai B’rith», cioè dell’élite massonica del sionismo più reazionario. Lo afferma l’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, che pubblica su Facebook una foto del giovane Agnelli raccolto in preghiera: «Se le fonti sono giuste», scrive Carpeoro, la foto è stata scattata a Teheran il 27 marzo 1981 durante la Preghiera del Venerdì, condotta dall’ayatollah Seyyed Khamenei, “guida suprema” della repubblica islamica. Edoardo, in prima fila sulla destra, prega insieme a un Imam «che è famoso per aver avuto forme di collaborazione anche con Battiato». Si tratta di un religioso musulmano che, «appartenendo alla parte sciita dell’ambiente islamico, era anche uno dei capi del movimento Sufi». Molto si è detto sul mistero della fine di Edoardo Agnelli, trovato morto ai piedi di un viadotto dell’autostrada Torino-Savona 17 anni fa. Si era anche parlato della sua insofferenza verso il potere, delle sue inclinazioni mistiche e della sua vicinanza all’Islam. In diretta web-streaming, Carpeoro mette a fuoco il problema in modo più preciso: «Che risulti a me, Edoardo Agnelli era diventato Sufi».
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Vale tutto, anche la mafia, tranne la vera storia del disastro
Il culto del lavoro ben fatto è la stella polare dell’operaio Faussone, il protagonista del romanzo “La chiave a stella”. Ma Fassone è un uomo libero: non ha nulla a che vedere col muratore prigioniero di Auschwitz che Primo Levi vide lavorare con zelo, sfinendosi, agli ordini dei kapò. Fino a che punto è un valore, il lavoro? Lo è fino a quando non è sottoposto a una legalità bestiale, come quella delle SS o quella del deposto regime sudafricano dell’apartheid. Anche il massone progressista Nelson Mandela spaccavava pietre, a Robben Island, ma non ne era certo felice. Legalità: maneggiare con cura, evitando di farne per forza un totem. O magari un mestiere, come Roberto Saviano. O una crociata politica, come Antonio Di Pietro. Beninteso: l’illegalità dilagante – mafia, corruzione – imputridisce l’habitat e trasforma una democrazia in un girone dantesco dove regna la paura, insieme alla menzogna. La Sicilia è un vasto cimitero di eroi antimafia: carabinieri, poliziotti, magistrati. Un politico come Pio La Torre, comunista del Pci, non aveva mai pensato di celebrare un’epica dell’antimafia. Si era limitato, per così dire, a fare la guerra alla mafia: creando una legge che avesse finalmente il potere di confiscare i patrimoni dei boss. Non è finito in televisione: è andato a un funerale, il suo.Oggi il presidente del Senato, il palermitano Pietro Grasso, già magistrato antimafia, è invocato da Pierluigi Bersani come possibile salvatore della patria – o meglio, della “ditta”, come Bersani è abituato a chiamare il partito in cui milita. Da capo del Pd non esitò a devastare e amputare la Costituzione “più bella del mondo” sfigurandola con il pareggio di bilancio imposto dai “mandanti” di Monti, salvo poi dare battaglia a Renzi che voleva semplicemente archiviare il Senato elettivo. Ora, Bersani sogna a occhi aperti una candidatura di Grasso, cioè di un simbolo dell’antimafia, come se la mafia – nel 2017 – fosse la vera emergenza nazionale, come lo era ai tempi di Pio La Torre, assassinato nel 1982. Allora, l’Italia aveva già perso buona parte della sua sovranità finanziaria, dopo il divorzio da Bankitalia. Ma non era ancora caduta nella trappola del Britannia, del Trattato di Maastricht e dell’Eurozona, dell’Unione Europea governata dai banchieri privati che dettano legge alla Bce, trasformando in diligenti kapò i governanti di interi paesi. Lo ha ripetuto fino alla noia lo spigoloso Paolo Barnard: prima dell’euro-regime il Pil italiano volava, nonostante la mafia, la corruzione della politica e un’evasione fiscale da record.Dimostrò coraggio, l’allora giovanissimo Saviano, nel denunciare il fenomeno criminale della nuova camorra imprenditrice, la sua insospettabile pervasività, ma poi – esplosa la grande crisi – lo stesso Saviano non ha usato la sua enorme visibilità per aggiornare l’analisi sulle cause del disastro italiano. Si infuria, Di Pietro, se qualcuno gli fa notare che il pool Mani Pulite ha azzerato una casta corrotta ma non così prona ai grandi poteri anti-italiani come quella che ne ha preso il posto, offrendo il collo dell’Italia a una sorta di sacrificio rituale da milioni di vittime e decine di migliaia di aziende chiuse. Analisi estranee alla narrativa politica di Di Pietro ma anche a quella di Grasso e della sua collega della Camera, Laura Boldrini, sempre severissima con i teppisti del web ma insensibile alla catastrofe socio-economica di un paese che ha smesso di andare a votare, nauseato dallo spettacolo elettorale. La scelta è solo apparente, ancora e sempre teatrale: la recita giovanilista di Renzi, il copione dei grillini duri e puri (ma senza un programma per l’Italia) e l’ennesima reincarnazione di nonno Silvio, altro grande attore, lieto di constatare quanto sia ancora valida, numeri alla mano, la sua sceneggiatura di cartapesta. Era già decrepita nel 1994 la rivoluzione para-neoliberista del Cavaliere: se oggi tiene ancora banco, significa che i suoi ipotetici antagonisti sono ancora peggio di nonno Silvio, perlomeno come attori.Il culto del lavoro ben fatto è la stella polare dell’operaio Faussone, il protagonista del romanzo “La chiave a stella”. Ma Faussone è un uomo libero: non ha nulla a che vedere col muratore prigioniero di Auschwitz che Primo Levi vide lavorare con zelo, sfinendosi, agli ordini dei kapò. Fino a che punto è un valore, il lavoro? Lo è fino a quando non è sottoposto a una legalità bestiale, come quella delle SS o quella del deposto regime sudafricano dell’apartheid. Anche il massone progressista Nelson Mandela spaccava pietre, a Robben Island, ma non ne era certo felice. Legalità: maneggiare con cura, evitando di farne per forza un totem. O magari un mestiere, come Roberto Saviano. O una crociata politica, come Antonio Di Pietro. Beninteso: l’illegalità dilagante – mafia, corruzione – imputridisce l’habitat e trasforma una democrazia in un girone dantesco dove regna la paura, insieme alla menzogna. La Sicilia è un vasto cimitero di eroi antimafia: carabinieri, poliziotti, magistrati. Un politico come Pio La Torre, comunista del Pci, non aveva mai pensato di celebrare un’epica dell’antimafia. Si era limitato, per così dire, a fare la guerra alla mafia: creando una legge che avesse finalmente il potere di confiscare i patrimoni dei boss. Non è finito in televisione: è andato a un funerale, il suo.
