Archivio del Tag ‘crescita’
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Dominano l’Ue (e temono l’Italia) i poteri che uccisero Moro
Aldo Moro viene rapito per toglierci sovranità e libertà. Cosa possiamo fare noi ora per riprendercela? Ormai sono passati 40 anni da quel rapimento, e il quadro è chiaro: è molto più facile giudicare le cose del mondo dopo che il tempo ne ha mostrato il senso. Com’era l’Italia fino a quell’anno? In grande fermento, in grande crescita da tutti i punti di vista. Lati positivi e lati negativi, come il clientelismo, la presenza diffusa della malavita nelle regioni meridionali, un certo malaffare. Una classe imprenditoriale di successo, e una politica effervescente, anche se ammalata di clientelismo e di corruzione. Un insieme di partiti e partitini, logge e loggette e ordini religiosi guidava un paese in modo caotico, ma tale da mantenerlo sostanzialmente libero e sovrano. Proprio il fatto che dalla Seconda Guerra Mondiale era emerso un quadro frazionato, e non un potere unico, o una sola influenza straniera, consentiva sufficienti margini di libertà e di sovranità al paese. Influenze americane e inglesi bilanciate da genuine spinte libertarie, da più di una corrente vaticana e dalla forte presenza comunista. In un gioco faticoso ma sostanzialmente positivo per la nostra indipendenza. L’industria, l’economia, la finanza, la cultura e la scienza italiane avevano trovato possibilità di crescita in un lungo periodo di sostanziale indipendenza. C’erano difetti, anche gravi, ma diciamo che il bilancio era positivo.Alcune personalità si erano occupate, pur nella incredibile complicazione del sistema, di mantenere la barra dritta e di non inginocchiarsi ai poteri esterni transnazionali. Alla fine degli anni Settanta, Aldo Moro rappresentava il fulcro di questi delicati equilibri, e ne costituiva una delle principali garanzie. Ma il sistema nazionale indipendente era di ostacolo alle mire di quei poteri che volevano fermare per tempo l’onda di risveglio delle coscienze, e intendevano distruggere i contesti locali e nazionali, per verticalizzare e centralizzare il potere. Prima a livello europeo e poi mondiale. Moro – ma anche altri politici e imprenditori dell’epoca – avevano come faro, come priorità, la sovranità e la libertà del nostro paese, proprio come lezione appresa durante la guerra mondiale. Moro già si opponeva ad un certo modo di avviare l’integrazione europea a sfavore della nostra sovranità, ed era contrario alle pressioni in quel senso. Non fu rapito perché voleva i comunisti al governo, ma perché era il detentore delle chiavi della nostra sovranità, di un certo modo di intendere la politica come senso del dovere. Di un forte limite interno alla corruzione morale della politica e dell’economia. Per questo venne rapito con la messinscena delle Brigate Rosse, da ben altre forze. Forze anti-coscienza e forze lanciate alla distruzione del sistema degli Stati nazionali, per avere a disposizione dei mega-Stati meglio controllabili.Dal giorno del rapimento e poi della morte di Moro abbiamo progressivamente perso sovranità e libertà. Prima è stata favorita una enorme corruzione della politica, per poi denunciarla per portare via insieme alla corruzione anche quella politica che assicura libertà e sovranità. E i lupi che hanno rapito Moro sono ora quelli che a forza, brandendo crisi finanziarie e politiche, ci stanno comunque spingendo nell’ovile di un super-Stato europeo orwelliano. E se alla gente non piace questa deriva, si creano proprio per chi si sta risvegliando nuove formazioni-gabbia politiche che prima si presentano come “liberatori” per poi mostrare rapidamente il loro vero volto di strumento gattopardesco dei soliti, vecchi poteri. Cosa è rimasto dopo 40 anni di una classe politica e di una economia indipendenti e sovrane? Molto poco… Ma sovrana è rimasta la nostra coscienza, che proprio guardando a queste vicende può rafforzarsi e non ripetere gli errori. E può lavorare per una società più giusta e amorosa, partendo dai contesti e dalle azioni intorno a noi.Il potere si rigonfia e si arrocca? Oppure si maschera da movimenti apparentemente nuovi per spingerci comunque a perdere libertà? E allora noi conquistiamo alla nostra coscienza gli spazi del nostro agire quotidiano. Da questo la vera rivoluzione del futuro. Ed ecco una frase illuminante di Moro: «Questo paese non si salverà e la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera se non nascerà un nuovo senso del dovere». Ecco, la classe che lo ha sostituito e che ora ha preso il controllo dello Stato e dell’economia sente come dovere solo quello dell’obbedienza a certi poteri. Lo stesso vale anche per chi si appresta ora a sostituirla, che conferma le solite obbedienze a Nato, finanza, poteri mondialisti, multinazionali. Ma il senso del dovere (connesso con la coscienza) esiste, in Italia, ed è in pieno fermento. In tante persone. Speriamo che esca fuori dalla riserva indiana, dai contenitori politici-gabbia in cui lo stanno mettendo per renderlo inefficace. Aiutiamo un sano ed amoroso senso del dovere a evadere da queste gabbie per diventare influente nella società. E’ una operazione difficile, faticosa, spesso controcorrente, ma si può fare!(Fausto Carotenuto, “Aldo Moro viene rapito per toglierci sovranità e libertà”, dal blog “Coscienze in Rete” del 16 marzo 2018).Aldo Moro viene rapito per toglierci sovranità e libertà. Cosa possiamo fare noi ora per riprendercela? Ormai sono passati 40 anni da quel rapimento, e il quadro è chiaro: è molto più facile giudicare le cose del mondo dopo che il tempo ne ha mostrato il senso. Com’era l’Italia fino a quell’anno? In grande fermento, in grande crescita da tutti i punti di vista. Lati positivi e lati negativi, come il clientelismo, la presenza diffusa della malavita nelle regioni meridionali, un certo malaffare. Una classe imprenditoriale di successo, e una politica effervescente, anche se ammalata di clientelismo e di corruzione. Un insieme di partiti e partitini, logge e loggette e ordini religiosi guidava un paese in modo caotico, ma tale da mantenerlo sostanzialmente libero e sovrano. Proprio il fatto che dalla Seconda Guerra Mondiale era emerso un quadro frazionato, e non un potere unico, o una sola influenza straniera, consentiva sufficienti margini di libertà e di sovranità al paese. Influenze americane e inglesi bilanciate da genuine spinte libertarie, da più di una corrente vaticana e dalla forte presenza comunista. In un gioco faticoso ma sostanzialmente positivo per la nostra indipendenza. L’industria, l’economia, la finanza, la cultura e la scienza italiane avevano trovato possibilità di crescita in un lungo periodo di sostanziale indipendenza. C’erano difetti, anche gravi, ma diciamo che il bilancio era positivo.
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Vietato volare, l’Ue presenta già il conto a Salvini e Di Maio
Reddito di cittadinanza e meno tasse per tutti? Di Maio e Salvini provano a mettersi a correre: entrambi sostengono che il Def, il Documento di economia e finanza che andrà varato entro un mese, sarà l’occasione per lanciare urbi et orbi il loro messaggio. «In realtà, è dubbio che lo possano fare e le loro affermazioni ancora una volta sembrano più da campagna elettorale permanente», avverte Stefano Cingolani sul “Sussidiario”: non solo il Def viene ancora preparato da Padoan, ma conterrà proiezioni al buio: «Nessuno può sapere oggi chi governerà e come verrà impostata in autunno la legge di bilancio». Difficile che 5 Stelle o Lega esprimano un ministro dell’economia nelle prossime settimane, o abbiano il mandato di trattare con Padoan la futura finanziaria. E intanto l’Ue imbriglia gli italiani: il primo obiettivo del 2019, ricorda Cingolani, sarà trovare le risorse per evitare un aumento dell’Iva, delle accise, delle imposte dirette, cioè le clausole di salvaguardia imposte da Bruxelles per i paesi che non rispettano la regola di riduzione del debito. «Secondo le stime, si va da un minimo di 12 fino a ben oltre i 20 miliardi di euro; un amaro boccone da far digerire agli elettori speranzosi di pagare meno e ottenere di più dal prossimo governo».Le scadenze europee sono molteplici e tutte ravvicinate, annota Cingolani: di qui al Consiglio Europeo di giugno c’è il completamento dell’Unione Bancaria istituendo la garanzia depositi, poi il futuro Fondo Monetario Europeo, la riforma della Convenzione di Dublino sugli immigrati, il bilancio pluriennale dopo il 2020 che porta con sé i fondi strutturali che il Sud ha utilizzato solo per il 4%. «Nei prossimi 18 mesi, il nuovo governo dovrà mercanteggiare le seguenti nomine: presidente della Bce dopo l’uscita di Mario Draghi nell’autunno 2019, due terzi del consiglio esecutivo della Bce (ci sarà un rappresentante italiano, e chi?); il presidente della Commissione Ue; il presidente del Consiglio Europeo e, dulcis in fundo, il commissario italiano dopo l’uscita di Federica Mogherini». Domanda: «Che cosa potrà ottenere un paese che non crede più nell’euro, rifiuta il bail-in, i parametri di Maastricht e la responsabilità di bilancio o che vuole respingere gli immigrati non solo verso l’Africa, ma verso il nord e l’est dell’Europa?».Secondo Cingolani, né Di Maio né Salvini sono in grado di colmare il fossato tra Roma e Bruxelles: «La loro linea è sempre stata accusare l’austerità per i mali italiani, sfuggendo alla verifica dei fatti: dal 2013 al 2017 il saldo primario tra entrate e spese pubbliche corretto per gli effetti del ciclo economico in Spagna è passato dall’1,2% del Pil a meno 0,6%, quello dell’Italia dal 4,3% a sotto il 2%. La politica fiscale, dunque, è stata relativamente espansiva, ma nello stesso periodo la Spagna è cresciuta complessivamente dell’11,2%, l’Italia del 3,5%. Su queste basi sarà difficile trovare una solidarietà latina». E’ vero che l’Ue ha concesso a Renzi più flessibilità, e anche adesso sembra disposta a dare all’Italia un margine di tempo, visto che la Germania ha impiegato cinque mesi prima di formare una nuova grande coalizione. «Tuttavia la situazione politica italiana è molto più simile a quella spagnola». In più, il rischio di nuove elezioni (anch’esse inconcludenti, se resta la staessa legge elettorale) è molto forte. E Mario Draghi ha già acceso i riflettori sui rischi di una prolungata instabilità politica.