Archivio del Tag ‘corruzione’
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Craig Roberts: salvare il mondo, l’ora di Putin si avvicina
Vladimir Putin è il leader più impressionante sul palcoscenico mondiale. Sopravvisse e sorse da una Russia corrotta da Washington e Israele durante gli anni di Eltsin e ha ristabilito la Russia come potenza mondiale. Ha affrontato con successo l’aggressione americana-israeliana contro l’Ossezia del Sud e contro l’Ucraina, incorporando su richiesta della Crimea la provincia russa di nuovo nella Madre Russia. Ha tollerato infiniti insulti e provocazioni da Washington e dal suo impero senza rispondere in solido. È conciliante e pacificatore da una posizione di forza. Sa che l’impero americano basato sull’arroganza e sulle bugie sta fallendo economicamente, socialmente, politicamente e militarmente. Capisce che la guerra non serve alcun interesse russo. L’omicidio di Washington di Qasem Soleimani, un grande leader iraniano, anzi, uno dei rari leader nella storia del mondo, ha offuscato la leadership di Trump e ha posto le luci della ribalta su Putin. Il palcoscenico è pronto perché Putin e la Russia assumano la guida del mondo.L’omicidio di Washington di Soleimani è un atto criminale che potrebbe iniziare la Terza Guerra Mondiale proprio come quando l’omicidio serbo dell’arciduca austriaco mise in moto la Prima Guerra Mondiale. Solo Putin e la Russia, con l’aiuto della Cina, può fermare questa guerra che Washington ha messo in moto. Putin ha capito che la destabilizzazione della Siria da parte di Washington e Israele era rivolta alla Russia. Senza preavviso, la Russia è intervenuta, ha sconfitto le “forze per procura” finanziate e armate da Washington e ha ripristinato la stabilità in Siria. Sconfitti, Washington e Israele hanno deciso di aggirare la Siria e portare l’attacco alla Russia direttamente in Iran. La destabilizzazione dell’Iran serve sia a Washington che a Israele. Per Israele la morte dell’Iran interrompe il sostegno a Hezbollah, la milizia libanese che ha sconfitto due volte l’esercito israeliano e ha impedito l’occupazione israeliana del Libano meridionale. A Washington la morte dell’Iran consente ai jihadisti sostenuti dalla Cia di portare instabilità nella Federazione Russa.A meno che Putin non si sottometta alla volontà americana e israeliana, non ha altra scelta che bloccare qualsiasi attacco Washington-israeliano contro l’Iran. Il modo più semplice e pulito per fare questo, da parte di Putin, è annunciare che l’Iran è sotto la protezione della Russia. Questa protezione dovrebbe essere formalizzata in un trattato di mutua difesa tra Russia, Cina e Iran, forse con anche India e Turchia come membri. Questo è difficile da fare per Putin, perché gli storici incompetenti hanno convinto Putin che le alleanze sono la causa della guerra. Ma un’alleanza come questa impedirebbe la guerra. Neanche il folle criminale Netanyahu e i neoconservatori americani impazziti, anche se completamente ubriachi o illusi, dichiarerebbero guerra all’Iran, alla Russia e alla Cina, inclusi nell’alleanza con India e Turchia. Significherebbe la morte dell’America, di Israele e di qualsiasi paese europeo sufficientemente stupido da partecipare.Se Putin non è in grado di liberarsi dall’influenza di storici incompetenti, che in effetti stanno servendo interessi a Washington, non in Russia, ha altre opzioni. Può calmare l’Iran dando all’Iran i migliori sistemi di difesa aerea russi, con equipaggi russi per addestrare gli iraniani, e la cui presenza serva da monito a Washington e Israele: un attacco alle forze iraniane sarebbe un attacco alla Russia. Fatto ciò, Putin può quindi insistere sulla mediazione. Questo è il ruolo di Putin, poiché non c’è nessun altro con il potere, l’influenza e l’oggettività per mediare. L’obiettivo di Putin non è tanto salvare l’Iran, quanto far uscire Trump da una guerra persa che distruggerebbe lo stesso Trump. Putin potrebbe stabilire il suo prezzo. Ad esempio, il prezzo di Putin può essere il rilancio del trattato Inf/Start, il trattato sui missili anti-balistici, la rimozione della Nato dai confini russi. In effetti, Putin è posizionato per richiedere tutto ciò che vuole.I missili iraniani possono affondare qualsiasi nave americana ovunque, vicino all’Iran. I missili cinesi possono affondare qualsiasi flotta americana ovunque, vicino alla Cina. I missili russi possono affondare le flotte americane in qualsiasi parte del mondo. La capacità di Washington di proiettare la sua potenza in Medio Oriente è zero, ora che tutti (ex sciiti e sunniti e gli ex delegati di Washington come l’Isis) odiano gli americani con passione. Il Dipartimento di Stato ha dovuto ordinare agli americani di uscire dal Medio Oriente. In che modo Washingon conta come una forza in Medio Oriente quando nessun americano è al sicuro, lì? Naturalmente Washington è stupida nella sua arroganza. E Putin, la Cina e l’Iran, deve tenerne conto. Un governo stupido è in grado di rovinare non solo se stesso, ma anche gli altri. Quindi ci sono rischi, per Putin, ma anche rischi di cui Putin non può farsi carico. Se Washington e Israele lanciano un attacco sull’Iran, che Israele tenterà di provocare con un evento “sotto falsa bandiera” mentre affonda una nave da guerra americana e incolpa l’Iran, la Russia sarà comunque in guerra. Meglio che l’iniziativa sia nelle mani di Putin. E meglio per il mondo, e la vita sulla Terra, che al comando sia la Russia.(Paul Craig Roberts, “L’ora di Putin è a portata di mano”, dal blog di Craig Roberts del 4 gennaio 2020. Economista liberale e già viceministro di Ronald Reagan, Craig Roberts è un acuto analista indipendente degli scenari geopolitici).Vladimir Putin è il leader più impressionante sul palcoscenico mondiale. Sopravvisse e sorse da una Russia corrotta da Washington e Israele durante gli anni di Eltsin e ha ristabilito la Russia come potenza mondiale. Ha affrontato con successo l’aggressione americana-israeliana contro l’Ossezia del Sud e contro l’Ucraina, incorporando su richiesta della Crimea la provincia russa di nuovo nella Madre Russia. Ha tollerato infiniti insulti e provocazioni da Washington e dal suo impero senza rispondere in solido. È conciliante e pacificatore da una posizione di forza. Sa che l’impero americano basato sull’arroganza e sulle bugie sta fallendo economicamente, socialmente, politicamente e militarmente. Capisce che la guerra non serve alcun interesse russo. L’omicidio di Washington di Qasem Soleimani, un grande leader iraniano, anzi, uno dei rari leader nella storia del mondo, ha offuscato la leadership di Trump e ha posto le luci della ribalta su Putin. Il palcoscenico è pronto perché Putin e la Russia assumano la guida del mondo.
