Archivio del Tag ‘crimini’
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Francesi, a chi giova il terrore? Chi lo copre, chi lo finanzia?
Mentre diversi paesi in Europa occidentale sono vittime di attacchi terroristici rivendicati da “Daesh”, cioè l’Isis – scrive sul suo sito il movimento indipendentista francese Upr, Unione Popolare Repubblicana, molti politici trovano la scusa per aumentare a dismisura il loro potere, restringendo la libertà dei cittadini. In particolare, il terrorismo è l’alibi perfetto per «limitare ulteriormente la libertà pubbliche (estensione dello stato di emergenza di François Hollande), insegnare ai giovani a “essere pronti a vivere con il terrorismo” (Manuel Valls), creare “campi di detenzione preventiva”, ossia campi di concentramento secondo il vocabolario degli anni ‘30 (Laurent Wauquiez)», e magari «armare i soldati di lanciarazzi», come propone Henri Guaino. Non solo: si chiede anche di «stabilire lo stato d’assedio» (Frédéric Lefebvre) e «demolire lo Stato di diritto» (Jacques Bompard ed Eric Ciotti), accantonando la Costituzione della Quinta Repubblica (David Douillet) e considerando lo Stato di diritto come paccottiglia, mero ammasso di noiosi “argomenti giuridici” che devono essere superati, come dice Nicolas Sarkozy, ansioso di unirsi allo “scontro di civiltà” teorizzato dai “think-tank” americani.«Naturalmente – aggiunge l’Upr, in un post ripreso da “Voci dall’Estero” – tutti gli attacchi sono crimini assoluti e devono essere puniti dai tribunali con la massima fermezza, allo stesso modo in cui tutte le reti del traffico di armi e dei finanziamenti occulti devono essere distrutte». Nel contempo, però, la Francia dovrebbe «vietare immediatamente qualsiasi ingerenza straniera in alcuni suoi ambiti territoriali, come fanno apertamente gli Stati Uniti o il Qatar». E deve «ritirare tutti i suoi soldati dai teatri di guerra dove si è resa corresponsabile della morte di migliaia di civili, come in Libia e in Siria». Al di là di queste proposte di misure d’emergenza che l’Upr formula, il movimento sovranista francese chiede ai cittadini di «non indulgere in reazioni sconsiderate ed emotive, anche se gli attacchi sono sempre più odiosi, ma di mantenere la loro compostezza». E soprattutto di farsi due domande essenziali: «Chi trae vantaggio da questi crimini, in definitiva? E cosa ci insegna la storia dell’ondata di attentati verificatisi in Europa durante gli anni ’50?».L’Upr cita lo studio scientifico dello storico Daniele Ganser, intitolato “Gli eserciti segreti della Nato – le reti Stay Behind, Gladio e il terrorismo in Europa Occidentale”, pubblicato in francese nel 2007. Nel saggio, Ganser «dimostra che, tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e il 1990, esistevano nei paesi membri della Nato, oltre alle truppe regolari dell’Alleanza, eserciti segreti della Nato (noti anche come Stay-Behind o Gladio), che erano stati istituiti dalla Cia e dal Mi6 britannico». Eserciti-ombra, «controllati e coordinati da un ufficio di sicurezza segreta all’interno del quartier generale della Nato a Bruxelles». Eserciti-fantasma, guidati dalla Nato e dalla Cia, che «non hanno esitato a commettere attacchi terribilmente mortali per terrorizzare le popolazioni, nel contesto della “strategia della tensione”». I francesi citano la spaventosa strage italiana della stazione di Bologna del 1980, coi depistaggi messi in atto: falsi colpevoli immediatamente dati in pasto alla stampa e rivendicazioni troppo velocemente annunciate. «Nell’esempio italiano, era stata una parte dell’apparato statale, sostenuta dalla Nato e dalla Cia, a indirizzare la popolazione contro il “pericolo rosso”: i comunisti. Non si tratta di “complottismo”, ma di una verità storica».Oggi non parliamo più di “pericolo rosso”, ma di “minaccia islamica”. «E la gente approfitta delle emozioni legittime causate dagli attacchi per minare le libertà civili, mantenere di popolazioni in uno stato d’ansia e impedire qualsiasi dibattito su centinaia di migliaia di morti civili commesse dalla Nato e dalle forze armate americane, francesi e inglesi in Medio Oriente», dove la pretesa “lotta contro il terrorismo” ha causato più di 1,3 milioni di morti civili in 10 anni. «I francesi – continua l’Upr – devono riflettere sul fatto che i popoli dell’Iraq, della Libia, della Siria, non ci avevano fatto assolutamente niente fino a quando i paesi della Nato non hanno iniziano a bombardarli – con la scusa della rappresaglia per gli attentati dell’11 Settembre – ma molto più sostanzialmente per consentire alle grandi compagnie petrolifere e finanziarie occidentali di appropriarsi delle loro ricchezze». Conclusione: «La storia deve pertanto invitarci a una grande cautela nei confronti dei drammatici eventi in atto in Francia e in molti altri paesi europei. Prima di tirare conclusioni affrettate – insiste l’Unione Popolare Repubblicana – i francesi devono chiedersi chi ci sia dietro i terroristi. Chi li finanzia? Chi li arma? Chi li manipola? Chi li condiziona e li droga? Non sono forse solo “utili idioti” che servono interessi superiori che li scavalcano?».Mentre diversi paesi in Europa occidentale sono vittime di attacchi terroristici rivendicati da “Daesh”, cioè l’Isis – scrive sul suo sito il movimento indipendentista francese Upr, Unione Popolare Repubblicana, molti politici trovano la scusa per aumentare a dismisura il loro potere, restringendo la libertà dei cittadini. In particolare, il terrorismo è l’alibi perfetto per «limitare ulteriormente la libertà pubbliche (estensione dello stato di emergenza di François Hollande), insegnare ai giovani a “essere pronti a vivere con il terrorismo” (Manuel Valls), creare “campi di detenzione preventiva”, ossia campi di concentramento secondo il vocabolario degli anni ‘30 (Laurent Wauquiez)», e magari «armare i soldati di lanciarazzi», come propone Henri Guaino. Non solo: si chiede anche di «stabilire lo stato d’assedio» (Frédéric Lefebvre) e «demolire lo Stato di diritto» (Jacques Bompard ed Eric Ciotti), accantonando la Costituzione della Quinta Repubblica (David Douillet) e considerando lo Stato di diritto come paccottiglia, mero ammasso di noiosi “argomenti giuridici” che devono essere superati, come dice Nicolas Sarkozy, ansioso di unirsi allo “scontro di civiltà” teorizzato dai “think-tank” americani.
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Il Tpi: Milosevic innocente, estraneo alle stragi in Bosnia
Presentato come il Macellaio dei Balcani, paragonato a Hitler, destituito e demolito insieme alla Jugoslavia, quindi arrestato e lasciato marcire per cinque anni nel carcere olandese dove poi è morto, l’11 marzo 2006. Salvo poi “scoprire”, adesso, che il leader serbo Slobodan Milosevic non era il responsabile dei crimini di guerra commessi in Bosnia dal 1992 al 1995. L’orrendo massacro della guerra civile bosniaca, dice oggi il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja, fu organizzato dalle milizie serbo-bosniache dello “psichiatra pazzo” Radovan Karadzic, arrestato nel 2008 e condannato a 40 anni di pena per il genociodio di Sbrebrenica, nonché per crimini di guerra e crimini contro l’umanità durante l’assedio di Sarajevo e le altre campagne di pulizia etnica contro i civili non serbi. Il principale esecutore delle “operazioni”, il generale Ratko Mladic, è stato estradato in Olanda nel 2011, presso il tribunale occidentale che adesso – a cinque anni dalla strana morte di Milosevic, vittima di un malore – dichiara che il leader di Belgrado non ha mai promosso né avallato le missioni di sterminio. Al contrario: secondo il Tpi, Milosevic avrebbe fatto di tutto per frenare Karadzic e Mladic.Interrogando Karadzic, i giudici hanno appurato che «il rapporto tra Milosevic e l’accusato si era deteriorato a partire dal 1992», scrive “InSerbia.info”, riportando stralci degli atti processuali. Se all’inizio Belgrado appoggiava i serbo-bosniaci per evitare che la secessione della Bosnia-Erzegovina (dopo quelle di Slovenia e Croazia) frantumasse definitivamente la Jugoslavia, a partire dal 1992 Milosevic si è opposto al progetto della Repubblica Serbia di Bosnia, caldeggiato da Karadzic e Mladic: «Non possiamo prenderci quello che non è nostro», disse Milosevic al leader serbo-bosniaco. Emerge inoltre la preoccupazione di Milosevic per il ricorso alla violenza nei confronti dei civili: «Tutte le componenti, compresa quella musulmana, devono essere protette». Per il leader serbo, l’obiettivo numero uno era «porre fine alla guerra», ripristinando in Bosnia un equilibrio tra le diverse etnie. A massacri compiuti, durante colloqui ufficiali con funzionari governativi, Milosevic ribadì seccamente la sua opinione: «Il più grande errore dei serbo-bosniaci è stato quello di volere una completa sconfitta dei musulmani di Bosnia». Per questo, Belgrado ridusse progressivamente il suo sostegno ai serbo-bosniaci, premendo perché accettassero i piani di pace.«Prima lo ammazzano e poi lo scagionano», commenta Francesco Santoianni su “L’Antidiplomatico”, puntando il dito contro il Tpi, un apparato «elefantiaco» (1200 dipendenti), nato come organo giudiziario delle Nazioni Unite. «Costituendosi come parte civile nel processo contro Karadzic – spiega Santoianni – gli eredi di Milosevic sono riusciti ad ottenere una sentenza che, se pur indirettamente, scagiona Slobodan Milosevic dalle accuse per le quali era stato arrestato». La corte di giustizia ha affidato le indagini a un gruppo di lavoro diretto dal professor Cees Wiebes dell’Università di Amsterdam, che in un rapporto di circa 7.000 pagine, reso pubblico nel giugno di quest’anno, scagiona Milosevic. Lo stesso Santoianni denuncia il silenzio dei media mainstream di fronte alla notizia, che smentisce di colpo la colossale montatura, basata su calunnie e orchestrata dai media, per annientare la Serbia e il suo leader. Stampa occidentale assolutamente reticente? «Non me ne meraviglio – scrive Santoianni – considerando il livello che ha raggiunto l’“informazione”, e che ha fatto sì che a diffondere questa notizia siano stati siti serbi o russi. Una delle poche eccezioni è costituita dal sito del giornale inglese del “Guardian”».Anche per Giulietto Chiesa, «è comprensibile che tutti tacciano» sulla riabilitazione di Milosevic. Tutti i grandi media del mondo, cioè «coloro che in un coro unanime lo definirono il “macellaio dei Balcani”; coloro che lo paragonarono a Hitler, iniziando la serie che sarebbe poi continuata con Saddam Hussein, con Muhamar Gheddafi, e che vorrebbero continuare con Bashar el Assad». Ed è altrettanto comprensibile, aggiunge Chiesa su “Megachip”, che tacciano «le cancellerie occidentali, in specie quella americana, che vollero la fine della Jugoslavia e la fine di Milosevic». Possono farlo, tecnicamente, perché la “riabilitazione” formale di Slobodan Milosevic non c’è ancora stata: «La sentenza che la contiene è quella che ha portato lo stesso tribunale a condannare a 40 anni di reclusione Radovan Karadzic. Dunque bisogna leggere quella lunghissima sentenza per scoprire che Milosevic non fu colpevole delle accuse per cui passò in prigione gli ultimi cinque anni della sua vita, da tutti esecrato. Il trucco è tutto qui». La sentenza contro Karadzic risale al 24 marzo di quest’anno. «Siamo quasi alla metà di agosto e tutto il mainstream mondiale non si è accorto di niente. Oppure ha ritenuto utile non accorgersi di niente».Così, continua Chiesa, «tutti i leader occidentali non sono costretti a chiedere scusa, alla Jugoslavia, alla Serbia, ai popoli europei ignari». In realtà, «a ben vedere, toccherebbe a loro adesso sedere sul banco degl’imputati. Infatti, nella sua sentenza del 24 marzo, il tribunale che processò Milosevic dice che “non è soddisfatto dell’insufficiente prova che Milosevic fu favorevole” al piano di espulsione dei musulmani bosniaci e dei croato-bosniaci dal territorio della Bosnia preteso dai serbi». La stessa sentenza, a più riprese, ribadisce – citando documenti – l’esistenza di divergenze sostanziali tra Milosevic e Karadzic in diversi passaggi cruciali della tragica crisi. Milosevic si oppose alla decisione della costituzione della “Repubblica Srpskaja”. «E tante altre circostanze, ora scoperte, rivelano quello che coloro che volevano sapere già sapevano: e cioè che Milosevic, fino alla fine, cioè fino all’inizio dei bombardamenti della Nato sulla Serbia, aveva cercato un accordo con gli occidentali e che fu la signora Albright che decise che quell’accordo non dovesse essere siglato».«Cinque anni di prigione – gli ultimi della sua vita – furono decisi nelle capitali europee e americana in spregio a ogni giustizia, in nome del sopruso con cui lo stato Jugoslavo venne fatto a pezzi», scrive Chiesa. «E la sua morte in carcere avvenne in circostanze estremamente sospette e particolarmente disumane. Ufficialmente ebbe un attacco di cuore. Ma esso arrivò due settimane dopo che il Tribunale gli aveva negato il permesso di essere curato in Russia, come aveva chiesto. Morì nella sua cella, l’ex presidente jugoslavo, tre giorni dopo che il suo avvocato aveva inviato una sua lettera al ministro degli esteri russo, in cui diceva di temere di essere avvelenato». Adesso, conclude Chiesa, «sappiamo quale fu la “giustizia” che quel tribunale perseguiva: quella dei vincitori. Scagiona ora Milosevic, ma tiene nascosta la sua decisione. Non è una distrazione. Il giudice che ha presieduto il processo contro Karadzic, il coreano O-Gon Kwon, era anche tra i giudici che stavano processando Milosevic, prima che morisse. Costui conosceva tutti gli atti di entrambi i processi. Adesso non resta che chiedersi chi paga il suo stipendio e quello dei suoi onorati colleghi».Sempre “InSerbia.info”, una delle fonti della notizia proveniente dall’Aja, sostiene che valga la pena di ricordare, ancora, le strane circostanze della morte di Milosevic, nella sua cella del carcere Tpi a Schevenigen. Da un prelievo eseguito il 12 gennaio 2006, nel sangue del detenuto era stata rilevata una sostanza come la rifampicina, un antibiotico che può provocare pericolose crisi respiratorie. L’esito non fu rivelato al paziente fino al 3 marzo,«a causa della posizione giuridica difficile in cui il dottor Falke (responsabile medico del tribunale) si trovò in virtù delle disposizioni di legge olandesi in materia di segreto medico». La presenza di Rifamicin (farmaco non prescritto) nel sangue di Milosevic «avrebbe contrastato il farmaco contro l’alta pressione che stava prendendo, aumentando così il rischio di un attacco di cuore. Quello che alla fine l’ha ucciso. «Tutto questo – conclude “InSerbia.info” – dà luogo al fondato sospetto che potenti interessi geopolitici preferirono che Milosevic morisse prima della fine del suo processo, dato il “rischio” di vederlo assolto, una volta smontate le menzogne dell’accusa». Anche per questo, forse, per la cattura di Karadzic e Mladic si attese la morte di Milosevic.L’Uomo Nero? Era innocente. Presentato come il Macellaio dei Balcani, paragonato a Hitler, considerato alla stregua di Bin Laden, Saddam, Gheddafi. Quindi destituito e demolito insieme alla Jugoslavia. Arrestato come un criminale e lasciato marcire per cinque anni nel carcere olandese dove poi è morto, l’11 marzo 2006. Salvo poi “scoprire”, adesso, che il leader serbo Slobodan Milosevic non era il responsabile dei crimini di guerra commessi in Bosnia dal 1992 al 1995. L’orrendo massacro della guerra civile bosniaca, dice oggi il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja, fu organizzato dalle milizie serbo-bosniache dello “psichiatra pazzo” Radovan Karadzic, arrestato nel 2008 e condannato a 40 anni di pena per il genocidio di Sbrebrenica, nonché per crimini di guerra e crimini contro l’umanità durante l’assedio di Sarajevo e le altre campagne di pulizia etnica contro i civili non serbi. Il principale esecutore delle “operazioni”, il generale Ratko Mladic, è stato estradato in Olanda nel 2011, presso il tribunale occidentale che adesso – a cinque anni dalla strana morte di Milosevic, vittima di un malore – dichiara che il leader di Belgrado non ha mai promosso né avallato le missioni di sterminio. Al contrario: secondo il Tpi, Milosevic avrebbe fatto di tutto per frenare Karadzic e Mladic.