«Sarà davvero difficile, insomma, incidere subito sulla qualità della vita degli italiani, come promette Di Maio con evidente immaginazione». Il Def rischia di essere un appuntamento impossibile per saggiare la nuova politica economica, «anche perché dovrà tener conto della stretta, sia pur prudente e progressiva, della politica monetaria, già annunciata da Draghi». Oggi, continua Cingolani, non è possibile sapere quanto costerà il debito pubblico alla fine di quest’anno e soprattutto nel prossimo, perché non conosciamo di quanto saliranno i tassi d’interesse. «Dal 2012, quando Draghi ha impresso la svolta espansiva, il servizio del debito è sceso da 83 a 60 miliardi di euro l’anno, una cifra che è comunque superiore a quanto si è speso per la scuola. In 20 anni sono stati pagati per interessi 1.700 miliardi di euro (cifra superiore all’intero prodotto lordo annuo); 760 miliardi negli ultimi dieci anni in cui i tassi sono scesi. Quasi un euro su venti di ricchezza annua prodotta serve a pagare i creditori italiani o esteri, riducendo le risorse pubbliche per consumi e investimenti». Più il tempo passa, aggiunge Cingolani, più crescono le aspettative (e con esse le eventuali delusioni). Facile profezia: «L’onda che prima ha spazzato gli equilibri della Seconda Repubblica è destinata a spostarsi dalla politica all’economia, alle imprese, alle banche, ai manager pubblici e privati, ai patron, verso quel 10% che possiede metà della ricchezza».Non è un caso che tanti esponenti del mondo industriale e finanziario si siano lanciati sui carri dei vincitori (sul Carroccio soprattutto al Nord e sul carro dei 5 Stelle nel Mezzogiorno). «Dovremo attenderci un innalzamento della conflittualità sociale, non governata dai sindacati confederali», ormai indeboliti. Sono centinaia le vertenze industriali già aperte al ministero dello sviluppo, e altre ne arriveranno. «Ma le promesse talvolta mirabolanti distribuite a man bassa durante la campagna elettorale hanno suscitato attese che in qualche modo andranno soddisfatte, almeno in parte. Non si può cavalcare la frustrazione dei precari senza poi trovare nuovi posti di lavoro. Il M5S li vuole pagati da tutti i contribuenti, la Lega spera nella ricaduta del taglio fiscale, solo che lo Stato non ha mezzi sufficienti e le imprese possono espandersi (segnali chiari già ci sono nel Nord-Est) solo quando avranno recuperato produttività, altrimenti la riduzione delle tasse si trasformerà in aumento dei risparmi, ma non in investimenti espansivi creatori di occupazione». Se poi quest’anno passerà tra manovre politiche includenti, «rinviando tutto alla primavera 2019, magari con un “election day” insieme con le elezioni europee, lo tsunami dello scontento continuerà a crescere». L’incertezza economica e il malcontento sociale daranno a Salvini e Di Maio il tempo di cui hanno bisogno, per dare la spallata decisiva?Reddito di cittadinanza e meno tasse per tutti? Di Maio e Salvini provano a mettersi a correre: entrambi sostengono che il Def, il Documento di economia e finanza che andrà varato entro un mese, sarà l’occasione per lanciare urbi et orbi il loro messaggio. «In realtà, è dubbio che lo possano fare e le loro affermazioni ancora una volta sembrano più da campagna elettorale permanente», avverte Stefano Cingolani sul “Sussidiario”: non solo il Def viene ancora preparato da Padoan, ma conterrà proiezioni al buio: «Nessuno può sapere oggi chi governerà e come verrà impostata in autunno la legge di bilancio». Difficile che 5 Stelle o Lega esprimano un ministro dell’economia nelle prossime settimane, o abbiano il mandato di trattare con Padoan la futura finanziaria. E intanto l’Ue imbriglia gli italiani: il primo obiettivo del 2019, ricorda Cingolani, sarà trovare le risorse per evitare un aumento dell’Iva, delle accise, delle imposte dirette, cioè le clausole di salvaguardia imposte da Bruxelles per i paesi che non rispettano la regola di riduzione del debito. «Secondo le stime, si va da un minimo di 12 fino a ben oltre i 20 miliardi di euro; un amaro boccone da far digerire agli elettori speranzosi di pagare meno e ottenere di più dal prossimo governo».
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Tridico, 5 Stelle: solo lo Stato, se spende, salva l’economia
Alla base del nostro declino economico non ci sono solo le politiche di austerità ma anche la precarizzazione del posto di lavoro. Lo afferma il professor Pasquale Tridico, economista dell’università Roma Tre, scelto da Luigi Di Maio come possibile ministro del lavoro. La stagione del lavoro flessibile, ricorda Tridico sul blog dei 5 Stelle, è iniziata con il pacchetto Treu del 1997 (governo Prodi) ed è proseguita ininterrottamente fino al Jobs Act renziano e alla riforma Poletti sui contratti a termine. «I salari sono più o meno stagnanti dall’accordo del luglio 1993», denuncia Tridico. «I risultati in termini di produttività e disoccupazione sono stati disastrosi, tranne una breve stagione di due-tre anni fino a prima della crisi del 2008-09, in cui l’occupazione (improduttiva) è aumentata». Il motivo è semplice, secondo il professore: «Se il lavoro flessibile costa poco, dato che il lavoratore perde diritti e quote-salari, l’impresa rinuncerà agli investimenti ad alto contenuto di capitale, all’innovazione e quindi anche alla formazione di lavoratori qualificati con più alti salari». Di fatto, la flessibilità aziona la leva della competitività salariale piuttosto che quella dell’innovazione, rinunciando all’impiego di capitale umano costoso e qualificato. E questo indebolisce il sistema-Italia.Se il lavoro resta flessibile, «avremo frequenti casi di sotto-mansionamento, e giovani laureati costretti a svolgere lavori meno qualificati con più bassi salari», precisa Tridico. «Avremo anche casi di emigrazione qualificata e “fughe di cervelli” all’estero. A perderci sarà tutto il paese, impantanato in un contesto produttivo poco dinamico e a basso valore aggiunto». Dobbiamo invertire urgentemente la rotta, avverte Tridico, rimettendo al centro la qualità del posto di lavoro, gli investimenti in settori avanzati e la formazione continua, spostando più in alto la frontiera tecnologica del sistema produttivo, con particolare attenzione ai settori innovativi e “mission-oriented”. Per Tridico, la prima priorità è in assoluto il reddito di cittadinanza, condizionato alla formazione e al reinserimento lavorativo. «Può essere finanziato attraverso maggior deficit in termini assoluti ma senza aumentare il rapporto deficit/Pil e senza sforare la soglia del 3%», assicura Tridico. In sintesi, il meccanismo è questo: almeno 1 milione di persone che attualmente non cercano lavoro (i cosiddetti “inattivi”, oggi scoraggiati ma disponibili a lavorare) verranno spinti alla ricerca del lavoro attraverso l’iscrizione ai centri per l’impiego.Questo aumentarà il tasso di partecipazione della forza lavoro e permetterà all’Italia di rivedere al rialzo il cosiddetto “output gap”, cioè la distanza tra il Pil potenziale e Pil effettivo, «perché 1 milione di potenziali lavoratori saranno di nuovo conteggiati nelle statistiche Istat». Se aumenta il Pil potenziale, sostiene Tridico, possiamo mantenere lo stesso rapporto tra deficit e Pil potenziale, cioè il cosiddetto “deficit strutturale”, «spendendo circa 19 miliardi di euro in più di oggi». Secondo i grillini, il reddito di cittadinanza costa 17 miliardi complessivi, compresi i 2,1 miliardi per rafforzare i centri per l’impiego, «e potrebbe quindi finanziarsi interamente grazie ai suoi effetti sul tasso di partecipazione della forza lavoro». Poi, naturalmente, servono «gli investimenti produttivi dello Stato nei settori a più alto ritorno occupazionale, senza i quali il reddito di cittadinanza sarebbe una misura monca».L’idea è di destinare almeno il 34% di questi investimenti nel Sud Italia, che ha urgente bisogno di uscire dal sottosviluppo cui è stato condannato dall’assenza di una strategia industriale. «Considerando che la popolazione del Sud Italia è anche superiore al 34% del totale della popolazione – sottolinea Tridico – la clausola del 34% non sarebbe un favore al Meridione, ma il giusto compromesso per farlo tornare a crescere». Sul lato degli investimenti privati, «che verranno già stimolati da quelli pubblici», Tridico ricorda la Banca Pubblica di Investimento, che erogherà credito a tassi agevolati a micro-imprese, oltre che alle piccole e medie imprese. Terza misura, il salario minimo orario: ha il compito di salvaguardare quelle categorie di lavoratori non coperte da contrattazione nazionale collettiva. Obiettivo: «Sradicare sfruttamento e precarietà, che negli ultimi anni sono cresciuti enormemente, e dare anche un impulso alla domanda interna».Secondo Tridico, occorre un vero e proprio “patto di produttività” concordato tra lavoratori, governo e imprese, «al fine di rilanciare salari, produttività e investimenti», soprattutto in quei settori in cui i 5 Stelle, se andranno al governo, decidranno di intervenire selettivamente con la riduzione del cuneo fiscale: «Dobbiamo impedire infatti che il minor costo del lavoro porti le imprese ad ignorare gli investimenti “capital intensive” in settori ad alto contenuto tecnologico, come accaduto in questi anni tramite i circa 23 miliardi di sgravi fiscali sulle nuove assunzioni regalati dal Jobs Act». C’è poi il tema di più lungo periodo della robotizzazione: una sfida che Tridico si augura di poter gestire politicamente. «Il primo passo in questo senso – conclude – sarà la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, in modo da aumentare l’occupazione e di incentivare la riorganizzazione produttiva delle imprese».Alla base del nostro declino economico non ci sono solo le politiche di austerità ma anche la precarizzazione del posto di lavoro. Lo afferma il professor Pasquale Tridico, economista dell’università Roma Tre, scelto da Luigi Di Maio come possibile ministro del lavoro. La stagione del lavoro flessibile, ricorda Tridico sul blog dei 5 Stelle, è iniziata con il pacchetto Treu del 1997 (governo Prodi) ed è proseguita ininterrottamente fino al Jobs Act renziano e alla riforma Poletti sui contratti a termine. «I salari sono più o meno stagnanti dall’accordo del luglio 1993», denuncia Tridico. «I risultati in termini di produttività e disoccupazione sono stati disastrosi, tranne una breve stagione di due-tre anni fino a prima della crisi del 2008-09, in cui l’occupazione (improduttiva) è aumentata». Il motivo è semplice, secondo il professore: «Se il lavoro flessibile costa poco, dato che il lavoratore perde diritti e quote-salari, l’impresa rinuncerà agli investimenti ad alto contenuto di capitale, all’innovazione e quindi anche alla formazione di lavoratori qualificati con più alti salari». Di fatto, la flessibilità aziona la leva della competitività salariale piuttosto che quella dell’innovazione, rinunciando all’impiego di capitale umano costoso e qualificato. E questo indebolisce il sistema-Italia.