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Soleimani come Massud: ucciso l’eroe, seppellirai la pace
Qassem Soleimani era certamente un militare, un duro, ma era anche uomo di Stato, un consigliere politico insostituibile per la “guida suprema” dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei: in quella veste «ha dimostrato di essere un uomo di stabilizzazione, un tessitore, al pari della sua risolutezza come guerriero». Attenzione: nel 2001, un paio di giorni prima dell’11 Settembre, il leggendario guerrigliero afghano Ahmad Shah Massud venne ucciso in un attentato. Chi lo fece (il signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar, agente dell’Isi – l’intelligence pakistana, braccio operativo della Cia) sapeva benissimo che da lì a poco l’Afghanistan sarebbe stato invaso. I killer di Massud non volevano tra i piedi un eroe nazionale che rappresentasse un punto di stabilità per quel paese. «Chi ha ucciso Soleimani sa bene cosa sta per succedere e ha inteso togliere di mezzo preventivamente un perno di stabilità per tutta la regione». E’ l’analisi che Simone Santini offre, dal blog “Megachip”, per leggere tra le righe del caos scatenato dall’infame agguato terroristico statunitense, in territorio iracheno, costato la vita al leader dei Pasdaran, eroe nazionale iraniano e liberatore della Siria grazie alla storica sconfitta impartita al’Isis, la sanguinosa formazione terrorista sunnita finanziata e protetta dall’Occidente.Da Santini, uno sguardo disincantato e prospettico sul nuovo pericoloso incendio mediorientale, scatenato – colpendo l’Iran – per minare il possibile rafforzamento dell’asse tra Teheran e Pechino (e magari Mosca) nel quadro della “nuova guerra fredda” in corso (o, se si preferisce, Terza Guerra Mondiale a puntate). Già tre anni fa, all’indomani della elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, Santini elencava i compiti che sarebbero stati affidatio all’amministrazione Trump. Primo: ripristinare e proteggere l’economia interna, ricostruendo le sue basi fondamentali. Ovvero: Stati Uniti rimessi in pista come motore produttivo, manifatturiero, verso la piena occupazione, mettendo fine alle delocalizzazioni selvagge. Poi: distensione con la Russia, ma senza cedere nulla di quanto conquistato nel frattempo. Tradotto: «Congelamento dello status quo, fine delle aggressioni, reciproco rispetto formale e collaborazione laddove gli interessi fossero convergenti». Cruciale il capitolo Cina, come si è visto: massima competizione commerciale ed economica con Pechino, «ma senza spingere al momento sull’acceleratore del confronto militare». Sul medio periodo, prevedeva Santini, «si dovrà alzare sempre più l’asticella della competizione globale e porre Pechino davanti ad una scelta strategica: accettare la supremazia americana in cambio di una parziale condivisione dei dividendi dell’Impero oppure il confronto militare, sempre più aggressivo».E intanto: «Concentrarsi nell’immediato sullo scacchiere mediorientale, lo scenario più urgente». Dunque: «Fine della sponsorizzazione del jihadismo sunnita, che ha esaurito in quell’area la sua funzione, e spinta verso la democratizzazione delle petromonarchie del Golfo, a partire dall’Arabia Saudita. Il nemico principale, tuttavia – sottolineava Santini tre anni fa – torna ad essere lo sciismo politico e i suoi alleati, il cosiddetto asse della resistenza, e il suo centro nevralgico, l’Iran». Le linee di faglia su cui si sarebbe mossa l’amministrazione americana erano dunque ben visibili da subito, conferma oggi l’analista di “Megachip”. «Questi tre anni di presidenza, turbolenti, ci hanno poi confermato quelle direttrici e consentito di approfondire taluni approcci». In particolare, per quanto riguarda il confronto con l’Iran, «Trump è apparso bilanciarsi tra le due fazioni principali dello Stato Profondo statunitense che, semplificando e banalizzando, si potrebbero così riassumere: la fazione realista, “il partito dell’assedio”, per cui il nemico va accerchiato, logorato, ma non colpito a fondo perché poi diventa molto difficile ricomporre i cocci di quel che si è rotto; la fazione idealista, messianica, “il partito della guerra”, per cui vale il motto “colpisci per primo, colpisci due volte, e sui cocci pisciaci sopra”».Tra queste due posizioni “imperiali”, ne esistono tante altre, variegate e composite, e Trump è a cavallo di una di queste. «Nel gruppo di potere che lo ha portato alla Casa Bianca, ad esempio – scrive oggi Santini – ci sono quelli che vorrebbero concentrarsi esclusivamente sugli affari interni lasciando sullo sfondo il resto del pianeta, e le lobbies ultrasioniste il cui unico interesse è togliere di mezzo la Repubblica islamica iraniana». L’assassinio di Qasem Soleimani, secondo Santini, dimostra che il “partito della guerra” ha preso definitivamente il controllo della strategia nei confronti dell’Iran. «Se Trump abbia preso tale decisione o sia stato messo davanti al fatto compiuto sarà materia di dibattito per gli storici, ma non cambia la situazione», aggiunge l’analista. «In ogni caso, c’è chi ritiene prevalente l’ipotesi di una decisione diretta del presidente, soprattutto per scopi elettorali: creare un nemico esterno imminente lo aiuterebbe a tirarsi fuori dai guai interni, richiesta di impeachment e collaterali (va aggiunto che anche Israele è, di nuovo, in campagna elettorale, e questa tornata è esistenziale per Netanyahu ancor più che per Trump)». La tesi opposta è quella di un Trump che non vorrebbe lo scontro diretto, ma vi è spinto dai falchi del complesso militare-industriale. «Tutto più o meno plausibile», annota Santini: «Personalmente propendo per una ipotesi intermedia, rifacendomi anche ad un precedente storico», quello di Bill Clinton.Durante tutto il 1998, l’allora presidente vide montare in maniera virulenta lo scandalo Lewinsky, un sexgate che portò alla sua incriminazione per spergiuro ed ostacolo alla giustizia. «Clinton non aveva a cuore la crisi internazionale che si stava profilando all’orizzonte, il Kosovo: sapeva a malapena dove si trovasse». Poi, improvvisamente – continua Santini – nell’autunno inoltrato di quell’anno, «quando lo scandalo interno era al culmine, decise di mettere la crisi balcanica al centro della sua azione politica». Miracolo: «Altrettanto improvvisamente la crisi interna si sgonfiò». E la crisi del Kosovo, «da affare regionale, divenne affare globale». Si domanda Santini: «Furono molto bravi gli strateghi di Clinton a sviare l’attenzione o, piuttosto, il sexgate rivelò la sua vera natura?». Si trattò quindi di «uno strumento di pressione montato ad arte da alcuni centri di potere, per fare sì che