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Odio, nemico, guerra: potere cannibale, siamo tutti soldati
1. Empatia. Poniamo che io sia un pastore errante per l’Asia, con il mio picciol gregge. Che salga il pendio di un colle, e affacciato dalla sommità, veda un pastore errante per il Sahel, con pochi dromedariucci. Ciascuno di noi sorriderà all’alterità che così gli si rivela. Empatia. Che è, sì, partecipazione emotiva, è sì affinità, ma non elettiva, non dunque cercata, non voluta, e neppure passivamente accettata. Senza l’empatia, molto si può fare, non però le cose che si sottraggono alla sfera razionale, alla Discorsività. Si può per esempio tradurre un testo in modo che appaia accettabile alla scrittura (intesa come opposta alla letteratura che è al servizio del potere e delle sue norme grammaticali e sintattiche)? Si può eseguire, cioè tradurre in sonorità, uno spartito musicale, in modo che si distacchi e redima dalla discorsività che si esprime nel battito ritmico del piede dell’ascoltatore? Penso che né il testo né lo spartito possano venire degnamente interpretati muovendo dalla convinzione che soprattutto per la traduzione di opere scritte sia necessaria un’attività affine a un esercizio algebrico. A contestare l’empatia, interviene però quella prescrizione imposta dal beato Sigmund da Vienna laddove categorizza: “Wo Es war, soll Ich werden”, cioè al posto dell’Es è necessaria l’instaurazione dell’Io e, va da sé, del super-Io. Ed è la messa in mora della poiesis, la dichiarazione della sudditanza al discorso. Interviene insomma il potere, metaforizzato dal super-Io fallico nelle metastasi del dominio, che sono potere politico, potere religioso e potere di preparare e condurre la guerra.2. Dominio. Perché il dominio, per perdurare in ciascuna delle sue manifestazioni, ha bisogno di nemici che lo giustifichino. E non c’è differenza effettiva tra l’una delle metastasi in questione. Il potere politico si fonda e si replica in quello religioso e in quello bellico. E ciò fin dalla sua invenzione e introduzione nel mondo, risalente a circa quindicimila anni fa. E per la persistenza delle metastasi e dunque del Dominio stesso, è sempre indispensabile una forma o l’altra di mobilitazione. Necessaria per garantire il funzionamento degli stabilimenti industriali e degli uffici, perché occorre persuadere i dipendenti, operai o impiegati dell’opportunità di non opporsi alle rigide norme della produttività. Così, per riaffermare la fede dei credenti occorrono, certo, processioni, encicliche, corali, altre prediche e altre parafernalia, ma in primo luogo quella componente selettivamente mobilitatoria, persuasiva, che è la messa o il suo equivalente, la quale comporta l’inghiottimento del dio fatto particola o pane, di solito con accompagnamento del vino sacramentale riservato al sacerdote.In tutti i casi, la mobilitazione si basa sull’asserto che senza l’obbedienza ai superiori – manager, ministri del culto, gerarchie ecclesiastiche, comandanti militari – i nemici sempre in agguato (concorrenza nazionale e internazionale, crisi finanziarie causate da incompetenza o più spesso da malafede, eccetera) il sistema correrebbe seri pericoli. La funzionalità della mobilitazione si rivela, e anzi salta agli occhi anche di chi, operaio o impiegato, la vive o la subisce, sia pure in maniera meno palese, e anzi spesso senza che gli uni e gli altri si rendano conto della sua astanza. Ben più esplicita è la mobilitazione militare che riguarda tutti, intendo per tutti gli appartenenti alla Patria o alle strutture che parzialmente o totalmente l’hanno effettivamente o presuntamente vicariata. A questo punto, per i reggitori del sistema, padroni, uomini politici, dirigenti militari, si pone il problema, di fondamentalissima incidenza, consistente nel mascherare le esigenze e le pretese della patria o dei suoi equivalenti. Che hanno in comune i denti lunghi che sono un’eredità del cannibalismo degli antichi tempi e dei superstiti selvaggi.La Patria, voglio dire, imperversa, esige, pretende, impone – s ìenza proporre giustificazioni – il supremo sacrificio, considerandolo aprioristicamente un dovere al quale nessun mobilitato può sottrarsi. Con l’avvertenza che la preparazione alla guerra, che è perenne in tutti gli stati, non si traduce necessariamente nel richiamo immediato, urgente, alle armi. Ma è, ripeto e sottolineo, presente a tutti i livelli produttivi, persino alle attività di svago e riposo. Le quali sono appunto attività, dal momento che la consumazione esige la preventiva creazione dei mezzi, finanziari ma anche e soprattutto psicologici, che permettono lo spreco festoso. Quella che diciamo Patria, e quale che ne sia la struttura, è cannibale, pronta all’occorrenza a divorare i suoi figli, insensibile alle angosce e alle paure dei singoli mobilitati. La Patria-cannibale imperversa e a nulla serva implorare dal fondo di una trincea che si astenga dall’impiego e dall’essere il bersaglio di letali proiettili, razzi, gas tossici, assalti e distruttive manovre. La patria va però opportunamente mascherata, le sue pretese vanno attenuate, i suoi denti e le sue unghie limati. Non è bene inteso una giustificazione: è solo un sipario calato di fronte agli attori e spettatori. E lo si cala rendendo accettabile, addirittura affabile l’eventualità della morte che è lo scotto aprioristicamente imposto a chi si sia messo volontariamente o obbligatoriamente al suo servizio.3. La mobilitazione. Che, ripeto, ha luogo a tutti i livelli, compreso quelli scolastici, accademici, di produzione culturale e nell’ambito di tutte le attività economiche e produttive, comporta anche un’altra forma di persuasione, non meno importante, del richiamo del dovere verso la Madre, ed è la denigrazione sistematica del nemico. Occorre infatti che il nemico venga descritto come pericoloso, spietato, implacabile, proditorio, assetato di sangue, ma alla fin fine superabile dalle nostre armi e più ancora dal fegato e dal cuore dei nostri militi. Allo stesso modo il concorrente industriale, l’appartenente a un altro esercito produttivo che in ogni momento possa diventare ostile, sarà anch’esso necessariamente calunniato, fatto prescrittivamente oggetto di sospetto, deprecazione, finanche odio. Solo così la mobilitazione sarà effettiva ed efficace.L’operazione – odio del nemico – implica di necessità che il potenziale o attuale avversario, e in primo il nemico per antonomasia della società, il criminale comune o politico, giudicato, condannato e variamente isolato dal resto dei componenti la società mediante chiusura in carcere, detenzione in un campo di concentramento, esilio o internamento di altro genere, non sia oggetto di simpatie o anche solo di commiserazione. La punizione che gli viene inflitta deve essere pertanto resa nota, sottolineata, giustificata, spesso anzi proclamata. Il nemico interno della società deve essere cioè oggetto di disprezzo, deve essere calunniato, fatto segno di riprovazione e odio, esattamente come il nemico esterno. È quanto si è visto accadere nel caso dei campi di concentramento tedeschi, ma anche nei campi di lavoro, i gulag dei deportati sovietici. Nulla di nascosto: anzi, tutto dichiarato, esposto del ludibrio della parte “sana” delle popolazioni.4. L’Odio. Ma come si suscita ostilità e odio totale nei confronti del nemico esterno e ostilità e disprezzo di quello interno, il criminale comune o politico che sia? Va premesso che l’odio totale o l’odio temperato dal disprezzo, comunque l’ostilità, cresce – e si vuole appunto che accada – su se stessa. Una volta che il dominio sia riuscito ad avviare il meccanismo, di importanza fondamentale per al sua stessa sopravvivenza, chi se ne fa interprete o strumento andrà come alla scoperta di un continente, l’oscura, torbida regione della negatività. Io, l’odiatore, colui che ha fatto propria l’ostilità, divengo il mezzo per cui l’altro si è rivelato, si è attuato come oggetto della mia insopportabilità. Io, l’odiatore, sono l’arnese che serve ad attuare uno scopo specifico. Che è la dichiarata superiorità della mia parte – la patria o la parte sana della società. Scopro l’insopportabilità di ogni gesto, pensiero, azione del nemico dichiarato tale. Non posso – non devo – ignorare la presenza del nero accanto a me; buon cittadino di uno stato razzista, dovrò nutrire paura nei confronti dello zingaro; e, apertamente o meno, debitamente, desiderare di fargli del male, di perseguitarlo, di appenderlo a un ramo.E sono atteggiamenti emozionali in cui si riassume il desiderio di distruggere, o almeno di mettere in condizione di non nuocere, tutti i simili a lui, il nero o lo zingaro, cioè tutti quelli che stanno al di là, oltre la barricata: nei confronti dei quali, chiunque vi si trovi o corra il rischio di collocarvisi, l’odio dev’essere sempre pronto a scattare. E nell’odio, l’odiatore simboleggerà la volontà di affermare il proprio assoluto valore, la propria indiscutibile superiorità. L’odiatore sa che gli è propria una indiscutibile superiorità. L’odiatore sa che gli altri, oggetto prima del suo disprezzo (dal momento che la scuola dell’odio procede per crescenti fasi: disprezzo determinato dal fatto di detestare, via via, una, poi molte delle sue qualità) saranno al termine il bersaglio della negativa globalità dell’ostilità e dell’odio.5. Inutilità dell’Odio. Ma anche inutilità dell’odio. Per il fatto stesso di esistere, l’altro, l’odiato, costituisce un pericolo e una minaccia, ma l’odio non può sopprimere il fatto primordiale dell’esistenza altrui. L’odio è così minato da se stesso: non può impedire all’altro di rivelarsi quale presenza indispensabile. Qualcosa dell’altro mi sfugge sempre, o lo distruggo, e porto a compimento l’odio, ma in pari tempo nullifico l’odio (l’altro è esistito, l’altro fu una presenza: dell’altro aleggia il ricordo, i suoi occhi, il suo sguardo, la certezza che per questo spiraglio di luce che qualcosa mi è sfuggito) oppure gli do modo di crearsi una zona sua, non più grande di un’unghia ma imprendibile: l’odiato mi odia a sua volta, è me stesso in carne d’altri; e, a questa stregua, il mio odio non tocca il culmine, è un meccanismo che gira a vuoto. Con l’odio, la mia sconfitta è certa.Infatti, se odio faccio un ricorso come ultima istanza… che cosa mi resterebbe, che cosa ho concluso, una volta salito su un monte di cadaveri? La guerra – ogni guerra – finisce; poniamo che io, qualunque sia la nazione di mia appartenenza, abbia vinto, che guardiano di un campo di concentramento e di sterminio, abbia celebrato quella che allora è diventata la mia vittoria: ecco che mi ritrovo davanti a una folla di schiavi, che non ho più né scopo né ragione di odiare, dal momento che hanno cessato di costituire un pericolo. Ma riconquistare la propria integrità – ed è ciò che avviene al termine di ogni guerra, per quanto catastrofica sia stata – sarà tanto più difficile quanto più è avanzato il processo di decomposizione, di semplificazione, di riduzione: insomma, quanto più vasta è stata l’abiura alla mia umanità.6. Guerra. L’altra faccia della medaglia: guerra. Il problema, si è visto, è rappresentato dalle modalità usate per rendere il soldato invulnerabile alla pietà. Che il soldato possa diventare da semplice cittadino un carnefice, colui cioè che è incaricato di distruggere carne umana, è dimostrato dai campi di concentramento della Germania nazista durante la seconda guerra mondiale. I guardiani dei detenuti erano perlopiù SS che dopo aver combattuto su vari fronti, erano stati ritirati dal servizio attivo perché feriti o perché troppo usurati per venire impiegati in prima linea. Assurto alla figura di eroe, di collerico semidio incaricato di combattere e all’occorrenza eliminare, i nemici della “patria” e del sistema politico dominante: trasfigurato come tutti i guerrieri in incarnazione della violenza, dell’aldilà incontrollabile, l’SS ne reca addosso la maschera e il paludamento.Il soldato ridotto a stizzoso guardiano è anch’egli un masochista, anzi un sadomasochista. In quanto masochista, pronto a pagare uno scotto prima di commettere l’azione che sa o sospetta riprovevole. In quanto sadico, non è esattamente il beccaio: è un carnefice che deve riuscire a rendere masochista la vittima. Il suo proposito sarà dunque quello di escogitare tormenti tali da tappare la bocca del martire le cui lamentele lo irritano e incattiviscono. E martire e carnefice si vedranno così impegnati in un duello che non potrà, a un certo punto, non assumere l’apparenza della lealtà, dello scontro aperto, dichiaratamente senza esclusione di colpi. Col carnefice che dovrà, almeno con se stesso, ammettere la propria sconfitta, quando la vittima non si sia trasformata in oscurità rantolante, in annebbiamento e abiura, ma anche qualora il rantolo sia diventato irreversibilmente agonico.Supremo ideale del sadico: riuscire a trasformare l’altro in carne senza che costui cessi di essere strumento. Gli basta, per convincerlo di avere toccato la propria meta, l’implorazione della vittima? No, poiché anche nelle grida di terrore può celarsi la soperchieria. E l’atteggiamento del sadico, in questo caso soldato – carnefice, è dettato da volontà di potenza. Definizione che è una mera tautologia: resta da spiegare, infatti, il perché del gusto di dominare gli altri. E se il sadico questo impulso lo prova, è perché vede in esso la possibilità di avere la rivelazione dell’altro, – e di sé per riflesso – attraverso l’oppressione. Ma l’accettazione a cui l’altro si obbliga deve essere senza residui; e non basta neppure che la vittima rinneghi e abiuri, che strisci e urli. Occorre che quegli urli siano per così dire assoluti. In un certo senso, frutto di una libera scelta, e che tuttavia codesta scelta non lasci residui, ombre, ambiguità. La vittima dovrà interamente trasferirsi in quest’esito, senza avere più un secondo fine, soprattutto quello di convincere il sadico-carnefice di avere già pagato abbastanza e pertanto di persuaderlo a rinunciare alla continuazione della tortura. E allora?La tortura cessa: o la vittima è un freddo cadavere, o è tornata coscienza, astuzia, gioco, inganno. Il sadico-carnefice si sente defraudato nell’uno come nell’altro caso. Deve pertanto impedire che venga superata una linea di confine non oggettivamente determinabile, una soglia solo probabilisticamente fissabile. La sua è quindi la condanna alla tortura perenne: in ogni istante dovrà essere circondato almeno dagli emblemi del suo potere, e come un Dracula banchettare tra i cadaveri, o come i quattro signori delle Centoventi giornate di Sodoma, prescriversi un rigido rituale, un crescendo dell’orrore. Il sadismo diviene pertanto consumazione e autofagia: il sadismo perciò stesso si rifà al suo contrario, gli estremi