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L’Italia frana e il Pd le ha offerto solo la mistica del Jobs Act
«Ok, abbiamo perso. Volete i nostri voti, in Parlamento? Benissimo: preparatevi a sostenere alcune nostre proposte, quelle che in caso di vittoria avremmo attuato noi». Questo sarebbe un parlare politico, responsabile, incisivo. E invece il Pd, rottamato dalla catastrofe elettorale, tiene il muso. E si rifugia, per ora, in un Aventino che sarà anche «legittimo e coerente con l’esito delle urne», ma certo non utile a costruire futuro. Anche perché, a monte, manca il tassello fondamentale: «Renzi dovrebbe innanzitutto dire: abbiamo sbagliato», anziché lasciar credere che a “sbagliare” siano stati gli elettori, che non avrebbero compreso la qualità e la mole del lavoro svolto dal governo. “Non ci hanno compreso”, è il refrain. “Non siamo stati capaci di farci capire”. Per Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, «questa vicenda del Pd che non gioca più, che non vuole più giocare, racconta benissimo questa politica che ha abdicato al suo ruolo costruttivo, accontentandosi di un ruolo meramente rappresentativo e oleografico». Una mediocrità imbarazzante, nella quale peraltro affonda l’ex riformismo italiano, quello dei sedicenti “progressisti” che hanno votato il governo Monti e la legge Fornero, senza avere nemmeno il coraggio di rimettere in discussione almeno il pareggio di bilancio in Costituzione, inserendolo nel fatale referendum del dicembre 2016.La cifra del tenore politico in casa Pd, dice Magaldi ai microfoni di “Colors Radio”, la offrono le meste esternazioni dei renziani Orfini, Lotti, Martina, «non a caso incolori e privi di qualsiasi carisma, come tutti quelli del Giglio Magico», assolutamente anonimi, fatta eccezione per la Boschi (che si fa notare per «la notevole avvenenza e l’astuzia nella cura del suo “particulare”») e per il misterioso Carrai, «personaggio scaltro, che appare e scompare». Sconfitti, i renziani ripetono: «Lasciateci perdere, per il governo vedetevela voi. Noi abbiamo perso, non vogliamo governare: lo faccia chi ha vinto, cioè 5 Stelle e Lega, con o senza Forza Italia al seguito». Peccato, si rammarica Magaldi: «E’ una posizione formalistica», sterile, ma certo non inaspettata. «In tutta questa storia del renzismo prevale sempre il lato formale», rileva Magaldi. «Hanno prevalso gli slogan, le propagande, le affermazioni altisonanti che dovevano sostituire la realtà: la mistica del Jobs Act, la mistica della crescita del paese. Ho ascoltato esterrefatto Alessandra Moretti, l’ex “lady like”, dire che loro pensavano che la ripresa avrebbe premiato il Pd, invece il paese reale ha una percezione diversa».«Non è questione di percezione», obietta Magaldi: «E’ che sono stronzate quelle che vengono dichiarate a reti unificate sulla ripresa: gli indicatori economici utilizzati sono fasulli (ma finiscono per convincere anche i loro propagatori), mentre il paese continua a essere in ginocchio da troppi anni, la disoccupazione galoppa e l’economia gira poco e male». E anziché aprire gli occhi e ammettere i suoi errori (evidentissimi agli elettori) il Pd «continua la sua triste narrativa renziana, dove quello che conta non è la sostanza». Ben diverso, aggiunge Magaldi, se Renzi dicesse: «Ho capito dove ho sbagliato, quindi offro un supporto al governo 5 Stelle (o a un altro governo) sulla base di alcuni progetti, che sono nostri. Non li vogliono? Pazienza, ma noi facciamo politica perché vogliamo fare delle cose, abbiamo questi progetti che avremmo attuato se avessimo vinto, e quindi se qualcuno li vuole sostenere andiamo avanti insieme». Questo, conclude Magaldi, «sarebbe un ragionamento di sostanzialità politica, e cioè: tu testimoni quello che è il tuo progetto politico – sia che perdi, sia che vinci. E invece siamo al tatticismo. Si dice: abbiamo perso, ci lecchiamo le ferite».In più, aggiunge, dopo la Caporetto del 4 marzo, «nel Pd prevale ancora un’identificazione fortissima con il sentire personale di Renzi», l’ex rottamatore arrivato al capolinea. In realtà, secondo Magaldi, dovrebbe essere rottamato l’intero centrosinistra italiano: di fatto, ha consegnato l’Italia a poteri oligarchici privati, coronando il sogno antidemocratico dell’ultimo Kalergi, adottato da Jean Monnet e dagli altri padrini storici di quest’Europa “antieuropeista”, che rema contro i propri popoli mettendoli l’uno contro l’altro a colpi di mercantilismo e culto del rigore. Finisce nei guai un paese come l’Italia, che oggi – tra le altre cose – si ritrova senza una politica all’altezza della situazione «e senza uno straccio di ideologia, tranne l’unica rimasta in piedi: quella neoliberista». Tatticismi, appunto: «Compreso il peggiore in assoluto, ipotesi di cui nessuno parla: la possibilità teorica che il centrodestra, in silenzio, possa “pescare” seggi tra i tanti grillini neo-eletti, come auspicato dallo stesso Berlusconi». Niente male, come inizio, per l’ipotetica Terza Repubblica fondata sugli equivoci, mentre il paese continua a crollare.«Ok, abbiamo perso. Volete i nostri voti, in Parlamento? Benissimo: preparatevi a sostenere alcune nostre proposte, quelle che in caso di vittoria avremmo attuato noi». Questo sarebbe un parlare politico, responsabile, incisivo. E invece il Pd, rottamato dalla catastrofe elettorale, tiene il muso. E si rifugia, per ora, in un Aventino che sarà anche «legittimo e coerente con l’esito delle urne», ma certo non utile a costruire futuro. Anche perché, a monte, manca il tassello fondamentale: «Renzi dovrebbe innanzitutto dire: abbiamo sbagliato», anziché lasciar credere che a “sbagliare” siano stati gli elettori, che non avrebbero compreso la qualità e la mole del lavoro svolto dal governo. “Non ci hanno compreso”, è il refrain. “Non siamo stati capaci di farci capire”. Per Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, «questa vicenda del Pd che non gioca più, che non vuole più giocare, racconta benissimo questa politica che ha abdicato al suo ruolo costruttivo, accontentandosi di un ruolo meramente rappresentativo e oleografico». Una mediocrità imbarazzante, nella quale peraltro affonda l’ex riformismo italiano, quello dei sedicenti “progressisti” che hanno votato il governo Monti e la legge Fornero, senza avere nemmeno il coraggio di rimettere in discussione almeno il pareggio di bilancio in Costituzione, inserendolo nel fatale referendum del dicembre 2016.
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Cercasi boia per la Terza Repubblica, ancora senza padrone
La Terza Repubblica nasce senza padrone. E ora attende di conoscere il nome del boia incaricato di “terminare” quel che resta della sovranità italiana. E’ l’analisi del day-after, che Dante Barontini offre ai lettori di “Contropiano”: un paese a pezzi, leghista al Nord dove c’è ancora qualcosa da difendere («imprese che fanno profitti e altre che rischiano di chiudere, occupazione precaria e sottopagata») e grillino al Sud, dove si è già perso quasi tutto e la paura di non poter risalire è concreta: «I tagli alla spesa pubblica hanno segato, indirettamente, anche le gambe alle clientele». L’Italia del “rancore”, scrive Barontini, stavolta ha spazzato quel poco che restava della vecchia classe politica della Seconda Repubblica: «Ha seppellito i Bersani e i D’Alema insieme all’alter ego di un quarto di secolo, Silvio Berlusconi», insieme all’ex finto-rottamatore Renzi. Nemmeno le promesse più pirotecniche non hanno fermato lo tsunami, provocato da sommovimenti tellurici profondi: «Il malessere che non si traduce in progetto di cambiamento si accontenta della prima risposta che trova, per quanto scadente possa essere». Quello che resta è la mancanza di un baricentro credibile: «Impossibile fare un governo qualsiasi senza cancellare anche quel poco di tangibile detto in una campagna elettorale priva di idee su come risollevare un paese che va impoverendosi ogni giorno di più (nonostante un momento di pausa nella crisi, impropriamente chiamato “crescita”)».No ad alleanze contro natura? «I grillini normalizzati da Luigi Di Maio hanno giurato che faranno un governo con chi ci sta sui programmi», il Pd e Berlusconi «hanno fatto la stessa campagna elettorale, giurando che non avrebbero fatto governi con “i populisti”», ma ora è chiaro che «nessuno di loro potrà rispettare questi “impegni”, se vuole avvicinarsi alle residue leve di governo», scrive Barontini. «Non potrà andare avanti neanche quella che era sembrata la “soluzione indolore”: tenere in piedi l’esecutivo Gentiloni con una maggioranza “renzusconiana”, rattoppata alla bell’e meglio con transfughi da varie liste». Lo scenario sembra paradossale: quel che “c’è da fare” «è scritto nelle direttive di Bruxelles, nei giornali mainstream, nei commenti degli opinionisti più informati», eppure «nessuno dei candidati a “fare quel che c’è da fare” se n’è fin qui occupato minimamente». “Contropiano” ricorda che l’agenda-Italia è inquietante: «Ci attende una manovra correttiva di molti miliardi già a maggio. Saranno dolori veri, dopo le piccole dosi di morfina rilasciate con la legge di stabilità del governo Gentiloni. Soprattutto ci attende l’attuazione vera del Fiscal Compact, che costringerà qualsiasi governo dei prossimi venti anni ad accantonare un avanzo primario minimo del 5% annuo per ridurre il debito pubblico. Roba da 50 miliardi l’anno in uscita, prima ancora di decidere cosa si può fare e cosa no».Da dove succhiare tanto sangue? Dalle pensioni, «che questa volta verrebbero “riformate” riducendo gli assegni erogati mensilmente, in stile Grecia», scrive Barontini. «Manca però l’esecutore, il boia sociale che impugnerà la mannaia in nome e per conto dei “mercati internazionali” e della Troika», avverte “Contropiano”. «Nessuno vuole apparire tale prima di avere quella mannaia in mano: è la parte giocata da Emma Bonino, con risultati minimi rispetto ai costi della sua onerosa campagna elettorale». L’analista parla di «una distanza abissale e drammatica tra una popolazione disorientata in cerca di un possibile “difensore” e un ristretto ceto di aspiranti boia che, ovviamente, non intendono presentarsi come tali prima di cominciare ad “operare” (in attesa che i maghi della “comunicazione” costruiscano una “narrazione” accettabile)». Non è una dinamica nata oggi, ma ora appare nitidamente: «Le rapide ascese e gli altrettanto rapidi capitomboli dei nuovi “leader” sono una logica conseguenza della tenaglia costruita da promesse irrealizzabili dentro i vincoli europei», precisa Barontini. «Chiunque andrà a Palazzo Chigi sa benissimo di poter restare lì giusto il tempo di realizzare qualche altra “riforma” imposta dalla Ue, e poi sparire. Come Renzi».La Terza Repubblica nasce senza padrone. E ora attende di conoscere il nome del boia incaricato di “terminare” quel che resta della sovranità italiana. E’ l’analisi del day-after, che Dante Barontini offre ai lettori di “Contropiano”: un paese a pezzi, leghista al Nord dove c’è ancora qualcosa da difendere («imprese che fanno profitti e altre che rischiano di chiudere, occupazione precaria e sottopagata») e grillino al Sud, dove si è già perso quasi tutto e la paura di non poter risalire è concreta: «I tagli alla spesa pubblica hanno segato, indirettamente, anche le gambe alle clientele». L’Italia del “rancore”, scrive Barontini, stavolta ha spazzato quel poco che restava della vecchia classe politica della Seconda Repubblica: «Ha seppellito i Bersani e i D’Alema insieme all’alter ego di un quarto di secolo, Silvio Berlusconi», insieme all’ex finto-rottamatore Renzi. Nemmeno le promesse più pirotecniche hanno fermato lo tsunami, provocato da sommovimenti tellurici profondi: «Il malessere che non si traduce in progetto di cambiamento si accontenta della prima risposta che trova, per quanto scadente possa essere». Quello che resta è la mancanza di un baricentro credibile: «Impossibile fare un governo qualsiasi senza cancellare anche quel poco di tangibile detto in una campagna elettorale priva di idee su come risollevare un paese che va impoverendosi ogni giorno di più (nonostante un momento di pausa nella crisi, impropriamente chiamato “crescita”)».
