Archivio del Tag ‘crescita’
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Crollo dei bond, la Soluzione Finale di Schäuble per piegarci
Un piano tedesco per riformare l’Eurozona con un meccanismo automatico di ristrutturazione dei debiti sovrani. Obiettivo, impedire qualsiasi forma di condivisione dei rischi tra i paesi dell’Eurozona, confinando i costi dell’instabilità finanziaria e fiscale il più possibile all’interno dei paesi più deboli. Autore del piano, il “venerabile” Wolfgang Schaeuble, super-massone e cervello del governo Merkel. Berlino «sembra aver perso fiducia verso qualsiasi forma di governance centralizzata», scrive Carlo Bastasin sul “Sole 24 Ore”, e ora penserebbe solo a tutelare i tedeschi. Il piano è descritto in una lettera inviata a fine novembre dal ministro delle finanze al capo della Commissione Finanza e Bilancio del Parlamento tedesco. La lettera, non pubblicata, prescrive un meccanismo automatico di ristrutturazione del debito pubblico per qualsiasi paese europeo che richieda assistenza finanziaria. Una volta chiesto “l’aiuto” del Mes, o Esm, «i tempi di scadenza dei titoli pubblici saranno automaticamente prolungati, riducendo il valore di mercato di questi titoli e provocando gravi perdite a chi li detiene».Il meccanismo, continua Bastasin nell’articolo, ripreso dal blog “Vox Populi”, trasformerebbe i titoli pubblici dell’Eurozona in asset finanziari rischiosi. «E questo è anche l’obiettivo di un’altra proposta del governo tedesco, che mira a eliminare l’eccezione normativa che permette alle banche di detenerli senza dover possedere riserve di capitale per coprire le eventuali perdite». Rendere più “rischiosi” i titoli sovrani incoraggerebbe banche e famiglie a evitare di sottoscriverli alla leggera. I governi avrebbero meno incentivi ad accumulare debito, e le banche eviterebbero a loro volta di investire in titoli pubblici. Dov’è il trucco? «Stabilire un meccanismo automatico per sanzionare le situazioni economiche problematiche che si vorrebbero evitare può, nei fatti, renderle ancora più probabili», spiega Bastasin. I titoli pubblici – abolita la moneta sovrana – tengono in piedi gli Stati dell’Eurozona. «Pertanto, una volta che i titoli sovrani nei paesi dell’Eurozona sono diventati più rischiosi, l’intero sistema finanziario potrebbe diventare più fragile, e questo potrebbe influenzare negativamente la crescita e la stabilità finanziaria».Da ultimo, anziché imporre una sana disciplina ad alcuni paesi membri, il nuovo regime «potrebbe ampliare i differenziali di rendimento dei titoli di Stato e rendere impossibile la convergenza dei debiti, aumentando la probabilità di rottura dell’Eurozona». Il piano di Berlino, continua Bastasin, va in parallelo all’idea che il contenimento della crisi sia solo una questione che riguarda i paesi più colpiti. Si basa inoltre sull’assunzione che qualsiasi forma di condivisione del rischio fornisca ai governi gli incentivi sbagliati, producendo “moral hazard”. In realtà, «come la crisi ha dimostrato», la vulnerabilità finanziaria può essere «il risultato di problemi comuni», per cui «sanzionare i singoli paesi può generare un’instabilità che potrebbe degenerare in una nuova crisi».Il documento del governo tedesco dimostra una sfiducia fondamentale verso gli atteggiamenti fiscali degli altri governi. L’applicazione ripetuta delle “clausole di flessibilità” per sottrarre alcune spese con finalità specifiche dal conteggio del deficit sta facendo storcere il naso a Berlino. Secondo Bastasin, il governo tedesco «guarda con disprezzo la Commissione Europea, considerandola troppo esposta ai ricatti dei governi nazionali, con particolare preoccupazione per l’ascesa dei movimenti populisti e anti-europei». L’applicazione asimmetrica delle regole, le decisioni fuori luogo e al momento sbagliato, nonché «la tendenza ad applicare la “legge del creditore” anziché gli interessi comuni, nonché certe propensioni ideologiche», avrebbero fatto venir meno la fiducia verso le decisioni comuni. «I governi nazionali, ciascuno a suo modo, stanno passando da una timida propensione a condividere il rischio a una decisa volontà di decentralizzare qualsiasi rischio, come unica ed esclusiva modalità di gestione dell’unione monetaria».Nel considerare la minaccia di una ristrutturazione del debito come politica efficace per imporre la disciplina, continua l’analista, Berlino chiede che i titoli di debito pubblico perdano la loro condizione di asset considerati privi di rischio. Quest’ultima “eccezione normativa” faceva in modo che le banche accumulassero titoli di debito sovrano nel loro bilancio senza la necessità di incrementare il proprio capitale. Nel documento inviato al Bundestag, il ministro delle finanze propone che l’Eurozona anticipi la regolamentazione internazionale nel riconoscere la specifica rischiosità dei titoli di debito sovrano. In pratica, lo Stato sarebbe definitivamente privato di sovranità e costretto a comportarsi come un’azienda, con i conti in attivo o almeno in pareggio, come vuole il dogma neoliberista che negli ultimi 40 anni ha lavorato incessantemente per demolire la finanza pubblica, lasciando i governi alla mercé dei “mercati”, senza più un soldo da impegnare in investimenti per famiglie, aziende e lavoro, sotto forma di spesa pubblica (deficit positivo, fondamentale per sostenere l’economia reale).«Una volta che sia stato stabilito che i titoli pubblici sono a rischio come tutti gli altri», conclude Bastasin, «le banche saranno incoraggiate a ridurre l’ammontare di titoli di Stato che detengono, rompendo il circolo vizioso che ha caratterizzato la crisi, col finanziamento del debito pubblico che minacciava la stabilità bancaria e viceversa». Secondo il documento di Berlino, i paesi dell’Eurozona dovrebbero anche ridurre in modo permanente i loro livelli di debito pubblico sul Pil. «Per poterlo fare, Berlino vuole impedire che ciascun paese invochi clausole di flessibilità. In particolare, la richiesta italiana di flessibilità ha ottenuto un certo cedimento da parte della Commissione Europea durante i negoziati. La Francia non si pone nemmeno il problema di ottenere l’autorizzazione per le sue generose politiche fiscali. Nelle trattative coi primi ministri dell’Eurozona, il presidente della Commissione Europea Juncker è stato costretto a scegliere tra autorizzare i governi in carica ad ampliare i loro deficit per ogni sorta di ragioni oppure fomentare i movimenti populisti anti-europei che vogliono mandare all’aria l’intera unione monetaria».Questa specifica “debolezza” nel coordinamento delle politiche fiscali a livello centralizzato «ha convinto le autorità tedesche a chiedere la decentralizzazione dei rischi e un controllo depoliticizzato». Il ruolo di sorveglianza della Commissione, dice il documento sottoscritto da Schaeuble, «non deve limitarsi a degli obiettivi politici». Per rendere il giudizio di Bruxelles “indipendente dalle convenienze politiche”, Berlino mira a separare la funzione di supervisione svolta dalla Commissione dal suo ruolo nell’orientare le scelte politiche. In alternativa, il controllo delle politiche fiscali potrebbe essere consegnato a una nuova istituzione tecnica e indipendente. «Se questi meccanismi dovessero ancora fallire nel tenere a freno il debito pubblico, allora la minaccia di un semplice meccanismo automatico di ristrutturazione del debito farà il trucco: i mercati diventeranno subito estremamente sensibili alla mancanza di disciplina fiscale, e puniranno ciò che i politici perdonano». E avremo dunque ancora più rigore e ancora più austerity: più tasse, meno lavoro (ma i conti in ordine, come vuole il “venerabile” Schaeuble).Un piano tedesco per riformare l’Eurozona con un meccanismo automatico di ristrutturazione dei debiti sovrani. Obiettivo, impedire qualsiasi forma di condivisione dei rischi tra i paesi dell’Eurozona, confinando i costi dell’instabilità finanziaria e fiscale il più possibile all’interno dei paesi più deboli. Autore del piano, il “venerabile” Wolfgang Schäuble, super-massone e cervello del governo Merkel. Berlino «sembra aver perso fiducia verso qualsiasi forma di governance centralizzata», scrive Carlo Bastasin sul “Sole 24 Ore”, e ora penserebbe solo a tutelare i tedeschi. Il piano è descritto in una lettera inviata a fine novembre dal ministro delle finanze al capo della Commissione Finanza e Bilancio del Parlamento tedesco. La lettera, non pubblicata, prescrive un meccanismo automatico di ristrutturazione del debito pubblico per qualsiasi paese europeo che richieda assistenza finanziaria. Una volta chiesto “l’aiuto” del Mes, o Esm, «i tempi di scadenza dei titoli pubblici saranno automaticamente prolungati, riducendo il valore di mercato di questi titoli e provocando gravi perdite a chi li detiene».
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Soini, ministro degli esteri: la rovina della Finlandia? L’euro
Secondo il suo ministro degli esteri, la Finlandia non avrebbe mai dovuto aderire alla moneta unica. Mentre il membro più settentrionale dell’euro si avvia a diventare l’economia più debole dell’unione valutaria, la questione della moneta unica continua a riemergere, con la Finlandia che cerca di spiegare la sua perdita di competitività. Timo Soini, che è anche il leader di uno dei tre membri della coalizione di governo, il partito anti-immigrazione “The Finns”, pensa che il paese avrebbe potuto far ricorso a svalutazioni se non fosse stato per la sua adesione all’euro. Queste considerazioni avvengono nell’ambito della raccolta di firme di un ex ministro degli esteri per costringere il governo a indire un referendum sull’adesione all’euro. Mentre i sondaggi mostrano che la maggior parte dei finlandesi ancora non desidera l’uscita dell’unione monetaria, ci sono segnali secondo i quali molti elettori pensano che sarebbe meglio uscire dall’euro.La discussione su questo tema «diventerà più importante», ha detto a Helsinki Soini, che è stato eletto in base a una piattaforma euro-scettica. Ma Soini ha anche avvertito che un referendum «non fornisce soluzioni», qui e ora, per i problemi economici della Finlandia. «Il fatto è che la Finlandia è un membro della zona euro». Il paese ha visto la sua economia precipitare, a causa del declino del settore dell’elettronica di consumo una volta guidata da Nokia e di una industria della carta vacillante, mentre gli sforzi politici volti a creare nuovi motori di crescita sono finora falliti. Senza la possibilità di svalutare la moneta, il governo ha calcolato che la Finlandia deve abbassare il costo della sua manodopera del 15% per competere con i suoi principali partner commerciali, la Svezia e la Germania. L’economia della Finlandia è in recessione da tre anni e Nordea, la più grande banca nordica, prevede un’ulteriore contrazione nel 2016. La Finlandia sarà l’economia più debole dell’Ue entro il 2017, quando crescerà a meno della metà del ritmo della Grecia, secondo la Commissione Europea.(Raine Tiessalo, estratto da “La Finlandia non avrebbe mai dovuto dovuto aderire all’euro, secondo il ministro degli esteri finlandese”, servizio pubblicato da “Blooberg” il 22 dicembre 2015 e ripreso da “Voci dall’Estero”, che commenta: «Il sito online di “Bloomberg” riporta le dichiarazioni del ministro degli esteri finlandese che dice una cosa semplice e chiara: l’incapacità dell’economia del suo paese di reagire agli shock avversi che l’hanno colpita è dovuta a un fattore fondamentale – la moneta unica. Quello che sta scritto su tutti i manuali macroeconomici di base finalmente viene recepito anche in alcuni ambiti politici»).Secondo il suo ministro degli esteri, la Finlandia non avrebbe mai dovuto aderire alla moneta unica. Mentre il membro più settentrionale dell’euro si avvia a diventare l’economia più debole dell’unione valutaria, la questione della moneta unica continua a riemergere, con la Finlandia che cerca di spiegare la sua perdita di competitività. Timo Soini, che è anche il leader di uno dei tre membri della coalizione di governo, il partito anti-immigrazione “The Finns”, pensa che il paese avrebbe potuto far ricorso a svalutazioni se non fosse stato per la sua adesione all’euro. Queste considerazioni avvengono nell’ambito della raccolta di firme di un ex ministro degli esteri per costringere il governo a indire un referendum sull’adesione all’euro. Mentre i sondaggi mostrano che la maggior parte dei finlandesi ancora non desidera l’uscita dell’unione monetaria, ci sono segnali secondo i quali molti elettori pensano che sarebbe meglio uscire dall’euro.