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A casa un elettore su due: nessuno dice la verità all’Italia
Attacca Mario Draghi sparando sul suo pupillo di Bankitalia, il governatore Ignazio Visco (difeso e prontamente confermato da tutti, Gentiloni e Padoan in testa). E nel suo libro, “Avanti”, l’ex rottamatore se la prende col pensiero unico che nel 2011 ha commissariato la repubblica piazzando a Palazzo Chigi il sicario Mario Monti, l’uomo che ha inserito il pareggio di bilancio nella Costituzione grazie ai voti di Berlusconi e Bersani, sotto il ricatto dello spread, mentre Draghi (sempre lui) si limitava ad assistere allo spettacolo, affidato alla regia istituzionale dell’ineffabile Napolitano. Ma poi, al dunque, Matteo Renzi resta a bordo campo: va in televisione a sbeffeggiare il fantasma di Luigi Di Maio, che l’ha sfidato a duello e poi è scappato, ma evita di sfiorare qualsiasi verità scomoda negli studi de La7, da Giovanni Floris. In quella stessa rete televisiva, poco prima, persino il “talebano” Brunetta aveva ammesso, dalla Gruber, che l’astensionismo in Sicilia (dove non ha votato neppure un elettore su due) è la vera calamità politica nazionale, tale da oscurare la vittoria del centrodestra e la disfatta del Pd, surclassato dal candidato dei 5 Stelle.Come dire: si balla ancora sul Titanic, ma l’equipaggio si sta ammutinando: la nave va di male in peggio, e gli ufficiali di bordo fingono di non saperlo. Sperano ancora in Renzi o addirittura nel redivivo mago Silvio, l’uomo dei miracoli sempre e solo annunciati. In questa gara in stile fantasy giganteggia il surreale Bersani, che celebra le “magnifiche sorti e progressive” dell’ipotetico leader Pietro Grasso, silente guida di una improbabile coalizione “civica” delle forze “di sinistra”, quelle cioè che hanno lesionato la Costituzione con Monti, per poi sparare nelle gambe a Renzi, che voleva cancellare il Senato elettivo. Bersani non ricorda? Normale: il suo nemico è Renzi, come lo è stato per vent’anni Berlusconi (salvo poi accomodarsi nelle larghe intese, raccomandate dai killer politici di Bruxelles, Berlino e Francoforte). Il paese oscilla tra stato di coma e pre-rivolta? Tranquilli: gli addetti ai lavori si sono già rifugiati nel Rosatellum, scongiurando il rischio che una delle “ditte” prenda nettamente il sopravvento. I 5 Stelle? Felicissimi eterni secondi, anche loro al riparo dal pericolo di andare davvero al governo, della Sicilia e dell’Italia.Meglio evitare di dover fare i conti col vero padrone, che non è la casta di Roma ma quella che si mimetizza tra la burocrazia Ue, cioè la perfetta tribuna istituzionale dalla quale infliggere crisi su crisi, in dosi sapienti, con una preoccupazione prevalente: fare in modo che in un paese come l’Italia non si alzi nessuno a dire, davvero, come stanno le cose, e per colpa di chi. Si annuncia l’ennesimo slittamento dell’età pensionabile? La cosa viene presentata come un fenomeno fisiologico, dovuto all’allungarsi dell’aspettativa di vita. Berlusconi, Renzi, Grillo: non uno che protesti davvero, bocciando come inaccettabile la confisca (ormai storica) della sovranità finanziaria dello Stato, costretto a trasformarsi in spietato esattore, a costo di sabotare l’economia nazionale, cioè il futuro di chi oggi ha vent’anni. Sanno tutti benissimo com’è andata, ma tacciono – a partire da Salvini, che oggi preferisce stare al riparo (elettorale) di Forza Italia, pronta a rinegoziare al ribasso, con la Merkel, un piccolo ruolo in Europa per una piccola Italia, ridimensionata dagli strateghi euro-tedeschi nel solito modo, “comprando” politici italiani a suon di poltrone e pagandoli per tacere (se non per fare goal nella propria porta, come i vari D’Alema, Prodi e Bersani).Il sistema si sta sfasciando? Niente paura: accorre l’infermiere Di Maio col cerotto del “reddito di cittadinanza” finanziato senza mettere in discussione il tabù del 3%, cioè la magia nera degli orchi finanziari, quelli del pensiero unico che Renzi denuncia solo nei libri, lontano dalle telecamere. E intanto, un elettore su due e resta a casa: l’hanno capito, in Sicilia, che il voto sarebbe stato inutile. Smettere di votare, però, vuol dire arrendersi. La vera partita, dice Brunetta, sta nel riconquistare la fiducia degli astensionisti. Già: ma con quali