il presidente, e alcuni altri centri di potere che egli rappresentava, portassero gli Stati Uniti in guerra». In altre parole: «Sventolando il Kosovo davanti a Clinton fu facile trovare un accordo win-win: tu ci dai la guerra e il sexgate finisce nel dimenticatoio». Mutatis mutandis, può essere accaduto lo stesso in questa fase tra Trump, i gruppi di potere del Deep State, l’impeachment e l’Iran.A questo punto, prosegue Santini nella sua analisi, si fa un gran discutere su quali potrebbero essere le future mosse degli iraniani: la preoccupazione di una escalation è fortissima e tangibile, visto che si temono ripercussioni drammatiche. «Alcuni analisti sostengono che gli Usa stiano scherzando col fuoco, che hanno commesso un errore fatale, che la politica estera statunitense è allo sbando, chiaro segnale del loro inarrestabile declino». Santini non è affatto d’accordo: «Ritengo invece che questa escalation, questa accelerazione di fase, sia stata lucidamente pianificata e perseguita». Infatti, le due conseguenze immediate che ha già prodotto «sono esattamente quelle che gli americani si attendevano». Tanto per cominciare, «l’Iran si è ritirato dall’accordo nucleare». Il governo di Rouhani-Zarif ha resistito fino all’ultimo: «Ha resistito alla denuncia unilaterale del trattato da parte americana, che lo rendeva di fatto vuoto, ha resistito alla imposizione di ulteriori pesantissime sanzioni che stanno avendo profondi effetti sulla società iraniana». I politici di Teheran «hanno più volte chiesto sostegno diplomatico agli immobili e tremebondi paesi europei, inutilmente».Ora, aggiunge Santini, «l’atto terroristico americano, una sorta di dichiarazione di guerra, ha colpito sotto la cintola la componente moderata del potere iraniano», che di fatto «non può più resistere alle pressioni della componente radicale senza esserne travolta sul piano interno». E così, «gli Stati Uniti hanno di nuovo lo strumento retorico e mediatico principe da brandire contro l’Iran e contro i riottosi alleati europei per giustificare le prossime aggressioni: la paura della bomba atomica in mano agli ayatollah (e poco importa se tale minaccia sia sempre stata inesistente, conta solo che venga percepita come tale)». La seconda conseguenza, poi, secondo Santini è molto sottile da interpretare: «Che il Parlamento iracheno abbia decretato la cacciata delle truppe straniere di occupazione dal paese potrebbe sembrare una sconfitta per gli americani, ma così non è». Il governo iracheno infatti è fragilissimo, di fatto dimissionario dopo le imponenti manifestazioni popolari contro corruzione e condizioni economiche dei mesi scorsi, represse a costo di centinaia di morti e migliaia di feriti, e che si sono interrotte solo in seguito alla promessa del premier Abdul-Mahdi di dimettersi. «Un governo in queste condizioni non ha la minima forza per imporre la decisione assunta contro gli Stati Uniti».L’Iraq si trova, oggettivamente, in una condizione di pre-guerra civile. «Se fossi uno stratega americano, o israeliano, farei il possibile per favorire tale drammatico esito», scrive Santini. Tutti nemici: iracheni contro curdi e sunniti contro sciiti, ma le divisioni interne travagliano le stesse componenti sciite. «Il mondo sciita non è monolitico», spiega Santini: «In particolare, la dottrina khomeinista ha prodotto al suo interno una profonda frattura di ordine religioso ma con importanti riflessi politici», dato che «religione e politica nell’Islam si intrecciano intimamente». In Iraq «esistono fazioni sciite radicali ma nazionaliste (la principale è quella che fa capo a Moqtada al Sadr) e fazioni sciite altrettanto radicali ma filo-iraniane (che si richiamano alla ideologia e organizzazione degli Hezbollah libanesi)». Gli sciiti nazionalisti iracheni – aggiunge Santini – mal sopportano (è un eufemismo) l’ascesa egemonica degli sciiti filo-iraniani in Iraq. Sicchè, lo scontro armato è all’ordine del giorno, visto che «questi partiti, gruppi e fazioni sono tutti strutturati in organizzazioni paramilitari». Dare la parola alle armi? «Sarebbe possibile se il paese sprofondasse nel caos», in una sorta di “tutti contro tutti” dagli esiti imprevedibili.In quel caso, conclude Santini, «l’Iran sarebbe risucchiato in questa guerra civile irachena e ne uscirebbe ulteriormente dissanguato». Dopo due guerre che hanno raso al suolo l’Iraq, emerge una verità di fondo: «Gli americani in questi lunghi anni di occupazione hanno dimostrato di non avere la forza militare sufficiente per imporre la loro egemonia, ma ce l’hanno a sufficienza per “controllare” una guerra civile, aperta o sotterranea, indefinitamente, finché fosse nel loro interesse». Ed ecco che, alla luce di questa analisi, risulta meno “folle” e incomprensibile l’efferata uccisione del grande tessitore carismatico Soleimani, che Santini – in modo davvero suggestivo – accosta alla fine, altrettanto atroce, che la longa manus terroristica degli Usa riservò al “leone del Panshir”, l’eroe nazionale afghano che (come il guerriero Soleimani) avrebbe avuto il prestigio, l’autorevolezza e la popolarità per imporre la pace, mettendo fine alle ingerenze internazionali nel suo tormentato paese. Ieri il comandante Massud, oggi il generale Soleimani: e i registi della morte provengono dalla medesima capitale, Washington.Qassem Soleimani era certamente un militare, un duro, ma era anche uomo di Stato, un consigliere politico insostituibile per la “guida suprema” dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei: in quella veste «ha dimostrato di essere un uomo di stabilizzazione, un tessitore, al pari della sua risolutezza come guerriero». Attenzione: nel 2001, un paio di giorni prima dell’11 Settembre, il leggendario guerrigliero afghano Ahmad Shah Massud venne ucciso in un attentato. Chi lo fece (il signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar, agente dell’Isi – l’intelligence pakistana, braccio operativo della Cia) sapeva benissimo che da lì a poco l’Afghanistan sarebbe stato invaso. I killer di Massud non volevano tra i piedi un eroe nazionale che rappresentasse un punto di stabilità per quel paese. «Chi ha ucciso Soleimani sa bene cosa sta per succedere e ha inteso togliere di mezzo preventivamente un perno di stabilità per tutta la regione». E’ l’analisi che Simone Santini offre, dal blog “Megachip“, per leggere tra le righe del caos scatenato dall’infame agguato terroristico statunitense, in territorio iracheno, costato la vita al leader dei Pasdaran, eroe nazionale iraniano e liberatore della Siria grazie alla storica sconfitta impartita al’Isis, la sanguinosa formazione terrorista sunnita finanziata e protetta dall’Occidente.