finiscono per toccarsi. Il sadico può scoprire la possibilità che venga applicata a lui stesso l’impresa tentata a spese degli altri. Può allora accadere che il masochismo prevalga. Che il combattente veda, nel suo avversario, il nemico che dovrebbe odiare senza remissione, ed è ormai vano farlo; che scopra, nell’uomo dell’opposta trincea, il suo simile. Può accadere dunque che si verifichi un istante di empatia, quasi un ritorno a un’origine mai dimenticata, perché indimenticabile, un vuoto di memoria che può all’improvviso colmarsi. È accaduto tante volte, durante le stragi della prima e della seconda guerra mondiale.Può accadere, in qualunque guerra, che questa divenga ritualistica – che a prevalere sia la stanchezza e che ne derivi compassione per il nemico, e che dia luogo alla rassegnazione (di chi, sepolto nel rifugio, sperimenti, cieco, l’ossessione dei bombardamenti) e alla stanchezza dei disertori e addirittura degli ammutinati. Gli eserciti zaristi, nel 1917, proprio per questo si sono disfatti. È come se la vittima, anziché semplicemente soccombere – e pur restando condannata – sia entrata nel seno della sacralità. Che divenga intoccabile, ancorché si continui a toccarla, a disfarla. Si constata allora che il gioco dell’angoscia sia sempre lo stesso, angoscia fino alla morte, al sudore di sangue. E al di là della morte e della rovina, il superamento dell’angoscia, quello che ha popolato la terra di eroi e taumaturghi, di figli del sole e nati da vergini minacciati e invincibili come il sogno dell’uomo. Viene allora fatto di chiedersi: può allora l’uomo rinunciare ai sacrifici, concreti o simbolici? Può fare a meno di vittime a carnefici? Ed è legittimo il dubbio che anche tra i nostri progenitori paleolitici – e tra gli ultimi selvaggi – superstiti della civiltà – si desse e si dia la nostra stessa, attualissima suddivisione tra sofferenti e apportatori di sofferenza? In altre parole: l’uomo poteva allora, e può ancora, rinunciare all’angoscia? O l’angoscia è costitutiva dell’umanità?7. Beltran de Born. Dante lo incontra nel suo XXVIII dell’Inferno, ai versi 118 – 149. Nona Bolgia riservata ai seminatori di scandalo e scisma, e dunque «mali consiglieri». Dove i dannati girano perennemente tutt’attorno e vengono feriti di spada dal Diavolo. Le loro ferite si rimarginano prima che gli ripassino davanti. «Io vidi certo… / un busto senza capo andar…// e il capo tronco tenea per le chiome, / presol con mano a guisa di lanterna…». È Bertram de Born (per Dante, dal Bormio) trovatore (ca.1140-1215) signore del Castello di Hautefort tra il Périgord e il Limosino, coinvolto – si dice – in dispute feudali tra Francia e Inghilterra e suscitatore, forse, di discordia tra Enrico di Inghilterra e il padre, re Enrico II. Gli si devono una trentina di sirventesi in cui celebra le virtù cavalleresche, esalta la guerra come unica fonte di gloria, la morte in battaglia come liberazione dalle miserie terrene. La più celebre di tali composizioni è stata tradotta in toscano nel XV da un poeta di cui mi sfugge il nome. Dopo aver celebrato la primavera, la bella fioritura, i dolci canti degli uccelli, Bertram cambia di colpo registro: “Ma più mi piace veder per li prati alzar le tende e stendardi piantare. / E per i campi cavalieri andare. Tutti in ischieri su cavalli armati. / E piacemi se vedo scorridori, molti ed armati a tumulto venienti. / E piacemi se vedo inseguitori. Che fan fuggire con loro robe el genti. / Et ho allegrezza assai grande mirando. Forti castelli assaltati e crollare muri abbattuti / E le schiere ristare presso le fosse steccati innalzando”.Mi si farà notare che la guerra può eccitare con l’allucinazione del potere che conferisce, con la speranza di premi e ricompense, con la liceità di “perversioni” giudicate ammissibili e anzi consigliabili; e tuttavia potrebbe in ultima analisi esercitare un fascino solo per chi attribuisce scarso e nullo significato alla propria esistenza, e dunque per quelli che ci si ostina a chiamare «dannati della terra,» o a giovani incapaci di trovare una nobile ragione per vivere. Ma mi si farà anche notare che la guerra, ogni guerra, rappresenta la prosecuzione di un clima di festa, di messa in mora delle norme consuete. Di sospensione della separazione tra realtà e sogno, tra quotidianità e avventura. Né si mancherà di ricordarmi che la guerra è necrofila, in quanto esige dal combattente familiarità con la morte propria e altrui. Un fascino oscuro, quello esercitato dalla guerra: ma sono tutte considerazioni di accento negativo, laddove la celebrazione di Bertran de Born è una affermazione di vitalità spinta ai limiti.Gli è che la guerra ha una sua intrinseca bellezza, e lo comprovano i molti, celeberrimi dipinti di ogni secolo – a partire, facile notarlo, dal Neolitico, e più avanti dirò perché – i quali illustrano fatti d’armi, si tratti delle Termopili, della carica della cavalleria scozzese alla battaglia di Waterloo, o dell’enorme numero di film che continuano ad esaltarne l’importanza, la torbida bellezza, insomma l’incidenza enorme che le guerre, e soprattutto certe battaglie conclusive, hanno avuto e hanno sulle vicende sociali. Persino sulla delimitazione dei periodi che usiamo chiamare storici. L’Inghilterra è nata dalla conquista normanna del 1166. Cos’è dunque la guerra? Risposta di Karl von Clausewitz: «Limitiamoci alla sua essenza, il duello». Dove il grande teorico della guerra rischia la confusione tra violenza e guerra, come se fossero un’unica cosa. L’errore di Clausewitz è consistito nell’aver equiparato la guerra a un atto, o una serie di atti, istintuali. Quasi si trattasse di un litigio da osteria che finisca a coltellate.Ma la guerra non è l’istintuale. Non si guerreggia obbedendo a impulsi prerazionali. No, perché le guerra sono proprie, ed esclusivamente, di società gerarchiche, strutturate in piramidi formate da un vertice autorevole e da una successione di sudditi convinti all’obbedienza. Senza questa struttura, eminentemente razionale, e di ascendenza neolitica (e come tale furto dello stanziamento, della produzione agricola, dell’allevamento del bestiame, dell’invenzione della divinità, del dominio nella sua triplice articolazione, dell’invenzione della macchina, della proprietà privata – in una parola dell’epoca, appunto il Neolitico, di cui siamo gli eredi, e anzi i continuatori). Clausewitz, celebre autore del suo celeberrimo “Della guerra”, 1832-34, si è reso conto del suo errore. Dicendo che per il militare non esiste «la pace»: esiste solo la non-guerra, la tregua armata. E alludendo dunque alla perennità della mobilitazione continua a tutti i livelli della società e di conseguenza alla condanna del militarismo inteso quale politica che abbia a propria finalità e conclusione la guerra. Della politica, infatti, la guerra è, al più, la forma suprema, il culmine. E soltanto una politica stupida (e ne abbiamo avuto nel secolo scorso esempi clamorosi, Vietnam, Iraq, Afganistan…) si tramuta senz’altro in guerra, al di là di ogni considerazione di carattere razionale e utilitaristico.8. Meccanismo della Persuasione. Sì, perché esiste una tecnoscienza, ripetuta di generazione in generazione, della mobilitazione. Ed è quella che da altri, in particolare Clyde Miller, è stata chiamata Meccanismo della Persuasione. Né è certo una novità l’intervento di «persuasori occulti,» cioè di appelli all’irrazionale nella vita delle nazione: irrazionale camuffato, sia chiaro, da richiami ai principi di realtà. Elaborata da secoli a scopi mobilitatori, la propaganda politica nella fase attuale dello sviluppo civile ha investito la società in maniera un tempo sconosciuta. Le forme di propaganda rispecchiano i fondamenti economici della società che la usa, nonché gli intenti della sua classe dirigente; e, per ciò che riguarda le società odierne – tutte borghesi seppure con varie connotazioni, che siano o meno sottoposte al controllo di un partito unico – il modulo, l’insieme di tecniche impiegate allo scopo, è sempre lo stesso, che si tratti di agire nell’ambito della caserma o del supermercato, quale che sia la merce da indurre ad apprezzare, ad accettare, ad acquistare, formaggi o ideologie.Perché i problemi della persuasione si riducono a uno solo: sviluppare certi riflessi condizionati mediante ricorso a parole-chiave. A simboli-chiave, ad azioni-chiave. Il consumatore-mobilitando, il compratore-soldato, viene “precondizionato”, gli si stampa nel cervello l’elogio del prodotto in modo da escludere dubbi sulla sua assolutezza. Si tratta di agire programmaticamente su tutti i livelli dell’opinione, soprattutto a quelli consci o preconsci, (pregiudizi, terrori, credenze ancestrali, impulsi emotivi), applicando nei confronti del milite come del consumatore i ritrovati della ricerca motivazionale, dell’analisi delle motivazioni. Il prodotto – e l’ideologia – dovrà esercitare una suggestione sui sentimenti annidati nella psiche. Ma non si tratta di prassi inedite, inaspettatamente iniettate nelle vene della società borghese, anche se hanno assunto, soprattutto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale e della guerra fredda, un’estensione rilevantissima in concomitanza con l’espansione del mercato. E la cura costante per le esigenze psicologiche degli eserciti (fino a tempi recentissimi quelli di massa, oggi in apparenza composti da volontari salariati) ha avuto uno sviluppo parallelo a quello dell’economia di mercato. Il cliente, milite o compratore, dovrà innamorarsi del prodotto, a esso legarsi mediante una fedeltà irrazionale.Per quanto riguarda il compratore, il prodotto apparirà ( anche se in effetti contenga veleni), casalingo, puro, cortese, pulito, onesto, paziente. Nel caso dell’acquirente del prodotto patria, dovrà apparire virile, forte, potente, autoritario. Sempre il prodotto dovrà avere una personalità, la stessa della patria o dei suoi equivalenti. Si offrirà così al mobilitando un’illusione di razionalità, un pretesto con il quale nascondere a se stesso l’irrazionalità su cui si fa leva. L’estetica dell’arma, da lustrare e curare, l’arma che prolunga la personalità del combattente, kalascnicov o elicottero che sia, fa il paio con l’idea dell’automobile come mezzo di espressione dell’“aggressività” di chi la acquista. Importantissime, ai fini della mobilitazione, le parate militari, che altro non sono se non l’esposizione di certi prodotti sapientemente architettati, accuratamente designed, carri armati dall’aria cattiva, di fosco colore, dalle minacciose torrette, mostri scientifici e metafisici insieme; e velivoli senza pilota, invisibili, irrintracciabili in cielo, di invincibile pericolosità; caccia-bombardieri nei quali la funzionalità si sposi alla misteriosità, all’incomprensibilità per il profano, e la cui efficienza sia già rivelata dal fracasso che producono volando o decollando e dalle enigmatiche scie di condensazione. Se al consumatore del supermercato piace vedere una grande abbondanza di merci che lo sazia letteralmente e preventivamente, al milite piace la sensazione di essere in tanti che partono in missione, e la constatazione di disporre di tante armi, presuntamente efficientissime, che si aggiungono all’euforia tipica delle manifestazione di massa, soprattutto quelle patriottiche-militaristiche.9. Il Militarismo. Il Militarismo è l’esplicita o sottilmente insinuata finalizzazione della politica alla guerra proclamata come necessaria. E tale è stata dichiarata, a sua giustificazione, la guerra del Vietnam, come quelle successive. Noi viviamo così in società della paura (qualcuno può sempre e comunque sganciare la BOMBA). Ma l’oscuro fascino della guerra è lungi dall’essersi spento e anche solo eclissato, e sussiste pur sempre la possibilità di sottrarsi collettivamente al logos inteso come super-Io, e di abbandonarsi lontano dalla città con le sue forclusioni, a una sorta di stravolta empatia (o controempatia) con la rivelazione però, non dell’Alterità, bensì della Morte. L’ostilità è così calata dal cielo a funestare la terra – ogni lembo di terra abitato dalla civiltà, che è per definizione bianca, occidentale. Né chiamatela follia. Poiché quella che si usa definire follia – oppure psicosi o altri presunti equivalenti – è innanzi tutto condizione della poiesis.Ed è hybris, è dissoluzione del soggetto, rifiuto dell’obbligatoria felicità, contestazione della volgarità sotto forma del rappresentabile e rappresentato – pittura, teatro, danza, o dalla rappresentabilità della Logica del Tempo, della Logica dell’Inconscio, in nome dell’eccesso, dell’estremismo, dell’ekstasis, parola greca che può indicare l’uscita dai ceppi della ratio come assoluta egemone, ma dalla quale deriva, guarda caso essere, non esser-ci: voglio dire l’inattingibile Carne, mai matrugiata dalla carne, forse intravista – budella squarciate, sublime dolore, dal samurai che pratica il seppuku, – e forse per un istante raggiunga il fondo supremo della rivelazione, il simbolo palpabile dell’aldilà, della sua presenza in noi. Cosa non data al soldato, e tanto meno al cosiddetto eroe. E mai al soldato. Soldato che inesorabilmente scopre la sua propria miseria.(Francesco Saba Sardi, “Istituzione dell’ostilità”, dalla pagina Facebook di Giovanni Francesco Carpeoro, 14 aprile 2016. Scrittore, saggista e traduttore, eminente intellettuale italiano, ha tradotto i maggiori scrittori mondiali dell’800 e del ‘900, nel 1958 ha firmato “Il Natale ha 5000 anni” e, in un altro saggio, “Dominio”, edito nel 2004, ha tracciato una lucida analisi della natura autoritaria del potere che ha guidato la civilizzazione terrestre, dall’avvento del neolitico ai giorni nostri).1. Empatia. Poniamo che io sia un pastore errante per l’Asia, con il mio picciol gregge. Che salga il pendio di un colle, e affacciato dalla sommità, veda un pastore errante per il Sahel, con pochi dromedariucci. Ciascuno di noi sorriderà all’alterità che così gli si rivela. Empatia. Che è, sì, partecipazione emotiva, è sì affinità, ma non elettiva, non dunque cercata, non voluta, e neppure passivamente accettata. Senza l’empatia, molto si può fare, non però le cose che si sottraggono alla sfera razionale, alla Discorsività. Si può per esempio tradurre un testo in modo che appaia accettabile alla scrittura (intesa come opposta alla letteratura che è al servizio del potere e delle sue norme grammaticali e sintattiche)? Si può eseguire, cioè tradurre in sonorità, uno spartito musicale, in modo che si distacchi e redima dalla discorsività che si esprime nel battito ritmico del piede dell’ascoltatore? Penso che né il testo né lo spartito possano venire degnamente interpretati muovendo dalla convinzione che soprattutto per la traduzione di opere scritte sia necessaria un’attività affine a un esercizio algebrico.