idee? Con quale coraggio, con quali uomini? Basterebbe dire, finalmente, la verità. Spiegare che l’iper-tassazione è un crimine, come tutti gli autogoal provocati dallo slogan “ce lo chiede l’Europa”, fino a sprofondare il paese in un cortocircuito sistemico, una pericolosa rassegnazione al peggio. Sospirano, i reggenti, sapendo che le regole della crisi sono truccate: ma si guardano bene dal denunciarlo. E sperano, in fondo, che l’Italia continui a sopportare tutto, a dormire. Ci contano Draghi, la Merkel, Juncker e tutte le altre maschere del potere neoliberista, che è riuscito nell’impresa titanica di demolire anche la memoria dello Stato sovrano, la stessa consapevolezza che possa esistere un Piano-B. “There is non alternative”, diceva la Thatcher: e siamo ancora lì, grazie anche ai nostri politici dormienti.Attacca Mario Draghi sparando sul suo pupillo di Bankitalia, il governatore Ignazio Visco (difeso e prontamente confermato da tutti, Gentiloni e Padoan in testa), e intanto nel suo libro, “Avanti”, l’ex rottamatore se la prende col pensiero unico, quello che nel 2011 ha commissariato la repubblica piazzando a Palazzo Chigi il sicario Mario Monti, l’uomo che ha inserito il pareggio di bilancio nella Costituzione. L’ha fatto grazie ai voti di Berlusconi e Bersani, sotto il ricatto dello spread, mentre Draghi (sempre lui) si limitava ad assistere allo spettacolo, affidato alla regia istituzionale dell’ineffabile Napolitano. Ma poi, al dunque, Matteo Renzi resta a bordo campo: va in televisione a sbeffeggiare il fantasma di Luigi Di Maio, che l’ha sfidato a duello e poi è scappato, ma evita di sfiorare qualsiasi verità scomoda negli studi de La7, da Giovanni Floris. In quella stessa rete televisiva, poco prima, persino il “talebano” Brunetta aveva ammesso, dalla Gruber, che l’astensionismo in Sicilia (dove non ha votato neppure un elettore su due) è la vera calamità politica nazionale, tale da oscurare la vittoria del centrodestra e la disfatta del Pd, surclassato dal candidato dei 5 Stelle.
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Mundell, il genio malvagio dell’euro: così vi rovineremo
L’idea che l’euro abbia “fallito” è pericolosamente ingenua. L’euro sta facendo esattamente quello che il suo progenitore – e il ricco 1% che l’ha adottato – hanno previsto e progettato che facesse. Il progenitore è un ex economista dell’università di Chicago, Robert Mundell. L’architetto dell’“economia dell’offerta” è ora un professore presso la Columbia University, ma io ho avuto modo di conoscerlo attraverso i suoi rapporti con il mio professore di Chicago, Milton Friedman, ben prima che le ricerche di Mundell su valute e tassi di cambio avessero dato vita al progetto di un’unione monetaria europea e di una valuta europea comune. Mundell, allora, era più preoccupato dei lavori di ristrutturazione del suo bagno. Il professor Mundell, che ha sia un Premio Nobel sia un’antica villa in Toscana, mi disse furibondo: «Non mi permettono nemmeno di avere un gabinetto. Hanno regole per cui mi dicono che non posso avere un bagno in questa stanza! Ti rendi conto?». In effetti no, non posso rendermi conto. Ma io non ho una villa italiana, quindi non riesco a immaginare le frustrazioni per le norme edilizie che disciplinano il posizionamento dei gabinetti.Ma Mundell, da intraprendente canadese-americano, aveva intenzione di fare qualcosa: trovare un’arma che spazzasse via regole governative e norme sul lavoro (odiava veramente gli idraulici sindacalizzati che gli avevano fatto pagare un fracco di soldi per spostare il suo trono). «È molto difficile licenziare lavoratori in Europa», si era lamentato. La sua risposta fu l’euro. L’euro avrebbe realmente fatto il suo dovere quando sarebbero arrivate le crisi economiche, aveva spiegato Mundell. Togliere al governo il controllo sulla valuta avrebbe impedito agli odiosi, piccoli funzionari eletti di usare “estratti” di politiche monetarie e fiscali keynesiane per tirare un paese fuori dalla recessione. L’euro «mette la politica monetaria fuori dalla portata dei politici», disse. E «senza politica fiscale, l’unico modo in cui le nazioni possono mantenere i posti di lavoro è la riduzione competitiva delle regole sugli affari». Citò leggi sul lavoro, norme di tutela ambientale e, naturalmente, le