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Renzi, Grillo e il nullivendolo Conte: un decennio senza eredi
Cosa resta del decennio che si è appena chiuso? Nessuna eredità: solo scorie, rottami e frattaglie, sintetizza Marcello Veneziani. «In principio fu Silvio Berlusconi al governo. C’era ancora Fini, c’era Bossi, c’era Casini, c’era Tremonti». In quel tempo, «i problemi dell’Italia e del mondo venivano dopo – per i media, la magistratura e l’opposizione di sinistra – rispetto alla vita sessuale di Berlusconi». Era quello l’argomento, universalmente noto come Bunga Bunga, su cui si concentrava il dibattito pubblico. «Berlusconi col suo baldanzoso ottimismo autoreferenziale vantava che l’Italia con lui stesse alla grande, nonostante la crisi internazionale. I suoi nemici, gli stessi di sopra, descrivevano invece il governo di Berlusconi come una porno-dittatura corrotta che stava stravolgendo l’Italia». In realtà, «Berlusconi non distrusse né rilanciò l’Italia». La sua impronta fu labile, più mediatica che effettiva: «Non ci fu né la rivoluzione liberale né la tirannide populista. Neanche la magistratura fu scalfita». Fino a che, «a colpi di indagini, pressing internazionali, spread e tradimenti», riuscirono a buttar giù Berlusconi «con un mezzo golpe».All’epoca, scrive Veneziani su “La Verità”, passava per statista Gianfranco Fini, da quando si era messo contro il Cavaliere. «La sua parabola finì presto e nel peggiore dei modi possibili, perfino peggio di quanto si potesse prevedere considerata la sua inconsistenza». Finì male pure la parabola di Bossi. E finì il centrodestra, «mentre il paese si consegnava al governo dei tecnici, sotto la sorveglianza dell’Europa». Così nacque il “tecnomontismo”: i tecnocrati, «di buon nome e di gran curricula», chiamati per riparare i danni, «lasciarono un’impronta nefasta», rivelandosi «abbastanza funesti e feroci nello stremare il paese, tassarlo, metterlo in ginocchio e diffondere un’atmosfera di catastrofe e depressione nazionale». Ne uscimmo malconci col breve governo Letta di eurosinistra, «che fu una pallida transizione tra i tecnici e il ritorno della politica, naturalmente da sinistra». Cominciò allora, senza passare dalle urne, la veloce parabola di Renzi: non durò neanche un triennio, «ma in quel tempo sembrò inaugurare un’era, perlomeno un ciclo, vista anche la sua giovane età, la sua energia e il crescente consenso».Renzi, ricorda Veneziani, non aveva rivali né a destra né a manca, «e infatti il peggior rivale di Renzi fu Renzi stesso, che distrusse il suo alter ego per troppo ego: la sua prepotenza accentratrice, il suo voler strafare, stravincere, stracomandare». Ci fu un momento, in effetti, in cui «avrebbe potuto compiere una svolta decisiva: quando annunciò il partito della nazione, lasciando a sinistra i vecchi dinosauri comunisti e la sinistra radicale e spostandosi al centro con un partito trasversale». Ma non ebbe il coraggio di andare fino in fondo, scrive Veneziani. «Stressò il paese in una guerra di rottamazione globale, uno contro il Resto del mondo, fino a che il mondo lo fece a pezzi». Poi annunciò di ritirarsi dalla politica, senza però mai farlo. «Provato così in un quinquennio tutto l’arco delle possibilità – berlusconismo, finto futurismo finiano, sinistra bersaniana, tecnici e sinistra napoleonica renziana – la politica lasciò il passò al dilettantismo assoluto e dannoso dell’antipolitica, interpretato da un comico, una piattaforma, una lobby e una banda di sciamannati o scappati di casa».Così avvenne il prodigio del Movimento 5 Stelle diventato primo “partito”, soprattutto al sud. «Un fenomeno senza precedenti, ma non senza conseguenze: letali». La prima sorpresa fu, un anno e mezzo fa, l’alleanza populista e teoricamente antieuropeista tra i grillini e i leghisti di Salvini. «Un esperimento ardito, preoccupante non solo per l’Unione Europea, ma che destava curiosità e comunque segnava la sconfitta del tardo bipolarismo ma anche un superamento dei berlusconismi destrorsi e sinistrorsi, come quello renziano». L’esperimento populista-sovranista fu tenuto in vita artificialmente per un anno, facendo crescere a dismisura la popolarità di Salvini. «Poi esplose, incautamente, per una valutazione sbagliata di Salvini e una mossa a sorpresa di Renzi. Fino a che si giunse al più raccapricciante mostro dei governi italiani repubblicani, quello grillo-sinistro, che accompagna la fine del decennio». Per Veneziani è «il peggiore che si potesse avere, perché la faziosità intollerante della cupola di sinistra, col suo antifascismo di risulta e di riporto, si è unita alla dannosa ignoranza dei grillini, incapaci di tutto, e nel modo peggiore».Degna sintesi di quell’unione fu lo stesso premier Giuseppe Conte, «assunto come figurante nel precedente governo, venuto dal nulla e nullivendolo egli stesso, che con ripugnante trasformismo passò da guidare l’alleanza con Salvini a guidare l’alleanza antisalviniana, con la sinistra di cui ora si professa simpatizzante». I risultati sono sotto gli occhi (piangenti) di tutti: il decennio, nato sotto la stella (un tempo rossa) di Giorgio Napolitano, è finito «sotto la parrucca bianca di Sergio Mattarella». Nel decennio le abbiamo provate tutte, eccetto il sovranismo: grande incognita, «ma è l’unica via che non abbia ancora avuto esiti fallimentari». Eppure, per l’establishment sembra «la sciagura suprema, decretata a priori, da evitare a ogni costo». E ora che il decennio si è concluso, chiosa Veneziani nella sua analisi, il paese è sospeso nel vuoto: appeso al nulla.Cosa resta del decennio che si è appena chiuso? Nessuna eredità: solo scorie, rottami e frattaglie, sintetizza Marcello Veneziani. «In principio fu Silvio Berlusconi al governo. C’era ancora Fini, c’era Bossi, c’era Casini, c’era Tremonti». In quel tempo, «i problemi dell’Italia e del mondo venivano dopo – per i media, la magistratura e l’opposizione di sinistra – rispetto alla vita sessuale di Berlusconi». Era quello l’argomento, universalmente noto come Bunga Bunga, su cui si concentrava il dibattito pubblico. «Berlusconi col suo baldanzoso ottimismo autoreferenziale vantava che l’Italia con lui stesse alla grande, nonostante la crisi internazionale. I suoi nemici, gli stessi di sopra, descrivevano invece il governo di Berlusconi come una porno-dittatura corrotta che stava stravolgendo l’Italia». In realtà, «Berlusconi non distrusse né rilanciò l’Italia». La sua impronta fu labile, più mediatica che effettiva: «Non ci fu né la rivoluzione liberale né la tirannide populista. Neanche la magistratura fu scalfita». Fino a che, «a colpi di indagini, pressing internazionali, spread e tradimenti», riuscirono a buttar giù Berlusconi «con un mezzo golpe».