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Magaldi: potessimo “votare” per Olof Palme, cioè per l’Italia
Votare per Olof Palme, il 4 marzo? Un sogno impossibile: il leader svedese è stato assassinato 32 anni fa, mentre era primo ministro, alla vigilia della sua probabile elezione all’Onu come segretario generale. Se fosse ancora qui, probabilmente, gli italiani avrebbero ben altri candidati da scegliere, alle elezioni. E tra Bruxelles, Berlino e Francoforte siederebbe tutt’altro genere di politici e tecnocrati. Per questo, idealmente, Gioele Magaldi “vota” per Palme, cui il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno in primavera, a Milano: «Il leader socialdemocratico svedese era probabilmente il più grande ostacolo alla costruzione di questa Europa matrigna, tecnocratica, economicistica e antidemocratica, che ha condannato l’Italia a 25 anni di declino». Lo conferma il triste spettacolo dell’offerta elettorale, con programmi-burla e nomi più che grigi, da Tajani a Gentiloni, già pronti per il probabilissimo inciucio che ci attende. Di Maio? Idem: «Invece di avanzare un’alternativa politica rispetto all’andazzo degli ultimi anni, la squadra di ministri tecnici che ha presentato sembra davvero il governo Monti senza Monti: la montagna ha partorito il topolino, per usare un’espressione di “Dagospia”».Non lasciatevi ingannare dalle apparenze: quello che ci aspetta è solo «una grande palude», sostiene Magaldi, a colloquio con David Gramiccioli di “Colors Radio”. «Nel mondo che Berlusconi auspicherebbe, cioè con una centralità di Forza Italia dopo il voto del 4 marzo», il presidente del Parlamento Europeo «sarebbe la carta perfetta, perché gli consentirebbe di avere un suo uomo gradito ai salotti e agli organi istituzionali europei». In fondo, Antonio Tajani «è il Gentiloni del centrodestra: non dà troppo disturbo e sarebbe perfetto per non suscitare particolari avversioni da parte di nessuno. E’ percepito come un moderato, senza infamia né lode. Ma per vederlo a Palazzo Chigi dovrebbe vincere il centrodestra, con Forza Italia in vantaggio sulla Lega: condizioni non facilissime da realizzarsi». Di fatto, «Tajani è un candidato ecumenico che può piacere a tanti, come si fa finta che possa piacere Gentiloni». Ma in realtà, dichiara Magaldi, «sono personalità diafane, prive di un reale spessore, non in grado di imprimere una qualche direzione: sono terminali di chi sta loro dietro: lo è stato Gentiloni in rapporto a Renzi, anche se adesso Gentiloni sembra vivere di vita propria».In più, Tajani è ritenuto un valido “maggiordomo”, adatto a difendere il Cavaliere da eventuali colpi provenienti da Bruxelles: «Berlusconi è traumatizzato da quello che accadde nel 2011, cioè dall’intervento di poteri massonici molto forti, che a suo tempo lo hanno defenestrato con le buone e con le cattive». E’ ancora traumatizzato, l’uomo di Arcore, «dalla delegittimazione che poteri forti e fortissimi gli hanno imposto». Secondo Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere) che svela il ruolo della supermassoneria sovranazionale nel massimo potere mondiale, «oligarchie massoniche internazionali stanno valutando la possibilità di completare questa rilegittimazione di Berlusconi nel quadro di un governo di neo-solidarietà nazionale. A questo – aggiunge – sono funzionali anche le vicende di violenza politica, gli accenni di scontri tra neofascisti e antifascisti squadristici, che ci ricordano gli anni di piombo». C’è un clima strano, avverte Magaldi: da un lato si sostiene che bisogna «accompagnare la presunta crescita che sarebbe iniziata (ma che non c’è)», e dall’altro, sotto sotto, Pd e Forza Italia si strizzano l’occhio accampando «ragioni di argine rispetto al populismo, che – dicono – potrebbe diventare feroce, sfociando in violenza aperta».Anche per questo, da tempo, lo stesso Berlusconi «cerca di riconquistare una qualche forma di credibilità, o di addirittura di avallare l’idea che sia meglio lui, in fondo, di quei “guastafeste teppistoidi” del Movimento 5 Stelle, che sono i nuovi “barbari” nella neo-narrazione berlusconiana». In realtà non ci sono barbari, sottolinea Magaldi, e Tajani «sta solo facendo il suo compitino». Purtroppo i politici italiani sono talmente ininfluenti che non sono stati capaci nemmeno di assicurare a Milano la briciola dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco: «E’ un’Italia che pesa pochissimo, eppure ha in Tajani un alto rappresentante in sede europea: se non è in grado di fare granché per l’Italia lì, figuriamoci da primo ministro». Ma niente paura: «Non credo che ci saranno le condizioni per cui Tajani possa ricevere l’incarico da Mattarella, né credo che l’incarico sarà offerto a Di Maio». Delusione 5 Stelle: «E’ indice di trasparenza la decisione di presentare in anticipo la lista di ministri in pectore, ma perché reclutare solo tecnici? Professori, magistrati e militari dovrebbero fare il loro mestiere, non i ministri. Non c’era personale politico adeguato? Che la società civile sia meglio della società politica è un’idea antidemocratica, sdoganata da Berlusconi».Per Magaldi, il destino che ci attende è ancora una volta quello delle larghe intese: «Una prospettiva esiziale, per il popolo italiano. Non abbiamo bisogno di ulteriori governicchi come quelli di Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, che hanno semplicemente accompagnato la decadenza dell’Italia in nome di presunti obiettivi superiori, guidati dalla mano autorevole degli “illuminati” reggitori di quest’Europa matrigna». Liste elettorali alla mano, «tutto dovrebbe continuare come prima». Cioè malissimo, per l’Italia. «Da qualche decennio c’è chi lavora in modo verminoso, proprio come vermi che rosicchino dall’interno, per rendere le istituzioni democratiche imbelli e anche poco gradite ai cittadini», ribadisce Magaldi. «Tutti capiscono che queste istituzioni ripiegate su se stesse sono in realtà un’élite reazionaria, che ci ha proiettato in un incubo post-democratico. Il modello Palme? Serve anche per arginare questo tumore». Il Movimento Roosevelt ha dato il suo “endorsement” a pochi, selezionati candidati: come Pino Cabras a Paolo Margari (5 Stelle), Simone Orlandini (Lega), Felice Besostri e Chiara Mariotti (“Liberi e Uguali”). «Poi ci sono altri candidati a noi vicini: una volta in Parlamento – dice Magaldi – vigileranno per impedire manovre antidemocratiche». Indicazioni generali di voto, tranne che per i candidati “amici”? «Scheda bianca o nulla, oppure astensionismo». Sperando di poter, domani, “votare” per Olof Palme.Votare per Olof Palme, il 4 marzo? Un sogno impossibile: il leader svedese è stato assassinato 32 anni fa, mentre era primo ministro, alla vigilia della sua probabile elezione all’Onu come segretario generale. Se fosse ancora qui, probabilmente, gli italiani avrebbero ben altri candidati da scegliere, alle elezioni. E tra Bruxelles, Berlino e Francoforte siederebbe tutt’altro genere di politici e tecnocrati. Per questo, idealmente, Gioele Magaldi “vota” per Palme, cui il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno in primavera, a Milano: «Il leader socialdemocratico svedese era probabilmente il più grande ostacolo alla costruzione di questa Europa matrigna, tecnocratica, economicistica e antidemocratica, che ha condannato l’Italia a 25 anni di declino». Lo conferma il triste spettacolo dell’offerta elettorale, con programmi-burla e nomi più che grigi, da Tajani a Gentiloni, già pronti per il probabilissimo inciucio che ci attende. Di Maio? Idem: «Invece di avanzare un’alternativa politica rispetto all’andazzo degli ultimi anni, la squadra di ministri tecnici che ha presentato sembra davvero il governo Monti senza Monti: la montagna ha partorito il topolino, per usare un’espressione di “Dagospia”».