tasse. L’euro avrebbe spazzato via tutto. Non si sarebbe permesso alla democrazia di interferire con il mercato – o con l’impianto idraulico!Come osserva un altro Nobel, Paul Krugman, la creazione dell’Eurozona ha violato la regola economica di base conosciuta come “area valutaria ottimale”. Era una regola inventata da Bob Mundell, ma questo non preoccupa Mundell: per lui, l’euro non riguardava la trasformazione dell’Europa in una potente unità economica unificata. Si trattava di Reagan e Thatcher. «Reagan non sarebbe stato eletto presidente senza l’influenza di Mundell», scrisse Jude Wanniski sul “Wall Street Journal”. L’economia dell’offerta pionieristica di Mundell è divenuta il modello teorico per la Reaganomics – o “economia voodoo”, come l’ha definita George Bush senior: la magica convinzione nella panacea del libero mercato che ha ispirato che le politiche della signora Thatcher. Mundell mi ha spiegato che, infatti, l’euro fa parte delle Reaganomics: «La disciplina monetaria impone la disciplina fiscale anche ai politici». E quando si verificano crisi, le nazioni economicamente disarmate hanno poco da fare, ma cancellano i regolamenti governativi all’ingrosso, privatizzano in modo massiccio le industrie statali, riducono le tasse e gettano lo stato sociale europeo nella discarica.Così, vediamo che il primo ministro Mario Monti (non eletto) ha preteso la “riforma” del diritto del lavoro in Italia per rendere più facile, per i datori di lavoro come Mundell, sparare agli idraulici toscani. Mario Draghi, capo (non eletto) della Banca Centrale Europea, chiede “riforme strutturali” – un eufemismo per i sistemi di frantumazione dei lavoratori. Cita la teoria nebulosa che questa “svalutazione interna” di ogni nazione li renderà tutti più competitivi. Monti e Draghi non possono credibilmente spiegare come, se ogni paese del continente riduce la propria forza lavoro, chiunque può ottenere un vantaggio competitivo. Ma non devono spiegare le proprie politiche; devono solo lasciare che i mercati agiscano sui titoli di Stato di ogni nazione. Quindi, l’unione monetaria è la guerra di classe con altri mezzi.La crisi in Europa e le fiamme della Grecia hanno prodotto il bagliore di ciò che il sommo filosofo Joseph Schumpeter ha chiamato “distruzione creativa”. L’apologeta del libero mercato Thomas Friedman, seguace di Schumpeter, volò ad Atene per visitare il “tempio improvvisato” della banca bruciata dove tre persone erano morte dopo esser state bombardate dai manifestanti anarchici, e ha usato l’occasione per condurre un’omelia sulla globalizzazione e l’“irresponsabilità” greca. Le fiamme, la disoccupazione di massa, la svendita delle risorse nazionali porterebbero ciò che Friedman definiva “rigenerazione” della Grecia e, in ultima analisi, di tutta l’Eurozona. Così che Mundell e gli altri con ville possono ben mettere i loro bagni ovunque vogliono. Lungi dall’essere un fallimento, l’euro, che era il figlio di Mundell, è riuscito probabilmente ad andare al di là dei sogni più selvaggi del suo progenitore.(Greg Palast, “Robert Mundell, il genio malvagio dell’euro”, dal “Guardian” del 26 giugno 2012).L’idea che l’euro abbia “fallito” è pericolosamente ingenua. L’euro sta facendo esattamente quello che il suo progenitore – e il ricco 1% che l’ha adottato – hanno previsto e progettato che facesse. Il progenitore è un ex economista dell’università di Chicago, Robert Mundell. L’architetto dell’“economia dell’offerta” è ora un professore presso la Columbia University, ma io ho avuto modo di conoscerlo attraverso i suoi rapporti con il mio professore di Chicago, Milton Friedman, ben prima che le ricerche di Mundell su valute e tassi di cambio avessero dato vita al progetto di un’unione monetaria europea e di una valuta europea comune. Mundell, allora, era più preoccupato dei lavori di ristrutturazione del suo bagno. Il professor Mundell, che ha sia un Premio Nobel sia un’antica villa in Toscana, mi disse furibondo: «Non mi permettono nemmeno di avere un gabinetto. Hanno regole per cui mi dicono che non posso avere un bagno in questa stanza! Ti rendi conto?». In effetti no, non posso rendermi conto. Ma io non ho una villa italiana, quindi non riesco a immaginare le frustrazioni per le norme edilizie che disciplinano il posizionamento dei gabinetti.