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L’auto-golpe del boia Erdogan, ladrone e super-terrorista
“La mente è come un paracadute, non funziona se non si apre” (Frank Zappa). “Siamo gli strumenti e i servi di uomini ricchi dietro le quinte. Siamo le marionette; loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre capacità e le nostre vite sono tutti la proprietà di altri. Siamo prostitute intellettuali” (John Swinton, direttore del “New York Tribune”, 1880). Partiamo dall’ultima bufala False Flag, quella dell’autogolpe del tiranno turco, destinata a completare, con l’ennesima carneficina di propri sudditi, la serie di autoattentati con cui è riuscito a governare uno Stato di Polizia quasi perfetto. Gli mancava la liquidazione di qualche residuo di esercito, magistratura, informazione, politica (il gruppo Fethullah Gulen) e una dimostrazione ad alleati vagamente perplessi che senza di lui non si va da nessuna parte. E così ha allestito il suo incendio del Reichstag, quello che nel 1933 servì a Hitler per rimuovere comunisti, socialisti e cattolici antifascisti e, nel 2011, con l’11 settembre, alla cupola militar-finanziaria-industriale USraeliana a lanciare la guerra per la loro dittatura mondiale.Lo sibila tra i denti anche lo stesso Gulen che, ovviamente, rintanato negli Usa sotto tutela e controllo di Washington, non c’entra niente. Anche perché quando mai lui, islamista integralista quanto Erdogan, avrebbe potuto/voluto lanciare contro il sultanato una forza militare che, a dispetto delle epurazioni islamizzanti subite negli anni, mantiene una robusta base secolare e nazionalista. Anche perché per una roba del genere i suoi sorveglianti americani non gli avrebbero mai allentato le briglia. Ci possono essere dissapori, tra il maniaco criminale di Ankara e quelli di Washington. Che so, sui curdi, sulla gestione del califfo, su pace o guerra con Mosca o Iran, ma mettere in discussione un pilastro Nato piantato in mezzo a Medioriente e Asia, ai confini della Russia che delenda est, una forza militare che è la seconda dell’Occidente dopo gli Usa, un regime che tiene appesa al gancio del collasso da migrazioni l’Unione Europea, ecchè, vogliamo metterlo in discussione?E allora tutti, da Obama al “Manifesto”, lungo l’intero arco atlantico da destra a sinistra, a inneggiare alla preservazione delle istituzioni, dei diritti civili e del governo democraticamente (sic!) eletto, con qualcuno dal sottofondo che flauteggia l’auspicio che Erdogan si ravveda e non ne combini più delle sue. Non se ne preoccupa più di tanto Tommaso De Francesco, del quotidiano cripto-Nato, ma con etichetta comunista, il quale non fa che inanellare scemenze e insipienze da quando attribuì a Milosevic despotismo e pulizie etniche e in questo caso, con una Turchia chiaramente spaccata a metà tra affascinati dalla Sharìa e resistenti umani, individua un “Erdogan ferito”, ma anche un “popolo turco”, tutto intero, sdraiatosi davanti ai carri armati come a Tien An Men, in difesa del suo presidente, “democraticamente eletto”. Già gli erano svaporati dalle malferme sinapsi i milioni che negli anni si sono ritrovati nelle piazze, da Dyiarbakir a Istanbul, per farsi sparare addosso dagli sgherri del democraticamente eletto.Divertente poi la linea a balzelloni del giornaletto restituito a malavita (lo ha annunciato l’altro giorno) e alla sua cooperativa più che da lettori fedeli, dai paginoni dei compagni di Eni, Enrel, Telecom, Enav, Coop. Come quando con il suo responsabile esteri sentenzia un Erdogan fragile e indebolito dall’emergere di un elemento di contrasto capace di tenerlo sulla corda per ben tre ore di golpe, nientemeno, mentre l’altro redattore si piega alla realtà di un presidente tornato in grande spolvero e ora in grado spazzare via ogni residuo di opposizione. Ma che riunioni di redazione fanno? Torniamo al “golpe”, auto. Quello sul cui fallimento il “Manifesto” e tanta stampa (un po’ meno lo scaltro “Il Fatto”) si azzarda a ricostruire la «centralità del Parlamento e del ruolo fondamentale dei partiti politici nel gioco democratico» (sic!): esattamente, ed è naturale, i termini in cui hanno salutato il salvataggio della democrazia da parte del più turpe energumeno nazista dell’area gli zii della Casa Bianca, del Dipartimento di Stato e del Pentagono e, scendendo molto in basso per li rami, pure Matteo Renzi e – qui ci scappelliamo – l’eurodama Mogherini.Ebbene qualcuno si ricorda dei colpi di Stato effettuati dai militari turchi ogni qualvolta sospettavano che l’eredità nazionale e laica di Ataturk fosse posta a repentaglio da destra o sinistra? E qualcuno gli ha messo a confronto quiell’aborto di colpetto di Stato della notte tra il 15 e il 16 luglio 2016? Hanno occupato la tv di Stato, ma non le tv private, tutte infeudate a Erdogan, non la Cnn turca (braccio mediatico Nato e Usa) dalla quale è difatti ripartito il controgolpe, cioè il colpo di Stato vero, con la trasmissione da smartphone dell’appello di Erdogan al pogrom antimilitare. Non hanno fatto nessuna delle cose che potevano assicurare il successo di una liberazione militare del popolo turco dalla Vergine di Norimberga in cui progressivamente lo ha rinchiuso il suo Torquemada. Non hanno spento i ripetitori delle telecomunicazioni, i cellulari, internet, non hanno ordinato il coprifuoco e proclamato la legge marziale, non hanno occupato i ministeri, appena qualche tank sui ponti sul Bosforo, di grande visibilità e dove sarebbero potuti arrivare in poco tempo e in tanti a “difendere la democrazia”.Non hanno occupato alcuna via di comunicazione strategica nel paese e tra il paese e i vicini, non hanno occupato le prefetture, presidiato i nodi ferroviari, bloccato gli aeroporti (solo per finta quello di Istanbul dove Erdogan è potuto subito arrivare dal suo luogo di vacanze, a Marmaris, che nessuno si è sognato di bombardare o occupare). Nel tempo delle immagini e dei leaderismi che ne scaturiscono non hanno saputo produrre un nome e una figura carismatica di riferimento, non hanno usato i social network. Dilettantismo di quattro sprovveduti, per quanto bene intenzionati, che non hanno neanche ricordato che i colpi di Stato si fanno a notte fonda, prima dell’alba, quando non si corre l’inconveniente di gente sveglia e per strada. E così le Cnn e le tv associate al disegno del despota hanno potuto riprendere strade e piazze con qualche centinaio di persone, emerse da discoteche e trattorie e poi moltiplicati dagli accorsi agli appelli di Erdogan liberamente trasmessi, simulando una rivolta di massa contro i carri.Poi è finito tutto. Salvo per i 300 morti, per ora, i 6000 arrestati, per ora, i 3000 magistrati dimessi e poi incarcerati, la campagna di linciaggi lanciata contro i soldati “traviati”, piazza pulita di tutti i critici e irriverenti, l’immaginabilissima ulteriore stretta sui diritti politici, civili, operai, la continuità del doppio forno antisiriano (alleanza con Isis, finto guerra all’Isis), lo sprofondare del paese in un abisso di regressione politica e culturale. Una Turchia degna dell’ingresso nell’Ue,vero modello avanzato di quanto si ha in mente a Bruxelles, Washington e tra coloro che brandiscono Nato e Ttip, tanto per assicurarci sulla «centralità del Parlamento turco e dei partiti come attori fondamentali del gioco democratico», come titola il foglio cripto-Nato su un pezzo davvero turco di tale Mariano Giustino. Cosa può essere successo?Che gli attentati finalizzati, come in Francia, come ovunque, ad accelerare la marcia verso lo Stato con gli stivali chiodati e a passo dell’oca non erano riusciti a far ingranare la quarta. Che nell’esercito, per quanto epurato, sopravvivevano fermenti laici, nazionalisti, in disaccordo con le catastrofiche imprese esterne e interne di un regime che andava isolandosi da tutti. Che si è lasciato che i portatori di questi fermenti, nei gradi medio-alti, congiurassero, che magari con agenti provocatori li si incoraggiasse, che addirittura gli si facesse balenare un appoggio euro-atlantico, che poi li si inducesse a commettere le ingenuità, gli errori clamorosi che si sono visti, nell’illusione, loro, che si sarebbero tirati dietro popolo e armate.Tutti a sottolineare il silenzio delle cancellerie occidentali, Obama, Merkel, Juncker, May, Hollande e Renzi (per quel che conta), nelle tre ore del golpe, interpretato e biasimato come un barcamenarsi in attesa di sapere chi avrebbe vinto. Balle! Sapevano benissimo chi avrebbe vinto, ma, davanti all’immagine del golem turco insediatasi ormai nella percezione della gente pensante in tutta la sua orripilante identità di padrino del terrorismo jihadista, massacratore del suo e di altri popoli, corrotto ladrone e capo di un clan di malfattori senza scrupoli, conveniva mostrare qualche disponibilità a chi aveva proclamato nel suo comunicato il «ritorno alla democrazia e al rispetto dei dirtti umani e la pace e amicizia con tutti i popoli vicini». Ovviamente anatema per la Nato e per un’Europa che si muove, per ora con mocassini e tacchi a spillo, nella stessa direzione.Pensate se avesse vinto il colpo di Stato. Via i Fratelli Musulmani, quelli tanto cari al “Manifesto”, ormai nettamene minoritari nella regione (Tunisia, Qatar e Turchia). Cioè via la forza sociale, militare e culturale ideata e nutrita dai colonialismi vecchi e nuovi a garanzia dei propri modelli di sviluppo e di sfruttamento, del proprio ordine mondiale. Al suo posto una realtà imprevedibile e incalcolabile, con rigurgiti nazionalisti e statalisti suscettibili di guardare oltre il soffocante perimetro delle alleanze e dipendenze occidentali, sicuramente laica e, dunque, ostica ai processi di decerebramento religioso che servono a neutralizzare nostalgie di autodeterminazione popolare e nazionale. Quelle che hanno animato alla rivolta alcune decine di milioni di egiziani, dopo aver assaporato la medicina dei Fratelli Musulmani e dei loro surrogati terroristici, sotto un presidente eletto “democraticamente” dal 17% della popolazione in un voto boicottato dalla maggioranza, che aveva imposto la sharìa, sparato sui manifestanti, incarcerato gli oppositori, bruciato le chiese cristiane, trasferito tagliagole in Siria e i cui seguaci ora assassinano civili, funzionari e poliziotti in una guerra terroristica che tutti preferiscono nascondere sotto le presunte infamie di Abdelfatah Al Sisi.Avessero vinto in Turchia i militari, ontologicamente fascisti secondo un’aporia di sinistra, a dispetto di dimostrazioni storiche contrarie, ci saremmo giocati «la centralità del Parlamento turco e dei partiti nel loro ruolo di attori fondamentali del gioco democratico», come temeva il “Manifesto” e tutto il cucuzzaro destro-sinistro dell’atlantismo? Chi lo sa. Di sicuro c’è che, come Al Sisi è meglio di Morsi per gli egiziani, gli arabi, il Medioriente, il movimento delle cellule cerebrali dell’essere umano, difficilmente qualcuno di quelli che si sono agitati l’altra notte a Istanbul avrebbe potuto essere peggio di Erdogan, il padrino degli squartatori del popolo iracheno, libico e siriano. Certo che la Nato, John Negroponte, l’Mi6, la Cia, Oxford Analytica e il “manifesto”, a questo qualcuno non avrebbero esitato un attimo a spedigli un Giulio Regeni, poveretto.(Fulvio Grimaldi, “Turchia, fanno tutto da soli e sono capaci di tutto”, da “Mondocane” del 17 luglio 2016).“La mente è come un paracadute, non funziona se non si apre” (Frank Zappa). “Siamo gli strumenti e i servi di uomini ricchi dietro le quinte. Siamo le marionette; loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre capacità e le nostre vite sono tutti la proprietà di altri. Siamo prostitute intellettuali” (John Swinton, direttore del “New York Tribune”, 1880). Partiamo dall’ultima bufala False Flag, quella dell’autogolpe del tiranno turco, destinata a completare, con l’ennesima carneficina di propri sudditi, la serie di autoattentati con cui è riuscito a governare uno Stato di Polizia quasi perfetto. Gli mancava la liquidazione di qualche residuo di esercito, magistratura, informazione, politica (il gruppo Fethullah Gulen) e una dimostrazione ad alleati vagamente perplessi che senza di lui non si va da nessuna parte. E così ha allestito il suo incendio del Reichstag, quello che nel 1933 servì a Hitler per rimuovere comunisti, socialisti e cattolici antifascisti e, nel 2011, con l’11 settembre, alla cupola militar-finanziaria-industriale USraeliana a lanciare la guerra per la loro dittatura mondiale.