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Credito ai poveri, e nacque il banchiere più grande al mondo
C’era una volta un uomo. Era un uomo vero, di quelli d’un tempo, e sarebbe divenuto il banchiere più grande del mondo. Uno di quegli uomini che dicevano “non voglio diventare troppo ricco, perché nessun ricco possiede la ricchezza, ma ne è posseduto”. All’epoca – si era in California, nell’America dei primi del Novecento – le banche davano soldi solo alle imprese già affermate. Nessuno dava credito alle piccole imprese. Quell’uomo decise di aprire la sua banca, ma non aveva una sede. Rilevò allora da una signora che voleva ritirarsi in pensione il contratto di affitto di un bar, in un incrocio, per 1.250 dollari. Non aveva clienti, e così iniziò un modo di fare banca diversa da tutte le altre dell’epoca. Si mise a girare per le strade, offrendo piccoli prestiti a chi voleva aprire un capannone, un piccolo ristorante, un esercizio commerciale. Nei primi del Novecento, era impossibile in America avere credito dalle banche, se eri una micro-impresa: vi era una regola per la quale non si davano prestiti inferiori ai 200 dollari. In pratica, per le somme minori ci si doveva rivolgere agli usurai. Quell’uomo iniziò a finanziare piccole cose, dando prestiti a partire da 25 dollari. Divenne famoso per la sua nuova cultura di banca.Io per finanziare un uomo – era solito dire – voglio guardarlo negli occhi e vedere i calli sulle mani. A proposito del fatto che oggi tanto si parla di riforma delle banche popolari, ricordo che quell’uomo volle per la sua banca un azionariato diffuso, un azionariato popolare. Si occupò personalmente di andare a proporre le azioni a gente che non era mai stata in una banca: fornai, lattai, droghieri, ristoratori, idraulici, barbieri. Oggi si parla di austerity, di termini inglesi come “leverage” (il rapporto tra capitale e prestito), di rigore. Ricordo che anche allora si dicevano le stesse cose: in due mesi aveva raccolto 70.000 dollari, ma ne aveva impiegati 90.000 e i suoi soci erano preoccupati. Come faremo? – strillavano. Bisogna avere fiducia nella gente – rispondeva lui agli altri. La gente la ripagò, la sua fiducia. Cominciò ad andare nella banca che permetteva loro di finanziare una bottega, di avere un reddito dignitoso, di comprare una casa, di metter su famiglia, di mandare i figli a scuola. In un anno, quei 70.000 dollari divennero 700.000, e la banca continuava a crescere e a dare fiducia.Nel 1906 a San Francisco avvenne un fatto terribile. Il terremoto distrusse la città e la gente si aggirava disperata per le strade, avendo perso tutto, casa e lavoro. Quell’uomo, mentre gli strozzini si aggiravano per le strade, andò sul molo della città, mise un tavolaccio di legno appoggiato su due barili, in mezzo alla folla dei disperati, ci salì sopra ed espose un cartello, con il titolo “Banca di (X), aperto ai clienti” (il nome della “X” ve lo dirò alla fine di questa storia). Resta il fatto che quell’uomo mise un sottotitolo che aveva lui stesso dipinto sul cartello quella notte: “Prestiti come prima, più di prima”. Quell’uomo si chiamava Peter, e stava realizzando il suo sogno di aprire una banca per i piccoli imprenditori, i diseredati, gli emigranti. La “banca” venne assalita da persone che avevano idee per ricostruire la città e lui prestava soldi con il suo metodo, guardando le persone negli occhi e osservando i calli sulle mani. Segnava i crediti su un quadernetto, annotando nomi e cifre. Girava con un carretto ed elargiva prestiti sulla fiducia, senza garanzia, a persone che non avevano potuto andare a scuola e che per lo più firmavano con una croce. Li valutava fidandosi della loro parola e del loro onore. Lui dava fiducia a quelli che avevano delle idee, dei progetti, non a quelli che avevano dei soldi o proprietà da dare in garanzia.I suoi consiglieri gli dicevano che era un pazzo, che sarebbe finito in rovina. Invece, successe una cosa che nessuno si sarebbe aspettato. Quei piccoli imprenditori tornarono da lui, portando tanti altri amici, gente che toglieva i propri pochi depositi dalle altre banche e li andava a investire da Peter, l’uomo col carrettino. Pochi depositi, ma erano milioni di persone. Tutti gli immigrati della California, i nuovi piccoli imprenditori, vennero presto a conoscere la storia dell’uomo col carrettino e il nome di Peter divenne in breve mito, e da mito leggenda. Successe che l’uomo che dava fiducia al prossimo ricevette fiducia dal prossimo e i suoi conti crebbero, perché tutti volevano portare i propri risparmi alla banca di Peter. La sua politica era diversa da quella di tutte le banche dell’epoca ed era volta a dare soldi ai piccoli, agli artigiani, ai commercianti, agli agricoltori, ai piccoli imprenditori. La banca di Peter negli anni crebbe in tutta la California, aprendo filiali a San Francisco, a Los Angeles, fino ad attraversare l’immensa giovane nazione ed arrivare, nel 1919, a New York. Otto anni dopo, quella banca cambiò nome, e divenne la Bank of America.All’epoca, i consiglieri della banca proposero un premio al suo fondatore, di addirittura 50.000 dollari. L’uomo, che aveva già guadagnato nella sua carriera quasi mezzo milione di dollari, restando fedele al suo detto di quando, da giovane, aveva deciso di creare una banca, per evitare di “essere posseduto dalla ricchezza” rifiutò il premio, dicendo che chiunque desiderasse avere più di 500.000 dollari doveva farsi vedere da un dottore. La smania di denaro è una brutta cosa – disse una volta – io non ho mai avuto quel problema. Detto da uno che a sette anni aveva visto il padre ucciso dopo un litigio per un dollaro, c’era da credergli. Infatti, fece devolvere più volte vari premi alla ricerca scientifica. Oggi le banche aborrono progetti innovativi e la finanza moderna pretenderebbe che non si investa in progetti originali e non consolidati, senza patrimoni dell’imprenditore e adeguate garanzie. Pensate allora a cosa doveva voler dire, all’epoca, finanziare una cosa sconosciuta e incredibile che si chiamava cinematografo: follia, per i suoi colleghi. Peter, a differenza di tutti gli altri banchieri, prestò i suoi soldi a un geniale innovatore, consentendo nel 1921 a tutto il mondo di conoscere “Il Monello”, il meraviglioso film di Charlie Chaplin.Anni più tardi, finanziò Walt Disney, che gli parlava di finanziare un’altra incredibile rivoluzione tecnologica e cioè i cartoni animati. Il mondo conobbe così la favola di “Biancaneve e i sette nani.” Ancora, finanziò un visionario siciliano, Francesco Rosario Capra, rimasto senza lavoro per la crisi del ’29, rivelando così al mondo il genio del celeberrimo regista Frank Russel Capra. Così, mentre gli esperti di finanza insegnavano l’importanza di adottare regole restrittive, Peter finanziava i piccoli imprenditori guardandoli negli occhi e alla fine, tirando i conti, si scoprì che il 96% dei prestiti della banca erano stati rimborsati, senza alcuna garanzia. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la banchetta nata in un bar, proseguita su un carrettino, che ora si chiamava Bank of America, superò per depositi la First National Bank e la Chase Manhattan Bank, le due più grandi banche di New York, diventando così la più importante banca del mondo. Dopo la fine della guerra, Peter volle che la Bank of America si impegnasse in prima persona nel piano Marshall, cioè nel gigantesco piano di ricostruzione che ha consentito anche al nostro paese di ripartire, finanziando così, indirettamente, milioni di nostri piccoli imprenditori.Quando, nell’ottobre del 1945, lasciò la presidenza della banca, lasciò i cassetti aperti, affermando che “né lui, né la sua banca, avevano nulla da nascondere”. Quando morì, quattro anni più tardi, dall’inventario dei suoi beni si scoprì che aveva mantenuto la sua parola, e pur essendo stato il banchiere della banca più grande del mondo, il suo patrimonio ammontava esattamente a soli 489.278 dollari, meno del mezzo milione per cui, secondo lui, uno sarebbe dovuto farsi vedere da uno psichiatra. Può sembrare una favola, ma è storia vera. L’ho raccontata perché oggi, se mi guardo intorno, io non vedo una situazione abissalmente diversa dal disastro di San Francisco del 1906 o dalla crisi del ’29. Mentre i politici parlano di riforma della legge elettorale, le imprese chiudono ogni giorno, la gente è a spasso, molti restano senza lavoro e senza speranza. Allora, esistevano uomini di banca come Peter. Oggi i piccoli imprenditori sono disperati. Le banche ripetono il mantra appreso da docenti, banchieri e politici che parlano in lingua inglese, chiedono garanzie, e si sente a ogni angolo la parola “austerity”. Gli anglosassoni ci vengono a insegnare come si fa il mestiere di banchiere e i tedeschi ci insegnano il rigore. Ora, io avrei un sogno. Vorrei che in una nostra città, una qualunque, tra le macerie della nostra economia, un banchiere italiano, un politico italiano, uno statista, prendesse un tavolaccio, lo mettesse in mezzo a una strada e poi ci salisse sopra.Vorrei che ci posasse sopra un cartello con una scritta a mano in cui si leggesse: “Da oggi, prestiti all’economia, come prima, più di prima”. Sottotitolo: “Colleghi, l’austerity ve la potete mettere in quel posto”. E poi, vorrei che quest’uomo cominciasse a ridisegnare le regole del gioco della finanza mondiale, per insegnare a tutti che noi italiani non abbiamo bisogno di lezioni da nessuno, sul come si fa a fare il mestiere del banchiere. Il vero banchiere non chiede le garanzie, ma guarda i calli sulle mani. Questo, sarebbe il mio sogno. Perché sul cartello che quell’uomo aveva scritto di suo pugno, su quel tavolo in mezzo alla strada, c’era il nome della sua banca: Bank of Italy. Questo era il nome originario di quella che sarebbe divenuta, molti anni dopo, la più grande banca del mondo: la Bank of America. Il suo fondatore, l’uomo che guardava gli altri negli occhi e finanziava guardando i calli delle mani, l’uomo che si alzò in piedi insegnando al mondo a rialzarsi in piedi, l’uomo che insegnò a tutti che fare banca non significa chiedere regole, ma dare fiducia, non era un anglosassone. Peter era il secondo nome di Amedeo Giannini, in cerca di fortuna nell’America di fine ottocento, figlio di poveri migranti dell’entroterra ligure. C’era una volta un banchiere. Era un uomo vero. Era un italiano.(Valerio Malvezzi, “L’incredibile storia del banchiere più grande del mondo”, dal sito “Win The Bank”, 2018).C’era una volta un uomo. Era un uomo vero, di quelli d’un tempo, e sarebbe divenuto il banchiere più grande del mondo. Uno di quegli uomini che dicevano “non voglio diventare troppo ricco, perché nessun ricco possiede la ricchezza, ma ne è posseduto”. All’epoca – si era in California, nell’America dei primi del Novecento – le banche davano soldi solo alle imprese già affermate. Nessuno dava credito alle piccole imprese. Quell’uomo decise di aprire la sua banca, ma non aveva una sede. Rilevò allora da una signora che voleva ritirarsi in pensione il contratto di affitto di un bar, in un incrocio, per 1.250 dollari. Non aveva clienti, e così iniziò un modo di fare banca diversa da tutte le altre dell’epoca. Si mise a girare per le strade, offrendo piccoli prestiti a chi voleva aprire un capannone, un piccolo ristorante, un esercizio commerciale. Nei primi del Novecento, era impossibile in America avere credito dalle banche, se eri una micro-impresa: vi era una regola per la quale non si davano prestiti inferiori ai 200 dollari. In pratica, per le somme minori ci si doveva rivolgere agli usurai. Quell’uomo iniziò a finanziare piccole cose, dando prestiti a partire da 25 dollari. Divenne famoso per la sua nuova cultura di banca.