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5 Stelle, l’arte del suicidio: Di Maio sfida Renzi, poi scappa
Movimento 5 Stelle. Ovvero, l’arte di spararsi nei coglioni. La cancellazione da parte di Di Maio del confronto con Renzi, prevista per martedi sera su “La7”, è stato un suicidio politico della miglior specie. Difficilmente si può immaginare un uomo politico che riesca a farsi così tanto danno in un colpo solo. Con una mossa da grande scacchista Di Maio era riuscito ad ingabbiare Renzi in un confronto diretto, senza se e senza ma. Talmente astuta e azzardata era stata la mossa di sfidarlo pubblicamente, che il buon Renzi non ha avuto altra scelta che accettare. E ora tutta l’Italia si pregustava già uno showdown all’americana, uno di quei confronti diretti che di solito lasciano vivo sul campo un solo concorrente. Uno vince, e l’altro viene portato via in barella fra i fischi del pubblico accalorato. In un confronto diretto, Di Maio avrebbe finalmente potuto accusare Renzi di tutte le bugie che ci ha raccontato negli ultimi 3 anni. Avrebbe potuto rinfacciargli il fatto di aver aiutato le banche ma non i risparmiatori. Avrebbe potuto sbattergli in faccia il fallimento della sua politica sul lavoro, con il 92% dei “nuovi contratti” che sono in realtà delle garanzie di precarietà.Avrebbe potuto metterlo alle strette, accusandolo di regalare bonus elettorali a destra e a manca, pagandoli con un incremento vergognoso del debito nazionale. Sarebbe stato come sparare nel mucchio: c’era solo da scegliere l’argomento preferito, e premere il grilletto. In poche parole, il candidato premier Di Maio, con una battaglia ben preparata a tavolino, avrebbe potuto facilmente spostare un buon 2-3 % dell’elettorato a proprio favore, e a diretto discapito del Partito Democratico. Saremmo quindi potuti andare al dibattito con un 28 a 26 di partenza (più o meno gli attuali sondaggi nazionali) ed uscirne il mattino dopo con un tranquillo 31 a 23. Vi sembra poco, in meno di 24 ore? Ma, invece di approfittare di una opportunità così ghiotta (e probabilmente irripetibile), Di Maio ha preferito giocare la carta della presunzione: «Renzi nel Pd non conta più niente», ha detto, in buona sostanza: «Io voglio solo confrontarmi con un mio equivalente». E così in queste ora si sta prendendo del vigliacco e del voltagabbana dai piddini, oltre che dell’arrogante e presuntuoso da moltissime altre persone.In fondo, quanto conti oggi Renzi nel Pd è un problema interno del partito democratico, e non sta a Di Maio di decidere la sua importanza politica. Fino a prova contraria, Renzi è il segretario del Pd, votato regolarmente, e rimane anche il candidato premier, almeno fino a nuovo ordine. E siccome è stato Di Maio a chiedere il confronto giovedì scorso (quando già si sapeva che il Pd sarebbe uscito bastonato dalle elezioni siciliane), non può dire ora che non vuole più incontrarlo, solo perchè ha perso in Sicilia. Lo sapevamo tutti che avrebbe perso. E quindi? In questa mossa di Di Maio c’è stata tanta presunzione quanto c’è una vera mancanza nel saper leggere quelli che sono gli umori della popolazione. Pur di rimarcare la sconfitta di Renzi con questo suo dietro-front plateale, Di Maio ha perso l’oppurtunità di dimostrare agli italiani che i 5 Selle al governo sarebbero davvero meglio di tutto coloro che li hanno preceduti. Davvero c’è qualcuno che può pensare che il gioco sia valso la candela?(Massimo Mazzucco, “Movimento 5 Stelle, il suicidio perfetto”, dal blog “Luogo Comune” del 6 novembre 2017).Movimento 5 Stelle. Ovvero, l’arte di spararsi nei coglioni. La cancellazione da parte di Di Maio del confronto con Renzi, prevista per martedi sera su “La7”, è stato un suicidio politico della miglior specie. Difficilmente si può immaginare un uomo politico che riesca a farsi così tanto danno in un colpo solo. Con una mossa da grande scacchista Di Maio era riuscito ad ingabbiare Renzi in un confronto diretto, senza se e senza ma. Talmente astuta e azzardata era stata la mossa di sfidarlo pubblicamente, che il buon Renzi non ha avuto altra scelta che accettare. E ora tutta l’Italia si pregustava già uno showdown all’americana, uno di quei confronti diretti che di solito lasciano vivo sul campo un solo concorrente. Uno vince, e l’altro viene portato via in barella fra i fischi del pubblico accalorato. In un confronto diretto, Di Maio avrebbe finalmente potuto accusare Renzi di tutte le bugie che ci ha raccontato negli ultimi 3 anni. Avrebbe potuto rinfacciargli il fatto di aver aiutato le banche ma non i risparmiatori. Avrebbe potuto sbattergli in faccia il fallimento della sua politica sul lavoro, con il 92% dei “nuovi contratti” che sono in realtà delle garanzie di precarietà.
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Formica: Italia, 25 anni anni di false rivoluzioni moralistiche
La destra europea, in tutte le sue espressioni, appare all’attacco ed unita, mentre la sinistra procede in ordine sparso ed è in ripiegamento. La destra nelle società moderne è sempre viva, la sinistra deve sempre rinascere. La destra è un elemento costitutivo della realtà esistente nella società. La sinistra è una manifestazione della volontà di gruppi e di forze della società per un cambio dell’esistente. La destra è sempre unita perché tutela l’esistente. La sinistra è divisa perché diverse sono le visioni per la costruzione di un futuro. Per la destra l’elemento unificante è nelle cose. Per la sinistra l’unità è ricerca e mediazione al suo interno. La forza attuale della destra è nella incapacità della sinistra a trovare il baricentro di una nuova costruzione delle comunità nazionali e sovranazionali. Renzi l’omologo di Berlusconi a sinistra? Tra Renzi e Berlusconi vi sono molti punti in comune. Tutti