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Mai sprecare una bella crisi: ecco cos’hanno in mente
“Draghi vuole un Nuovo Ordine Mondiale che i populisti ameranno odiare”: così “Bloomberg” all’indomani del Brexit. «Mai sprecare una bella crisi, e il Brexit lo è», scrive Maurizio Blondet: «I globalizzatori sono dunque all’attacco: mentre gli europeisti (che sembrano essere la cosca perdente) cercano di cavalcare la crisi per instaurare “più Europa”, Draghi e complici puntano al Nuovo Ordine Mondiale. Ciò sarà venduto al pubblico come “necessario coordinamento fra le banche centrali”, in seguito ad un collasso finanziario globale che è stato già (deliberatamente?) innescato». Per “Bloomberg”, oggi le banche centrali sono ancora «governate da leggi concepite in patria, che richiedono loro di perseguire certi scopi, a volte espliciti, in genere legati all’inflazione e alla disoccupazione». Per di più, «devono rispondere ai legislatori nazionali, eletti». Il che è un guaio per i banchieri globali, commenta Blondet sul suo blog. Ecco perché, ora, «gli obbiettivi a breve termine dovrebbero essere sostituiti dagli obbiettivi globali». E cioè: più recessione e più disoccupazione. «La crisi ci farà cadere dalla padella dell’euro alla brace della moneta globale governata contro gli interessi dei popoli».Brandon Smith, economista e blogger, sostiene che il Brexit sia stato un evento artificiale, per preparare deliberatamente il prossimo collasso, che indurrà tutti – media e i governi – a «implorare il governo unico mondiale». Idea non peregrina, continua Blondet: come se l’uscita del Regno Unito dalla Ue sia stata voluta da Buckingham Palace «per posizionare la City come centrale globale di negoziazione dello yuan». La valuta cinese, infatti, «farà parte del paniere di monete che costituirà la moneta globale digitale, una volta tramontato il dollaro». Pechino s’è affrettata ad esprimere il proposito di collaborare, con la sua Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), con la Banca Mondiale? E’ la prova, per Smith, che «i cinesi non hanno mai avuto l’intenzione di fare di fare della Aiib un contro-Fmi», dato che «i cinesi lavorano con i globalizzatori, non contro di essi». Sta cambiando tutto. Anche per questo, oggi, Tony Blair viene scaricato come criminale di guerra 12 anni dopo l’Iraq. «Allo stesso modo, l’Unione Europea viene abbandonata come un guscio vuoto». Persino Schaeuble dice: se alcuni Stati membri vogliono perseguire le loro politiche al di fuori delle istituzioni europee, che lo facciano pure. «Una Ue ridotta ad accordi fra governi, adesso gli va benissimo».«Se il progetto è quello indicato da Bloomberg – salto nella globalizzazione totalitaria – si capisce anche l’imprevista pugnalata di Draghi al Montepaschi, a cui ha richiesto, ordinato, di liberarsi di 10 miliardi di crediti inesigibili: certo con ciò ha precipitato il fallimento della banca (del Pd), e magari il collasso del sistema bancario italiano, il più fragile, e non può non averlo fatto apposta», scrive Blondet. «Con ciò ha decretato anche la disfatta di Matteo Renzi. Deliberatamente ha pugnalato alla schiena il giovine rottamatore, come già fece con il vecchio Berlusconi». Come Blair, Juncker e Schulz, «simili personaggi non servono più», se l’Ue si sbriciola in favore della globalizzazione definitiva. «Anche Matteo Renzi sarà dato in pasto alle folle inferocite, e ai suoi sicari di partito», con un’Italia precipitata «nel collasso del suo sistema bancario senza un governo funzionante, e magari – il che è lo stesso – con un governo grillino eletto a furor di popolo». “Mai sprecare una bella crisi”. Meglio aggravarla, piuttosto che alleviarla – così sospetta Brandon Smith. «Non a caso Soros continua a dire che sta per arrivare la catastrofe. Non a caso il Fondo Monetario e la Banca dei Regolamenti Internazionali hanno “lanciato l’allarme” prevedendo un crash colossale nel 2016». Previsioni di crisi difficilmente sballate, «perché sono loro che pongono le condizioni perché esplodano».“Draghi vuole un Nuovo Ordine Mondiale che i populisti ameranno odiare”: così “Bloomberg” all’indomani del Brexit. «Mai sprecare una bella crisi, e il Brexit lo è», scrive Maurizio Blondet: «I globalizzatori sono dunque all’attacco: mentre gli europeisti (che sembrano essere la cosca perdente) cercano di cavalcare la crisi per instaurare “più Europa”, Draghi e complici puntano al Nuovo Ordine Mondiale. Ciò sarà venduto al pubblico come “necessario coordinamento fra le banche centrali”, in seguito ad un collasso finanziario globale che è stato già (deliberatamente?) innescato». Per “Bloomberg”, oggi le banche centrali sono ancora «governate da leggi concepite in patria, che richiedono loro di perseguire certi scopi, a volte espliciti, in genere legati all’inflazione e alla disoccupazione». Per di più, «devono rispondere ai legislatori nazionali, eletti». Il che è un guaio per i banchieri globali, commenta Blondet sul suo blog. Ecco perché, ora, «gli obbiettivi a breve termine dovrebbero essere sostituiti dagli obbiettivi globali». E cioè: più recessione e più disoccupazione. «La crisi ci farà cadere dalla padella dell’euro alla brace della moneta globale governata contro gli interessi dei popoli».
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Ceronetti: delusione Obama, utile idiota degli Illuminati?
Su “Repubblica” del 23 aprile scorso era riportato, da “Le Monde”, un articolo, firmato da Elisa Mignot, sulla manipolazione mentale dei giovani (liceali dei sobborghi, la Rete come oracolo, un po’ di Dan Brown), mediante influenze indotte subliminalmente, attraverso cui un complotto di occultisti col nome tradizionale di Illuminati manifesterebbe le proprie mire di dominio mondiale. Posso osservare che, in ogni punto, la Rete non è innocua. L’ago magnetico è fisso sulla stella del Male, per quanto il bene più rassicurante possa fluirne a vagonate; resta infallibile la parola di McLuhan: «Il mezzo è il messaggio». E la manipolazione per squilibrare la mente e ridurre all’impotenza la ragione è in atto dappertutto, anche nel più banale buonsensismo di Pensiero Unico-spray. Illuminati autentici non pensano a dominare il mondo, ma a redimerlo, e per quanto gli è concesso a salvarlo. Uno dei più comuni esempi di manipolazione falsificatrice è il linguaggio delle cifre, la pseudoscienza statistica. Diffidate di tutto, ragazzi. Credete a Vincent Van Gogh, illuminato vero, dunque disperato.Messaggi criptici e subliminali non mancano nel repertorio Beatles. Che vorrà dire il cadenzato Sottomarino Giallo in cui «tutti viviamo »? Quei tutti sono i consumatori di Lsd in quegli anni? Nel celebre “White Album” c’è poesia pura accompagnata da incitamenti sottopelle al crimine e alla distruzione. Impressionanti in specie sono “Revolution Nine” e “Helter Skelter”, adottato dalla banda assassina di Charles Manson in vista delle sue stragi rituali del 1969, e quella bomba ritmica nessuno ha pensato a disinnescarla. In sottofondo, “Helter Skelter”, nelle successive stragi americane e del Nordeuropa, a chi ha orecchie che intendono, è udibile. Il meglio e il peggio della storia è lavoro di società segrete, e mi direi contento se potessi avere certezza che si tratti di emanazioni volontarie di un potere oscuro aldifuori di questo mondo, o da decreti immutabili. “Mi torco nel non-capisco” con un certo sollievo. Non immune da vizi gnostici, parlavo spesso, per spiegarmi gli enigmi più crudeli del mio secolo, di “attacco alla specie”. La formula mi pare tuttora validissima, però inadatta agli orbi, amanti della facilità razionale.Illuminismo non è tanto una filosofia laicista quanto una via tracciata da Illuminati, che negli anni della rivoluzione americana punta al rovesciamento della più solida monarchia continentale in Europa. E sarà il momento unico, in Francia, che nel suo meraviglioso libro “Penser la Révolution française” (1978) lo storico concettualista François Furet definisce perfettamente: «L’aprirsi di una società a tutti i suoi possibili». Ma il rovescio religioso di questa definizione è: messianico. L’éra messianica, l’annuncio di una totale palingenesi, contenuti nell’illuminismo degli illuminati dei secoli moderni sta tra l’estate 1789 e la fine della monarchia di diritto divino nel 1792, come esattamente prevista nelle quartine di Nostradamus trecento anni prima. Bisognava vivere in quegli anni: saremmo stati infinitamente più vivi, anche abitando lontano da Parigi.Tuttora l’illuminatismo maligno si caratterizza nel visibile per un segno inequivocabile: l’antisemitismo (Dieudonné, l’idolo di giovani alfabetizzati esclusivamente dalla Rete; la Golden Dawn ellenica, che non casualmente porta lo stesso nome della società occultista di cui fece parte Aleister Crowley, la Bestia 666). Il volo di Rudolf Hess nell’Inghilterra in guerra e sotto attacco aereo non è tanto misterioso: era stato pianificato con Hitler, che simulò collera e sdegno, per agganciare le sette segrete collegate alla Thule Gesellaschaft, fondata in Baviera nel 1918, madre ideologica del partito nazionalsocialista, fino alla celebre coppia antisemita e pro nazista dei duchi di Windsor, che di amici della stessa risma dovevano averne a iosa. Di cripto-antisemiti, per opportunità politica, siano o no affiliati a una setta, non manchiamo neppure nell’Italia di oggi. Diciamo che non poche forme di persuasione attossicata confluiscono nei messaggi, aperti o subliminali, della Rete.Sono perplesso di fronte a un presidente alonato d’ombra come Barack Obama. Un generale sogno ne avvolse gli inizi: non ne resta nulla; l’America, come necessità di presenza nel mondo, appare nei due mandati di Obama più in ritirata che nella stoica partenza dell’ambasciatore da Saigon. Brutto segno: non ne vengono che notizie di buona salute economica, sufficienti ad appagare gli stolti. Ma il nerbo, il Danda, dov’è? E ne viene la domanda: lasciando di fatto indebolirsi la presenza americana, che cos’altro ha in mente, di più importante, o più alto, o più pericoloso, il presidente Obama? Forse, un poco rassicurante Ordine Mondiale, controllato da Illuminati tenebrosetti che lo considerano uno dei loro, ma utile idiota nello stesso tempo?Qui non posso che rimandare qualche incuriosito al libro-inchiesta della giornalista Enrica Perucchietti, “L’altra faccia di Obama” (Uno Editori, 2011) visto come partecipe attivo dei piani di controllo totale della Cia (sono recenti le proteste europee e le scuse del mandante) e Illuminato di loggia potente in subordine. Saranno Illuminati di questo tipo quelli di cui si sentono e temono vittorie gli studenti francesi? Ma allora non sarebbero Loro i dominatori occulti di tutto quanto circola attraverso la Rete? Questo mi pare credibile. Il futuro ci dirà di più, se avrà voglia di scivolare fuori per un poco dall’eccesso di menzogne che sta soffocando tutto. Per Illuminati buoni, anche modesti, reclutamento aperto.(Guido Ceronetti, “Illuminati di tutta la Rete unitevi”, da “La Repubblica” del 30 aprile 2014).Su “Repubblica” del 23 aprile scorso era riportato, da “Le Monde”, un articolo, firmato da Elisa Mignot, sulla manipolazione mentale dei giovani (liceali dei sobborghi, la Rete come oracolo, un po’ di Dan Brown), mediante influenze indotte subliminalmente, attraverso cui un complotto di occultisti col nome tradizionale di Illuminati manifesterebbe le proprie mire di dominio mondiale. Posso osservare che, in ogni punto, la Rete non è innocua. L’ago magnetico è fisso sulla stella del Male, per quanto il bene più rassicurante possa fluirne a vagonate; resta infallibile la parola di McLuhan: «Il mezzo è il messaggio». E la manipolazione per squilibrare la mente e ridurre all’impotenza la ragione è in atto dappertutto, anche nel più banale buonsensismo di Pensiero Unico-spray. Illuminati autentici non pensano a dominare il mondo, ma a redimerlo, e per quanto gli è concesso a salvarlo. Uno dei più comuni esempi di manipolazione falsificatrice è il linguaggio delle cifre, la pseudoscienza statistica. Diffidate di tutto, ragazzi. Credete a Vincent Van Gogh, illuminato vero, dunque disperato.
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False flag: usano terroristi per ucciderci sotto falsa bandiera
Da sempre il potere proclama dei valori, attraverso i quali si legittima, ma li nega con una parte delle sue azioni, con le quali si rafforza. È una questione che si ripropone nel corso del tempo. Niccolò Machiavelli affermava del Principe che «è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua». Parlava di un potere che all’occorrenza non esitava a mostrare senza maschera la sua faccia più crudele, e guai ai vinti. Nella variante moderna il potere vuol farsi amare dal popolo promettendo la democrazia, ossia il potere del popolo, ma usa ugualmente la paura come strumento di governo, solo che ha bisogno di attribuire ad altri l’intento di causarla, attraverso atti spesso eclatanti. Ecco dunque le “false flag”, aggressioni ricevute sotto falsa bandiera, attentati terroristici da addossare a nemici veri o inventati, contro i quali scatenare l’isteria dei propri media, che a sua volta trascina interi popoli. Le false flag aiutano il nucleo più interno del potere a conquistare sufficiente consenso per imporre la disciplina dettata dalla paura. Gli diventa più facile restringere le libertà, neutralizzare e disperdere il dissenso, pur esibendo ancora agli occhi dei popoli i simulacri delle vecchie costituzioni.Come diceva il maiale Napoleone nella “Fattoria degli animali” di Orwell: «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri». E oggi i governanti sembrano dirci: «Tutte le libertà sono in vigore, ma alcune sono meno vigenti delle altre». Il prezzo da pagare può essere altissimo. Il preavviso passa attraverso i secoli e ci viene da uno dei padri costituenti degli Stati Uniti d’America, Benjamin Franklin: «Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza non merita né la libertà né la sicurezza». Il libro che avete in mano ricostruisce una serie impressionante di vicende diverse, attribuibili a differenti Stati e legate a circostanze storiche non sempre connesse direttamente fra di loro, ma accomunate da un metodo che sembra essere uno strumento essenziale della moderna “arte di governo”. Enrica Perucchietti entra in dettaglio sui misteri e le scoperte che rivelano da un’altra prospettiva decine di incidenti militari, attentati, azioni terroristiche: di fronte a tanti gialli politici per i quali i governi forniscono su due piedi spiegazioni piatte, sprovviste di profondità, riduttive, banali, riferite a killer solitari e a gruppi isolati che non godrebbero di indecenti connivenze dentro gli apparati dello Stato fra chi potrebbe bloccarli, l’autrice del saggio fa invece affiorare indizi, prove, collegamenti clamorosi, fino a raccontare le storie che la censura di tipo moderno aveva eclissato in mezzo alla sua immensa produzione di notizie inutili.Perciò viene citato regolarmente il saggista statunitense Webster Tarpley, che ha coniato un concetto efficacissimo per descrivere questo sistema, ossia «terrorismo sintetico», che altro non è che «il mezzo con cui le oligarchie scatenano contro i popoli guerre segrete, che sarebbe impossibile fare apertamente. L’oligarchia, a sua volta, ha sempre lo stesso programma politico […] Il programma dell’oligarchia è di perpetuare l’oligarchia». In tante pagine il vostro sguardo potrà posarsi su un secolo intero di vicende storiche innescate o favorite dalle flase flag, fino a notare come queste diventino sempre più numerose. Episodi più lontani nel tempo, come l’affondamento del Lusitania, l’incendio del Reichstag, l’incidente del Tonchino, diventano – decennio dopo decennio – una prassi rodata e frequente, che si moltiplica nel corso degli ultimi 15 anni. E cosa ha inaugurato quest’ultimo periodo? Esattamente la più spettacolare e visionaria delle false flag, lo scenario apocalittico dell’11 settembre 2001. Quel che è venuto dopo – ossia la “guerra infinita”, la “guerra al terrorismo”, lo spionaggio totalitario coperto dal Patriot Act e altre leggi liberticide – una volta illuminato dalla luce terribile dell’11/9, si è avvalso di una sorta di “terapia di mantenimento” a base di attentati piccoli e grandi, perpetrati da gruppi di terroristi presso i quali sono sempre riconoscibili l’ombra e l’impronta dei servizi segreti.I servizi segreti sono il grande convitato di pietra, sempre più ingombrante eppure ancora sottovalutato nelle analisi politiche, storiche e giornalistiche. Anche se gli apparati di intelligence sono formalmente subordinati al potere politico ed esecutivo, hanno risorse enormi in grado di sfuggire ai deboli criteri di trasparenza che possono mettere in campo le eventuali commissioni parlamentari di controllo. Pertanto sono capaci di costruire reti di interessi che in tutta autonomia possono condizionare sia l’agenda politica sia l’agenda dei media. Settori