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Tutti i mafiosi sono Sì Tav: la ‘ndrangheta nella Torino-Lione
Non tutti i SìTav sono mafiosi, certo. In compenso, tutti i mafiosi sono Sì Tav. Lo afferma il sociologo Marco Revelli su “Volere la Luna”, mettendo in ridicolo le Madamine e la massa in arancione mobilitata soprattutto dal Pd attraverso Sergio Chiamparino, raccontando che il Piemonte rimarrebbe isolato dall’Europa se non si costruisse l’inutile ferrovia Torino-Lione, doppione perfetto dell’attuale linea italo-francese che già attraversa la valle di Susa. Cos’è successo, nel frattempo? Una serie di arresti hanno permesso di far emergere il retroterra mafioso che inquinerebbe molti appetiti cantieristici. «A differenza di tanta brava gente», scrive Revelli, i mafiosi «non hanno falsa coscienza e non credono alle favole». Ovvero: «Sanno benissimo che un’opera inutile, dannosa, e soprattutto molto, ma molto, costosa, serve solo a chi la fa. E fanno di tutto per essere tra chi la fa». Revelli sottolinea il recente arresto di Roberto Rosso, esponente del centrodestra piemontese, tra i più accaniti supporter della Torino-Lione: «E’ accusato di “scambio elettorale politico-mafioso” per l’acquisto di pacchetti di voti da rappresentanti di primo piano in Piemonte della cosca dei Bonavota (nomen atque omen) di Vibo Valentia». Insieme al collega Agostino Ghiglia, ricorda Revelli, il 20 maggio proprio Rosso aveva srotolato dal balcone del municipio di Torino uno striscione SìTav e il simbolo “Giorgia Meloni – Fratelli d’Italia”.Lo stesso Rosso aveva esortato il centrodestra a non disertare la seconda manifestazione delle Madamine, il 17 maggio, per non lasciare al solo Chiamparino «il verbo SìTav» (per Forza Italia ci sarà Lara Comi, ora arrestata «con l’accusa di corruzione e truffa ai danni dell’Ue», e per il Pd sarà presente Maria Elena Boschi). Ancora lo scorso 10 novembre, continua Revelli, Rosso (nel frattempo promosso assessore regionale “alla legalità” nella giunta di Alberto Cirio), aveva festeggiato il compleanno della prima manifestazione SìTav «con una bicchierata insieme al collega Mino Giachino e al forzista Paolo Zangrillo, ancora una volta invocando il pugno duro della “giustizia” contro i delinquenti dei centri sociali e i “fautori dell’illegalità” della val di Susa». Mai fare d’ogni erba un fascio, ammette Revelli, per di più se – nel caso di Rosso – si parla di un procedimento giudiziario ancora all’inizio, ben lontano da una condanna. «Sono convinto che, in quella piazza sbagliata, erano certo tante le persone in buona fede, quelli che credevano davvero alla “fake” secondo cui senza il super-treno e soprattutto il super-tunnel da 57 chilometri Torino resterebbe del tutto scollegata dall’Europa», scrive Revelli. In tanti s’erano bevuto la bufala di Chiamparino, «secondo cui al fondo di quella galleria si potrebbe contemplare il sol dell’avvenire anziché il ghigno degli affaristi transfrontalieri».Di fatto, però, «dal momento in cui sono incominciate le maxi-indagini sulla penetrazione della ‘ndrangheta in Piemonte, non ce n’è stata una che non abbia tirato nella rete qualche pesce più o meno grosso di ‘ndrina coinvolto con gli appalti Tav o fortemente interessato ad essi, tanto da interferire più o meno pesantemente con le politiche locali, comunali, regionali, di valle o di comprensorio». Così – continua Revelli – è stato per la maxi-indagine “Minotauro”, in cui era incappato Giovanni Toro, condannato a sette anni (quello del «la mangio io la torta Tav»), la cui ditta aveva asfaltato la strada per i mezzi della polizia nel cantiere della Val Clarea «e il cui uomo di fiducia, Bruno Iaria (condanna a cinque anni), capo della locale ‘ndrina di Cuorgné, era stato capocantiere per la ditta di Fernando Lazzaro (anch’egli finito in carcere) che eseguiva i primi lavori di insediamento a Chiomonte». Così anche per l’indagine “San Michele” della procura di Torino, che portò a rivelare le azioni intimidatorie compiute dalla ‘ndrina di San Mauro Marchesato al fine di favorire ditte vicine «agli interessi della cosca nei lavori di costruzione della Tav Torino-Lione». In quel caso, aggiunge Revelli, è stata la stessa Corte di Cassazione a certificare che «la ‘ndrangheta era interessata a lavori di costruzione del Tav Torino-Lione in valle di Susa».L’ultima retata, nell’ambito dell’inchiesta “Fenice”, non ha portato solo all’arresto di Rosso: ha scoperchiato anche «un fitto intreccio di interessi, da parte della ‘ndrangheta, a che i lavori per il Tav in valle Susa riprendessero e “il cantiere di val Clarea andasse avanti”». Interessi documentati dall’impegno di due presunti ‘ndranghetisti di rango, Francesco Viterbo (quello che dice «io i giudici li metterei tutti sopra una barca e poi gli sparerei») e Onofrio Garcea, «figura importante della ’ndrangheta a Genova (condannato in attesa di Cassazione), ma da tempo attivo a Torino», dove sarebbe stato «spedito a riorganizzare le file dell’organizzazione mafiosa nell’area di Carmagnola, scompaginate a marzo dall’operazione “Carminius”». C’erano anche loro, nella piazza torinese delle Madamine, a tutelare i propri affari futuri? Forse, semplicemente, «se ne stavano tranquilli a casa a sghignazzare – come gli imprenditori ignobili per il terremoto dell’Aquila – a vedere tanta brava gente lavorare per loro e a contemplare lo scempio paesaggistico e sociale del cantiere in Val Clarea».Non tutti i SìTav sono mafiosi, certo. In compenso, tutti i mafiosi sono Sì Tav. Lo afferma il sociologo Marco Revelli su “Volere la Luna“, mettendo in ridicolo le Madamine e la massa in arancione mobilitata soprattutto dal Pd attraverso Sergio Chiamparino, raccontando che il Piemonte rimarrebbe isolato dall’Europa se non si costruisse l’inutile ferrovia Torino-Lione, doppione perfetto dell’attuale linea italo-francese che già attraversa la valle di Susa. Cos’è successo, nel frattempo? Una serie di arresti hanno permesso di far emergere il retroterra mafioso che inquinerebbe molti appetiti cantieristici. «A differenza di tanta brava gente», scrive Revelli, i mafiosi «non hanno falsa coscienza e non credono alle favole». Ovvero: «Sanno benissimo che un’opera inutile, dannosa, e soprattutto molto, ma molto, costosa, serve solo a chi la fa. E fanno di tutto per essere tra chi la fa». Revelli sottolinea il recente arresto di Roberto Rosso, esponente del centrodestra piemontese, tra i più accaniti supporter della Torino-Lione: «E’ accusato di “scambio elettorale politico-mafioso” per l’acquisto di pacchetti di voti da rappresentanti di primo piano in Piemonte della cosca dei Bonavota (nomen atque omen) di Vibo Valentia». Insieme al collega Agostino Ghiglia, ricorda Revelli, il 20 maggio proprio Rosso aveva srotolato dal balcone del municipio di Torino uno striscione SìTav e il simbolo “Giorgia Meloni – Fratelli d’Italia”.
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Bertani: Natale, pacco vuoto. Chi crede ancora alla fiaba?