e due ritengono che siano superate le grandi culture che condizionarono il conflitto sociale e politico nella costruzione delle democrazie moderne.Tutti e due ritengono: 1) che il potere sia indivisibile e quindi unificabile sotto una guida illuminata; 2) che le istituzioni rappresentative debbano essere funzionali all’esercizio del potere esecutivo; 3) che le disuguaglianze sociali siano attenuate dalla carità pubblica. La differenza tra Berlusconi e Renzi riguarda invece la diversità delle platee a cui si rivolgono. Berlusconi parla al moderatismo di massa; Renzi, invece, guarda alle tradizionali forze popolari approfittando della stanchezza generata in loro, dalle grandi paure per l’incerto futuro. Paradossalmente Berlusconi è un conservatore con venature liberaldemocratiche, mentre Renzi è simile a de Maistre, massone monarchico, cattolico reazionario, negatore di ogni Costituzione dello Stato moderno e avversario dichiarato della Rivoluzione Francese.I rischi di questi referendum in Veneto e Lombardia? Per valutarli bisogna tenere d’occhio l’evoluzione/involuzione del sistema politico. Se la degenerazione istituzionale in atto dovesse proseguire, è fatale che l’autonomismo degeneri in secessionismo. Differenze e analogie fra la crisi del sistema politico del 1992-93 e quella attuale? La differenza tra il ’92 e il ’93 è notevole. Venticinque anni fa il sistema istituzionale politico era intaccato e non era imploso. Dopo venticinque anni di accettazione passiva di una falsa rivoluzione moralistica da parte dei partiti residuali della Prima Repubblica e dei partiti novisti, il sistema democratico-parlamentare si è disfatto. La discussione e le votazioni sulla legge elettorale in corso non segnano la fine del parlamentarismo democratico, ma provocano nella opinione pubblica una pericolosa convinzione: il Parlamento è un ente inutile.(Rino Formica, dichiarazioni rilasciate ad Aldo Giannuli nell’intervista pubblicata sul blog di Giannuli il 27 ottobre 2017).La destra europea, in tutte le sue espressioni, appare all’attacco ed unita, mentre la sinistra procede in ordine sparso ed è in ripiegamento. La destra nelle società moderne è sempre viva, la sinistra deve sempre rinascere. La destra è un elemento costitutivo della realtà esistente nella società. La sinistra è una manifestazione della volontà di gruppi e di forze della società per un cambio dell’esistente. La destra è sempre unita perché tutela l’esistente. La sinistra è divisa perché diverse sono le visioni per la costruzione di un futuro. Per la destra l’elemento unificante è nelle cose. Per la sinistra l’unità è ricerca e mediazione al suo interno. La forza attuale della destra è nella incapacità della sinistra a trovare il baricentro di una nuova costruzione delle comunità nazionali e sovranazionali. Renzi l’omologo di Berlusconi a sinistra? Tra Renzi e Berlusconi vi sono molti punti in comune. Tutti e due ritengono che siano superate le grandi culture che condizionarono il conflitto sociale e politico nella costruzione delle democrazie moderne.
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Magaldi: guerra al rigore, o Renzi è finito. E attorno, il nulla
Matteo, ripensaci: hai un’ultima chance, azzerare il renzismo sbruffone e prendere il toro per le corna, cioè mandare a quel paese Bruxelles e archiviare l’austerity. Parola di Gioele Magaldi, all’indomani delle elezioni siciliane che hanno fotografato la peggiore Italia possibile, elettoralmente parlando: da una parte la vecchia nomenklatura berlusconiana dell’isola, e dall’altra l’inconcludenza velleitaria dei 5 Stelle. Ultimo della fila, ridotto all’irrilevanza, un Pd in aperto declino, affossato dal “pesce lesso” Gentiloni, mentre l’ex rottamatore – fischiato a ogni stazione, nel suo surreale tour ferroviario – corre a rifugiarsi da Obama (altro perdente di successo, visto chi siede oggi alla Casa Bianca). «Su quale pianeta vive, Matteo Renzi? Possibile che non capisca che gli italiani stanno male, che le loro condizioni economiche stanno precipitando?». Si metta d’accordo con se stesso, l’ex primo ministro: qual è il vero Renzi? «Non c’è traccia, nella sua azione politica, delle lodevoli idee che pure ha espresso nel suo ultimo libro, “Avanti”, in cui se la prende giustamente col “pensiero unico” che ha condotto all’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione».Reduce da un convegno del Movimento Roosevelt proprio sulla revisione della Carta costituzionale (con un’idea su tutte: rendere obbligatoria la piena occupazione, per legge), Magaldi – ai microfoni di “Colors Radio” – ragiona con David Gramiccioli sull’infelice momento della politica italiana. In Sicilia non ha votato neppure un elettore su due, il che la dice lunga sulla fiducia degli italiani verso i partiti – incluso il Movimento 5 Stelle, che anche sull’isola (come a Roma) non è andato oltre la promessa di una politica pulita, senza corrotti né privilegi di casta. Il centrodestra? «Musumeci sarà anche la brava persona che si dice, ma i siciliani già conoscono il personale politico berlusconiano che ha a lungo governato la Sicilia». Inutile parlare della sinistra ufficiale: non va oltre la testimonianza di Claudio Fava, «che peraltro si è segnalato per una proposta di legge discriminatoria come quella che chiede di vietare ai massoni gli incarichi pubblici, fingendo di non sapere che era massone persino Meuccio Ruini, il padre della “commissione dei 75” che diede vita alla Costituzione democratica. Piuttosto, è evidente la voragine rappresentata dall’auto-affondamento del Pd, abbandonato al suo destino da un Renzi «che forse non sa che si sta bruciando le ultime carte».Tanta attenzione per Renzi, da parte di Magaldi, è presto spiegata: «E’ stato un leader vero, con