interi di questi servizi giocano partite autosufficienti grazie a budget incontrollabili ed enormi, in grado di mettere in campo forze pervasive. All’interno di quello che certi politologi definiscono “lo Stato profondo” esistono settori ombra del governo, dotati di proprie catene di comando presso le forze armate, di budget non rendicontabili che uniscono risorse pubbliche e autofinanziamento in simbiosi con le attività criminali delle mafie, provvisti di idee proprie in merito al modo di intendere l’interesse nazionale, portati a costruire ogni tipo di rapporto con gruppi terroristici che poi manovrano con “leve lunghe” e irriconoscibili.Le attività sono organizzate e adempiute mascherando ogni responsabilità riconducibile ai governi, tanto che immense risorse sono spese per depistare e neutralizzare le eventuali scoperte con il noto principio della «plausible deniability», ossia la smentita plausibile. Ove rimanesse ancora una notizia impossibile da smentire, la si potrà disinnescare grazie all’immenso arbitrio in mano ai dirigenti dei media più importanti, che hanno mille intrecci con il mondo dei servizi. Il giornalista tedesco Udo Ulfkotte, che ha a lungo lavorato per la “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, uno dei principali quotidiani tedeschi, ha scritto un saggio bestseller, “Gekaufte Journalisten” (giornalisti venduti), in cui rivela che per molti anni la Cia lo aveva pagato per manipolare le notizie, e che questa è la consuetudine ancora attuale nei media germanici. Tutto fa pensare che la consuetudine sia identica anche altrove. Di certo non leggerete su “La Repubblica” una recensione sul libro di Ulfkotte, mentre leggerete le geremiadi dei suoi editorialisti su dove andremo a finire con questi complottisti, signora mia…Come spiegarsi altrimenti il silenzio che circonda certe notizie, che vengono pur date per salvarsi la coscienza, ma non hanno un prosieguo, una campagna di inchieste, nessun impegno? Eppure perfino Human Rights Watch (Hrw) ha denunciato: «L’agenzia Fbi pagava dei musulmani per compiere attentati». Secondo un’indagine su 27 processi e 215 interviste, l’agenzia di intelligence interna americana «ha creato dei terroristi sollecitando i loro obiettivi ad agire e compiere atti di terrorismo». Notare bene: “creato dei terroristi”. In che modo? «In molti casi il governo, usando i suoi informatori, ha sviluppato falsi complotti terroristici, persuadendo e in alcuni casi facendo pressione su individui, per farli partecipare e fornire risorse per attentati», scrive Hrw. Per l’organizzazione, metà dei casi esaminati fa parte di operazioni portate avanti con l’inganno e nel 30% dei casi un agente sotto copertura ha giocato un ruolo attivo nel complotto. «Agli americani è stato detto che il loro governo veglia sulla loro sicurezza prevenendo e perseguendo il terrorismo all’interno degli Stati Uniti», ha detto Andrea Prasow, vice direttore di Hrw a Washington. «Ma se si osserva da vicino si scopre che molte di queste persone non avrebbero mai commesso crimini se non fossero state incoraggiate da agenti federali, a volte anche pagate». La notizia, se non la vogliamo ignorare, è semplice e terribile: gran parte degli attentati terroristici sul suolo Usa sono indotti dalla stessa organizzazione che li dovrebbe combattere, cioè l’Fbi.Gli organi di informazione che hanno lasciato appesa al nulla questa notizia impressionante, sono gli stessi che per anni – ad ogni attentato avvenuto o sventato – avevano ripetuto i comunicati dell’Fbi senza chiedere spiegazioni. Queste veline diventavano titoli urlati in prima pagina, notizie di apertura dei telegiornali. Quando la verità emerge, spesso molti anni dopo, non gode certo degli stessi spazi, rimanendo confinata in qualche insignificante pagina interna, in taglio basso. Chi aveva voluto raggiungere un certo effetto con i titoli cubitali, lo aveva già ottenuto. Resta viceversa la prima impressione dell’allarme, quando l’annuncio strillato e falso si deposita nella coscienza di lettori e spettatori. Ed è per responsabilità di questa informazione – che si è curata solo di aizzare (quando gli è stato comandato), o di “sopire e troncare” (quando era comodo) – che ogni giorno ci è stato depredato un pezzo di libertà, di sovranità, e infine imposto lo spionaggio totalitario della Nsa, l’agenzia che perfino di ciascun lettore di questo libro, in nome della sicurezza, possiede tutte le tracce delle sue comunicazioni, tutte le e-mail, i suoi orientamenti, i segreti personali. Ed è naturalmente in grado di ricattare ogni politico-maggiordomo occidentale, esposto al tempismo di qualche scandalo che lo potrebbe colpire e affondare se dovesse ribellarsi ai padroni dei segreti.Enrica Perucchietti ricompone un vasto mosaico di “false flag” che nell’insieme disegnano un allarme sicurezza permanente che ha fatto da base giuridica e premessa politica delle guerre di aggressione intraprese dal 2001 in poi, nonché delle leggi che hanno consentito lo spionaggio di massa indiscriminato oltre ad aver reintrodotto gli arresti extralegali assieme alla tortura. In questo quadro emerge chiaramente che il terrorismo sintetico è un’interminabile catena di azioni in cui gli attori hanno sempre il fiato sul collo dell’intelligence, che li manipola per i propri fini. Quel che nel senso comune si chiama terrorismo è in prevalenza una forma di manipolazione di massa, coperta da entità statali e usata con l’accordo dei pochi proprietari della quasi totalità dei media mainstream, i quali sono adibiti a organizzare a comando gli isterismi collettivi e a rinfrescare la paura, ricordando certe vittime innocenti e dimenticandone altre.Nel saggio si sottolinea ad esempio come ci sia una notevole compartecipazione tra servizi segreti e gruppi islamisti, compresa l’Isis/Daesh. Enrica Perucchietti pone la domanda che nella maggior parte dei nostri media è tabù: «Spuntando dal nulla nel giro di pochi mesi, l’Isis si è assicurata un gran numero di risorse, armi, attrezzature multimediali high-tech e specialisti in propaganda. Da dove provengono i soldi e le tecniche di guerriglia?». L’Isis, cioè lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Siria), è uno stato-non-stato che nel costituire per definizione un’entità terrorista si prende il “diritto” di non attenersi ad alcuna legalità, come se fossero i corsari dei giorni nostri. Nell’epoca dei paradossi, gli Usa – con buone ragioni – definiscono l’Isis e altre organizzazioni della galassia jihadista come “organizzazioni terroriste”; ma quando sentiamo vecchi astri della politica imperiale statunitense come Zbigniew Brzezinski e John McCain definire i jihadisti come «i nostri asset», sembra quasi che definirli terroristi implichi proprio il diritto-dovere di essere terroristi. Catalogarli così somiglia quasi a una “lettera di corsa” da parte della superpotenza nordamericana, simile a quelle autorizzazioni con cui le potenze di un tempo abilitavano i corsari ad attaccare e razziare navi di altre potenze.Mentre i soldati “normali” sarebbero in una certa misura esposti al dovere di rispettare le Convenzioni di Ginevra e altri elementi del diritto internazionale, i terroristi/corsari, viceversa, costituiscono una legione che infrange questi limiti nascondendo la catena delle responsabilità. Quelli dell’Isis condividono valori oscurantisti e l’uso delle decapitazioni con la dinastia saudita che li appoggia e foraggia. Ma siccome l’Arabia Saudita è «un’Isis che ce l’ha fatta», come dice il “New York Times”: il ruolo della canaglia rimane comodamente attaccato solo alla manovalanza di assassini che si rifà al jihadismo, senza estendersi ai mandanti occulti. Ma poi è arrivato l’intervento in Siria dell’aeronautica russa. Gli aerei di Mosca hanno distrutto quasi tutte le migliaia di autobotti con cui il petrolio razziato dai nuovi corsari veniva smerciato in un paese Nato, la Turchia, proprio con il consenso di Ankara (altro grande sponsor dell’Isis). La mossa strategica di Mosca ha perciò aperto una nuova fase che spinge molti paesi a porsi un semplice problema: che rapporto devo avere adesso con la Russia di Vladimir Putin, ora che i miei alibi sono stati bruciati? Non è un caso che dopo l’intervento russo gli attentati jihadisti, con tutto il loro tipico fumo di false flag, si stiano intensificando drammaticamente, aumentando la pressione e il ricatto sui sistemi politici di mezzo mondo e mostrandosi come una presenza ormai permanente della scacchiera internazionale. Una scacchiera che possono demolire.Sarebbe il momento giusto per fare chiarezza, ma le istituzioni si chiudono a riccio, come nel caso dell’inchiesta sulla strage di Charlie Hebdo: mentre emergevano particolari inquietanti su quell’attentato e i suoi torbidi contorni, il ministro degli interni francese, Cazeneuve, ha deciso che l’inchiesta doveva essere subito insabbiata. Perché? “Segreto militare”. Il che implica – come il lettore vedrà poi in dettaglio in questo saggio – che l’evento terroristico, ancora una volta, andava oltre l’attentato “islamico”, perché erano coinvolti organi di Stato che agivano da complici, se non da pianificatori dell’atto, corresponsabili quindi di un delitto che sacrificava propri cittadini. Le nuove norme eccezionali approvate in Francia si presentano come l’annuncio di una tendenza generale, e già ci sono le avvisaglie del fatto che queste norme saranno usate per restringere le libertà e i diritti, ad esempio di lavoratori o cittadini che manifestino per rivendicare migliori condizioni di vita.Gran parte degli intellettuali – freschi reduci di un’indigestione retorica di “Je suis Charlie” – non leva una sola voce contro le restrizioni della libertà, nemmeno quando toccano in modo massiccio un paese Nato come la Turchia, che ha praticamente schiacciato un’intera generazione di giornalisti che osavano indagare sulle complicità del governo con il terrorismo. Per colmo, accusandoli di terrorismo. Occorre un risveglio intellettuale e morale che accompagni un rinnovamento politico, occorre spostare il pendolo del potere dalle istituzioni modellate dall’«eccezione» e dalla paura verso le istituzioni ispirate alla sovranità popolare e alla corretta informazione. Smascherare il sistema fondato sulle false flag non è una condizione sufficiente per questo risveglio (che ha bisogno anche di coraggio e partecipazione di massa). Ma rivelare ai molti cittadini obnubilati dalla bolla mediatica dominante la verità sugli inganni che hanno subito è una condizione necessaria per difendere e ampliare le proprie libertà. Questo è un buon punto di partenza.(Pino Cabras, prefazione al libro “False flag. Sotto falsa bandiera”, di Enrica Perucchietti, pubblicata sul blog di Cabras. Il libro: Enrica Perucchietti, “False flag. Sotto falsa bandiera”, Arianna Editrice, 256 pagine, euro 12,50).Da sempre il potere proclama dei valori, attraverso i quali si legittima, ma li nega con una parte delle sue azioni, con le quali si rafforza. È una questione che si ripropone nel corso del tempo. Niccolò Machiavelli affermava del Principe che «è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua». Parlava di un potere che all’occorrenza non esitava a mostrare senza maschera la sua faccia più crudele, e guai ai vinti. Nella variante moderna il potere vuol farsi amare dal popolo promettendo la democrazia, ossia il potere del popolo, ma usa ugualmente la paura come strumento di governo, solo che ha bisogno di attribuire ad altri l’intento di causarla, attraverso atti spesso eclatanti. Ecco dunque le “false flag”, aggressioni ricevute sotto falsa bandiera, attentati terroristici da addossare a nemici veri o inventati, contro i quali scatenare l’isteria dei propri media, che a sua volta trascina interi popoli. Le false flag aiutano il nucleo più interno del potere a conquistare sufficiente consenso per imporre la disciplina dettata dalla paura. Gli diventa più facile restringere le libertà, neutralizzare e disperdere il dissenso, pur esibendo ancora agli occhi dei popoli i simulacri delle vecchie costituzioni.
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Evans-Pritchard a Renzi: via dall’euro, se vuoi salvare l’Italia
«L’Italia deve scegliere tra l’euro e la sua sopravvivenza economica». Lo scrive sul “Telegraph” il noto editorialista finanziario Ambrose Evans-Pritchard. «Il tempo stringe per l’Italia, bloccata in una deflazione da debiti e alle prese con una crisi bancaria che non può affrontare con i vincoli dell’unione monetaria. Dal picco della crisi – prosegue Evans-Pritchard – come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, il prodotto interno lordo si è ridotto del 9% e la produzione industriale del 25%. Ogni anno la percentuale del debito rispetto al Pil sale: 121% nel 2011, 123 nel 2012, 129 nel 2013, 132,7 nel 2015. Lo stimolo della Banca Centrale Europea svanirà prima che l’Italia riuscirà a uscire dalla stagnazione e il Fondo Monetario Internazionale, infatti, prevede una crescita di appena l’1% quest’anno. La finestra globale si sta chiudendo». Per il giornalista, «c’e’ il rischio concreto che Matteo Renzi arrivi alla conclusione che l’unico modo per restare al potere sia presentarsi alle prossime elezioni con una piattaforma apertamente anti-euro». Attenzione: un recente sondaggio di Ipsos Mori rivela che il 48% degli italiani voterebbe contro l’Ue o contro l’euro, se ne avesse l’opportunità.Il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, cui è attribuito un consenso del 28%, «invoca il default e il ritorno alla lira», scrive Pritchard, in un articolo ripreso da “L’Antidiplomatico”. In più, «la Lega Nord di Matteo Salvini considera l’euro un crimine contro l’umanità». Stando ai fatti: il tasso di disoccupazione è all’11,4%, mentre quello della disoccupazione giovanile raggiunge il 65% in Calabria, il 56% in Sicilia, il 53% in Campania. «Il tasso di natalità è al minimo storico. L’istituto di ricerca Svimez parla di uno stato permanente di sottosviluppo nel Mezzogiorno». Negli anni Novanta, continua Evans-Pritchard, l’Italia registrava un ampio avanzo negli scambi commerciali con la Germania, prima che fossero fissati i tassi di cambio e quando si poteva ancora svalutare. «In quindici anni l’Italia ha perso rispetto alla Germania il 30% di competitività sul costo di lavoro per unità di prodotto: dal 2000 la produttività è diminuita del 5,9%». I vari governi che si sono succeduti sono ovviamente «criticabili». Ma, per il giornalista, «la questione più rilevante è che oggi il paese non riesce a uscire dalla trappola».«A questa miscela combustibile – prosegue Evans-Pritchard – si aggiunge la crisi bancaria, che rivela la disfunzionalità dell’unione monetaria e peggiora di giorno in giorno: prestiti “non performanti” per 360 miliardi di euro gravano sui bilanci delle banche. La vigilanza esercitata dalla Bce ha peggiorato le cose e il Fondo Atlante potrebbe attirare sempre più banche nel pantano, aumentando il rischio sistemico». L’Italia? «E’ nel peggiore dei mondi possibili: a causa delle regole dell’Ue, non può prendere iniziative in piena sovranità per stabilizzare il sistema bancario e non esiste ancora un’unione bancaria degna di questo nome che condivida gli oneri». Per l’editorialista britannico, «Renzi ha di fronte una dura scelta: o dice alle autorità europee di andare all’inferno o resta a guardare impotente che il sistema bancario imploda e il paese precipiti nell’insolvenza». E visto che l’Italia non è la Grecia, «non può accettare la sottomissione». Tant’è vero che «tra i poteri forti dell’industria italiana qualcuno ormai sussurra che l’uscita dall’euro potrebbe non essere così terribile». Anzi: «Sarebbe l’unico modo per evitare una catastrofica deindustrializzazione».«L’Italia deve scegliere tra l’euro e la sua sopravvivenza economica». Lo scrive sul “Telegraph” il noto editorialista finanziario Ambrose Evans-Pritchard. «Il tempo stringe per l’Italia, bloccata in una deflazione da debiti e alle prese con una crisi bancaria che non può affrontare con i vincoli dell’unione monetaria. Dal picco della crisi – prosegue Evans-Pritchard – come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, il prodotto interno lordo si è ridotto del 9% e la produzione industriale del 25%. Ogni anno la percentuale del debito rispetto al Pil sale: 121% nel 2011, 123 nel 2012, 129 nel 2013, 132,7 nel 2015. Lo stimolo della Banca Centrale Europea svanirà prima che l’Italia riuscirà a uscire dalla stagnazione e il Fondo Monetario Internazionale, infatti, prevede una crescita di appena l’1% quest’anno. La finestra globale si sta chiudendo». Per il giornalista, «c’e’ il rischio concreto che Matteo Renzi arrivi alla conclusione che l’unico modo per restare al potere sia presentarsi alle prossime elezioni con una piattaforma apertamente anti-euro». Attenzione: un recente sondaggio di Ipsos Mori rivela che il 48% degli italiani voterebbe contro l’Ue o contro l’euro, se ne avesse l’opportunità.