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Italia in declino da 25 anni, privatizzati 170.000 miliardi
E’ opinione diffusa tra gli accoliti della sinistra italiana che i mali economici del Belpaese siano stati in larga misura acuiti e creati dai governi presieduti da Silvio Berlusconi. Mentre un’altra grossa fetta della popolazione è convinta che si debba viceversa far risalire le cause del declino alla pazza spesa pubblica della stagione dei governi del Pentapartito, quindi grosso modo in quel periodo storico che va dal 1980 alla nascita della cosiddetta e fantomatica Seconda Repubblica (1993). Quest’ultima tesi è quella che va per la maggiore negli ambienti dei liberali moderati che indistintamente possono essere collocati all’interno del centro-destra o del centro-sinistra. In questa piccola analisi ci occuperemo invece di quel periodo che va dalla fine degli anni ’80 fino alla fine dei ’90. Scopriremo come e perché le cause di tutti i nostri mali economici siano da attribuire alle politiche intraprese durante quegli anni. Anni che hanno visto il crollo del nostro Pil e del valore della lira contro il marco tedesco e dollaro Usa e il drammatico avvento delle privatizzazioni. L’Italia perderà terreno nei confronti della Francia (-21%), della Germania (-29,3%), della Gran Bretagna (-11,1%), del Giappone (-27,7%) e degli Stati Uniti (-25,8%). Per ricchezza prodotta il nostro paese raggiungerà il suo punto più elevato nel 1986 entrando a pieno titolo al quinto posto delle nazioni del G6 e scavalcando anche la Gran Bretagna per 47 miliardi delle vecchie lire.L’Italia raggiunse un altro storico traguardo nel 1991 allorquando in piena Tangentopoli divenne la quinta potenza industriale del pianeta e sfiorando il quarto posto nella classifica delle nazioni più ricche. Fu l’ultimo capitolo di una stagione che vedeva la politica ancora con le redini per poter intervenire nei processi economici del paese. L’epitaffio più prestigioso prima che il pool di Mani Pulite facesse piazza pulita della classe dirigente e imprenditoriale con il chiaro intento di aprire la strada a potentati economici e finanziari di marca anglosassone. Si chiudeva la stagione dell’intervento pubblico e di tutti quei meccanismi partecipativi che permisero alla nostra economia di vivere i fasti del boom economico degli anni ’70 e del consolidamento degli ’80. Gran merito di questo successo va attribuito alle strutture, alle leggi e a quegli istituti (Iri su tutti) creati durante il fascismo che in un modo e nell’altro sopravvissero ancora nei decenni successivi al Ventennio. Nel 1987 l’Italia entra nello Sme (Sistema monetario europeo) e il Pil passa dai 617 miliardi di dollari dell’anno precedente ai 1.201 miliardi del 1991 (+94,6% contro il 64% della Francia, il 78,6% della Germania, l’87% della Gran Bretagna e il 34,5% degli Usa). Il saldo della bilancia commerciale è in attivo di 7 miliardi mentre la lira si rivaluta del +15,2% contro il dollaro e si svaluta del -8,6% contro il marco tedesco.Tutto questo, come detto, ha un suo apice e un suo termine coincidente con la nascita della Seconda Repubblica. La fredda legge dei numeri ci dice difatti che dal 31 dicembre del 1991 al 31 dicembre del 1995, solo quattro anni, la lira si svaluterà del -29,8% contro il marco tedesco e del -32,2% contro il dollaro Usa. La difesa ad oltranza e insostenibile del cambio con la moneta teutonica e l’attacco finanziario speculativo condotto da George Soros costarono all’Italia la folle cifra di 91.000 miliardi di lire. In questi quattro anni il Pil crescerà soltanto del 5,4% e sarà il fanalino di coda della crescita all’interno del G6. In questi anni di governi tecnici la crescita italiana perderà terreno nei confronti della Francia (-21%,), della Germania (-29,3%), della Gran Bretagna (-11,1%), del Giappone (-27,7%) e degli Usa (-25,8%). Sono questi gli anni più tragici per l’economia italiana. Da allora la crescita, quando c’è stata, si è contabilizzata sulla base di cifre percentuali da prefisso telefonico. L’Italia perse in pochi mesi la classe politica del trentennio precedente che venne rimpiazzata nei posti strategici soprattutto da gente proveniente da noti istituzioni bancarie che seguirono – facendo addirittura meglio – alla lettera l’esempio thatcheriano.Non è un caso che proprio la Gran Bretagna della Lady di ferro perse, nel periodo che va dal 1981 al 1986, il 29% di crescita nei confronti dell’Italia, il 4.9% nei confronti della Francia e il 5% nei confronti della Germania. La fredda legge dei numeri che una volta per tutte smentisce chi ancora oggi glorifica la svolta liberista intrapresa dalla Thatcher. Svolta liberista che a partire dai governi tecnici e di sinistra colpì pesantemente l’Italia. Tutte le riforme strutturali avviate in quegli anni portarono il nostro paese a perdere posizioni che mai più avrebbe riguadagnato. A seguire, tutte le privatizzazioni con relativo valore al momento della cessione in miliardi di lire dell’epoca: 1993 Italgel, Cirio-Bertolli-De Rica, Siv (2.753 miliardi); 1994 Comit, Imi, Ina, Sme, Nuovo Pignone, Acciai Speciali Terni (12.704 miliardi); 1995 Eni, Italtel, Ilva Laminati piani, Enichem, Augusta (13.462 miliardi); 1996 Dalmine Italimpianti, Nuova Tirrenia, Mac, Monte Fibre (18.000 miliardi); 1997 Telecom Italia, Banca di Roma, Seat, Aeroporti di Roma (40.000 miliardi); 1998 Bnl + altre tranche (25.000 miliardi); 1999 Enel, Autostrade, Medio Credito Centrale (47.100 miliardi); 2000 Dismissione Iri (19.000 miliardi).Con la scusa di reperire capitali in vista della futura introduzione della moneta unica, il governo presieduto da Romano Prodi (17 maggio 1996 – 20 ottobre 1998) iniziò a spingere sull’acceleratore delle privatizzazioni e sulle cartolarizzazioni, ovvero la sistematica svendita del patrimonio di tutti gli italiani. Il governo Prodi non riuscì a completare la sua missione perché ad ottobre del 1998 cadde, ma con una mossa a sorpresa, evitando di fatto il ricorso alle urne, si diede l’incarico di creare una nuova maggioranza all’ex comunista Massimo D’Alema, che che proseguì la barbarie fin quando gli fu permesso (aprile del 2000) e conseguentemente proseguito dal governo “tecnico” Amato, quest’ultimo finito con la chiamata alle urne nel maggio del 2001. Questa fu la stagione legata alla più colossale svendita del patrimonio pubblico italiano. Furono incassati 178.019 miliardi di lire, pari a 91 miliardi di euro. “Meglio” della liberale Inghilterra della Thatcher. Milioni di posti di lavoro cancellati negli anni a venire che fecero perdere quella crescita che viceversa aveva contraddistinto i decenni precedenti.Le privatizzazioni non sono mai cessate. Dopo il 2000 proseguirono e continuano ancor oggi a piè sospinto. Cambia solo la ragione per la quale i governi ci dicono che dobbiamo procedere obbligatoriamente per questa strada: l’abbattimento del debito pubblico. Vale a dire come far passare il fatidico cammello attraverso la cruna dell’ago. Ma le privatizzazioni non solo non sono servite a nessuna delle cause fin qui addotte, ma come detto prima, cancellano posti di lavoro abbassando l’occupazione reale nell’arco di qualche anno. Nessuna delle ex aziende pubbliche ristrutturate dai privati ha difatti provveduto ad assumere più dipendenti della vecchia gestione. Centinaia di migliaia di posti di lavoro persi in favore del precariato e di tutti quei contratti a termine che hanno tolto certezze e diritti. Un altro elemento che oggi favorisce questa continua barbarie ai danni del lavoro ci è data dall’immigrazione favorita e voluta dalla Ue, accompagnata dal solito finto e perfido buonismo, che ha la funzione di servire sempre alla stessa finalità: alzare la disoccupazione marginale per far accettare ai lavoratori salari e diritti calanti. L’Italia ha avuto nel suo passato degli ottimi spunti che ci hanno posto ai vertici delle nazioni più competitive, e questo malgrado le cassandre che enfatizzavano gli aspetti legati all’elevata corruzione, alla criminalità organizzata e all’ignavia tipica dei mediterranei.Un paese che era vivo e presente, con il giusto slancio per affrontare qualsiasi sfida posta a livello internazionale. E questo era stato ampiamente compreso dai nostri diretti competitor, Germania, Gran Bretagna e Francia in testa che hanno fatto di tutto per smantellarci pezzo dopo pezzo. Nel 1997 il Pil italiano ha ancora una brutta caduta e passa dai 1.266 miliardi dell’anno precedente ai 1.199 miliardi. Recupera qualcosa nel ’98 (1.225 miliardi) per poi scendere ancora a 1.208 miliardi di dollari nel 1999. L’intero periodo segna una decrescita complessiva del -4,6%. L’11 dicembre del 2001, dopo 15 anni di negoziati, la Cina entrava a far parte del Wto (World Trade Organization), l’organizzazione mondiale del commercio. Da allora tutto è cambiato. Le economie anglosassoni, grazie alla deregolamentazione dei mercati voluta da Bill Clinton e Tony Blair, si sono votate esclusivamente sul finanziario. Si è creata di fatto una asimmetria tra rendita finanziaria e profitto capitalistico che ha favorito la Cina, che con i presupposti della concorrenza sleale ha sparigliato tutti, soprattutto nel campo manifatturiero, da sempre fiore all’occhiello dell’Italia. Chi non ha retto questi primi tragici anni del terzo millennio o ha chiuso i battenti o ha delocalizzato la produzione proprio nel paese del Dragone. Dal 2001 in poi i protagonisti dell’economia mondiale saranno altri. L’Italia esce mestamente dal G6 accompagnata verso un ruolo di marginalità politico-economica sempre maggiore.(Giuseppe Maneggio, “Il declino nazionale? Tutto è cominciato negli anni ‘90”, da “Il Primato Nazionale” del 18 marzo 2015).E’ opinione diffusa tra gli accoliti della sinistra italiana che i mali economici del Belpaese siano stati in larga misura acuiti e creati dai governi presieduti da Silvio Berlusconi. Mentre un’altra grossa fetta della popolazione è convinta che si debba viceversa far risalire le cause del declino alla pazza spesa pubblica della stagione dei governi del Pentapartito, quindi grosso modo in quel periodo storico che va dal 1980 alla nascita della cosiddetta e fantomatica Seconda Repubblica (1993). Quest’ultima tesi è quella che va per la maggiore negli ambienti dei liberali moderati che indistintamente possono essere collocati all’interno del centro-destra o del centro-sinistra. In questa piccola analisi ci occuperemo invece di quel periodo che va dalla fine degli anni ’80 fino alla fine dei ’90. Scopriremo come e perché le cause di tutti i nostri mali economici siano da attribuire alle politiche intraprese durante quegli anni. Anni che hanno visto il crollo del nostro Pil e del valore della lira contro il marco tedesco e dollaro Usa e il drammatico avvento delle privatizzazioni. L’Italia perderà terreno nei confronti della Francia (-21%), della Germania (-29,3%), della Gran Bretagna (-11,1%), del Giappone (-27,7%) e degli Stati Uniti (-25,8%). Per ricchezza prodotta il nostro paese raggiungerà il suo punto più elevato nel 1986 entrando a pieno titolo al quinto posto delle nazioni del G6 e scavalcando anche la Gran Bretagna per 47 miliardi delle vecchie lire.