Natale è la vera festa dei cattolici: dovrebbe essere, in realtà, la Pasqua la quale contiene e condensa in pochi giorni (o, addirittura, ore) tutta la vicenda di un certo Joshua bar Joseph (Gesù figlio di Giuseppe), che sarebbe diventata la colonna sonora di due millenni di storia, oggi conclusa, terminata, smarcata dalle cronache religiose del pianeta. Vedremo poi. Già, Natale…però il Natale, celebrando la nascita del Redentore delle Anime, sconfessa apertamente chi non aveva riconosciuto in lui il Davide, il Grande Re Davide che avrebbe riportato alla gloria il grande popolo d’Israele. Non l’hanno riconosciuto? Ben gli sta! Giù la testa! Se il grande regno di Davide mai non giunse, anche il surrogato – ossia il povero Joshua bar Joseph – non fu una gran trovata. Ossia, lo fu sotto l’aspetto secolare, di potere – indubbiamente servì a tanto per superare la crisi dell’Impero Romano e trasformarlo nel Sacro Romano Impero, con annessi e connessi – ma fallì totalmente sotto l’aspetto della religione e, soprattutto, della contigua filosofia religiosa. Prima di partire, ricordiamo una curiosità: il primo a godere dell’appellativo di Pontifex Maximus (pressappoco “guida suprema”) fu…Giulio Cesare! Dopo di lui, tutti gli imperatori romani.Bisogna partire da lontano per capire tutto l’arzigogolo, e quando si dice da lontano quel “lontano” è, niente popò di meno che…Nero Claudius Caesar Augustus Germanicus, in arte Nerone, quinto imperatore romano. Perché? Perché Nerone aveva ben compreso che il futuro dell’Impero non era nella lontana Britannia o nella riottosa Germania, bensì nel Mediterraneo: ossia, voleva spostare il baricentro dell’Impero verso Oriente, non verso l’inospitale Nord. Nel 67 d. C. si recò in Grecia e concesse a tutti i Greci l’immunità, qualcosa che si avvicinava alla cittadinanza romana, ed iniziò a meditare che Alessandria d’Egitto (seconda città dell’Impero) aveva tutti i crismi per diventarne la prima: la Biblioteca – che, oggi, definiremmo “un grande polo universitario” – il grandioso porto e la posizione geo-centrica di quello che lui immaginava il futuro dell’Impero. E la religione? Le tradizioni? Beh…ci penseremo…in Oriente si trova di tutto… A Roma non furono molto d’accordo, e lo fecero fuori. Ma il dado era tratto: nemmeno 60 anni dopo, Adriano ammetteva “Christus” fra gli dei onorabili a Roma, sempre che i seguaci lo onorassero nel Pantheon romano e non come unico Dio. Ma la strada era tracciata. S’era intorno al 120 d.C.Ci furono ancora lotte, discriminazioni, uccisioni… ma, due secoli dopo, Costantino sanciva il passaggio definitivo, quello della religione cristiana come unico credo del regno. E, annessa, vi fu la prima truffa dei cristiani, ossia la cosiddetta “donazione” di Costantino (mai avvenuta) poi codificata nel Constitutum Constantini, un testo apocrifo del IX secolo d.C. la quale concedeva al papato non la guida della Chiesa, bensì una specie di titolo di imperator, ossia la supremazia su qualsiasi regno o (futuro) feudatario del grande impero. La frittata (un colossale falso storico) era sfornata, ed era nato lo Stato della Chiesa. Per i secoli a seguire, dunque, i Papi non furono le guide religiose che tutti pensiamo e immaginiamo nella nostra tradizione, bensì i Re d’alcuni possedimenti italici e gli imperatori dell’ex Impero Romano, perché avevano nelle mani uno strumento potente per mantenere quel primato (che usarono più volte), ossia la scomunica. Furono Pontifex Maximus dei re e imperatori d’Europa. Non ci dobbiamo perciò meravigliare dei fasti della corte papale, delle molte concubine, delle mille corruzioni, delle sanguinose lotte di potere… non dimentichiamo che molti Papi non furono nemmeno preti, oppure furono nominati cardinali da bambini… erano dei regnanti, stop.Machiavelli scrisse che gli italiani crebbero “senza religione e cattivi”, poiché allevati in quei torbidi consessi, nei quali la gestione del potere era “santificata” da qualcosa che, di veramente santo, non aveva niente. Ma venne la prima punizione. Un oscuro monaco agostiniano germanico, Martin Lutero – dopo una visita a Roma nella quale vide quel che vide, non ultimo il commercio, venale, delle indulgenze, che lo terrificò – tornato in Germania (e sotto la protezione di Federico di Sassonia) pubblicò le famose 95 tesi affiggendole sulla porta della Chiesa di Wittemberg. Era il 1517, era la Rivoluzione. Lutero voleva tornare ad un Cristianesimo più puro, mondato da ogni coinvolgimento secolare che la Chiesa Romana, ovviamente, non poteva concedere, senza correre il rischio d’enormi perdite, territoriali e di ricchezza. La prima avvisaglia di come i Protestanti desideravano “accomiatarsi” dal potere romano avvenne nel 1527, con il Sacco di Roma ad opera dei Lanzichenecchi: 20.000 morti ed il resto della popolazione in fuga. Per “scalzarli” da Roma il Papa dovette pagare 400.000 ducati d’argento. Cash.La risposta, da Roma, venne nel 1545 con il Concilio di Trento e fu una risposta totalmente di chiusura, con la proibizione del possesso degli antichi testi biblici (in greco ed aramaico): solo la Vulgata – pessimo titolo! – ossia la Bibbia in Latino visionata e distribuita solo da Roma. E la creazione del Sant’Uffizio (la futura Inquisizione) e dell’indice dei testi “scomunicati”. Gli ultimi a ricevere questo “trattamento” furono Simone de Beauvoir, Gide, Moravia e Sartre (!). Li precedettero, praticamente, tutti i “pilastri” della civiltà moderna occidentale, da Cartesio in poi, e l’ultimo Papa passato sullo scranno del Sant’Uffizio, poi divenuto “Congregazione per la dottrina della Fede” fu Papa Ratzinger, tuttora vivente, Benedetto XVI. Insomma, in barba a tutti i “consigli” che giungevano dall’esterno, la Chiesa Cattolica non ha deviato di un’unghia, non ha discusso con nessuno, non ha accettato nessun “bonario” consiglio. Ha continuato a non concedere rogatorie nemmeno quando le vicende dello Ior (la Banca Vaticana) sprofondavano, più che nella tragedia, nella farsa.Pedofilia, niente; preservativi, nulla; divorzio, ignorato. Salvo