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Usa: tutti più poveri, non stupitevi se vorranno l’uomo forte
Scende la durata della vita, cresce a dismisura la vendita di armi insieme alla frustrazione, alla rabbia, al senso di precarietà e insicurezza. «La fotografia impietosa e allarmante fornita da Robert Reich dei sentimenti che pervadono la sempre più impoverita classe media americana contraddice la rosea immagine divulgata dai nostri media di un’America “in ripresa” dove l’economia cresce e i posti di lavoro aumentano», scrive Maria Grazia Bruzzone. «Quella che era stata la grande forza degli Stati Uniti – una classe media solida, lavoratrice, fiduciosa, dove l’ascensore sociale funzionava, esempio per il mondo – non esiste più e non è una novità. Ma oggi si sta avviando per una china preoccupante alla ricerca dell’uomo forte che possa salvarla. Sta già accadendo». Non solo. «I sentimenti che pervadono la “classe ansiosa”, come la chiama Reich, ci sembrano assomigliare molto a quelli di noi europei. Sempre più attratti, infatti, da partiti anti-sistema, così come negli Usa volano i sondaggi per quell’outsider estremista che è Donald Trump, dal quale i media tutti prendono sdegnosamente distanza, non senza imbarazzo, ma senza vederne la spia di un fenomeno sociale».Con Trump, i media americani si sono comportanti esattamente come quelli europei nei confronti di Marine Le Pen in Francia, «fino a plaudire all’anomala “alleanza” di sinistra e destra “moderata” che ne ha bloccato la vittoria, ma non l’ascesa come primo partito». Sono i motivi per cui, sul suo blog su “La Stampa”, la Bruzzone propone la traduzione di un recente post di Robert Reich, «non un estremista e neppure un disfattista, ma un ex sottosegretario al lavoro durante la presidenza Bill Clinton». Oggi saggista e blogger, con libri pubblicati anche in Italia. «Un allarme, il suo, che fa riflettere. A partire dal titolo: “La classe media americana è in uno stato di rivolta”». Scrive Reich: «La grande classe media americana è diventata una classe ansiosa – ed è in rivolta». Innanzitutto «si sta vieppiù restringendo, come risulta da un’indagine Pew». La middle class «non rappresenta più la maggioranza degli americani, sorpassata dalla somma delle famiglie di classe alta – i ricchi – e bassa – i poveri». Oggi, «le probabilità di cadere nella povertà sono alte in modo impressionante, specialmente per la maggioranza priva di istruzione superiore».Due terzi degli americani vivono di stipendio in stipendio, continua Reich. «La maggior parte può perdere il lavoro in ogni momento. Molti appartengono alla crescente forza lavoro “a richiesta”, impiegati quando e se ve ne sia bisogno, pagati quel che si può, quando si può. Se non riescono a farcela col pagamento dell’affitto o del mutuo, o non ce la fanno a pagare il negozio di alimentari o le bollette, perderanno la loro base e arretreranno ancora». Lo stress impone il pagamento di un pedaggio salatissimo, anche in termini di salute: «Per la prima volta nella storia, la durata della vita della classe media bianca sta scendendo». Secondo una recente ricerca dell’economista Premio Nobel Angus Deaton e della sua collega Anne Case, uomini e donne bianchi di mezza età negli Usa hanno cominciato a morire più presto: «Si avvelenano con droghe e alcol, o commettono suicidio. Le probabilità di essere uccisi da un jihadista in America sono di gran lunga inferiori alla probabilità di queste morti auto-infitte», e la recente tragedia di San Benardino «si limita ad innalzare un senso di arbitrarietà e fragilità soverchianti».La “classe ansiosa” si sente vulnerabile davanti a forze di cui non ha alcun controllo, e in più sa di non poter contare su un governo che la protegga. «Le reti della sicurezza sono piene di buchi. La maggior parte di coloro che hanno perso il lavoro non hanno neppure un’assicurazione per la disoccupazione» (la cassa integrazione negli Usa non è mai esistita). «Il governo non proteggerà il loro posto di lavoro dall’essere trasferito (“outsourced”) in Asia, o dal venir sostituito da un lavoratore illegale». Il governo «non è neppure in grado di proteggerli da persone malvage con armi o bombe. Ed è il motivo per cui la classe ansiosa si sta armando, comprando armi in quantità record». In novembre, l’Fbi ha censito 2 milioni e 243.000 nuove armi: il 2015 si avvia così a superare il record del 2013, con 21 milioni di armi. «Il governo è considerato non tanto incompetente quanto incapace di dar loro un accidente», continua Reich. «Lavora per i big e i ricchi – il “capitalismo degli amici” che foraggia i candidati e ottiene in cambio speciali favori». Moltissimi gli “arrabbiati”, convinti che il governo «è gestito dai banchieri di Wall Street che sono stati salvati dopo aver provocato il caos nell’economia, dai titani delle corporations che hanno ottenuto lavoro a basso costo, dai miliardari che hanno avuto scappatoie fiscali di ogni genere».Due autorevoli scienziati della politica, Martin Gilens e Benjamin Page, hanno esaminato 1.799 decisioni prese dal Congresso in vent’anni, scoprendo e chi le ha influenzate. La loro conclusione: «Le preferenze dell’americano medio sembrano state scarsissime, vicine allo zero, statisticamente non rilevanti nell’impatto sulla politica pubblica». Per Reich, «è solo una questione di tempo prima che la classe ansiosa si rivolti. Sosterranno un uomo forte che li protegga da tutto il caos. Uno che salvi il loro posto di lavoro dall’essere trasferito all’estero, si scontri con Wall Street, bastoni la Cina, faccia piazza pulita dei lavoratori illegali, impedisca ai terroristi di entrare in America. Un uomo forte che possa rendere l’America di nuovo grande – che in realtà significa rendere di nuovo sicuri i cittadini che lavorano. Era – è – un sogno del tubo, naturalmente, un inganno da illusionista. Nessuna persona singola può fare questo. Il mondo è di gran lunga troppo complesso. Non puoi costruire un muro lungo il confine col Messico [dal quale entrano negli Usa migliaia di immigranti, lavoratori illegali]. Non puoi tener fuori tutti i musulmani come ha appena proposto Trump, con grande scandalo mediatico. Non puoi impedire alla corporations di spostare sedi all’estero. Non lo si può nemmeno tentare. Eppure, loro pensano che ci possa essere uno abbastanza intelligente e in gamba da poter cambiare tutto».Donald Trump, per esempio: «E’ ricco. Dice le cose come stanno. Rende ogni tema un test della sua forza personale. Dice che i suoi avversari sono deboli mentre lui è forte. E’ crudo e rude? Forse è quel che ci vuole per proteggere la gente media in questo mondo crudelmente precario». Per anni, Reich ha percepito «il brontolio della classe ansiosa». Scrive: «Ho ascoltato la sua rabbia crescente – nelle sedi sindacali, nei bar, nelle miniere di carbone e nei saloni di bellezza, nelle strade e lungo le acque stagnanti dell’America. Per anni ho sentito le sue lamentele, le sue teorie cospirazioniste, la sua indignazione». Spiega: «Per lo più sono brava gente, non bigotti o razzisti. Lavorano sodo e hanno un grande senso dell’equità. Ma il loro mondo pian piano è stato messo da parte. E loro sono impauriti e stanchi». Ora che succede? «Arriva qualcuno che è anche più bullo di quelli che per anni li hanno angariati economicamente, politicamente e anche violentemente. L’attrazione è comprensibile, anche se mal riposta. Se non sarà Donald Trump, sarà qualcun altro che si presenta come uomo forte. Se non sarà questo ciclo elettorale, sarà il prossimo. La rivolta della classe media ansiosa è appena cominciata».Scende la durata della vita, cresce a dismisura la vendita di armi insieme alla frustrazione, alla rabbia, al senso di precarietà e insicurezza. «La fotografia impietosa e allarmante fornita da Robert Reich dei sentimenti che pervadono la sempre più impoverita classe media americana contraddice la rosea immagine divulgata dai nostri media di un’America “in ripresa” dove l’economia cresce e i posti di lavoro aumentano», scrive Maria Grazia Bruzzone. «Quella che era stata la grande forza degli Stati Uniti – una classe media solida, lavoratrice, fiduciosa, dove l’ascensore sociale funzionava, esempio per il mondo – non esiste più e non è una novità. Ma oggi si sta avviando per una china preoccupante alla ricerca dell’uomo forte che possa salvarla. Sta già accadendo». Non solo. «I sentimenti che pervadono la “classe ansiosa”, come la chiama Reich, ci sembrano assomigliare molto a quelli di noi europei. Sempre più attratti, infatti, da partiti anti-sistema, così come negli Usa volano i sondaggi per quell’outsider estremista che è Donald Trump, dal quale i media tutti prendono sdegnosamente distanza, non senza imbarazzo, ma senza vederne la spia di un fenomeno sociale».
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Rabbia e paura, il voto in quest’Europa disastrata dall’euro
Fino a qualche anno fa parevano sbuffi isolati di rabbia: Haider in Austria, Bossi in Italia, Fortuyn in Olanda. Ed erano quasi tutti di destra. Ora non più. Ora un’onda di protesta sempre più alta e sempre più comprensibilmente rabbiosa investe quasi tutti i paesi dell’Unione Europea, con la significativa eccezione della Germania. E non è più solo di destra, e neanche solo di sinistra; talvolta è semplicemente civica, sempre e comunque fuori dagli schemi. La Spagna, che si reca alle urne, stando ai sondaggi non sfuggirà a questa tendenza. I progressisti di Podemos appaiono in calo ma sono in crescita i centristi di Ciudadanos; in ogni caso i movimenti centristi e alternativi seducono circa un terzo dell’elettorato. Un’enormità. E prima della Spagna c’era stata la Grecia. Oggi lo sappiamo: Tsipras non era un rivoluzionario e nemmeno un innovatore. Più che un leader, un bluff; ma il referendum della scorsa estate – poi tradito – ha rivelato il disagio profondo e trasversale della Grecia, un’autentica disperazione sociale, che non tocca solo le classi più povere ma travolge anche il ceto medio. Quella protesta era di formalmente di sinistra. Ma in Ungheria ha trionfato l’euroscettico Orban, così come in Polonia il partito di Kaczynski, che formalmente sono di destra.In Italia i sondaggi danno in crescita il Movimento 5 Stelle, la cui collocazione è indefinibile, e confermano la solidità della Lega di Salvini. Da nemmeno un mese il Portogallo ha un governo socialista, che si regge sull’appoggio, decisivo, di due partiti di estrema sinistra dichiaratamente contrari all’euro. In Danimarca il popolo ha appena approvato un referendum che rifiuta l’adozione automatica delle leggi europee e mantiene la clausola di opt-out. In Francia il fatto che la Le Pen sia stata fermata al ballottaggio non cambia il quadro di fondo: oggi il Fronte Nazionale è il primo partito di Francia e ha il vento in poppa. Potremmo continuare citando tanti altri esempi ma l’elenco diventerebbe stucchevole. La realtà è che oggi la vera contrapposizione non è più fra centrodestra e centrosinistra, perché agli occhi di molti elettori europei le differenze fra conservatori e progressisti moderati sono risibili e riguardano ormai aspetti marginali della vita pubblica. Oggi in tutta Europa il tema fondamentale, è la crisi economica che erode sia la libertà d’impresa sia la sicurezza sociale.Le analisi economiche sono impietose e non contestabili: da quando è entrato in vigore l’euro, il tenore di vita è diminuito nella maggior parte dei paesi dell’Unione Europea – inclusi quelli grandi come Francia, Italia e Spagna – la disoccupazione è aumentata con punte drammatiche per i giovani, mentre i cittadini sono vessati da tassazioni inaccettabili. Risultato: le economie, schiacciate dall’austerity, non crescono più. La crisi finanziaria del 2008 ha dato il colpo di grazia al sistema, che, infatti, da allora non si è più ripreso. Oggi centrodestra e centrosinistra hanno perso credibilità perché i loro leader hanno deluso sistematicamente le aspettative di un vero cambiamento. Non poteva essere altrimenti: la governance europea limita la libertà di manovra dei governi nazionali. Che all’Eliseo sieda Sarkozy o Hollande poco cambia. E allora i francesi ascoltano la Le Pen, che abilmente abbandona l’estremismo del padre e si appropria dei valori della République e del gollismo.Badate bene: a scegliere i movimenti alternativi non sono più gli emarginati ma gli industriali e gli operai, i lavoratori indipendenti e quelli pubblici, i giovani e i pensionati, accomunati dalla paura, dalla precarietà, dall’assenza di una prospettiva. Oggi nell’Unione Europea il piccolo imprenditore, gravato dalla burocrazia e dalle tasse, getta la spugna e il suo operaio, che perde il lavoro, solidarizza con lui ed è spaventato, talvolta disperato perché sa che difficilmente troverà un altro posto. Questo spiega – più di ogni altra considerazione – il successo dei partiti alternativi e di protesta. Biasimarli e tentare di screditarli come populisti non basterà. Fino a quando l’Unione Europea si ostinerà a non correggere alcune evidenti storture, la sensazione di malessere continuerà a crescere con il rischio, niente affatto remoto, che un giorno diventi socialmente esplosiva e incontrollabile.(Marcello Foa, “La protesta cresce, rischiamo una crisi esplosiva e incontrollabile”, dal blog “Il cuore del mondo” su “Il Giornale” del 19 dicembre 2015).Fino a qualche anno fa parevano sbuffi isolati di rabbia: Haider in Austria, Bossi in Italia, Fortuyn in Olanda. Ed erano quasi tutti di destra. Ora non più. Ora un’onda di protesta sempre più alta e sempre più comprensibilmente rabbiosa investe quasi tutti i paesi dell’Unione Europea, con la significativa eccezione della Germania. E non è più solo di destra, e neanche solo di sinistra; talvolta è semplicemente civica, sempre e comunque fuori dagli schemi. La Spagna, che si reca alle urne, stando ai sondaggi non sfuggirà a questa tendenza. I progressisti di Podemos appaiono in calo ma sono in crescita i centristi di Ciudadanos; in ogni caso i movimenti centristi e alternativi seducono circa un terzo dell’elettorato. Un’enormità. E prima della Spagna c’era stata la Grecia. Oggi lo sappiamo: Tsipras non era un rivoluzionario e nemmeno un innovatore. Più che un leader, un bluff; ma il referendum della scorsa estate – poi tradito – ha rivelato il disagio profondo e trasversale della Grecia, un’autentica disperazione sociale, che non tocca solo le classi più povere ma travolge anche il ceto medio. Quella protesta era di formalmente di sinistra. Ma in Ungheria ha trionfato l’euroscettico Orban, così come in Polonia il partito di Kaczynski, che formalmente sono di destra.