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Giannuli: Potere al Popolo, per scuotere questi partiti morti
«Non per dare consigli a nessuno (non mi sembra di averne titolo) ma per chiarezza, faccio il mio “coming out” elettorale». Ovvero: “Potere al Popolo” alla Camera, «scommettendo che faccia il 3%», e i 5 Stelle al Senato «per dare ancora un segnale di disponibilità, sempre che raddrizzino il timone». Parola del professor Aldo Giannuli, storico dell’università di Milano, ascoltato politologo e attento osservatore “da sinistra” della scena italiana. «Come ho detto più volte – premette – il principale problema del momento è l’indecente offerta politica: è troppo al di sotto di quel che ci vorrebbe». Quindi, «più che per adesione», Giannuli voterà pensando agli effetti del suo voto «in questa specie di partita a carambola che sono diventate le consultazioni elettorali». Andando per esclusione: «Partiamo da quello che assolutamente non si può votare: centrodestra e centrosinistra sono solo avversari da battere». E per essere più precisi, «l’avversario peggiore e quello “di sinistra”, proprio per la truffa di un partito di destra che si presenta come “sinistra” e, in questo modo, riesce a fare quello che alla destra aperta non riusciva». E cioè: abolizione dell’articolo 18, Jobs Act, “buona scuola”: «Sono cose che Berlusconi avrebbe voluto fare ma non ci riuscì, per la reazione di sindacati e opposizione». Renzi invece ce l’ha fatta, «e per poco non è riuscito a stravolgere anche la Costituzione, non fosse stato per la rivolta popolare del 4 dicembre 2016».La destra berlusconiana, «anche se solo tatticamente» (per affondare Renzi) ha votato No al referendum, «mentre il Pd era l’eversore». Secondo Giannuli, «il nemico costituzionale è un nemico strategico assoluto». Dopo, non c’è più possibilità d’intesa: «Non glielo perdoneremo mai». Questo però non è chiaro a quella parte del Pd (neppure a tutta) che votò No e poi si è scissa, dando vita a “Liberi e Uguali”. Ok, ieri hanno ingaggiato la battaglia referendaria e oggi non hanno accettato di entrare in coalizione col Pd, ma l’hanno fatto «con un costante margine di ambiguità, per cui in Lazio entrano nella coalizione di Zingaretti e non escludono alleanze future». Il problema? Per Leu non è il Pd, ma Renzi: «Con un Pd senza Renzi si potrebbe ragionare», pensano. «E invece no: il Pd era una cosa sbagliata anche prima del fiorentino, un intruglio venefico fra neoliberismo e centralismo staliniano per il quale il gruppo dirigente fa opportunisticamente quel che vuole senza mai rendere conto a nessuno». D’altra parte, aggiunge Giannuli, il Pd appartiene a quella post-socialdemocrazia “terzista”, blairiana, «che si arrese al neoliberismo e che oggi sta pagando il conto, riducendosi a percentuali non rilevanti». La sua stagione è finita, e questo vale anche per il Pd. «Ma i nostri amici di Leu non sembrano capaci di imparare dall’esperienza, e insistono».Poi c’è stata «l’imbarazzante vicenda della caccia al “capo”», prima inseguendo «quel nulla politico che è Pisapia», per poi planare incredibilmente su Pietro Grasso, «un nome che non ha bisogno di commenti». Quindi, continua Giannuli, sono passati all’ancora più imbarazzante vicenda delle candidature, «in cui Leu si è dimostrata un ufficio di collocamento per parlamentari in cerca di rielezione, senza nessuna consultazione della base», con politici a fine carriera «paracadutati in collegi in cui non c’entravano nulla». Il programma di “Liberi e Uguali”? Lo svela una colorita espressione siciliana: “Nuddu, ammiscàtu a nenti” (nessuno, sommato a niente). «Insomma, iniziativa politica zero, idee zero, democrazia interna zero: invotabili». Giannuli, che vota a Milano, farà un’eccezione solo per Onorio Rosati, candidato con Leu alle regionali lombarde, «perché la Regione non è il Parlamento nazionale». Quanto ai 5 Stelle, dopo la manfrina elettoralistica del “né di destra, né di sinistra”, hanno fatto la scelta peggiore: la destra neoliberista. Il “reddito di cittadinanza”? «Una proposta tutta interna al neoliberismo». Lorenzo Fioramonti, il guru arruolato da Di Maio nonché suo mentore a Wall Street? «Nemico numero uno del Pil, economista di spiccata ispirazione neoliberista» (vorrebbe amputare del 40% il debito pubblico).«La solita solfa “né di destra né di sinistra” è un vecchio trucco per raccogliere voti da ambo le parti», ricorda Giannuli: «Per primi lo usarono i Fasci di Combattimento di Mussolini esattamente 99 anni fa». Furbetti e pilateschi, i 5 Stelle, su questo punto, «per non dire dell’annosa vicenda dei migranti». Quanto al modello organizzativo – apparato di funzionari o notabili parlamentari, oppure gruppi dirigenti regolarmente selezionati in modo collegiale e democratico – il Movimento 5 Stelle «ha scelto il peggiore: quello dell’uomo solo al comando, tanto simile a quello renziano». E l’ha fatto «con un colpo di mano statutario sbalorditivo», adottando «un regolamento subito applicato, senza neppure essere mai stato votato da nessuno». Il risultato, ferma restando la “pasticcioneria dell’ultima ora” tipica dei 5 Stelle, «è questa selezione di candidati su cui non spenderemo neppure mezza parola». Unico auspicio: forse non finirà così. «La base del movimento non è stata consultata e ha taciuto perché c’erano le elezioni, ma il 5 marzo magari avrà qualcosa da dire». Poi bisogna vedere come andrà Di Maio alle elezioni, cosa diranno Grillo e Di Battista, «e Dio non voglia che vengano fuori una decina di “responsabili”»). Comunque sia, per Giannuli, la base pentastellata resta pur sempre «un serbatoio di forze antisistema per nulla trascurabile».Poi ci sono le liste-contro, specie quelle di sinistra: l’unica che in base ai sondaggi sembra avere una chance (almeno di conquistare qualche seggio) è “Potere al Popolo”, messa insieme all’ultimo momento e tra mille difetti. «Però non c’è dubbio che una sua affermazione scombinerebbe molti giochi», sostiene Giannuli: «Tanto per cominciare, questo significherebbe che la domanda di una nuova rappresentanza politica si fa avanti e non è frenata», nonostante le tante “trappole” inventate dalla classe politica, tra sbarramenti e scatole cinesi: dalla valanga di firme da raccogliere in tempo record per ogni per circoscrizione, fino alla stessa «incomprensibile» legge elettorale, per cui «persino quelli di Forza Italia hanno rischiato». Non sta scritto da nessuna parte che il Parlamento debba essere monopolio dei tre poli maggiori, sottolinea Giannuli. E allora «allarghiamo il club e vediamo soprattutto quanti voti raccoglieranno le liste fuori coalizione».Queste elezioni, in fondo, sono solo il secondo round del crollo dell’infelicissima Seconda Repubblica. Il primo round è stato il referendum. Ne verrà un terzo tra un anno alle europee, poi forse un quarto alle regionali, sempre che prima non ci siano elezioni anticipate. Dunque, un voto necessariamente tattico: «Se “Potere al Popolo” prendesse ora il 3%, fra un anno parteciperebbe alle elezioni senza dover raccogliere le firme». Un bel punteruolo nella schiena di Leu e M5S: «Mica male, considerate le porcherie che hanno combinato questa volta». Capirebbero che «non possono dar da bere alla gente proprio tutto»? Inizieranno a correggere la rotta? «Ho visto dei sondaggi che danno “Potere al Popolo” al 2,4%», scrive Giannuli. «Certo, c’è la valanga degli indecisi che poi, quando rientra, non premia i piccoli partiti». Ma forse l’impresa non è impossibile: “Potere al Popolo” ha registrato una crescita costante fin dall’inizio, «quando nei sondaggi non compariva proprio». Lo spazio politico da riempire c’è tutto, chiosa Giannuli: «Diciamo che deve rastrellare 120-130.000 voti, per farcela». Poi dipende anche dall’astensionismo: in quanti voteranno? Quanti, invece, diserteranno le urne?«Non per dare consigli a nessuno (non mi sembra di averne titolo) ma per chiarezza, faccio il mio “coming out” elettorale». Ovvero: “Potere al Popolo” alla Camera, «scommettendo che faccia il 3%», e i 5 Stelle al Senato «per dare ancora un segnale di disponibilità, sempre che raddrizzino il timone». Parola del professor Aldo Giannuli, storico dell’università di Milano, ascoltato politologo e attento osservatore “da sinistra” della scena italiana. «Come ho detto più volte – premette – il principale problema del momento è l’indecente offerta politica: è troppo al di sotto di quel che ci vorrebbe». Quindi, «più che per adesione», Giannuli voterà pensando agli effetti del suo voto «in questa specie di partita a carambola che sono diventate le consultazioni elettorali». Andando per esclusione: «Partiamo da quello che assolutamente non si può votare: centrodestra e centrosinistra sono solo avversari da battere». E per essere più precisi, «l’avversario peggiore e quello “di sinistra”, proprio per la truffa di un partito di destra che si presenta come “sinistra” e, in questo modo, riesce a fare quello che alla destra aperta non riusciva». E cioè: abolizione dell’articolo 18, Jobs Act, “buona scuola”: «Sono cose che Berlusconi avrebbe voluto fare ma non ci riuscì, per la reazione di sindacati e opposizione». Renzi invece ce l’ha fatta, «e per poco non è riuscito a stravolgere anche la Costituzione, non fosse stato per la rivolta popolare del 4 dicembre 2016».