grandi potenzialità e doti di comunicazione». Il problema? «Si è limitato a vendere fumo, senza capire che anche gli italiani dopo un po’ si stancano, di essere presi giro». Il guaio è che, via Renzi, chi altro c’è in campo? Nonno Silvio? Grillo, che continua a non spiegare come governerebbe l’Italia? Il futuro è nuvoloso: il Rosatellum è fatto apposta per costruire l’ennesimo inciucio e mandare a Palazzo Chigi un’altra comparsa, stile Gentiloni. «Ma Renzi non si illuda: se adesso non compie una svolta, una precisa scelta di campo, finirà ben presto anche la sua leadership, la sua carriera politica». Cosa dovrebbe fare? «L’ha scritto nel suo libro: mettere fine al rigore, alla “dittatura” del pensiero unico, senza timore di scontrarsi – ma per davvero – con la Merkel e con Draghi». A differenza di Bersani, Renzi il pareggio di bilancio non l’ha votato: non era ancora in Parlamento, all’epoca. «E se la rimozione del pareggio di bilancio l’avesse inserita nel quesito referendario del 4 dicembre scorso, probabilmente Renzi non l’avrebbe perso, quel referendum». Un appello ad personam: ne vogliamo riparlare, Matteo?Nonostante tutto, Magaldi considera Renzi un vettore potenziale di buona politica: l’unico teoricamente in campo, a patto che – per la prima volta – si decida a fare sul serio. «Temo che viva in un’altra dimensione e non si renda conto dello stato di crisi in cui versa l’Italia», sostiene il presidente del Movimento Roosevelt. Dov’era, Renzi, negli ultimi anni, quando il “pensiero unico” (il rigore di bilancio) divorava l’economia del paese? «Stava a Palazzo Chigi, da dove si è limitato a partorire il Jobs Act, che anziché aggredire la disoccupazione ha semplicemente aggravato la precarizzazione del lavoro». Ora scrive che il “nemico vero” è a Bruxelles? «Benone, ma ci dimostri che non sono le solite chiacchiere. Finora è andato dalla Merkel a baciarle l’anello. E ha chiesto, invano, di essere accolto dei circuiti della massoneria sovranazionale di stampo reazionario, quella contro cui noi ci battiamo». Piccola profezia: se non scende in campo finalmente dalla parte giunta, il politico Matteo Renzi è praticamente finito. «Ricorda Tremonti, che nei libri tuonava contro il neoliberismo ma poi, nei summit internazionali, restava in silenzio». Se la sente, l’ex rottamatore, di passare dalle parole (di un libro) ai fatti?Matteo, ripensaci: hai un’ultima chance, azzerare il renzismo sbruffone e prendere il toro per le corna, cioè mandare a quel paese Bruxelles e archiviare l’austerity. Parola di Gioele Magaldi, all’indomani delle elezioni siciliane che hanno fotografato la peggiore Italia possibile, elettoralmente parlando: da una parte la vecchia nomenklatura berlusconiana dell’isola, e dall’altra l’inconcludenza velleitaria dei 5 Stelle. Ultimo della fila, ridotto all’irrilevanza, un Pd in aperto declino, affossato dal “pesce lesso” Gentiloni, mentre l’ex rottamatore – fischiato a ogni stazione, nel suo surreale tour ferroviario – corre a rifugiarsi da Obama (altro perdente di successo, visto chi siede oggi alla Casa Bianca). «Su quale pianeta vive, Matteo Renzi? Possibile che non capisca che gli italiani stanno male, che le loro condizioni economiche stanno precipitando?». Si metta d’accordo con se stesso, l’ex primo ministro: qual è il vero Renzi? «Non c’è traccia, nella sua azione politica, delle lodevoli idee che pure ha espresso nel suo ultimo libro, “Avanti”, in cui se la prende giustamente col “pensiero unico” che ha condotto all’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione».
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Banche, moneta-debito: prigionieri della caverna di Platone
Cercare di aumentare la consapevolezza delle persone sui temi economici e monetari è un processo lungo e difficile, soprattutto perché si scontra con tutta una serie di “resistenze umane” che erano già state descritte sapientemente nel Mito della Caverna di Platone, all’inizio del libro settimo de “La Repubblica”. Ho provato ad elaborarne una versione liberamente modificata per adattarla ai nostri tempi. Della serie “nulla di nuovo sotto il sole”. Si immaginino dei prigionieri che siano stati incatenati, fin dalla nascita, nelle profondità di una caverna. Non solo le membra, ma anche testa e collo sono bloccati, in maniera che gli occhi dei malcapitati possano fissare solo la parete dinanzi a loro. Si pensi, inoltre, che alle spalle dei prigionieri sia stato acceso un enorme fuoco e che, tra il fuoco e i prigionieri, corra una strada lungo la quale i banchieri gestiscono vari tipi di monete, sia metalliche che banconote. Queste monete, dette “contanti”, vengono usate dai banchieri per creare una versione di “moneta elettronica” sul muro di fondo della caverna, e questo attirerebbe l’attenzione dei prigionieri.Tra i banchieri e i prigionieri, però, è stato eretto un muro di leggi che impediscono loro di usare i contanti, costringendoli a utilizzare solo la moneta elettronica creata sul fondo della caverna, spingendoli a pensare che questa versione sia quella vera. Ma per usarla devono pagare continuamente un interesse che li mantiene prigionieri delle catene del debito. Mentre un personaggio esterno avrebbe un’idea completa della situazione, i prigionieri, non conoscendo cosa accada realmente alle proprie spalle e non avendo esperienza del mondo esterno (dove la moneta è di proprietà dei cittadini e libera dal debito), sarebbero portati a credere che la moneta elettronica creata dalle banche sia l’unica possibile. Si supponga che un prigioniero riesca a liberarsi dalle catene e sia costretto a guardare verso l’uscita della caverna: in primo luogo, i suoi occhi sarebbero abbagliati dalla luce e proverebbe dolore. Inoltre, le monete utilizzate dalle banche dietro