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In Turchia, se indaghi sull’Isis finisci impiccato nella toilette
Ciò che sta accadendo in Turchia ci riguarda molto da vicino. Un tiranno, Recep Tayyip Erdogan, non un semplice dittatore, bensì una sorta di satrapo ha il potere, tutto il potere nelle sue mani avide, sue e dei familiari, a cominciare dal figlio Ahmet, coinvolto in molti loschissimi affari. Egli ha creato un vero e proprio modello politico, secondo qualche analista: l’erdoganismo, che appare una sorta di bismarckismo iperautoritario, che prova a giocare sull’inclusione delle masse e sulla messa fuori gioco, con qualsiasi mezzo, di ogni forma non solo di opposizione, ma di dissenso. Le ultime elezioni, di cui la nostra ineffabile signora Mogherini ha certificato la democraticità, sono state stravinte da Erdogan, grazie alle azioni terroristiche contro le opposizioni: la strage dei giovani che marciavano per la pace ad Ankara del 9 ottobre scorso, con 95 morti, e centinaia di feriti, è un esempio mostruoso; saranno stati anche i kamikaze, ma come si sono comportate le autorità? Quali misure prima e dopo hanno preso? La polizia addirittura impediva i soccorsi, e aggrediva i superstiti.Le vittime sono diventate imputati, in sostanza, come in altri episodi assai meno gravi ma diffusi, sotto la tirannia di Erdogan: dopo l’attentato, costui ebbe l’insolenza di dichiarare che si trattava di un atto “contro l’unità del paese”, lo stesso stucchevole, ma pericolosissimo, ritornello usato contro i partiti curdi. Tutto, in un clima di crescente intolleranza verso chi la pensava diversamente dal capo, verso magistrati che si permettevano di mettere il naso negli affari di famiglia, verso alti militari giudicati pericolosi per il potere del capo, e così via. Impressionante, la serie di chiusure di giornali e di siti internet, gli arresti e le pesanti condanne detentive di giornalisti, le intimidazioni d’ogni genere verso chi non è del partito del capo o verso chi si azzarda a esprimere, anche in modo sommesso, una critica: di questo passo in Turchia, la Turchia che vorrebbe aderire all’Ue, neppure lo ius murmurandi sarà più concesso. L’attentato contro il corteo di giovani che chiedevano la pace, ossia la fine delle azioni militari del governo contro i curdi, essenzialmente, fu un episodio che colpì enormemente l’opinione pubblica internazionale, in qualche modo evocatore della strage dei giovani socialisti norvegesi da parte del neonazista Andres Breivik, nell’estate 2011.Ma quali furono gli atti della “comunità internazionale” volti a chiedere conto dell’accaduto a Erdogan e al suo governo? E che dire della brutale eliminazione, degna di un poliziesco, della giornalista e attivista britannica Jacky Sutton, all’interno dell’aeroporto Ataturk di Istanbul? Con tanto di suicidio inscenato, per impiccagione, nella toilette… La Sutton indagava sui possibili nessi tra governo turco e Is, guarda caso. Anche in questo caso non risultano inchieste serie all’interno, né proteste “vigorose” della solita comunità internazionale, a cominciare da quella europea. Ogni volta, insomma, Erdogan alza l’asticella, e ogni volta, regolarmente, incontra acquiescenza, connivenza, al massimo imbarazzati silenzi. E stupisce anche l’assenza della stampa di inchiesta su un caso che, anche con lo sguardo cinico del professionista della comunicazione, è dannatamente “interessante”. E il rullo compressore erdoganiano procede, schiacciando tutto ciò che incontra sul proprio cammino.Nel disegno politico di colui che si considera il nuovo Ataturk, Racep Erdogan appunto, la “sua” Turchia – sua in senso proprio, proprietario, si direbbe – deve diventare potenza egemone nell’area mediorientale, per poi sedere al banchetto dei “grandi”, forte di un esercito potentissimo, e di una crescita economica che finora ha sostenuto le sorti governative; finora, ma le cose stanno cambiando. Per raggiungere lo scopo, Erdogan non ha esitato a stabilire rapporti, più o meno coperti, con Daesh, mentre conservava e rafforzava i suoi legami con Usa e Nato: non buoni invece quelli con l’Unione Europea, che stenta ad accogliere uno Stato come questo nel suo seno (con notevole ipocrisia, d’altronde). E, soprattutto, Erdogan, con straordinario cinismo, stabilisce e rompe intese ed alleanze: il suo attacco alla Russia (l’abbattimento di un aereo della Federazione impegnato in azioni contro l’Isis è stata una dichiarazione di guerra, evidentemente compiuta con l’assenso della Nato e degli Usa) e l’eliminazione dell’avvocato Tahir Elci, uno dei più noti difensori della causa del popolo curdo, è stata un’altra dichiarazione di guerra, contro un intero popolo, la cui esistenza in Turchia neppure viene riconosciuta (i curdi sono chiamati “turchi del Nord”!). Un vero e proprio “caso Matteotti” in salsa turca.Ci si sarebbe aspettato una generale levata di scudi, specie dopo aver visionato il video dell’azione: gli assassini scappano verso gli agenti di polizia che sparano verso di loro senza mai colpirli, al punto che vien da pensare che le loro armi fossero caricate a salve. “L’uccisione rimarrà un mistero”, si è subito bofonchiato. Lo rimarrà perché le autorità vogliono che nulla trapeli della verità, perché esse sono implicate direttamente nell’omicidio, che con la solita faccia tosta Erdogan ha attribuito al Pkk ossia il partito curdo di sinistra estrema, che Elci difendeva sia in tribunale, nelle tante cause in corso, sia nelle pubbliche occasioni, in una delle quali era egli stesso incappato nell’accusa di tradimento e quant’altro, ed era stato arrestato. Ma un altro video è da guardare, con estrema attenzione, quello dei suoi funerali. Esso costituisce un bellissimo quanto dolente omaggio al combattente caduto, che è anche una dimostrazione di coraggio per chi vi ha partecipato, e una lezione per chi, nelle nostre tepide case, lo guarda, ammirato della sua grandiosa semplicità, e della sua forza.Ma il potere di Erdogan e del suo cerchio magico non si lascia condizionare, come non lo aveva smosso l’ondata di proteste dello scorso anno di piazza Taksim in difesa del Gezi Park, ma in realtà di quel poco di libertà che ancora rimaneva nel paese. Proteste represse, come le precedenti e le successive, con durezza estrema dalla polizia: feriti, morti, e centinaia di arresti. Tutto ciò, ribadisco, nella silenziosa acquiescenza delle “democrazie occidentali”, che si stanno rendendo complici del tiranno. L’odio per i “comunisti” (del Pkk), da un canto, la russofobia dall’altro giocano sempre un ruolo importante. La democratica Europa tace. La democratica Italia, balbetta. I democraticissimi Stati Uniti, invece, si schierano a fianco del tiranno. E così costui, nel suo megagalattico palazzo presidenziale da 1200 stanze – il più gigantesco del mondo – una reggia fortificata, per giunta edificata in zona vietata (il diritto che nasce dalla forza, non viceversa…), sogna come “Il Grande Dittatore”, aggirandosi per saloni, corridoi, scale, parco… Sogna di avere, nelle sue avide mani adunche prima il Medio Oriente, e poi?La sua corsa tuttavia rischia di fargli fare passi falsi: colpire con un missile un aereo russo è stato un gesto a dir poco spregiudicato, volto a far schierare tutto l’Occidente al suo fianco, in nome dell’antica paura e odio per i russi; l’arroganza con cui Erdogan ha, con toni truculenti, rivendicato il “diritto” della Turchia a “difendere i propri confini”, perché un aereo che in teoria combatte dalla stessa parte turca contro l’Is, aveva sconfinato (per 27 secondi, ossia, 2,7 km), è apparso quasi grave quanto quel missile. Ma quando preso ormai da una sorta di delirio di onnipotenza, Erdogan ha sentenziato: «La Russia scherza col fuoco», allora l’inquietudine è cresciuta. Non v’è dubbio che oggi, vi sia un solo soggetto politico-militare che possa fermare Erdogan: la Federazione Russa di Vladimir Putin: piaccia o non piaccia. Così come è chiaro che soltanto la Russia oggi sta combattendo l’Is, seriamente, al di là delle motivazioni, e che solo la Russia può impedire alla Turchia di impadronirsi di un quarto del territorio siriano, di un quinto di quello iracheno e così via. Solo la Russia, in definitiva, può impedire la Terza Guerra Mondiale, verso la quale, invece, la Turchia di Erdogan sembra voler trascinare il mondo.(Angelo d’Orsi, “Crimini e misfatti, la Turchia di Erdogan”, da “Micromega” del 2 dicembre 2015).Ciò che sta accadendo in Turchia ci riguarda molto da vicino. Un tiranno, Recep Tayyip Erdogan, non un semplice dittatore, bensì una sorta di satrapo ha il potere, tutto il potere nelle sue mani avide, sue e dei familiari, a cominciare dal figlio Ahmet, coinvolto in molti loschissimi affari. Egli ha creato un vero e proprio modello politico, secondo qualche analista: l’erdoganismo, che appare una sorta di bismarckismo iperautoritario, che prova a giocare sull’inclusione delle masse e sulla messa fuori gioco, con qualsiasi mezzo, di ogni forma non solo di opposizione, ma di dissenso. Le ultime elezioni, di cui la nostra ineffabile signora Mogherini ha certificato la democraticità, sono state stravinte da Erdogan, grazie alle azioni terroristiche contro le opposizioni: la strage dei giovani che marciavano per la pace ad Ankara del 9 ottobre scorso, con 95 morti, e centinaia di feriti, è un esempio mostruoso; saranno stati anche i kamikaze, ma come si sono comportate le autorità? Quali misure prima e dopo hanno preso? La polizia addirittura impediva i soccorsi, e aggrediva i superstiti.