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Crisi, colpa nostra? Bifarini: dai media, soltanto fake news
Se tutti pagassero le tasse in 18 anni si potrebbe sanare il debito pubblico? Ridicolo. A parte il fatto che il debito pubblico non va “sanato”, perché lo Stato non è una famiglia né un’azienda, in realtà non esiste nessuna relazione significativa tra il livello di evasione e il debito di un paese. Anzi, al contrario: se osserviamo Giappone e Stati Uniti, che hanno il più alto debito pubblico al mondo, notiamo che in questi paesi il livello di evasione è bassissimo. Parola di Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” intervistata dal “Giornale” sulle più ricorrenti “bufale”, spacciate di media, in materia di economia. E’ la solita strumentalizzazione: giornali e televisioni «puntano il dito sull’evasione, sui piccoli evasori, attribuendogli la colpa della crisi economica», magari denunciando «gli affitti in nero e ai piccoli imprenditori», ma senza mai fare alcun riferimento «alla grande evasione fiscale da parte delle banche e delle grandi corporation». Motivo: «Si vuole scatenare la solita guerra tra poveri, strumentale poi alla preservazione dello status quo». La “flat tax”? Non è vero che “aiuta solo i ricchi”, anche se «rimane non progressiva verso l’alto, quindi sarebbero avvantaggiate le fasce di reddito più alte». Comunque sia, «è urgente e improcrastinabile una semplificazione e una riduzione significativa della tassazione delle nostre imprese, che si trovano schiacciate dalla competizione internazionale anche in ambito fiscale».Le privatizzazioni come soluzione? Giammai: «Privatizzare vuol dire svendere il nostro bene pubblico senza risolvere il problema della crisi e del debito attuale, mettendolo per lo più in mano ad investitori stranieri», spiega Ilaria Bifarini. «Questo ha ripercussioni notevoli sul livello dei salari (che entrano nel sistema perverso della concorrenza sfrenata, propria del modello neoliberista) e sull’abbassamento ulteriore della qualità dei prodotti e dei servizi». Privatizzando, «si vuole estromettere il ruolo dello Stato dalla politica economica: questo è quanto suggerisce l’Unione Europea per risanare il debito pubblico». In realtà, nonostante le devastanti privatizzazioni degli ultimi anni, il debito pubblico continua a crescere. «Quindi, privare il proprio paese di asset pubblici fondamentali per il proprio sviluppo e per la fruibilità e la qualità dei servizi non è altro che controproducente per l’economia di un paese». Cosa rispondere a chi afferma anche che gli aiuti pubblici uccidono la concorrenza e il Pil? «In realtà è proprio vero il contrario: infatti esiste una relazione diretta tra le dimensioni del governo e il reddito pro capite dei cittadini. Perché un’economia aperta, sviluppata e competitiva possa prosperare, è necessario che ci sia un intervento da parte dello Stato. E che quindi uno Stato offra tutele alle fasce di popolazione più debole in modo che possa funzionare la dinamica del libero mercato».Attualmente, la “teologia” neoliberista imposta dall’Ue fa in modo che avvega l’esatto opposto: i soli aiuti pubblici «sono rivolti ai salvataggi delle banche». Per l’economista, «siamo di fronte a un sistema bancario ipertrofico che non produce ricchezza reale ma soltanto speculazione, evade ed elude i propri profitti». E i cittadini «si trovano a dover finanziare un simile sistema che è deleterio per la crescita e per lo sviluppo». E se la globalizzazione «ha portato indiscutibili miglioramenti nell’ambito dello sviluppo economico e del progresso industriale», oggi ci troviamo in una fase successiva, la cosiddetta “iperglobalizzazione”, «dove a rischio sono la sopravvivenza della democrazia e degli Stati nazionali». Secondo quello che il “trilemma di Rodrik”, dal nome dell’economista turco Danil Rodrik, esiste una relazione diretta di incompatibilità tra democrazia, Stato nazionale e globalizzazione: «Quindi, se spingiamo oltre la globalizzazione, come è già avvenuto, dobbiamo rinunciare o allo Stato nazionale o alla democrazia». Di fatto, aggiunge Bifarini, alla democrazia stiamo già rinunciando: «Ci troviamo di fronte a quella formale, ma completamente svuotata del suo contenuto sostanziale, la cosiddetta “democrazia apatica”». Ora, attraverso l’Ue e l’Eurozona, «ci dicono di rinunciare anche allo Stato nazionale in nome di una governance internazionale inefficace e carente».Altro tragico dogma in auge: limitare la spesa pubblica al 3% del Pil. «Il limite del 3% del rapporto deficit-Pil non è assolutamente salutare per l’economia», sottolinea Ilaria Bifarini. «La prova è che l’Italia si trova a generare un avanzo primario da ben 24 anni con una sola eccezione nel 2009, quindi in realtà paghiamo più di quanto riceviamo e questo non può essere salutare per l’economia e il suo sviluppo». Attenzione: «Non si può riuscire a pareggiare il bilancio attraverso politiche di riduzione del reddito nazionale senza occuparsi del problema della disoccupazione, come insegnava Keynes». Il più falso dei “refrain” impugnati dai profeti del rigore? Avremmo “vissuto al di sopra le nostre possibilità”. Ridicolo: il boom del debito italiano risale al 1981, anno del divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro. Nulla a che vedere coi consumi italiani. La crisi finanziaria mondiale del 2008? «Non è una crisi da debito pubblico, ma una crisi generata da un fattore di debito privato». Propaganda: «Si vuole alimentare questa concezione per la quale ci sono paesi come il nostro, spendaccioni (i cosiddetti Pigs, che hanno “vissuto oltre le proprie possibilità”) e che quindi le misure dure, inefficaci e deleterie dell’austerity imposte dalla Troika e dalle istituzioni finanziarie internazionali siano la giusta pena da espiare per i peccati commessi». In altre parole, barando, «si è creata una questione morale su un argomento prettamente economico». Se ne sono accorti, gli italiani?Se tutti pagassero le tasse in 18 anni si potrebbe sanare il debito pubblico? Ridicolo. A parte il fatto che il debito pubblico non va “sanato”, perché lo Stato non è una famiglia né un’azienda, in realtà non esiste nessuna relazione significativa tra il livello di evasione e il debito di un paese. Anzi, al contrario: se osserviamo Giappone e Stati Uniti, che hanno il più alto debito pubblico al mondo, notiamo che in questi paesi il livello di evasione è bassissimo. Parola di Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” intervistata dal “Giornale” sulle più ricorrenti “bufale”, spacciate di media, in materia di economia. E’ la solita strumentalizzazione: giornali e televisioni «puntano il dito sull’evasione, sui piccoli evasori, attribuendogli la colpa della crisi economica», magari denunciando «gli affitti in nero e ai piccoli imprenditori», ma senza mai fare alcun riferimento «alla grande evasione fiscale da parte delle banche e delle grandi corporation». Motivo: «Si vuole scatenare la solita guerra tra poveri, strumentale poi alla preservazione dello status quo». La “flat tax”? Non è vero che “aiuta solo i ricchi”, anche se «rimane non progressiva verso l’alto, quindi sarebbero avvantaggiate le fasce di reddito più alte». Comunque sia, «è urgente e improcrastinabile una semplificazione e una riduzione significativa della tassazione delle nostre imprese, che si trovano schiacciate dalla competizione internazionale anche in ambito fiscale».
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Giannini: lo spettro del Britannia e il reddito di cittadinanza
Una importante novità nell’anno 2018 compare di fronte agli elettori: l’analisi dei principali aspetti riguardanti i programmi dei partiti, soprattutto sul piano dei costi. Tra le ricette che sono state presentate, quella del Movimento 5 Stelle ha destato subito interesse quando ci si è resi conto che conteneva passi copiati da Wikipedia o addirittura dal programma Pd. Per quanto la vicenda possa apparire come un indice di scarsa competenza e conoscenza e quindi suscitare inquietudine, l’attenzione andrebbe focalizzata piuttosto sui concetti di fondo della proposta pentastellata. Secondo gli economisti di stampo keynesiano, per uscire dalle situazioni di crisi economica si deve “fare deficit” per attuare politiche di espansione (di crescita) dando lavoro, investendo in infrastrutture, detassando, conferendo nuovi diritti sociali, ecc. In questo modo la disoccupazione si dovrebbe ridurre, i contribuenti dovrebbero aumentare e con essi le entrate andrebbero a ripianare non solo il nuovo deficit ma anche a ridurre lo stock del debito pregresso. Di Maio, apparentemente in linea con questo approccio, ha insistito sullo sforamento del parametro di bilancio del 3%, un parametro di scarsissima scientificità ma concordato con gli altri soggetti europei: «Prenderemo un po’ di debito e lo investiremo per lo sviluppo», è stato lo slogan in diverse conferenze elettorali.
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Trovant, le “pietre viventi” che crescono e si riproducono
Pietre capaci di crescere e riprodursi, proprio come gli esseri viventi. Una follia? No, il risultato di una scoperta in Romania. Anche se è difficile da credere sembra che esistano delle rocce speciali che si comportano come se fossero delle piante. Le strane pietre sono state soprannominate Trovant (termine che in rumeno significa “sabbia cementata”), ma tutti le chiamano “rocce viventi”. I massi “nascono” come formazioni grandi appena 6 o 8 millimetri e crescono diventando rocce dotate di 6-10 metri di diametro, scrive “Supereva”. «La crescita avviene in tempi piuttosto lunghi, ma è allo stesso modo davvero sbalorditiva. Per comprendere meglio cosa accade basti pensare che per aumentare di 5 centimetri una pietra ha bisogno di 1200 anni». Non a caso, secondo gli esperti che le hanno analizzate, le pietre si sarebbero formate oltre 6 milioni di anni fa. Riuscirebbero ad aumentare di volume grazie a diversi fattori, quali l’alta concentrazione di sali minerali, contenuti nell’arenaria che le forma. Al loro interno per i geologi ci sarebbe sabbia cementata con acquee calcaree e carbonato.Oggi le rocce viventi si possono osservare all’interno della riserva naturale di Muzeul Trovantilor che viene gestita dall’associazione Kogayon con il patrocinio dell’Unesco. Non solo: sembra che in tutta la Romania siano presenti diversi siti in cui si trovano moltissime Trovant. I sassi reagiscono a contatto con l’acqua, sono in grado di crescere e si riproducono. Il sito, al centro di numerosi studi e ricerche, si trova a circa 35 chilometri da Ramnicu Valcea, capoluogo dell’omonimo distretto nella storica regione dell’Oltenia. Le Trovant sono concentrate in una decina di siti rumeni, ma il più spettacolare è indubbiamente il Muzeul Trovantilor, un museo a cielo aperto ove è possibile ammirarle in una grande varietà di forme e dimensioni. Dalle analisi condotte dai ricercatori, racconta “Scienze Fanpage”, è emerso che la “pasta di sabbia” di cui sono composte è ricca di sali minerali, carbonati e acqua dura, cioè calcarea: una sorta di cemento che, una volta a contatto con l’acqua piovana, produce una variazione di pressione interna e la conseguente crescita.«Quando si staccano dei frammenti dalle rocce di dimensioni maggiori, anch’essi sono esposti allo stesso principio, suggerendo la bizzarra interpretazione della “riproduzione”». Rocce viventi? Il loro accrescimento è stato confermato da evidenze scientifiche: «Al loro interno si possono vedere anelli simili a quelli dei tronchi degli alberi». Il fenomeno diventa visibile «in tempi geologici relativamente brevi, ma impossibili da apprezzare da un uomo: basti pensare che sono necessari oltre mille anni per osservare un aumento di 5-6 centimetri di dimensioni». Nel corso di centinaia di migliaia di anni, se non milioni, «il processo ha trasformato piccoli sassolini in giganti che vanno dai 6 ai 10 metri» Sono le “sculture naturali” più imponenti, visibili al Muzeul Trovantilor. Un caso unico al mondo: grazie alla loro composizione “cementata”, le Trovant si comportano come le piante, rileva “Focus”. E’ così che ogni “roccia madre”, col tempo, “partorisce” le sue escrescenze pietrose.«Naturalmente questo processo non è un vero parto, ma un fenomeno geologico», sul quale in ogni caso si interroga la scienza, che ancora divide la chimica in due categorie separate, organica e inorganica. Formazioni di 6-8 millimetri possono arrivare a diventare rocce da 10 metri di diametro. «Crescite sbalorditive, anche se in tempi molto lunghi: in media, per una crescita di 5 centimetri servono 1200 anni», scrive Noemi Penna sulla “Stampa”. «I geologi pensano che queste straordinarie pietre primordiali si siano formate 6 milioni di anni fa e che il loro aumento di volume sia dovuto all’alta concentrazione di sali minerali che si trova nel loro “impasto” di arenaria». A parte la riserva naturale di Muzeul Trovantilor, «sono oltre una decina i siti romeni dove sono state individuate altre pietre con le stesse caratteristiche», davvero senza eguali al mondo.Pietre capaci di crescere e riprodursi, proprio come gli esseri viventi. Una follia? No, il risultato di una scoperta in Romania. Anche se è difficile da credere sembra che esistano delle rocce speciali che si comportano come se fossero delle piante. Le strane pietre sono state soprannominate Trovant (termine che in rumeno significa “sabbia cementata”), ma tutti le chiamano “rocce viventi”. I massi “nascono” come formazioni grandi appena 6 o 8 millimetri e crescono diventando rocce dotate di 6-10 metri di diametro, scrive “Supereva”. «La crescita avviene in tempi piuttosto lunghi, ma è allo stesso modo davvero sbalorditiva. Per comprendere meglio cosa accade basti pensare che per aumentare di 5 centimetri una pietra ha bisogno di 1200 anni». Non a caso, secondo gli esperti che le hanno analizzate, le pietre si sarebbero formate oltre 6 milioni di anni fa. Riuscirebbero ad aumentare di volume grazie a diversi fattori, quali l’alta concentrazione di sali minerali, contenuti nell’arenaria che le forma. Al loro interno per i geologi ci sarebbe sabbia cementata con acquee calcaree e carbonato.