il muretto gli sembrerebbero meno reali delle versioni elettroniche alle quali è abituato; persino se gli fossero mostrati i contanti e gli fosse spiegato il trucco, il prigioniero rimarrebbe comunque dubbioso e preferirebbe seguitare a usare la moneta elettronica bancaria.Allo stesso modo, se il malcapitato fosse costretto a uscire dalla caverna e gli venisse esposta la verità, rimarrebbe accecato e non riuscirebbe a credere ad alcunché. L’idea che la moneta possa essere creata dal nulla dallo Stato senza alcun problema, dopo aver vissuto una vita incatenato ad una moneta-debito creata dalle banche, è troppo forte per essere accettata come possibile. Il prigioniero si troverebbe sicuramente a disagio e s’irriterebbe per essere stato trascinato a viva forza in quel luogo. Volendo abituarsi alla nuova situazione, il prigioniero potrebbe inizialmente percepire l’importanza della produzione di beni e servizi per garantire il valore di una moneta; solo con il passare del tempo potrebbe capire che, essendo la moneta generata dall’attività degli uomini, non può essere presa in prestito da altri, ma deve essere di proprietà dei cittadini e libera dal debito. Successivamente egli potrebbe considerare quanto la moneta sia fondamentale per regolare l’economia e produrre lavoro e benessere, mentre la moneta bancaria costringe al pagamento continuo di interessi e produce solo debito, arricchendo pochi privilegiati e rendendo tutti gli altri uomini sempre più schiavi.I prigionieri, invece, immobilizzati davanti al muro, resi incapaci di guardare indietro, fissano la parete e vedendo solo la moneta bancaria senza rendersi conto di come viene generata, credono che quella sia l’unica moneta possibile. L’uomo libero, resosi conto della situazione, vorrebbe senza dubbio tornare nella caverna e liberare i suoi compagni, essendo felice del cambiamento e provando per loro un senso di pietà: il problema, però, sarebbe proprio quello di convincere gli altri prigionieri ad essere liberati. Infatti, dovendo riabituare gli occhi al buio della caverna, dovrebbe passare del tempo prima che il prigioniero liberato possa vedere distintamente; durante questo periodo, molto probabilmente egli sarebbe oggetto di riso da parte dei prigionieri, in quanto sarebbe tornato dall’ascesa con “gli occhi rovinati”. Inoltre, questa sua temporanea inabilità influirebbe negativamente sulla sua opera di convincimento e, anzi, potrebbe spingere gli altri prigionieri ad aggredirlo, se tentasse di liberarli e portarli verso la luce, in quanto, a loro dire, non varrebbe la pena di subire il dolore dell’accecamento e la fatica della salita per andare a provare le cose da lui descritte.Quando provo a spiegare il funzionamento del sistema economico e monetario e cerco di confutare le falsità che hanno usato per convincerci che non ci sono alternative alla moneta-debito, ottengo diverse tipologie di reazioni negative: incredulità e scetticismo, della serie “se fosse così facile lo avrebbero già fatto”; derisione e denigrazione, della serie “chi sei tu per avere la presunzione di aver capito tutto?”; opposizione e pessimismo, della serie “tutto vero, ma non te lo faranno mai fare”. Purtroppo anch’io reagivo in questi modi fino a pochi anni fa, prima di aprire completamente gli occhi. Quindi non è mai troppo tardi per nessuno. Se ci sono arrivato io che sono un semplice ingegnere, ci possono arrivare tutti. A queste persone, che fortunatamente sono sempre di meno, va tutta la mia comprensione e il mio affetto. Poi trovi anche quelli che traggono vantaggio da questa situazione, e quindi fanno di tutto per convincerti che il sistema economico funziona e che le cause della crisi economica sono altre: la corruzione, l’evasione, gli sprechi. Sono solo ipocriti che, per mantenere i privilegi che hanno, sfruttano le persone e usano la loro posizione di potere in modo subdolo per raccontare una realtà diversa da quella vera. Li disapprovo con tutto il cuore. Speriamo di riuscire insieme a convincere i nostri concittadini a liberarsi dalle catene della moneta-debito, per andare consapevoli e risoluti verso la luce della verità.(Fabio Conditi, estratto da “Il mito della caverna di Platone oggi”, da “Come Don Chisciotte” del 21 ottobre 2017. Conditi è presidente dell’Associazione Moneta Positiva, che conduce una campagna per riformare il sistema monetario al fine di ottenere una moneta di proprietà dei cittadini e libera dal debito. Dopo “Manuale in 12 passi per uscire dalla crisi” ha scritto “Moneta Positiva – Riforma del sistema monetario”, sottotitolo “La moneta deve essere di proprietà dei cittadini e libera dal debito”).Cercare di aumentare la consapevolezza delle persone sui temi economici e monetari è un processo lungo e difficile, soprattutto perché si scontra con tutta una serie di “resistenze umane” che erano già state descritte sapientemente nel Mito della Caverna di Platone, all’inizio del libro settimo de “La Repubblica”. Ho provato ad elaborarne una versione liberamente modificata per adattarla ai nostri tempi. Della serie “nulla di nuovo sotto il sole”. Si immaginino dei prigionieri che siano stati incatenati, fin dalla nascita, nelle profondità di una caverna. Non solo le membra, ma anche testa e collo sono bloccati, in maniera che gli occhi dei malcapitati possano fissare solo la parete dinanzi a loro. Si pensi, inoltre, che alle spalle dei prigionieri sia stato acceso un enorme fuoco e che, tra il fuoco e i prigionieri, corra una strada lungo la quale i banchieri gestiscono vari tipi di monete, sia metalliche che banconote. Queste monete, dette “contanti”, vengono usate dai banchieri per creare una versione di “moneta elettronica” sul muro di fondo della caverna, e questo attirerebbe l’attenzione dei prigionieri.