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Gli inglesi nell’Ue solo grazie all’imbroglio dell’élite segreta
I votanti al referendum inglese devono sapere che fin dal primo giorno l’Unione Europea intendeva costruire un superstato federale. Mentre ferve il dibattito sul prossimo referendum Ue, è utile ricordare in primo luogo in che modo la Gran Bretagna sia giunta all’adesione. Mi sembra, infatti, che la maggior parte della gente non capisca il motivo per cui uno dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale debba struggersi così tanto per entrare a far parte di questo “club”. E questo è un peccato, perché la risposta a questa domanda è la chiave per capire perché l’Unione Europea stia andando così male. La maggior parte degli studenti inglesi sembra pensare che la Gran Bretagna fosse in difficoltà economiche, e che la Comunità Economica Europea – come si chiamava allora – costituisse un nuovo motore economico in grado di rivitalizzare la sua economia. Altri pensano che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Gran Bretagna avesse avuto bisogno di riformulare la sua posizione geopolitica, da quella di tipo “imperiale” a una più realistica all’interno dell’Europa. Nessuno di questi argomenti, tuttavia, è valido.La Cee negli anni 1960 e 1970 non era in grado di rigenerare nessuna economia possibile. Utilizzò le sue magre risorse per l’agricoltura e la pesca e non disponeva di mezzi e di politiche per poter generare una crescita economica. Quando entrammo nella Cee il nostro tasso di crescita annuale fu un record del 7,4%, quindi per noi l’argomento “economia-paniere” non sta in piedi (l’attuale cancelliere morirebbe, per simili cifre). Quando la crescita arrivò, non fu grazie alla Comunità Europea. Dalle riforme sull’offerta di Ludwig Erhard in Germania Ovest nel 1948 alle privatizzazioni della Thatcher delle industrie nazionalizzate negli anni ‘80, la crescita europea giunse attraverso riforme introdotte dai singoli paesi e replicate in altri. La politica dell’Unione Europea è sempre stata irrilevante o addirittura dannosa (vedi l’euro). Né si può dire che la crescita britannica sia mai stata inferiore di quella Europea. A volte l’ha anche superata. Nel 1950 l’Europa occidentale registrò un tasso di crescita del 3,5%; nel 1960 era del 4,5%. Ma nel 1959, quando Harold Macmillan assunse l’incarico di governo, il reale tasso di crescita annuo del Pil britannico, secondo l’ufficio nazionale di statistica, era quasi del 6%. Ed era sempre intorno al 6% quando de Gaulle pose il veto alla nostra prima domanda di adesione alla Ce nel 1963.E che dire della geopolitica? Quale argomento, alla luce fredda del senno di poi, avrebbe potuto essere così convincente da indurci a farci prendere a calci dai nostri alleati del Commonwealth nella Seconda Guerra Mondiale per voler aderire ad una combinazione economica tra Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Francia, Germania e Italia? Quattro di questi paesi non avevano alcun peso internazionale. La Germania era stata occupata e divisa. La Francia, nel frattempo, aveva perso una guerra coloniale in Vietnam e un’altra in Algeria. De Gaulle era giunto al potere per salvare il paese dalla guerra civile. La maggior parte dei realisti sicuramente avranno considerato questi Stati come un gruppo di perdenti. De Gaulle, egli stesso un iper-realista, sottolineò che la Gran Bretagna aveva delle istituzioni politiche democratiche, legami commerciali con tutto il mondo, cibo a buon mercato dai paesi del Commonwealth ed era anche una delle maggiori potenze mondiali. Perché avrebbe voluto entrare nella Cee?La risposta è che Harold Macmillan e i suoi più stretti collaboratori erano parte di una tradizione intellettuale che vedeva la salvezza del mondo in una forma di supergoverno mondiale fondato sul federalismo regionale. Era anche molto vicino a Jean Monnet, che condivideva lo stesso pensiero. Così, Macmillan diventò il rappresentante del movimento federalista europeo nel Gabinetto britannico. In un discorso alla Camera dei Comuni sostenne il progetto della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) prima ancora che fosse annunciato in Europa. In seguito, si adoperò per la conclusione di un accordo di associazione tra Regno Unito e la Ceca, e fu sempre lui a garantire che dopo la Conferenza di Messina, che diede vita alla Cee, ai negoziati di Bruxelles fosse sempre presente un rappresentante britannico. Alla fine degli anni ’50 spinse per l’adesione dell’European Free Trade Association alla Cee. Poi, quando il generale de Gaulle iniziò a cambiare la Cee in qualcosa di meno federale, si affrettò a presentare una vera e propria domanda di adesione britannica, con l’intento di frenare le ambizioni gaulliste. Il suo scopo, in un’alleanza con gli Stati Uniti e i proponenti europei di una ordine mondiale federalista, era di dare un colpo alla emergente alleanza franco-tedesca, vista come un’alleanza tra il nazionalismo francese e quello tedesco.Lo statista francese Jean Monnet, che nel 1956 fu nominato presidente della Commissione per gli Stati Uniti d’Europa, incontrò più volte – segretamente – Heath e Macmillan, per facilitare l’ingresso britannico nella Cee. Egli, infatti, fu il primo ad essere informato in quali termini avrebbe potuto inquadrarsi un’eventuale entrata britannica nella Comunità Europea. Nonostante il consiglio del Lord Cancelliere, Lord Kilmuir, che l’adesione avrebbe significato la fine della sovranità parlamentare britannica, Macmillan fuorviò deliberatamente la Camera dei Comuni – e praticamente tutti gli altri, da statisti del Commonwealth a colleghi di governo e l’opinione pubblica – dicendo che erano coinvolti solo rapporti commerciali minori. Tentò anche di ingannare de Gaulle, dicendo di essere anti-federalista, oltre che un suo caro amico, e che avrebbe fatto in modo che anche la Francia, come la Gran Bretagna, ricevesse i missili Polaris dagli americani. Ma de Gaulle non la bevve, e pose il veto per la domanda di adesione della Gran Bretagna.Macmillan lasciò a Edward Heath il prosieguo della questione, e Heath, insieme a Douglas Hurd, dispose – secondo documenti di Monnet – che il partito Tory diventasse un membro (segreto) della Commissione per gli Stati Uniti d’Europa di Monnet. Secondo il primo assistente e biografo di Monnet, François Duchene, più tardi anche i partiti laburista e liberale fecero la stessa cosa. Nel frattempo, il conte di Gosford, uno dei ministri per la politica estera di Macmillan nella Camera dei Lord, informò apertamente la Camera che lo scopo della politica estera del governo era un supergoverno mondiale. La Commissione di Monnet ricevette anche sostegno finanziario dalla Cia e dal Dipartimento di Stato Usa. A quel punto era chiaro che l’establishment anglo-americano fosse intenzionato a creare una federazione di Stati Uniti d’Europa. Ed è così anche oggi. Potenti lobby internazionali sono già al lavoro nel tentativo di dimostrare che qualsiasi ritorno a un governo democratico “indipendente” sarà una sciagura.Alcuni funzionari americani sono già stati allertati per sostenere che un Regno Unito del genere verrebbe escluso da qualsiasi accordo di libero scambio con gli Stati Uniti e che il mondo ha bisogno del trattato commerciale Ttip, che dipende totalmente dalla sopravvivenza dell’Unione Europea. Fortunatamente, i candidati repubblicani statunitensi stanno diventando sempre più euroscettici, e giornali americani come “The National Interest” stanno pubblicando il caso del Brexit. La coalizione internazionale dietro a Macmillan e Heath questa volta non troverà un quadro altrettanto semplice come allora – soprattutto considerando le evidenti difficoltà dell’Eurozona, il fallimento delle politiche europee di immigrazione e la mancanza di coerenti politiche per la sicurezza europea. E inoltre, la cosa più importante: l’opinione pubblica inglese, burlata già una volta, sarà molto più difficile burlarla una seconda volta.(Alan Sked, “Come un’élite segreta creò l’Unione Europea per costruire un governo mondiale”, dal “Telegraph” del 27 novembre 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”. Il professor Alan Sked è uno dei fondatori originari dell’Ukip, il partito indipendentista di Nigel Farage. Docente di storia internazionale alla London School of Economics, sta raccogliendo materiale per un suo libro, che spera di pubblicare presto, sulle esperienze “europee” del Regno Unito).I votanti al referendum inglese devono sapere che fin dal primo giorno l’Unione Europea intendeva costruire un superstato federale. Mentre ferve il dibattito sul prossimo referendum Ue, è utile ricordare in primo luogo in che modo la Gran Bretagna sia giunta all’adesione. Mi sembra, infatti, che la maggior parte della gente non capisca il motivo per cui uno dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale debba struggersi così tanto per entrare a far parte di questo “club”. E questo è un peccato, perché la risposta a questa domanda è la chiave per capire perché l’Unione Europea stia andando così male. La maggior parte degli studenti inglesi sembra pensare che la Gran Bretagna fosse in difficoltà economiche, e che la Comunità Economica Europea – come si chiamava allora – costituisse un nuovo motore economico in grado di rivitalizzare la sua economia. Altri pensano che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Gran Bretagna avesse avuto bisogno di riformulare la sua posizione geopolitica, da quella di tipo “imperiale” a una più realistica all’interno dell’Europa. Nessuno di questi argomenti, tuttavia, è valido.
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La nutrizionista: scordatevi la carne, se volete star bene
Il report dell’Oms conferma quanto già era noto dal 2007, e cioè che il consumo di carne favorisce il cancro. Già otto anni fa, infatti, il Fondo mondiale per la ricerca sul cancro affermava che l’aumento del rischio del cancro al colon-retto era riconducibile al consumo di carni rosse e trasformate. E le indicazioni di abolire, eliminare, limitare erano già chiare da allora: “Limitare il consumo di carni rosse ed evitare il consumo di carni trasformate”. Certo è che ogni medico, specialista, nutrizionista può sostenere quello che vuole, ma queste raccomandazioni sono molto chiare e lo erano da tempo. Per esempio: fumare una sigaretta fa bene o male? C’è chi sosterrà che dieci sigarette fanno più male che una ma non per questo una sigaretta non fa male. Lo stesso vale per le carni trasformate, quelle non trasformate e per molti altri cibi. Bisogna stare attenti a tutti i cibi di origine animale: al latte; ai formaggi, soprattutto se stagionati; alle uova, correlate al rischio di tumore al seno, alle ovaie e alla prostata; al pesce, che comunque è carne ed è uno degli alimenti più inquinati di metalli pesanti come mercurio e piombo, ricchissimo di grassi saturi e colesterolo e, nel caso di pesce di allevamento, ricco di antibiotici promotori della crescita.E poi grande attenzione alla carne tutta in generale e, soprattutto, ai salumi. I cibi di origine animale fanno male e ormai di evidenze scientifiche a confermarlo ce ne sono in abbondanza. Poi che ci siano in ballo altri interessi è fuori discussione: quelli dell’industria della carne, ovviamente, che si è affrettata fin da subito a negare persino l’evidenza proveniente dall’Oms, ma anche quelli dell’economia italiana, del mercato, delle case farmaceutiche. Non si può lasciare che queste informazioni spaventino la popolazione, perché l’unico rischio che sta a cuore a certi settori è quello che calino i consumi, non certo quello per la salute umana. Per questo sia io che la Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana che molti colleghi esortiamo tutti i consumatori a informarsi per non assistere impotenti a questa nuova mistificazione, che vede ancora la salute sottomessa al profitto, esattamente come già accaduto per il fumo di sigaretta. Ci dicevano che bastava fumarla con il filtro, proprio come ci dicono che basta consumare carne italiana, e stare tranquilli… come se potesse fare differenza il dove la carne è prodotta.E’ imperativo non fidarsi delle rassicurazioni dei produttori, visto il loro palese conflitto di interessi, e occuparsi invece in prima persona della propria salute. Il problema non è la carne in sé ma il metodo di lavorazione? La cosa vera è che l’Europa e l’Italia sulla carne hanno controlli più stretti, più precisi e più efficaci. Per questo siamo maggiormente tutelati. Ma ciò non significa che, in Italia come altrove, la carne non sviluppi sostanze cancerogene dannose e, soprattutto, non significa che la frequenza di consumo, più che la provenienza, non siano incisive. E poi sfido qualsiasi consumatore di carne a vedere con certezza da dove la carne è arrivata, dove è stata prodotta o lavorata… C’è tantissima ignoranza, disinteresse e disinformazione in merito. Interessi economici, gola e abitudini alimentari scorrette delle persone credo che siano i fattori maggiori. Sicuramente la non voglia di prendere coscienza, di cambiare per se stessi, per la propria salute ma anche per la tutela degli animali e del pianeta. L’industria della carne e dei derivati è uno dei maggiori inquinanti in ambito ambientale.In tanti sostengono che è normale, invece, che sia così. Che l’uomo è da sempre onnivoro e che i nostri nonni sono arrivati a novant’anni grazie a questa alimentazione. Rispondo che non è assolutamente così. L’uomo nasce frugivoro, non onnivoro. Nasce raccoglitore di frutta, bacche, radici, ortaggi. La carne la mangiava quando riusciva a raggiungere, catturare e uccidere un animale. Quindi sicuramente non spesso e comunque con un grande dispendio calorico. Anche i nostri nonni mangiavano carne molto raramente e quella che mangiavano non era di certo prodotta come al giorno d’oggi. Un tempo l’animale era libero, si cibava di alimenti sani, non era costretto a vivere in allevamenti intensivi, a cibarsi artificialmente e ad essere imbottito di sostanze chimiche. Dopo la notizia dell’Oms cambierà qualcosa?Di certo questi dati hanno dato una bella scoccata all’industria della carne. Sempre più persone oggi, vuoi per paura o per maggiore consapevolezza, stanno iniziando a informarsi. Sempre più gente decide ogni giorno di intraprendere una dieta a base vegetale perché più sana, meno costosa, più etica o perché meno dannosa per l’ambiente. Ormai, per fortuna, i prodotti vegani sono ovunque e anche la ristorazione tradizionale si sta adeguando: stiamo facendo passi da gigante. Sono totalmente convinta che l’alimentazione del futuro sia quella a base vegetale. L’unica alimentazione in grado di migliorare lo stato di salute delle persone, del pianeta e degli animali è quella vegana.(Michela De Petris, dichiarazioni rilasciate a Elena Tioli per l’intervista “L’unico futuro possibile è quello senza carne”, pubblicata da “Il Cambiamento” il 13 novembre 2015. La dottoressa De Petris, specializzata nell’alimentazione terapeutica in oncologia, è membro della Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana e dell’Icea, Istituto per la Certificazione Etica e Ambientale. Già ricercatrice in studi di intervento alimentare presso l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, è stata docente di nutrizione clinica in diversi corsi in Lombardia).Il report dell’Oms conferma quanto già era noto dal 2007, e cioè che il consumo di carne favorisce il cancro. Già otto anni fa, infatti, il Fondo mondiale per la ricerca sul cancro affermava che l’aumento del rischio del cancro al colon-retto era riconducibile al consumo di carni rosse e trasformate. E le indicazioni di abolire, eliminare, limitare erano già chiare da allora: “Limitare il consumo di carni rosse ed evitare il consumo di carni trasformate”. Certo è che ogni medico, specialista, nutrizionista può sostenere quello che vuole, ma queste raccomandazioni sono molto chiare e lo erano da tempo. Per esempio: fumare una sigaretta fa bene o male? C’è chi sosterrà che dieci sigarette fanno più male che una ma non per questo una sigaretta non fa male. Lo stesso vale per le carni trasformate, quelle non trasformate e per molti altri cibi. Bisogna stare attenti a tutti i cibi di origine animale: al latte; ai formaggi, soprattutto se stagionati; alle uova, correlate al rischio di tumore al seno, alle ovaie e alla prostata; al pesce, che comunque è carne ed è uno degli alimenti più inquinati di metalli pesanti come mercurio e piombo, ricchissimo di grassi saturi e colesterolo e, nel caso di pesce di allevamento, ricco di antibiotici promotori della crescita.