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Uccido bambini e progetto attentati, nel nome di Ishmael
L’omicidio rituale di un bambino precede sempre l’ammazzamento eccellente: lo anticipa, come un oscuro presagio. Prima, c’è il ritrovamento del piccolo ucciso. Poche ore dopo, ecco l’attentato. E gli inquirenti onesti, quelli che intuiscono la verità, vengono depistati e poi, sabotati, rimossi, liquidati. «Bravo, vedo che ha capito come funziona, quel sistema». Parola di Francesco Cossiga. All’altro capo del telefono, lo sbigottito Giuseppe Genna, autentico talento letterario, autore del thriller politico “Nel nome di Ishmael”. Un libro sconvolgente. Uscì nel 2001, ma sembra scritto ieri, anzi oggi, in quest’Europa tramortita dal terrorismo opaco firmato Isis, dietro cui si nascondono “menti raffinatissime”, con propensione a “firmare” le loro stragi secondo precisi codici esoterici, come nel caso delle mattanze di Parigi e Bruxelles, ispirate alle date cruciali dell’epopea dei Templari, fondamentale nel pantheon massonico. Tutto questo, in un mondo dal quale spariscono misteriosamente, ogni anno, migliaia di bambini. Un abisso di orrore, che collega terrorismo e potere, servizi segreti e super-élite, logge e sètte, geopolitica e oscure pratiche, basate sul valore magico attribuito ai sacrifici umani, a partire da quelli dei bambini.L’infanticidio? Simboleggia morte e rinascita. Chi progetta un attentato, se ne “propizia” il successo alla vigilia, massacrando un neonato nel modo più atroce. E’ la legge di Ishmael, la piovra da incubo che il libro di Genna disvela, pagina dopo pagina. La trama è quella – potente, incalzante – del noir, giocato in modo perfetto sulla storia parallela di due poliziotti italiani, a quarant’anni di distanza l’uno dall’altro. Il primo è l’ispettore David Montorsi, che scopre un minuscolo cadavere in un campo da rubgy alla periferia di Milano poco prima che, nei cieli dell’Oltrepo Pavese, esploda in volo l’areo di Enrico Mattei, il patron dell’Eni: l’uomo che, da ex partigiano, aveva osato sfidare l’America, in piena guerra fredda. Il secondo è un altro detective della questura milanese, Guido Lopez, impegnato a proteggere l’anziano Kissinger al forum di Cernobbio, poco dopo aver scoperto – nello stesso campo da rugby – il cadavere di un altro minore, spaventosamente seviziato.Proprio tra i vip planetari convenuti per Cernobbio, Genna fotografa un’epoca: «Bush e Gorbaciov, gli eroi del disgelo. Quello che era successo da dieci anni dipendeva da loro. Muro di Berlino, crollo della Russia, riforma dell’economia mondiale. Erano stati loro. Dopo di loro sarebbe stato l’impero del male: l’impero di Ishmael». Il libro di Genna è stato scritto prima ancora del G8 di Genova e dell’11 Settembre, i due eventi-chiave che hanno aperto il baratro della crisi, con la “guerra infinita” in mezzo mondo, la catastrofe finanziaria e il manifestarsi dell’élite neo-feudale globalizzata che ha raso al suolo quarant’anni di diritti sociali, in Occidente. Tredici anni dopo il thriller “Ishmael”, nel monumentale saggio “Massoni”, Gioele Magaldi rivela che lo stesso Gorbaciov fu affiliato alla superloggia segreta “Golden Eurasia”, mentre Bush padre aveva fondato la “Hathor Pentalpha”, definita “loggia del sangue e della vendetta”, molto più estremista (e feroce) della storica “Three Eyes”, ispiratrice dell’ultra-destra economica anglosassone, per decenni dominata da uno dei personaggi centrali del libro di Genna, Henry Kissinger.I grandi globalizzatori? Anche spietati, certo. Ma non solo: attorno a loro, aggiunge Genna, c’è una nebulosa inquietante, profonda e buia, che caratterizza il Dna dei loro “mandanti” più reconditi, i veri “invisibili”, i super-potenti, quelli che restano al loro posto anche quando i loro politici sono tramontati. Il volto oscuro dell’élite: qualcosa di barbarico, anche. Una “chiesa” di dominatori sanguinari che – all’occorrenza – si procurano bambini da “sacrificare”. «Veramente profetico, Genna, per ammissione dello stesso Cossiga», racconta l’ex avvocato Paolo Franceschetti, indagatore dei peggiori misteri irrisolti della cronaca italiana, dal Mostro di Firenze alle Bestie di Satana fino alla strana uccisione del piccolo Samuele Lorenzi a Cogne. Un intreccio di poteri occulti, istituzioni infedeli e servizi deviati, attorno a cui fioriscono rituali magici e codici simbolici attorno a crimini che sembrano assurdi, senza un movente.E’ l’inferno che Genna chiama, semplicemente, “Ishmael”. Nel romanzo lo descrive come un vero e proprio cancro, inoculato dall’élite-ombra statunitense al tempo della sfida con l’Urss, scegliendo proprio l’Italia come fronte strategico da cui poi ingabbiare l’intera Europa. Per questo è così decisivo l’attentato a Mattei, fatto passare per incidente aereo. E sono pagine di altissima intensità quelle che Genna dedica al grande leader del riscatto italiano del dopoguerra. «Sappiamo di esserci, ma non ci siamo, a tutti gli effetti. L’Italia è questo qualcosa oltre il corpo e la mente, e la guerra che lui sta facendo è la costruzione di una salvezza», per proteggere il paese dal «regno arido, sormontato da potenze e da angeli oscuri», che è a tutti gli effetti l’America. «Bisogna salvare l’uomo, poiché l’uomo è pronto a divenire un americano e l’americano è pronto ad annullarsi. Annullata l’America, sarà annullata l’umanità. L’Italia, perciò, è l’idea della salvezza che è presente qui e sempre, ora, tra uomo e uomo, tra l’uomo e l’America».Contro questa salvezza combatte “Ishmael”, facendo esplodere l’aereo del ribelle italiano, il condottiero spericolato e sognatore. Ma poi, la piovra – che si insinua fin dentro le questure e la magistratura del Belpaese, sotto l’occhiuta regia di autentici mostri di cinismo come Kissinger – pian piano sfugge al controllo dei suoi stessi creatori fino a metterli in pericolo, verso l’instaurazione totalitaria del “tempo di Ishmael”, la nuova epoca – questa – in cui non ci sarà più alcuna certezza, cadranno leggi e autorità, tutto il pianeta sarà preda di un’oligarchia potentissima e invisibile, inafferrabile, sempre pronta – all’occorrenza – a usare il terrorismo e l’omicidio, spesso facendo precedere gli attentati da agghiaccianti ritrovamenti di bambini rapiti dai pedofili, quindi abusati e martoriati dai neo-satanisti dell’élite-fantasma.Una sequenza di morte, invariabilmente preceduta dal macabro rinvenimento della baby-vittima sacrificale. Nella “cronologia delle operazioni della rete Ishmael”, nell’appendice della fiction di Genna, trovano posto industriali, banchieri e tanti politici, uccisi o sfiorati dalla morte: il tedesco Adenauer e lo stesso De Gaulle, lo spagnolo Luis Carrero Blanco, e naturalmente Aldo Moro. Ci sono due Papi: Albino Luciani, morto, e Karol Wojtyla, ferito. E poi Roberto Calvi, Olof Palme, il craxiano Gabriele Cagliari. E ministri francesi, finanzieri di Stato tedeschi, la stessa Lady Diana. Cronometrico, nelle ore precedenti, il ritrovamento – non lontano – di un piccolo, a volte un neonato, ferocemente “sacrificato”. E’ la legge di Ishmael, scriveva Genna, quando ancora non era comparso un nome tanto simile, così ingannevolmente mediorientale: Isis.(Il libro: Giuseppe Genna, “Nel nome di Ishmael”, Mondadori, 486 pagine, euro 10,50).L’omicidio rituale di un bambino precede sempre l’ammazzamento eccellente: lo anticipa, come un oscuro presagio. Prima, c’è il ritrovamento del piccolo ucciso. Poche ore dopo, ecco l’attentato. E gli inquirenti onesti, quelli che intuiscono la verità, vengono depistati e poi sabotati, rimossi, liquidati. «Bravo, vedo che ha capito come funziona, quel sistema». Parola di Francesco Cossiga. All’altro capo del telefono, lo sbigottito Giuseppe Genna, autentico talento letterario, autore del thriller politico “Nel nome di Ishmael”. Un libro sconvolgente. Uscì nel 2001, ma sembra scritto ieri, anzi oggi, in quest’Europa tramortita dal terrorismo opaco firmato Isis, dietro cui si nascondono “menti raffinatissime”, con propensione a “firmare” le loro stragi secondo precisi codici esoterici, come nel caso delle mattanze di Parigi e Bruxelles, ispirate alle date cruciali dell’epopea dei Templari, fondamentale nel pantheon massonico. Tutto questo, in un mondo dal quale spariscono misteriosamente, ogni anno, migliaia di bambini. Un abisso di orrore, che collega terrorismo e potere, servizi segreti e super-élite, logge e sètte, geopolitica e oscure pratiche, basate sul valore magico attribuito ai sacrifici umani, a partire da quelli dei bambini.
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Chiesa: terrorismo neocon, Egitto e Francia devono piegarsi
«La Francia è stata punita in quanto il suo presidente, François Hollande, ha chiesto l’annullamento delle sanzioni alla Russia. Inoltre in questo momento l’obiettivo delle forze che vogliono destabilizzare il mondo è quello di mettere in ginocchio l’Egitto. Dopo avere distrutto Libia e Siria, adesso hanno preso di mira anche il Cairo. Quindi le due cose sono perfettamente coincidenti». Così Giulietto Chiesa commenta la scomparsa dell’Airbus della compagnia EgyptAir con a bordo 66 persone, inabissatosi tra l’isola greca di Karpathos e la costa egiziana dopo essere scomparso dai radar. Il volo, diretto al Cairo, era partito da Parigi. Fonti anonime della Casa Bianca affermano che la dinamica del disastro rivela che a bordo del velivolo è esplosa una bomba. «Non c’è il minimo dubbio sul fatto che sia stato un attentato», dice Chiesa, intervistato da Pietro Invernizzi del “Sussidiario”. «E’ una punizione inflitta contemporaneamente all’Egitto e alla Francia». Per cosa? «La Francia ha cercato di muoversi per conto suo e ne ha pagato il conto. In grande, si ripete quanto era avvenuto a Enrico Mattei. Siccome è più facile fermare un solo uomo come Mattei che non un intero paese come la Francia, si incomincia con l’abbatterne un aereo».Oggi le misure di sicurezza negli aeroporti sono molto rafforzate. Come è stato possibile aggirarle?«I servizi segreti sono in grado di aggirare queste misure. Un tempo li si definivano servizi deviati, mentre oggi sono i padroni della politica in alcuni paesi chiave. Questi apparati possono superare qualunque ostacolo. Avendo a disposizione sterminate quantità di denaro, possono infatti permettersi di comprare chiunque inclusi pezzi di servizi segreti di paesi terzi». Chi c’è dietro ai servizi deviati? «Per capire di chi sto parlando – continua Giulietto Chiesa – basta andare per esclusione togliendo Russia e Cina. Ci sono forze che vogliono annichilire la Francia ogni volta che l’Eliseo cerca di alzare la testa. Queste stesse forze hanno l’obiettivo di creare il caos in tutto il Medio Oriente, e nello stesso tempo vogliono la guerra con la Russia». Esiste «una coalizione della guerra, rappresentata dai neocon americani e da quanti sono collegati con loro», non necessariamente alle dipendenze di Washington. Di fatto, «i neocon hanno elaborato la strategia politica degli Stati Uniti negli ultimi 15 anni: è da lì che vengono l’ispirazione e i soldi che stanno dietro all’abbattimento dell’Airbus EgyptAir».Non è difficile finanziare questo terrorismo pilotato: «L’Arabia Saudita, che è una filiale della Cia, negli ultimi anni ha accumulato 10-12 trilioni di dollari. E’ quindi uno gioco da ragazzi trovare un miliardo di dollari per corrompere 500 agenti di polizia e servizi segreti in modo che mettano una bomba». Perché i servizi francesi non sono riusciti a sventare l’attentato? «Perché fino a ieri la Francia di Hollande è stata una pedina nelle mani degli Usa», sostiene Chiesa. «Il fatto che ora Parigi chieda la fine delle sanzioni alla Russia è visto da chi è al potere come una provocazione intollerabile. Il potere infatti non ammette degli alleati a metà». E il caso Regeni? E’ estraneo a questa vicenda dell’Airbus EgyptAir? «No, il caso Regeni fa parte di questa stessa strategia. L’uccisione del ricercatore italiano è stata montata ad arte per colpire tanto l’Egitto quanto l’Italia, che aveva avviato una politica di riguardo verso il Cairo. Si è creata quindi una trappola politica, nella quale sono caduti naturalmente la stragrande maggioranza dei commentatori italiani. Questi ultimi, invece di fare gli interessi dell’Italia, stanno facendo quelli di una cosca mafiosa e criminale che sta organizzando il terrorismo in tutto il mondo».Perché la politica di Al-Sisi dà fastidio? «Non si vuole colpire Al-Sisi ma l’Egitto in quanto tale. Quest’ultimo non va bene, in quanto è un paese relativamente stabile, e dunque bisogna distruggerlo». Per Giulietto Chiesa, «si stanno creando le condizioni per abbattere l’Egitto anche dal punto di vista economico: l’obiettivo è fare saltare Al-Sisi per mettere al suo posto i Fratelli Musulmani». Ricapitolando: perché i neocon vogliono creare il caos in Medio Oriente? «Perché gli Stati Uniti stanno precipitando a una velocità vertiginosa, e i neocon hanno capito che prima che ciò avvenga bisogna mettere tutto il mondo in uno stato di guerra. Se non si fa così l’America perderà il suo ruolo di dominio imperiale». Ma se i neocon sono così potenti, insiste Invernizzi, perché non riescono a vincere le elezioni Usa? «Come no, le vinceranno eccome». E con chi? «Se vince la Clinton i loro problemi sono già risolti, in quanto l’ex first lady ha le stesse identiche posizioni dei neocon. Hillary è una guerrafondaia fanatica e pericolosa. Dal momento che è una donna di scarsa intelligenza, come peraltro suo marito, mira al potere e di conseguenza si fa manovrare facilmente». Fantastico. E se vincesse Trump? «Se vince Trump lo rimetteranno al suo posto come hanno già fatto altre volte, per esempio con Kennedy».«La Francia è stata punita in quanto il suo presidente, François Hollande, ha chiesto l’annullamento delle sanzioni alla Russia. Inoltre in questo momento l’obiettivo delle forze che vogliono destabilizzare il mondo è quello di mettere in ginocchio l’Egitto. Dopo avere distrutto Libia e Siria, adesso hanno preso di mira anche il Cairo. Quindi le due cose sono perfettamente coincidenti». Così Giulietto Chiesa commenta la scomparsa dell’Airbus della compagnia EgyptAir con a bordo 66 persone, inabissatosi tra l’isola greca di Karpathos e la costa egiziana dopo essere scomparso dai radar. Il volo, diretto al Cairo, era partito da Parigi. Fonti anonime della Casa Bianca affermano che la dinamica del disastro rivela che a bordo del velivolo è esplosa una bomba. «Non c’è il minimo dubbio sul fatto che sia stato un attentato», dice Chiesa, intervistato da Pietro Invernizzi del “Sussidiario”. «E’ una punizione inflitta contemporaneamente all’Egitto e alla Francia». Per cosa? «La Francia ha cercato di muoversi per conto suo e ne ha pagato il conto. In grande, si ripete quanto era avvenuto a Enrico Mattei. Siccome è più facile fermare un solo uomo come Mattei che non un intero paese come la Francia, si incomincia con l’abbatterne un aereo».