concederlo, già a Trento (1545), per le coppie di neri che erano state battezzate dai missionari e poi vendute, schiave, a differenti proprietari. Una vera e propria chicca: un’attenzione perfetta per le esigenze del commercio! La giustificazione? Qualcuno aveva potuto leggere le pubblicazioni dell’atto? Magari affisse su un albero della foresta equatoriale? Penosi. Ma la nemesi giunge da dove meno te lo aspetti. Stavolta non c’è più un monaco che affigge delle tesi su una chiesa per chiederne la discussione, per avviare una ricostruzione di quel credo suggerito (pare) molto tempo prima da un oscuro pescatore/predicatore della Galilea. Rivisto e purgato – in primis Paolo di Tarso, poi Agostino d’Ippona, Tommaso d’Aquino eccetera, eccetera… – per l’udito e la forma mentis dei greci e dei latini dapprima, poi per i loro eredi. Quando un edificio si mostra troppo vecchio per resistere ancora allo scorrere del tempo, quando non sono stati eseguiti per tempo i necessari lavori di ristrutturazione, entrano in funzione le ruspe demolitrici: non c’è altra soluzione.La “ruspa” – addirittura comico! – sgattaiola fuori dal garage delle Edizioni San Paolo di Roma, ma non affigge tesi per discutere, non chiede udienza, non dà alla vetusta istituzione cattolica nemmeno l’appiglio di un confronto: «Non voglio intromettermi fra ciò che pensano e credono i cattolici rispetto alla loro fede». E’ ciò che Mauro Biglino ripete, anche se sa benissimo che non ci potrebbero essere più roghi per bruciarlo. Magari, però, una pallottola vagante potrebbe sempre manifestarsi: i tempi cambiano e gli inquisitori accettano anche qualche “suggerimento” della modernità. La morte del comandante delle Guardie Pontificie, Alois Estermann (mai chiarita), della moglie e di un caporale, è stata una sparatoria degna di un film di Sergio Leone. Proprio accanto all’appartamento del Papa. Così, dalle Bibbie più antiche – guarda a caso quelle proibite nel ‘500 con l’Inquisizione – salta fuori, traducendo letteralmente, che il potente e “glorioso” Dio Javhé viaggiava nei cieli su un “carro di fuoco”, mentre i suoi “cherubini” assomigliavano più a delle guardie del corpo che agli angioletti del presepe.Ma anche il Nuovo Testamento è stato “rivisitato” – soprattutto grazie all’acume “greco” di Paolo di Tarso – e, dunque, una vicenda interna alla comunità ebraica, uno scontro fra fazioni discordi ed un fallito assalto al tempio di Salomone, ha creato i prodromi per la creazione di una nuova religio, visto che quella vigente nella Roma imperiale era in forte crisi, pervasa e stravolta da nuovi credi. Mentre era stata proibita dal Senato la pratica dei Baccanali, i culti di Cibele, Iside e, soprattutto, Mitra erano entrati a far parte del Pantheon Romano, scombussolandone le radici, che risalivano addirittura al primo re, Numa Pompilio. C’era bisogno di “aria nuova”: che durò per due millenni. Oggi, osservando con occhio disincantato e senza nessun tipo d’acredine, possiamo affermare che la religione cattolica sia ancora uno dei “perni” del vivere italico? Vivo di fronte ad una chiesa, che si dice sia stata un “luogo” dei Templari, e nella quale è stato anche girato un pessimo film (”The broken key”) sull’infinita saga dei cavalieri antichi e delle moderne società segrete. Le campane, a parte le ore, suonano musichette che sembrano il “liscio” dei Casadei: mai più ascoltato una musica sacra.Rari matrimoni e battesimi, più frequenti i funerali, con un solo denominatore: niente che abbia a che vedere con una pratica sacra, ma solo cerimonie mondane, allegre o tristi, ma solo mondane. Abiti eleganti le donne, camicie e cravatte gli uomini: per quel che ne so, una liturgia spenta senza più nessuna tensione religiosa verso il sacro, il supremo, l’assoluto inconoscibile. Le statistiche ci dicono che circa la metà della popolazione italiana si dice cattolica, ma coloro che si dicono credenti e praticanti sono soltanto il 22%. Ci sono, poi, un 10% circa che appartiene ad altre religioni, ed un 14% che, genericamente, “crede in Dio”. Questa è, sostanzialmente, la situazione. Al di là della sfera religiosa, gli italiani che credono molto o abbastanza alle coincidenze rappresentano ben il 53%, mentre il 41% crede nella fortuna, il 25% nella reincarnazione, il 24% nella predestinazione dell’anima, il 21% nei miracoli dei guaritori, il 18% nel karma, il 17% nell’astrologia, il 16% nella presenza di alieni sulla Terra, un altro 16% nella jella e nel malocchio, sempre il 16% nelle sedute spiritiche, il 14% nella possessione diabolica, il 9% nei tarocchi e un altro 9% nella magia (sondaggio Adnkronos). Sembra quasi l’identica situazione del tardo Impero Romano anzi: forse peggio. Eppure, continuiamo a definirci un “paese cattolico”. In ogni modo, felice Natale a tutti!Natale è la vera festa dei cattolici: dovrebbe essere, in realtà, la Pasqua la quale contiene e condensa in pochi giorni (o, addirittura, ore) tutta la vicenda di un certo Joshua bar Joseph (Gesù figlio di Giuseppe), che sarebbe diventata la colonna sonora di due millenni di storia, oggi conclusa, terminata, smarcata dalle cronache religiose del pianeta. Vedremo poi. Già, Natale…però il Natale, celebrando la nascita del Redentore delle Anime, sconfessa apertamente chi non aveva riconosciuto in lui il Davide, il Grande Re Davide che avrebbe riportato alla gloria il grande popolo d’Israele. Non l’hanno riconosciuto? Ben gli sta! Giù la testa! Se il grande regno di Davide mai non giunse, anche il surrogato – ossia il povero Joshua bar Joseph – non fu una gran trovata. Ossia, lo fu sotto l’aspetto secolare, di potere – indubbiamente servì a tanto per superare la crisi dell’Impero Romano e trasformarlo nel Sacro Romano Impero, con annessi e connessi – ma fallì totalmente sotto l’aspetto della religione e, soprattutto, della contigua filosofia religiosa. Prima di partire, ricordiamo una curiosità: il primo a godere dell’appellativo di Pontifex Maximus (pressappoco “guida suprema”) fu…Giulio Cesare! Dopo di lui, tutti gli imperatori romani.