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Pace con la Cina e fine della crisi, o Terza Guerra Mondiale
L’Isis, la Siria, la Russia. E poi l’Iran, Israele, la Turchia, l’emergenza migrati, la guerra in Yemen. Prove tecniche di Terza Guerra Mondiale? Ci stanno pensando seriamente, anche per azzerare i conti: viceversa, il dominio del dollaro – non più sostenibile – dovrebbe cedere al passo al nuovo mondo dei Brics, multipolare, guidato dalla Cina. Lo sostiene l’economista Vladimiro Giacché, leggendo in chiave economico-finanziaria i devastanti rivolgimenti geopolitici in corso. Il cui punto di partenza non è in Medio Oriente, ma a Wall Street: il capitalismo finanziario non si è più ripreso dopo la grande crisi del 2007, annega nel debito e ne fa pagare il conto ai paesi emergenti, e stampa montagne di moneta ma non riesce a risollevare l’economia reale. «Dopo la grande recessione, i paesi dell’Occidente capitalistico non sembrano capaci di uscire dal modello, inaugurato negli anni Ottanta e definitamente entrato in crisi nel 2007/2008, di una crescita alimentata dal debito e dall’abnorme sviluppo della finanza». Si tratta di un modello «che ha comprato la crescita nei paesi capitalistici avanzati con un’insostenibile crescita di debito e asset finanziari», che in poco meno di trent’anni, dal 1980, sono passati dal 119% del Pil mondiale all’attuale 356%.Proprio il doping finanziario dell’economia ha tenuto in vita i consumi negli Usa, in Europa e in Giappone, nonostante «salari reali calanti dall’inizio degli anni Settanta», e questo «grazie alla speculazione di Borsa e allo sviluppo del credito al consumo». Sempre la finanziarizzazione ha sorretto industrie decotte in settori “maturi”, come quello dell’auto, e alle stesse aziende ha offerto la possibilità di fare profitti attraverso la speculazione di Borsa. La crisi esplosa nel 2007 ha rotto il giocattolo, «ma non è riuscita a rilanciare l’accumulazione di capitale su scala globale». Stati Uniti, Giappone e Unione Europea, «e più in particolare l’Eurozona», si trovano molto al di sotto della crescita potenziale stimata prima della crisi, precisa Giacché nella sua relazione presentata ad un recente convegno romano sulla Cina post-crisi. «Nel mondo ci sono decine di milioni di disoccupati in più, soprattutto nei paesi a capitalismo avanzato, e quindi salari mancanti per oltre 1,2 trilioni di dollari, che gravano sulla domanda globale», spiega Giacché. «Il debito complessivo, al contrario, è cresciuto di 57 trilioni di dollari dal 2007», e questo «sia nei paesi a capitalismo maturo, sia nelle economie emergenti, Cina inclusa».Nei paesi più avanzati, è calato il debito privato ma in compenso è molto cresciuto il debito pubblico, a causa della enorme “socializzazione delle perdite” conseguente alla crisi: «Gli Stati hanno salvato a proprie spese dalla bancarotta il sistema finanziario e in qualche caso anche buona parte del settore manifatturiero». Dopo la crisi, le banche centrali di Usa e Giappone (e poi anche Ue) hanno inondato il mondo di liquidità, portando a zero i tassi d’interesse e acquistando massicciamente asset finanziari sul mercato. La Federal Reserve ha comprato titoli di Stato Usa e obbligazioni private per 4 trilioni di dollari, continua Giacché. E nell’Eurozona, oggi, i riacquisti di obbligazioni da parte della Bce sono superiori alle nuove emissioni. «Questo ha sostenuto i mercati azionari e quelli dei titoli di Stato», tuttavia «non ha fatto realmente ripartire la crescita». Una constatazione che ha indotto alcuni studiosi, tra cui il Premio Nobel Paul Krugman e un peso massimo dell’establishment di Washington, l’economista Lawrence Summers, a rispolverare il concetto di “stagnazione secolare”, nato durante la crisi degli anni Trenta.«Poche economie avanzate sono tornate ai tassi di crescita pre-crisi nonostante anni di tassi d’interesse praticamente a zero». E si temono nuove bolle finanziarie. Secondo Krugman, «periodi come gli ultimi 5 anni e oltre, in cui anche una politica di tassi d’interesse a zero non è in grado di ricreare una situazione di piena occupazione, sono destinati ad essere molto più frequenti in futuro». Quel modello è in crisi, dunque, ma i paesi non sanno rinunciarvi. Questo però si scontra con due problemi, osserva Giacché: «Il primo è la sproporzione crescente tra liquidità immessa nel mercato da parte delle banche centrali e risultati in termini di crescita», sproporzione «accompagnata dal rischio di alimentare instabilità finanziaria». Il secondo problema «consiste nel fatto che le politiche monetarie espansive (convenzionali e non) delle principali banche centrali occidentali sono di fatto pagate dai paesi emergenti, su cui le valute internazionali di riserva (e in particolare il dollaro) esercitano un diritto di signoraggio».In altre parole, «le manovre monetarie espansive del centro capitalistico sono pagate dalla periferia». Ovvero: «Espandendo la loro base monetaria, i paesi le cui monete sono valute internazionali di riserva scaricano infatti il costo della loro politica monetaria espansiva sui paesi emergenti, che sono costretti ad adoperare quelle valute per gli scambi internazionali». Inoltre, continua Giacché, rendendo negativi i tassi d’interesse sui propri titoli di Stato, il costo dell’operazione viene scaricato su chi li ha comprati (come è noto, la Cina ha molti titoli di Stato americani in portafoglio). Secondo Pingfan Hong, dell’Onu, qualcosa come 3.700 miliardi di dollari di valore sarebbero stati trasferiti in questo modo dai paesi in via di sviluppo ai paesi più ricchi del pianeta. Tutto questo «rappresenta un forte incentivo al superamento dell’attuale ordine monetario mondiale», fondato sulla valuta statunitense.L’obiettivo strategico dei paesi emergenti, dunque, è oggi quello chiarito in anticipo dall’agenzia cinese “Xinhua” già nel 2013: creare “una nuova valuta di riserva internazionale che rimpiazzi quella attualmente dominante, cioè il dollaro”. Obiettivo oggi perseguito costruendo progressivamente un’alternativa concreta all’uso del dollaro, dell’euro e dello yen nelle transazioni internazionali. «Questo sta già avvenendo: attraverso accordi bilaterali, un numero sempre maggiore di paesi ha stipulato con la Cina contratti in base ai quali le transazioni commerciali vengono regolate non più in dollari, ma in yuan. Ed è precisamente su questa base che fin dall’ottobre 2013 lo yuan ha superato l’euro e lo yen nel Trade Finance a livello internazionale, divenendo la seconda valuta mondiale in tale ambito».La richiesta di ammissione dello yuan alle monete del paniere Fmi rientra nella medesima strategia, aggiunge Giacché. Sulla stessa linea, la creazione di nuove banche multilaterali di sviluppo, dalla Banca dei Brics e all’Aiib. Prima missione: costruire infrastrutture finanziarie incentrate sui Brics «e non più sulla triade Europa-Stati Uniti-Giappone», e quindi «in grado di assecondare la transizione a un ordine monetario più bilanciato». L’altro obiettivo, enunciato due anni fa da Justin Yifu Lin nel saggio “Against the Consensus”, è quello di colmare il gap infrastrutturale fisico dei paesi emergenti, eliminando colli di bottiglia dello sviluppo e sbloccando così importanti riserve di crescita mondiale. «È importante notare che di questa crescita beneficerebbero sia i paesi emergenti (com’è ovvio), sia i paesi a capitalismo maturo (in grado di fornire oggi macchinari, domani beni di consumo ai mercati con migliore potenziale del mondo)». Per Giacché, «questa strategia per il rilancio dell’accumulazione di capitale su scala globale è l’unica vera alternativa oggi in campo, per uscire dalla crisi, alla riproposizione del modello imperniato sul capitale produttivo d’interesse e quindi sull’incremento esponenziale del capitale fittizio».Se ci fermiamo sulle più importanti infrastrutture ipotizzate, ossia la Via della Seta (terrestre e marittima), vediamo che «hanno un’implicazione geopolitica fondamentale: ossia l’avvicinamento di Europa ed Asia (e in prospettiva, forse, addirittura la creazione di un blocco eurasiatico)». Oggi, continua Giacché nella sua analisi, a questo avvicinamento si oppone non soltanto la carenza di infrastrutture di trasporto adeguate, ma anche l’“arco di instabilità” che destabilizza Medio Oriente e Asia Centrale, interrompendo in più punti entrambi i tracciati. «Questo dato di fatto ci offre una interessante lettura, non “energetica”, della situazione mediorientale». E «ci deve preoccupare, soprattutto in riferimento ad alcuni enunciati di Lawrence Summers nel contesto della sua ripresa della teoria della “secular stagnation”». Chi lavora per congelare il mondo in questa stagnazione infinita? L’Occidente, che prova ancora a «puntellare il modello di crescita precedente la crisi». Solito metodo: per contrastare il crollo dei profitti, si perpetua «l’egemonia del capitale produttivo d’interesse, pur sapendo che questo non farà che riproporre – e su scala ancora più estesa – i problemi che pochi anni fa hanno condotto a una delle più gravi crisi della storia del capitalismo».Lo stesso Summers accenna anche a una soluzione alternativa per far ripartire la crescita, citando Alvin Hansen che enunciò «il rischio di una stagnazione secolare alla fine degli anni Trenta, in tempo per assistere al boom economico contemporaneo e successivo alla seconda guerra mondiale». Per Summers «è senz’altro possibile che si produca qualche evento esogeno di grande portata». Un “evento esogeno”? Sì, e così esplosivo da «aumentare la spesa o di ridurre il risparmio in misura tale da accrescere il tasso di interesse reale da piena occupazione nel mondo industriale». Testualmente: «Guerra a parte, non è chiaro quali eventi del genere possano verificarsi». Un “evento esogeno” chiamato Terza Guerra Mondiale?«Se prendiamo sul serio queste affermazioni, e io credo si debba farlo – dice Giacché – quello che si sta svolgendo sotto i nostri occhi in Medio Oriente non è una recrudescenza di tribalismo islamico contro la “moderna civiltà occidentale”, e quanto avviene più complessivamente nel mondo non è l’emergere di presunti nuovi imperialismi contro i vecchi poteri capitalistici». Sul tavolo ci sono solo due opzioni: il modello di sviluppo multilaterale proposto dalla Cina, col rilancio della crescita dell’economia reale attraverso investimenti, oppure il modello di crescita solo finanziaria basato sul capitale d’interesse, e cioè «sul perpetuarsi di un signoraggio antistorico» che include «la difesa di vecchie rendite di posizione attraverso la destabilizzazione ora, e domani forse la guerra». E’ Proprio qui, conclude Giacché, che «si gioca oggi la partita – dall’esito tutt’altro che deciso – tra progresso e regressione».L’Isis, la Siria, la Russia. E poi l’Iran, Israele, la Turchia, l’emergenza migranti, la guerra in Yemen. Prove tecniche di Terza Guerra Mondiale? Ci stanno pensando seriamente, anche per azzerare i conti: viceversa, il dominio del dollaro – non più sostenibile – dovrebbe cedere al passo al nuovo mondo dei Brics, multipolare, guidato dalla Cina. Lo sostiene l’economista Vladimiro Giacché, leggendo in chiave economico-finanziaria i devastanti rivolgimenti geopolitici in corso. Il cui punto di partenza non è in Medio Oriente, ma a Wall Street: il capitalismo finanziario non si è più ripreso dopo la grande crisi del 2007, annega nel debito e ne fa pagare il conto ai paesi emergenti, e stampa montagne di moneta ma non riesce a risollevare l’economia reale. «Dopo la grande recessione, i paesi dell’Occidente capitalistico non sembrano capaci di uscire dal modello, inaugurato negli anni Ottanta e definitamente entrato in crisi nel 2007/2008, di una crescita alimentata dal debito e dall’abnorme sviluppo della finanza». Si tratta di un modello «che ha comprato la crescita nei paesi capitalistici avanzati con un’insostenibile crescita di debito e asset finanziari», che in poco meno di trent’anni, dal 1980, sono passati dal 119% del Pil mondiale all’attuale 356%.