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Gli italiani muoiono prima, nell’Italia di Renzi (e dell’euro)
«Dieci milioni di anni rubati a tutta la popolazione del nostro paese, è il più grande furto di vita dalla fine della guerra. Gli assassini sono tra noi: o li fermiamo o continueranno la loro opera», afferma Giorgio Cremaschi, sfogliando il report 2015 di “Osservasalute”, secondo cui – per la prima volta dal dopoguerra – la popolazione italiana subirà un calo nell’aspettativa di vita. Nel 2014 essa era di 80,3 mesi, l’anno dopo è scesa a 80,1 mesi. «Due mesi in meno a persona, che moltiplicati per i sessanta milioni di italiani fanno 120 milioni». Il calo dell’aspettativa di vita «è il più semplice e brutale segno del fallimento di un sistema», scrive Cremaschi su “Micromega”. «Se questo sistema ci fa morire prima vuol dire che sta andando contro gli interessi naturali di fondo della specie umana. Una specie che ha raggiunto con la scienza, la tecnica, le conoscenze economiche e sociali, gli strumenti per vivere di più, e che improvvisamente si trova di fronte all’inversione di un percorso di secoli». Secondo gli autori della ricerca, negli ultimi 15 anni abbiamo consumato tutti i progressi dei 40 anni precedenti. «Guarda caso abbiamo l’euro e le politiche che lo sostengono proprio da 15 anni».Quello dell’Italia ovviamente non è un caso isolato: quando è crollata l’Unione Sovietica e in quel paese si è abbattuto il saccheggio liberista, l’aspettativa di vita è crollata, e ancora oggi, nonostante anni di recupero, non ha ripreso i livelli perduti. Peggio ancora se uno si affaccia sulla catastrofe della Grecia. «Il furto di vita che stiamo subendo ha una sola semplice causa: le politiche liberiste di taglio dei servizi pubblici, a partire da quello sanitario, e di aumento della disoccupazione», sostiene Cremaschi. «Sono le politiche liberiste la causa criminale della riduzione della vita umana. Sono i patti di stabilità, le politiche di rigore, il pareggio di bilancio come obbligo costituzionale, sono quelle banalità sui costi dello stato sociale che ogni giorno entrano nelle nostre teste come verità naturali, sono tutte le normali e corrette regole di una oculata gestione economica secondo i dettati di Maastricht, che uccidono», a cominciare dai più poveri, «sempre più esposti a disagi e malattie, impossibilitati a pagarsi cure e soprattutto prevenzione dei mali».Quei 10 milioni di anni di vita “rubati”, continua l’ex dirigente Fiom, non saranno sottratti a tutti, ma solo alla parte più povera della società, «che si ammalerà di più e morirà prima: già oggi l’Istat non riesce a far quadrare i conti per alcune decine di migliaia di morti in più, che non sono spiegabili in alcun modo se non con un improvviso drammatico peggioramento delle condizioni di vita». I ricchi, naturalmente, resteranno al riparo: «Nel medioevo la vita media era 40 anni, ma i nobili vivevano quasi come noi oggi e per i servi della gleba 30 anni erano già tanti. Lì stiamo tornando. Questa è la diseguaglianza sociale quando diventa biologia». Di fronte a questa “strage da capitalismo”, secondo Cremaschi ci sono solo due vie: e la prima è quella che la nostra società sta già percorrendo, «cioè quella di abituarsi e adattarsi ad essa. È la banalizzazione del male che ci circonda, che produce assuefazione mentre alimenta improvvisi e sempre più frequenti scatti di ferocia».La seconda via? Cambiare completamente: «Buttare a mare tutte, ma proprio tutte, le politiche economiche di questi ultimi trenta anni, dichiarandole contrarie agli interessi vitali della specie umana». E quindi: «Rovesciare le classi dirigenti che le hanno amministrate e che se ne sono servite per il proprio potere e riaffermare l’eguaglianza sociale come primo bene comune». E ancora: «Spazzar via, con la stessa forza con cui si distrusse il culto della magia medioevale, le credenze, i tabù, le ciarlatanerie del pensiero unico liberista. Non bisogna più credere a nulla di ciò che viene presentato come vero dal potere, e cominciare a seguire solo ciò che oggi il potere condanna come irrealistico». E farlo senza esitazioni: «Non bisogna avere paura di chiamare rivoluzione tutto questo», perché i “killer” sono già tra noi, con le loro infami “riforme”.«Dieci milioni di anni rubati a tutta la popolazione del nostro paese, è il più grande furto di vita dalla fine della guerra. Gli assassini sono tra noi: o li fermiamo o continueranno la loro opera», afferma Giorgio Cremaschi, sfogliando il report 2015 di “Osservasalute”, secondo cui – per la prima volta dal dopoguerra – la popolazione italiana subirà un calo nell’aspettativa di vita. Nel 2014 essa era di 80,3 mesi, l’anno dopo è scesa a 80,1 mesi. «Due mesi in meno a persona, che moltiplicati per i sessanta milioni di italiani fanno 120 milioni». Il calo dell’aspettativa di vita «è il più semplice e brutale segno del fallimento di un sistema», scrive Cremaschi su “Micromega”. «Se questo sistema ci fa morire prima vuol dire che sta andando contro gli interessi naturali di fondo della specie umana. Una specie che ha raggiunto con la scienza, la tecnica, le conoscenze economiche e sociali, gli strumenti per vivere di più, e che improvvisamente si trova di fronte all’inversione di un percorso di secoli». Secondo gli autori della ricerca, negli ultimi 15 anni abbiamo consumato tutti i progressi dei 40 anni precedenti. «Guarda caso abbiamo l’euro e le politiche che lo sostengono proprio da 15 anni».
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Carpeoro: l’élite ricorre alle bombe perché adesso ha paura
Siamo in pericolo, e lo saremo sempre di più. Motivo: l’élite planetaria, quella che oggi ricorre anche al terrorismo stragista, sta cominciando ad avere paura. Teme, per la prima volta, di perdere il potere assoluto che ha esercitato, negli ultimi decenni, in modo incontrastato. A inquietare le super-oligarchie mondiali non è solo il progressivo risveglio democratico di una parte dell’opinione pubblica, sempre più scettica di fronte alla narrazione ufficiale degli eventi. Pesa, soprattutto, la clamorosa diserzione di una parte consistente di quello stesso vertice di potere, spaventato dalle rovinose conseguenze, su scala mondiale, della “dittatura” neoliberista, il cui obiettivo è chiaro: confiscarci ogni diritto e retrocedere tutti noi a livelli di sfruttamento da terzo mondo. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, acuto osservatore dei retroscena internazionali anche in virtù della sua lunga militanza nella massoneria indipendente. Già avvocato, eminente studioso della cultura simbolica esoterica, Carpeoro è oggi schierato con Gioele Magaldi nella denuncia degli abusi sempre più devastanti che costellano la deriva autoritaria della leadership globale. Qualcuno, lassù, ha cominciato a sfilarsi. E il massimo potere si è spaventato a morte, al punto da pianificare stragi, affidate alla manovalanza dell’Isis.Questa la sintesi della posizione di Carpeoro, espressa durante un lungo intervento alla trasmissione web-radio “Border Nights” del 29 marzo, condotta da Fabio Frabetti con la partecipazione di Paolo Franceschetti, indagatore di molti misteri irrisolti della cronaca italiana. Sul tappeto, l’analisi della situazione internazionale all’indomani dell’ultima ondata di attentati terroristici, da Bruxelles al Pakistan. «E’ evidente che il problema non è l’Isis, ma chi lo manovra», premette Carpeoro, che peraltro denuncia come “deliranti” le tante fantasie complottiste che inondano il web: «Assurdo perdere tempo a domandarsi se è autentico o meno il video di un attentato trasmesso in televisione: i morti sono reali, e nessuno si sforza di capire cosa c’è dietro all’organizzazione stragistica». Certo la colpa non è dell’Islam: «Per secoli, i musulmani hanno protetto ogni minoranza perseguitata, compresi gli ebrei». Siamo noi, colonialisti occidentali, che nell’ultimo scorcio storico abbiamo represso e depresso i popoli arabi, “coltivando” deliberatamente la disperazione di massa che oggi può produrre anche il fenomeno dei kamikaze. Ma bisogna sapere che si tratta di dinamiche accuratamente pilotate: non dal Califfo, ma da chi detiene il potere reale, economico e finanziario, in Occidente.Nel suo libro “Massoni”, Gioele Magaldi denuncia apertamente – per la prima volta – il ruolo criminoso di alcune superlogge segrete del vertice occulto internazionale, come ha “Hathor Pentalpha” creata dai Bush, cui avrebbero aderito anche personaggi come Blair, Sarkozy e lo stesso Erdogan. Una macchina perfetta per attuare la strategia della tensione a livello geopolitico, dall’11 Settembre fino alla creazione dell’Isis per destabilizzare il Medio Oriente e imporre ovunque la logica della guerra. Dal canto suo, Carpeoro cita spesso un grande intellettuale come Francesco Saba Sardi, che nel saggio “Dominio” condanna la natura oppressiva del potere sorto all’epoca della prima civilizzazione: con la scoperta dell’agricoltura nasce la guerra per il possesso della terra, quindi lo sfruttamento del lavoro e l’istituzione religiosa per la manipolazione psicologica di soldati e lavoratori. Carpeoro segnala il progressivo e fatale deterioramento delle condizioni sociali, imposto da un potere che ricorre ad un pensiero di tipo “magico”: fa’ quello che ti dico e avrai un premio, l’importante è non ti chieda mai il vero perché delle cose.«Per sua natura, il potere tende sempre a degradarsi col passare del tempo: un vecchio boss mafioso non avrebbe mai seppellito scorie tossiche nel prato dove giocano i suoi figli». Un ragionamento che prende in prestito da Noam Chomsky una celebre riflessione sulla comunicazione mainstream, ispirata dal potere: il pubblico viene “astratto” dalla percezione del reale e rinchiuso in un “cerchio magico”, in cui vigono le regole del “mago”, il persuasore di massa, il cui obiettivo è sempre la manipolazione, quindi la neutralizzazione della coscienza critica di chi ascolta. «A questo scopo, viene regolarmente fabbricato un nemico da detestare». Quando questo nemico tramonta – esempio, Al-Qaeda – c’è già pronto il nuovo nemico, l’Isis. «L’importante è che noi odiamo il nemico di turno, senza collegare le cose e senza mai domandarci chi vi sta dietro, a chi serve tutto il male che viene creato a suon di bombe». E’ la legge della paura, per paralizzare la società: strategia della tensione, appunto.«L’intensità del terrorismo sta crescendo – sottolinea Carpeoro – perché, evidentemente, chi lo organizza pensa di non avere più altre chances per dominarci». A preoccupare i registi occulti del terrore, sempre secondo Carpeoro, sono le importanti defezioni che ormai si registrano in tutto l’Occidente, dall’Europa agli Usa, anche nel mondo massonico e finanziario, ma non solo: «Alle primarie americane un “socialista” dichiarato come Bernie Sanders si è imposto nello Stato di Washington: un segnale inequivocabile». Qualcosa si è incrinato, nell’élite di potere, e i vecchi “dominus” non si sentono più così al sicuro: temono di perdere l’attuale onnipotenza, che consente loro – attraverso la finanza – di fare e disfare popoli, guerre, crisi, esodi (e affari colossali, nell’impunità più assoluta). Ed ecco allora il crescere dell’instabilità, il ricorso sistematico al terrore. I grandi assenti? Manco a dirlo, siamo noi: serve una contro-politica, per imporre un nuovo sistema di valori, capace di farci uscire dal delirio crisi-guerra. Se scoppiano più bombe, dice Carpeoro, è perché chi comanda ha paura che si possa arrivare a un rovesciamento dell’attuale governance. Problema: «Ci vorrà molto tempo, e intanto la situazione peggiorerà ancora. Non possiamo restare a guardare, bisognerà pur fare qualcosa». E cioè: spingere la società a risvegliarsi, per rompere l’assedio dell’orrore, ormai sistematico e quotidiano.Siamo in pericolo, e lo saremo sempre di più. Motivo: l’élite planetaria, quella che oggi ricorre anche al terrorismo stragista, sta cominciando ad avere paura. Teme, per la prima volta, di perdere il potere assoluto che ha esercitato, negli ultimi decenni, in modo incontrastato. A inquietare le super-oligarchie mondiali non è solo il progressivo risveglio democratico di una parte dell’opinione pubblica, sempre più scettica di fronte alla narrazione ufficiale degli eventi. Pesa, soprattutto, la clamorosa diserzione di una parte consistente di quello stesso vertice di potere, spaventato dalle rovinose conseguenze, su scala mondiale, della “dittatura” neoliberista, il cui obiettivo è chiaro: confiscarci ogni diritto e retrocedere tutti noi a livelli di sfruttamento da terzo mondo. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, acuto osservatore dei retroscena internazionali anche in virtù della sua lunga militanza nella massoneria indipendente. Già avvocato, eminente studioso della cultura simbolica esoterica, Carpeoro è oggi schierato con Gioele Magaldi nella denuncia degli abusi sempre più devastanti che costellano la deriva autoritaria della leadership globale. Qualcuno, lassù, ha cominciato a sfilarsi. E il massimo potere si è spaventato a morte, al punto da pianificare stragi, affidate alla manovalanza dell’Isis.