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Saskia Sassen: è il golpe dei predatori, ci vogliono espellere
La disuguaglianza è inevitabile in sistemi complessi e altamente differenziati, e ci accompagna sin da quando i primi essere umani hanno costruito delle città. Dobbiamo quindi interrogarci sulle condizioni della disuguaglianza: per esempio, dovremmo chiederci quand’è che la disuguaglianza diventa profondamente ingiusta, e quando è accettabile. Anche le economie successive alla seconda guerra mondiale producevano disuguaglianza, ma era una forma di disuguaglianza più o meno ragionevole. Oggi la disuguaglianza, al contrario, è estrema. Il linguaggio sulla “maggiore disuguaglianza”, sulla “maggiore povertà”, sull’aumento dell’incarcerazione, sulla crescita della distruzione ambientale e così via, è insufficiente a individuare il periodo attuale. Ci sono delle rotture in corso. Non si tratta soltanto di un “di più” della stessa cosa. Siamo di fronte a una serie – imponente e diversificata – di espulsioni, una serie che segnala una più profonda trasformazione sistemica, che viene documentata a pezzi, in modo parziale, in studi specialistici diversi, ma che non viene narrata come una dinamica onnicomprensiva che ci sta conducendo in una nuova fase del capitalismo globale, e della distruzione globale.Quella di espulsioni va distinta dalla più comune nozione di “esclusione sociale”: quest’ultima avviene all’interno di un sistema e in questo senso può essere ridimensionata, migliorata, perfino eliminata. Nei sistemi complessi ci sono invece margini sistemici multipli, e le espulsioni attraversano domini e sistemi diversi, dalle prigioni ai campi profughi, dallo sfruttamento finanziario alle distruzioni ambientali. Per come le concepisco io, le espulsioni avvengono nel margine sistemico.Uso il termine “espulsioni” per descrivere una varietà di processi che producono esiti estremi da un lato, e che dall’altro potrebbero essere familiari e ordinari. Tra gli esempi dei processi di espulsione, potrei citare il crescente numero degli indigenti; degli sfollati nei paesi poveri ammassati nei campi profughi formali o informali; dei discriminati e perseguitati nei paesi ricchi depositati nelle prigioni; dei lavoratori i cui corpi sono distrutti dal lavoro e resi superflui a un’età troppo giovane; della popolazione attiva considerata in eccesso che vive nei ghetti e negli slum.Potrei aggiungere le parti della biosfera espulse dal loro spazio vitale a causa delle tecniche estrattive o dell’accaparramento di terre. E insisto sul fatto che il mite linguaggio del “cambiamento climatico” in questo ambito non riesce ad afferrare il fatto che, al livello empirico, esistono vaste distese di terra morta e di acqua morta. Di fronte all’estremo tendiamo a fermarci. È troppo, e troppo sgradevole. Ci mancano i concetti per comprenderlo. Per questo, diventa facilmente il mostruoso. O diviene invisibile, indipendentemente da quanto sia materiale. In “Espulsioni” esamino un ampio raggio di processi che a un certo punto diventano così estremi che il linguaggio familiare del “più” non serve più a spiegarli. Il momento dell’espulsione è il momento in cui una condizione familiare diviene estrema: non si è semplicemente poveri, si è senza casa, affamati, si vive in una baracca. O, per quel che riguarda la terra e l’acqua: come dicevo non è semplicemente degradata, insalubre. É morta, finita.Dovremmo preoccuparci delle “formazioni predatorie”. Sono formazioni complesse, che assemblano una varietà di elementi: élite, capacità sistemiche, mercati, innovazioni tecniche (di mercato e finanziarie) abilitate dai governi. Ci sono per esempio nuovi strumenti legali e contabili, sviluppati nel corso degli anni, che condizionano ciò che oggi ci appare come un contratto legittimo. Ci sono le banche centrali che forniscono quantitative easing: nel caso degli Stati Uniti, 7 bilioni di dollari dei cittadini sono stati messi a disposizione del sistema finanziario internazionale a tassi molto bassi, e poi usati per la speculazione, non per fornire prestiti alle piccole imprese che ne avrebbero disperato bisogno. In questo senso, abbiamo a che fare con zone complesse che assemblano una varietà di elementi, una condizione che eccede il semplice fatto di avere una elite di super-ricchi potenti. Anche se ci liberassimo di tutti i super-ricchi, continueremmo ad avere esiti simili a quelli attuali.Anche i governi sono parte delle formazioni predatorie. Dovremmo archiviare la tesi secondo la quale lo Stato-nazione nel suo complesso è una vittima dei processi di globalizzazione economica. Ed è particolarmente sbagliato quando ci si riferisce al ramo esecutivo dei governi, perché sono i Parlamenti e il ramo legislativo ad aver subito una perdita massiccia di funzioni e potere. Mentre il ramo esecutivo – dunque i presidenti o i primi ministri – hanno ottenuto un particolare, nuovo tipo di potere grazie alla globalizzazione: sono loro a istituire le politiche, ad articolare i trattati commerciali e di investimento che sostengono le corporation. E allo stesso tempo le banche centrali sostengono il sistema finanziario, non i poveri o i piccoli imprenditori.Per lei, la decadenza dell’economia politica del ventesimo secolo inizia negli anni Ottanta del Novecento, benché abbia genealogie spesso più antiche. Alcuni segnali erano evidenti già negli anni Settanta, ma è negli anni Ottanta che l’economia comincia a cambiare rotta, e a restringersi: l’indebolimento dei sindacati, i minori investimenti nelle infrastrutture a beneficio di tutti, incluse quelle per i quartieri e le famiglie meno ricche, l’aumento della concentrazione di potere e ricchezza al vertice, anziché dello sviluppo della classe media. Nel mio libro ho incluso uno schema che mostra come negli anni Ottanta i nostri governi fortemente sviluppati abbiano cominciato a diventare più poveri, mentre nel mondo meno sviluppato, invece di investire nella produzione manifatturiera gli investimenti sono stati dirottati all’estrazione mineraria, al petrolio e ad altri settori primari. Ciò è accaduto per esempio nell’Africa subsahariana, che si era sviluppata negli anni Sessanta e Settanta con il successo dei processi di indipendenza. Questo processo ha prodotto ricchezza per le aziende e per le elite governative corrotte, ma povertà per la popolazione.Questo passaggio da una logica inclusiva a una logica di espulsione segna una vera e propria rottura rispetto alla fase precedente, quella del capitalismo keynesiano del secondo dopoguerra. Negli anni Ottanta c’è stata una rottura radicale, una frattura rispetto al capitalismo keynesiano, la cui logica dominante – nonostante tutti i limiti – era l’inclusione, la riduzione delle tendenze sistemiche alla disuguaglianza, perché il sistema si reggeva sulla produzione e sul consumo di massa, su una logica espansiva dunque. La manifattura di massa, il consumo di massa, la costruzione di case e strade anche per i meno abbienti: tutto ciò è stato ottenuto espandendo lo spazio dell’economia e incorporando le persone nel sistema. Oggi alcuni settori ancora beneficiano di una certa espansione, ma altri settori chiave non ne hanno bisogno, per cui abbiamo una crescita intensa dei profitti totali delle corporation, ma uno spazio economico complessivamente più circoscritto. I profitti delle corporation crescono, ma lo spazio economico si contrae, complessivamente.Il settore del consumo è stato parzialmente distrutto dalla finanziarizzazione dell’economia, che può produrre profitti molto più alti rispetto al settore del consumo. Contestualmente, avviene una ridefinizione de facto dello spazio economico, una contrazione dell’economia, dalla quale viene espulso tutto ciò che (incluse le persone) non è più considerato produttivo secondo i criteri standard. La crescita economica, misurata secondi i criteri convenzionali, è il veleno della nostra epoca. C’è bisogno di economie che rispondano a logiche distributive: più coinvolgono le persone e le realtà territoriali e locali, più le economie ne beneficiano e producono benefici. Oggi avviene il contrario. Ci si libera di tutti i lavoratori sindacalizzati, delle classe media, esclusa dai servizi statali, degli studenti che avrebbero bisogno di università gratuite. La mia tesi è che quando la Germania o il Regno Unito dicono: “la Grecia è il problema, noi siamo a posto”, sbagliano. Le tendenze sono le stesse per tutti questi paesi. La Grecia è soltanto la versione più estrema della stessa tendenza. Nel libro presento un grafico che dimostra in che misura tutte le principali economie dell’Unione Europea, inclusa la Germania, presentino un calo netto, dopo che nel 2008 la crisi è esplosa.La Germania ha un settore manifatturiero forte, che gli ha permesso di recuperare presto. La Grecia ha gli oligarchi che hanno sfruttato il paese, che non pagano le tasse e fondamentalmente non contribuiscono all’economia greca. Le Olimpiadi ne sono l’esempio più evidente. Ma la tendenza è la stessa. La maggior parte degli Stati liberali oggi è in decadenza. Le ragioni sono complesse, e le esamino in dettaglio nel mio libro precedente, “Territorio, autorità, diritti” (Bruno Mondadori, 2008). Le privatizzazioni e la deregolamentazione sono stati fattori cruciali. Un altro fattore è il numero crescente di ricchi e di corporation potenti che pagano sempre meno tasse. La finanziariazzazione dell’economia e il graduale restringimento dei settori economici distributivi come il manifatturiero, è un altro fattore ancora. L’impoverimento delle classi medie, i prezzi più elevati per le case che hanno compromesso la possibilità per i figli di vivere fuori casa, la contrazione del sistema di sostegno sociale organizzato dallo Stato. Sono gli esiti di una logica distorta che ha catturato lo Stato liberale. Agli estremi, gli esiti sono le espulsioni.(Saskia Sassen, estratti dell’intervista “Le nuove logiche del capitalismo predatorio” rilasciata a Giuliano Battiston per “L’Espresso” e ripresa da “Micromega” il 4 novembre 2015. Docente di sociologia alla Columbia University di New York, la Sassen è autrice di “Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale”, Il Mulino, 296 pagine, 25 euro).La disuguaglianza è inevitabile in sistemi complessi e altamente differenziati, e ci accompagna sin da quando i primi essere umani hanno costruito delle città. Dobbiamo quindi interrogarci sulle condizioni della disuguaglianza: per esempio, dovremmo chiederci quand’è che la disuguaglianza diventa profondamente ingiusta, e quando è accettabile. Anche le economie successive alla seconda guerra mondiale producevano disuguaglianza, ma era una forma di disuguaglianza più o meno ragionevole. Oggi la disuguaglianza, al contrario, è estrema. Il linguaggio sulla “maggiore disuguaglianza”, sulla “maggiore povertà”, sull’aumento dell’incarcerazione, sulla crescita della distruzione ambientale e così via, è insufficiente a individuare il periodo attuale. Ci sono delle rotture in corso. Non si tratta soltanto di un “di più” della stessa cosa. Siamo di fronte a una serie – imponente e diversificata – di espulsioni, una serie che segnala una più profonda trasformazione sistemica, che viene documentata a pezzi, in modo parziale, in studi specialistici diversi, ma che non viene narrata come una dinamica onnicomprensiva che ci sta conducendo in una nuova fase del capitalismo globale, e della distruzione globale.
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Gallino: con l’euro ci stanno facendo tornare al medioevo
«Una fiammella di pensiero critico nell’età della sua scomparsa». Luciano Gallino, noto sociologo, parla così della sua ultima fatica “Il denaro, il debito e la doppia crisi” (Einaudi editore). Un testo, dedicato ai nipoti, che analizza l’attuale fase socio-economica: «Senza un’adeguata comprensione della crisi del capitalismo e del sistema finanziario, dei suoi sviluppi e degli effetti che l’uno e l’altro hanno prodotto nel tentativo di salvarsi, ogni speranza di realizzare una società migliore dall’attuale può essere abbandonata», si legge nella prefazione al libro. Il suo giudizio è netto, crudo e decisamente pessimista. A partire dagli anni Ottanta avremmo visto scomparire due pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella, appunto, del pensiero critico. Al loro posto ci ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale, la vincitrice assoluta della nostra era. Qual è la doppia crisi che va spiegata ai nipoti? «La crisi del capitalismo e del sistema ecologico. Due crisi strettamente legate tra loro».È possibile che il capitalismo attuale sia in una stagnazione senza fine, dichiara Gallino a Giacomo Russo Spena in un’intervista pubblicata da “Micromega”. Difficile che il sistema riprenda una marcia espansiva come se nulla fosse successo in questi anni: «Con la finanziarizzazione dell’economia, il capitalismo ha tramutato in merce un’entità immaginaria, ovvero il futuro. A tale desolante quadro, si collega la distruzione del nostro sistema ecologico». Ovvero: «Per ottemperare alla crisi, il capitalismo ha reagito devastando ambiente e consumando maggiori risorse, mentre nel mondo le materie prime sono in via di esaurimento. Ciò ha causato distruzioni all’ecosistema e danni climatici come il surriscaldamento del pianeta». I progressi intrapresi con il Protocollo di Kyoto? «I paesi sono lontani dal mantenere gli obiettivi prefissati, i risultati sotto gli occhi di tutti: l’innalzamento delle temperature, “bombe” d’acqua, alluvioni».Gallino narra la storia di una sconfitta politica. Al posto del pensiero critico ci ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale: la lotta di classe l’avrebbero vinta i ricchi. Ma come siamo arrivati a questo punto? «Dagli anni ’80 il pensiero neoliberale ha scatenato un’offensiva che ha messo sotto attacco le idee e le politiche di uguaglianza. Un apparato di super-ricchi e potenti ha imposto il proprio dominio su finanza, società e media. Nessun esponente politico ne è rimasto escluso, anche dopo il 2007 quando tale pensiero è entrato totalmente in crisi». In gioco, aggiunge il sociologo, non c’è soltanto la demolizione del welfare, ma «la ristrutturazione dell’intera società secondo il modello della cultura politica neoliberale, o meglio della sua variante, soprattutto se pensiamo al piano tedesco: l’ordoliberalismo», regolato da una ferra disciplina sociale a vantaggio dei più ricchi.A proposito delle ricette economiche adottate per affrontare la crisi, nel libro scrive che siamo dinanzi a casi conclamati di stupidità. «I governi dei paesi europei hanno sposato i paradigmi dell’economia neoliberale e perseguito il dogma dell’austerity non avanzando una sola spiegazione decente delle cause della crisi mondiale: i modelli intrapresi sono lontani anni luce della realtà dell’economia. Hanno utilizzato modelli vecchi e superati». Un esempio italiano? «Nella nuova riforma sul lavoro, il Jobs Act, non vi è alcun elemento né innovativo né rivoluzionario, tutto già visto 15-20 anni fa. È una creatura del passato che getta le proprie basi nella riforma del mercato anglosassone di stampo blairiano, nell’agenda sul lavoro del 2003 in Germania e, più in generale, nelle ricerche dell’Ocse – poi riviste – della metà anni ’90». Un’altra follia, continua Gallino, è l’aver avallato l’idea che una crescita senza limiti dell’economia capitalistica sia possibile. «In questa lunga discesa verso la recessione, gli esecutivi di Berlusconi, Monti, Letta e ora Renzi saranno ricordati come quelli con la maggiore incapacità di governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi».Con il terremoto finanziario ha “perso” l’idea di uguaglianza. Un dato su tutti: il 28% è il numero dei bambini che vivono sotto la soglia di povertà in Europa. Sempre il 28, scrive Russo Speana, è la crescita del fatturato delle aziende del lusso tra il 2010 e il 2013. Anni di crisi, quindi, ma non per tutti? «Nei maggiori paesi Ocse, nel periodo 1976-2006, la quota salari sul Pil è scesa in media di 10 punti, i quali sono passati alla quota profitti dando origine a diseguaglianze di reddito e ricchezza mai viste dopo il Medioevo. Inoltre, va evidenziato che l’enorme diseguaglianza non è la causa ma l’effetto delle politiche di austerity adottate dai governi per combattere la crisi. Due facce di unico processo: la redistribuzione dal basso verso l’alto con i più poveri che sono stati impoveriti dai più ricchi». Vie d’uscita? Una sola, ovvero «il superamento del pensiero neoliberale sotto i vari aspetti a cominciare da quello economico».Nulla che sia all’orizzonte, però. Anche se, recentemente, si stanno sviluppando «esempi di resistenza» e “pensatoi” di studiosi che riflettono su ipotesi di discontinuità. Ma, appunto, «siamo lontani da un effettivo cambiamento dello status quo». In realtà, servirebbe «un segnale di rottura anche nella scuole e nell’università che, negli ultimi decenni, hanno subito un attacco da parte dei governi a colpi di riforme orientate a espellere il pensiero critico dai luoghi della formazione: l’intero sistema doveva essere ristrutturato come un’impresa che crea e accumula “capitale umano”». La crisi del capitalismo ha portato anche ad una crisi della democrazia? «Sicuramente, basta pensare all’attuale architettura dell’Unione Europea e alla sovranità perduta: il trasferimento di poteri da Roma a Bruxelles è andato oltre a quel che era previsto dal trattato di Maastricht. Temo che il sogno europeista si sia infranto sugli scogli dell’euro».La moneta unica, aggiunge lo studioso, «si è rivelata una camicia di forza e non ha minimamente contribuito a ridurre gli scarti tra un’economia e l’altra in termini di ricerca e sviluppo, investimenti, innovazione di prodotto e di processi, dotazione di infrastrutture ed istruzione professionale». Gallino si dichiara apertamente no-euro: «Decisamente sì, lo sono da anni». E spiega: «Ci vuole un intervento radicale», anche se sa benissimo che l’uscita dalla moneta unica è «complessa e difficile», quindi «va pensata gradualmente e concordata con Bruxelles». Pensa anche alla rottura dell’Unione Europea? Questo no: «Uscire dall’Europa sarebbe, per l’Italia, un disastro economico per via dei cambi che si scatenerebbero contro di noi». Gallino è «favorevole ad una graduale uscita dall’euro, rimanendo però nell’Unione Europea». Sottolienea come sia «tecnicamente possibile», e si impegna a dimostrarlo in un “paper” che presenterà a breve.Russo Spena si domanda se «una sinistra degna di questo nome» non dovrebbe fare proprio il tema della lotta alla diseguaglianza sociale. Già, ma quale sinistra? «Dove sta a sinistra una formazione di qualche solidità e ampiezza che ne abbia fatto la propria bandiera?». Anche in Italia «ci sono dei segmenti», però «sono ininfluenti, soprattutto di fronte a quel che dovrebbe essere il domani di una sinistra in grado di rappresentare una valida opzione politica. Purtroppo, da noi, la sinistra non esiste», chiarisce Gallino. E Syriza, Podemos, il Sinn Fein e le altre forze della sinistra europea? Nient’altro che «segnali di incoraggiamento», verso i quali Gallino resta cauto: «Bisogna capire quanto dureranno questi fenomeni e se riusciranno realmente ad incidere a Bruxelles e contro le politiche d’austerity. Tifo per loro senza illusioni». Poco allegro, dunque, l’orizzonte per i giovani. «Cambiare in modo radicale le strategie di produzione e consumo è una necessità vitale per l’intera umanità». Un messaggio ai ragazzi? «Se volete avere qualche speranza… studiate, studiate, studiate».«Una fiammella di pensiero critico nell’età della sua scomparsa». Luciano Gallino, noto sociologo, parla così della sua ultima fatica “Il denaro, il debito e la doppia crisi” (Einaudi editore). Un testo, dedicato ai nipoti, che analizza l’attuale fase socio-economica: «Senza un’adeguata comprensione della crisi del capitalismo e del sistema finanziario, dei suoi sviluppi e degli effetti che l’uno e l’altro hanno prodotto nel tentativo di salvarsi, ogni speranza di realizzare una società migliore dall’attuale può essere abbandonata», si legge nella prefazione al libro. Il suo giudizio è netto, crudo e decisamente pessimista. A partire dagli anni Ottanta avremmo visto scomparire due pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella, appunto, del pensiero critico. Al loro posto ci ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale, la vincitrice assoluta della nostra era. Qual è la doppia crisi che va spiegata ai nipoti? «La crisi del capitalismo e del sistema ecologico. Due crisi strettamente legate tra loro».
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Scordatevi sicurezza e privacy, Facebook è in ascolto
Una cosa alla quale siamo diventati tutti troppo abituati è il fatto che la nostra realtà possa venire manipolata per assomigliare a qualcosa di totalmente diverso. Invadere un’altra nazione è un atto di difesa, elezioni corrotte vengono spacciate come democrazia in azione, un numero maggiore di pistole (o armi nucleari) assicurano la pace, il commercio e gli investimenti stranieri aumentano i posti di lavoro a casa. La logica orwelliana è diventata una cosa normale. Ciò che voglio affrontare qui è un altro tipo di manipolazione: il modo in cui Facebook e gli altri social media usano le informazioni che, per la maggior parte inconsapevolmente, gli forniamo – incluse le conversazioni che facciamo nella privacy della nostre case – per pubblicizzare prodotti che non abbiamo richiesto e che quasi certamente non vogliamo, e passare dati al governo. Non sono di sicuro il primo a scoprire questa capacità straordinaria: molti si sono dichiarati sbalorditi e arrabbiati quando si sono resi conto che parole usate nelle conversazioni su Facebook e Twitter, messaggi, location, status, così come quelle usate nelle conversazioni private fra le mura delle proprie case, venivano quasi immediatamente captate e convertite in annunci pubblicitari.Nomini un certo sport, ed ecco che appare la pubblicità di un’agenzia di prenotazione biglietti. Dici che ti piacerebbe guidare una Lexus ed ecco che compare una pubblicità sulla Lexus. Parli di una vacanza e una pubblicità su Facebook ti raccomanda una spiaggia Hawaiana o un piccolo hotel a Parigi che – guarda caso! – avevi appunto nominato ieri! E’ paranoia? Facebook (o Instagram, Google, o Yahoo) è in grado di origliare le nostre conversazioni? Facebook ammette senza tanti problemi che il suo modello di business si basa sui dati che inseriamo o trasmettiamo on-line, che una volta che ci siamo iscritti i dati sostanzialmente diventano proprietà di Facebook, e che – come ha affermato Mark Zuckerberg, Ceo di Facebook – alla maggior parte delle persone non interessa poi così tanto davvero, della loro privacy. Chiaramente, Facebook & Co. si difendono dicendo che stanno semplicemente rispondendo ai tuoi bisogni e che, se lo desideri, puoi sempre ridurre (ma non eliminare) la quantità di pubblicità, semplicemente selezionando una lista nelle impostazioni di programma. Ma per quanto riguarda il fatto dell’ascolto, Facebook sostiene che l’utente sia l’unico a controllare il microfono, e che, secondo il capo della sicurezza di Facebook, si debba autorizzare Facebook ad attivarlo. Per caso qualcuno si ricorda di una richiesta di autorizzazione?Sembra che si possa disattivare la funzione microfono in Windows o nell’applicazione mobile Facebook sullo smartphone o sul tablet. Ma “off”, significa davvero del tutto “off”? Sembrerebbe di no. L’esperienza mia e di mia moglie dopo aver disattivato il microfono sul suo computer, afferma il contrario. Da notare che le pubblicità sono apparse pochi secondi dopo la nostra conversazione. * Jodi ha fatto un commento sull’attrice Robin Wright Penn. Subito, sono comparse pubblicità su film di Sean Penn.* Abbiammo discusso di magliette per i nipoti. Ecco comparire pubblicità proprio per quelle magliette. * Jodi ha parlato della nostra sfida a Scarabeo, lasciata in sospeso. La pubblicità del gioco Yahtzee è comparsa all’istante. * Jodi stava descrivendo il suo aspetto in relazione alla sua età, per esempio le linee di espressione ed i capelli bianchi, ed è comparsa una pubblicità per la linea “Age Rewind” di Maybelline. E allora uno si chiede, ok, ma spiare non è illegale, un’invasione della privacy?Ci sono state proteste sul larga scala circa lo spionaggio di Facebook sugli smartphone, ma nessuno cambio di policy da parte di Facebook, a quanto ne so. A livello legale, uno studio belga – e tra l’altro, gli europei sono molto più infastiditi e attenti alle manovre sospette di Facebook di quanto non lo siano gli americani – mette in evidenza che il “ritirarsi” dalla pubblicità non è lo stesso che dare consenso informato e diretto. Inoltre, Facebook non chiede il nostro consenso per acquisire dati da altre fonti, per raccogliere dati di localizzazione forniti dagli smartphone, per usare foto o altri dati (come il “like”) inseriti dall’utente. Penso che una corretta interpretazione del report belga e dei chiarimenti più recenti di Facebook sulla sua politica (2015), sia che Facebook può raccogliere ed usare ogni tipo di informazione risultante dall’uso di Facebook da parte dell’utente e dallo strumento utilizzato per accedervi. “Ogni tipo di informazione” significa assolutamente ogni dato l’utente abbia inserito, sia su se stesso che su persone terze, sia comunicato per scritto, a voce, o attraverso immagini. Anche se si decide di chiudere l’account Facebook, tutti i dati forniti restano in suo possesso.E c’è un’ulteriore questione, ancora più dannosa: la raccolta e l’uso dei dati provenienti dai social media da parte delle agenzie governative, in particolare l’ Agenzia per la Sicurezza Nazionale (Nsa). Questa pratica, portata allo scoperto da Edward Snowden, include la partecipazione di Facebook, Apple e numerose altre aziende tecnologiche nel programma Prism della Nsa, per raccogliere dati direttamente dalle aziende piuttosto che semplicemente tramite Internet. L’Unione Europea sta ora contestando questa invasione della privacy. Nel 2000, l’Ue ha accettato la proposta americana di istituire un programma di “Safe Harbor” – Porto Sicuro – per il trasferimento agli Stati Uniti dei dati personali raccolti in Europa da Facebook, Google e Amazon. Quell’accordo è stato rivalutato dall’avvocato generale della Corte di giustizia europea, che ha concluso che esso viola i diritti fondamentali degli europei. L’avvocato generale ritiene che i dati possano «venire utilizzati dalla Nsa e da altre agenzie di sicurezza degli Stati Uniti nel corso di una sorveglianza indiscriminata di massa».La Corte di giustizia europea ha appena confermato tale opinione, e dichiarato non valido il programma “Safe Harbor”. La decisione della Corte di giustizia è che il Safe Harbor «debba essere considerato come qualcosa che compromette l’essenza stessa del diritto fondamentale al rispetto della vita privata». E’ un colpo duro, sebbene non fatale, per Facebook e per gli altri soggetti coinvolti nel trasferimento di dati in Europa. Gli europei hanno fatto pressioni a queste aziende, in particolare a Google e Amazon, anche circa altre questioni, come nel caso della legislazione antitrust. Idealmente, la decisione della Corte di giustizia e la altre azioni europee incoraggeranno gli americani ad organizzare le loro battaglie per una maggiore tutela della privacy ed una maggior trasparenza sul modo in cui i giganti della tecnologia conducono i loro affari. L’invasione della privacy sui social media vi preoccupa, o considerate la perdita della privacy come il prezzo della socializzazione? Come avete gestito la vostra privacy sul vostro computer, smartphone, o tablet? Avete avuto esperienze di “spionaggio” come quelle che ho nominato?(Mel Gurtov, “La distorsione della realtà: Facebook è in ascolto”, da “Counterpunch” del 13 ottobre 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”. Professore emerito di scienze politiche alla Portland State University, Gurtov è editorialista di “Asian Perspective”, trimestrale di politica internazionale, e scrive sul blog “In the Human Interest”).Una cosa alla quale siamo diventati tutti troppo abituati è il fatto che la nostra realtà possa venire manipolata per assomigliare a qualcosa di totalmente diverso. Invadere un’altra nazione è un atto di difesa, elezioni corrotte vengono spacciate come democrazia in azione, un numero maggiore di pistole (o armi nucleari) assicurano la pace, il commercio e gli investimenti stranieri aumentano i posti di lavoro a casa. La logica orwelliana è diventata una cosa normale. Ciò che voglio affrontare qui è un altro tipo di manipolazione: il modo in cui Facebook e gli altri social media usano le informazioni che, per la maggior parte inconsapevolmente, gli forniamo – incluse le conversazioni che facciamo nella privacy della nostre case – per pubblicizzare prodotti che non abbiamo richiesto e che quasi certamente non vogliamo, e passare dati al governo. Non sono di sicuro il primo a scoprire questa capacità straordinaria: molti si sono dichiarati sbalorditi e arrabbiati quando si sono resi conto che parole usate nelle conversazioni su Facebook e Twitter, messaggi, location, status, così come quelle usate nelle conversazioni private fra le mura delle proprie case, venivano quasi immediatamente captate e convertite in annunci pubblicitari.
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Pasolini, spentosi stanotte nel suo letto a 93 anni
A novantatré anni il poeta si è spento serenamente nella sua amata Torre di Chia a Soriano nel Cimino (Vt). L’intellettuale che più di ogni altro ha saputo interpretare gli ultimi cinquant’anni della società italiana lascia incompiuta la sua ultima opera letteraria,“Innocenza di Stato”, che già si annuncia come il caso letterario dell’anno. Cordoglio tra tutte le forze politiche e istituzionali del paese che ne rimarcano l’alto valore civile e morale. Il presidente della Repubblica si dichiara addolorato per una perdita irreparabile per la nazione tutta. I presidenti di Camera e Senato ne ricordano il contributo fondamentale per la riforma del sistema scolastico e universitario, quando fu nominato ministro della pubblica istruzione nell’eccezionale e breve governo Berlinguer del 1980. Da tutto il mondo giungono messaggi di ringraziamento per la sua produzione letteraria e cinematografica. Ancora vive sono le immagini del trionfo del suo trentaseiesimo e ultimo film “Il pane dei vinti”, Palma d’Oro a Cannes nel 2002.Da “Ragazzi di vita” a “L’uomo di cartone”, da “Petrolio” a “Servizi e sevizie di Stato”, i romanzi dello scrittore friulano hanno segnato la coscienza di almeno tre generazioni di scrittori, tanto da far nascere intorno alla sua figura due scuole di pensiero contrapposte come il filopasolinismo e l’antipasolinismo. Testimone della vita politica italiana del Novecento, lascia una corposa produzione di saggi e articoli di assoluto rilievo per capacità di analisi e disvelamento critico delle dinamiche del potere e delle sue degenerazioni. Letteralmente sopravvissuto a due attentati alla sua vita, il primo all’idroscalo di Ostia nel ’75, del quale porta i segni sul suo corpo rimasto gravemente offeso con la perdita di un occhio e della funzionalità di una gamba; il secondo a Milano nell’86, quando un fanatico ultracattolico spara diversi colpi di pistola ferendolo gravemente, non ha mai smesso di denunciare la collusione tra poteri forti e forze occulte, anche internazionali, al fine di formare e controllare i governi centristi dell’epoca. Al punto che Pasolini annuncia con ampio anticipo il prossimo avvento del golpe continuo. Cioè la nuova alleanza tra potere finanziario e industria della comunicazione che prenderà da lì ad alcuni anni l’intera classe politica in ostaggio.Proprio la sua ferma opposizione al lessico massmediologico televisivo degli ultimi due decenni ha dato l’impulso decisivo al Parlamento italiano per elaborare e approvare una legge, cosiddetta “salvacoscienze”, tra le più avanzate d’Occidente, che di fatto ha impedito l’ascesa al governo del paese dei tycoons televisivi. Difatti nelle tematiche affrontate nei suoi film degli anni Ottanta e Novanta, tra i quali non possiamo non menzionare “La nuova rabbia“(1984), “’Ottantanove, la fine delle virtù” (1991), “L’Arca dei sogni”(1997), Pasolini sancisce il tramonto della spinta utopistica necessaria alla nascita della società nuova che, sconfitta proprio nella elaborazione condivisa di un nuovo patto sociale autenticamente democratico, viene soggiogata definitivamente dal maglio vendicativo dell’“eterno” fascismo italiano.Qui, sul terreno della visione e comprensione della Società intesa come Ente morale fondamentale, rimangono memorabili le sue polemiche con la quasi totalità degli intellettuali di allora che egli dichiara essere “complici del sottopotere familistico e oscurantista espresso dal dominio onnivoro del partitismo”. La sua strenua resistenza, fisica, morale e intellettuale è stata determinante per l’avanzare del processo di quella che Pasolini definisce debordianamente “la realizzazione filosofica della Politica” alla quale stiamo finalmente assistendo con l’esperienza in corso dell’attuale governo Agamben.Crediamo che il popolo italiano abbia un alto debito di riconoscenza verso questo intellettuale, la presenza del quale ha permesso di cambiare il corso della storia del nostro paese, che senza la sua voce sarebbe certamente regredito sul piano della crescita civile, del valore artistico e della dignità morale. Assecondando le ultime volontà del poeta, le esequie si terranno in forma strettamente privata.(Andrea Panzironi, “Eulogia per Pasolini, morto serenamente nel suo letto questa notte”, pubblicato su “Il Foglio” e ripreso da “Come Don Chisciotte” il 2 novembre 2015. Panzironi è un tassista romano, spiega il giornale: suona il clarinetto, ama il jazz e ammira due categorie, musicisti e acrobati. «Si definisce taxi-writer, e sa scrivere»).A novantatré anni il poeta si è spento serenamente nella sua amata Torre di Chia a Soriano nel Cimino (Vt). L’intellettuale che più di ogni altro ha saputo interpretare gli ultimi cinquant’anni della società italiana lascia incompiuta la sua ultima opera letteraria,“Innocenza di Stato”, che già si annuncia come il caso letterario dell’anno. Cordoglio tra tutte le forze politiche e istituzionali del paese che ne rimarcano l’alto valore civile e morale. Il presidente della Repubblica si dichiara addolorato per una perdita irreparabile per la nazione tutta. I presidenti di Camera e Senato ne ricordano il contributo fondamentale per la riforma del sistema scolastico e universitario, quando fu nominato ministro della pubblica istruzione nell’eccezionale e breve governo Berlinguer del 1980. Da tutto il mondo giungono messaggi di ringraziamento per la sua produzione letteraria e cinematografica. Ancora vive sono le immagini del trionfo del suo trentaseiesimo e ultimo film “Il pane dei vinti”, Palma d’Oro a Cannes nel 2002.