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Basta fango: se tutti i partiti si unissero per salvare il paese
Fango su fango, per produrre altro fango, lungo un desolato orizzonte di fango. Tutto è uguale a niente, ormai? Buio sul povero Giulio Regeni, massacrato in Egitto: anni di parole contro il truce regime del Cairo, e silenzio assordante sugli elusivi committenti di Giulio, le ambigue e reticenti agenzie di Cambridge che probabilmente lo mandarono al macello, a sua insaputa. Fango su fango, anche se si vuole inquadrare il martirio dei migranti: tutto sembra risolversi nell’insulso derby violento all’italiana, pro o contro Salvini, senza uno sputo di analisi sull’immane tragedia dell’Africa. Solo maschere, per questo piccolo avanspettacolo nutrito di personaggi come Carola Rackete e Greta Thunberg (perfetta, la svedese, per eludere – con il suo dogma climatico – il vero dramma dell’avvelenamento terrestre). A vincere è il fango, declinato ovunque. Fango sulla Russia, anche in salsa olimpionica: tutto si esaurisce negli ipotetici Russiagate, senza che nessuno si interroghi sul ruolo di Mosca, di Bruxelles, di Berlino e di Washington. I media fotografano una società che, anziché pensare, insulta. Fango su Trump, per le presunte intrusioni in Ucraina, dopo che il paese fu travolto da una rivoluzione colorata, progettata a tavolino e finita con la consegna del gas ucraino al figlio di Joe Biden, allora vice di Obama. Fango su tutti, a turno: sui siriani e gli iracheni, sui palestinesi, sui curdi.Fango e morte per i libici, gli yemeniti, gli stessi europei fatti a pezzi nelle piazze dal sedicente Isis, sotto il naso di polizie distratte. Fango e botte, per buon peso: sprangate in faccia ai manifestanti di Hong Kong e a quelli di Parigi. C’è chi la chiama terza guerra mondiale a rate, a puntate, a geometria variabile. Con tanto sangue, e soprattutto fango, a ogni latitudine. La piccola Italia (non così piccola, ma rimpicciolita dagli stregoni dell’Ue) diventa addirittura microscopica, nella fanghiglia della sua non-politica di ieri e di oggi. Non un partito vero, che pensi al domani: tutto è fermo alle elezioni del giorno dopo. Sondaggi, telegiornali, talkshow. Il non-governo attanagliato dal terrore del voto, l’opposizione che non va oltre l’ovvio disgusto per le non-decisioni dei prestanome che occupano i palazzi. La cosiddetta crisi morde sempre di più: acciaierie in panne e banche sull’orlo del tracollo, viadotti che si schiantano, fabbriche che chiudono, industrie che scappano all’estero per pagare meno (sia il lavoro che le tasse). Politica assente: massima irrisione, la non-protesta delle Sardine. Una beffa grottesca: festicciole e canzoni, al funerale dell’Italia.Uno spettacolo surreale, offerto al mondo che ci guarda, e che osserva la nostra incapacità strutturale di leggere la crisi, di riconoscerne i mandanti e gli esecutori. Attaccano Salvini, i dimostranti ipnotizzati dalla disinformazione: se la prendono con un micro-leader che domani forse non esisterà nemmeno più, e che comunque (questa la sua colpa) non ha ancora fatto assolutamente niente per restituire al paese una visione precisa, nonché una strategia su come uscire dall’oceano di fango nel quale sta affondando. Quel che non si perdona, alla Lega, è di essere l’unico partito a suo modo vitale, legittimato dal consenso? In effetti sembra fuori posto, questa Lega – prontamente assediata dalle inchieste – nell’Italia dell’anonimo e cardinalizio Conte, dell’esanime Zingaretti, della caricatura Renzi, degli zombie un po’ cialtroni che fino a ieri promettevano un mondo a 5 stelle. Altro? Macché. Fango per tutti, a reti unificate, senza sforzarsi di capire perché siamo finiti così in basso. Cos’è il debito pubblico? Cosa sono l’Eurozona, il Mes, la Brexit, il Fiscal Compact, il pareggio di bilancio? Cos’è davvero l’avanzo primario, che da quasi trent’anni fa sì che lo Stato prelevi dai cittadini, sotto forma di tasse, più di quanto il governo non spenda, per gli italiani, in termini di servizi?Economia, questa sconosciuta: deve provvedere Mario Draghi, nientemeno, a suggerire che la via d’uscita può essere dalla parte opposta, rispetto al plumbeo rigorismo della Bce. Proprio lui, Draghi, è come se dicesse: ci si salva facendo l’esatto contrario di quel che ho fatto io, in tutti questi anni, prima al Tesoro e poi a Bankitalia, quindi a Francoforte. Modern Money Theory: emissione illimitata di liquidità, a costo zero. Altro che super-tasse, altro che austerity imposta per volere divino. Deficit positivo: vuol dire soldi da investire, lavoro, consumi, economia (e alla fine, risanamento del bilancio). Il “nuovo” Draghi, keynesiano e sovranitario, potrebbe essere l’eroe perfetto, per le Sardine – per loro, e per chiunque aspiri a recuperare il senso delle cose, il contatto con la realtà (cos’è lo Stato e a cosa serve, come deve funzionare). “Prestatore di ultima istanza”: parole divenute antiche solo qui, in questa Europa nanizzata dall’Ue, dai trattati intangibili che la recintano, deprimendola. Atroce, storicamente, per un continente dove – tra Parigi e Londra – nacque la democrazia moderna, già incubata in modo larvale nel medioevo italiano dei Comuni, e poi evocata tra le barricate della Repubblica Romana. Mazzini e Garibaldi: non volevano forse una democrazia europea, di popoli fratelli? Sappiamo com’è andata: due guerre mondiali. Poi la pace tra le rovine, la ricostruzione, la prodigiosa rinascita nel Belpaese. Fino a quando, lassù, non s’è deciso che potesse bastare, e che dovessimo tornare a soffrire.Modern Money Theory: massima eresia. La sventola Draghi, e nessuno fiata. Nessuno lo intervista, lo interroga, lo incalza. Sarebbe la notizia del secolo, in teoria, in materia finanziaria. Certo, non è merce maneggevole per l’insultificio. Meglio il fango, certo: è tanto più comodo. Nel fango si sguazza un po’ tutti, perché non è difficile trovare il bersaglio adatto, visto il livello dello zoo politico. Sarebbe bello vedere un altro film. Gente che accetta di sedersi allo stesso tavolo, a discutere. Fine del tifo, della gara di rutti. Tema: rimettere insieme i frantumi. Unirsi, con un obbligo: cancellare la lavagna delle prossime elezioni, e mettersi a pensare. Trovare, insieme, il gusto del bicchiere mezzo pieno. Ce ne sarebbe, da studiare. Prima, però, converrebbe archiviare le bandiere. Si fa così, da sempre, quando si vuole la pace. Si mettono da parte i vecchi rancori, le liturgie rituali, le identità solo formali. Destra e sinistra: che senso hanno, oggi? Cos’ha fatto, di buono, il centrodestra di governo? E in cosa si è distinto, il centrosinistra, rispetto ai tagli sociali dell’era berlusconiana? Entrambe le fazioni hanno obbedito a diktat. L’hanno votata insieme, la legge Fornero. Hanno mostrato il medesimo rispetto reverenziale per lo sciagurato Patto di Stabilità, che in capo a dieci anni ha ridotto le strade dei paesi italiani a campi minati, dove si fa lo slalom tra le buche perché il Comune non ha i soldi per l’asfalto.Hanno ragione, le Sardine, a reclamare una diversa estetica, gentile e dialogante. Mancano il bersaglio, certo: sparano all’orso di cartone, senza avvedersi che il luna park è recintato come un lager, dove tutto è proibito. Siamo prigionieri, ecco il punto. Beninteso, prigionieri europei del terzo millennio: privilegiati, senza nessuna guerra in casa da settant’anni. Siamo persino liberi di parlare, di insultarci allegramente, di vomitare fango contro gli orsetti di cartone. Ma è tutto qui, quel che sappiamo fare? Non ci viene il sospetto che le nostre animose divisioni siano l’habitat perfetto, per chi vuole continuare a portarci via tutto? Nei decenni della sovranità relativa, monetaria, l’Italia divenne la quarta potenza industriale del pianeta. E questo, nonostante le sue piaghe: mafia, evasione fiscale di massa, corruzione dilagante della politica. Eppure il paese cresceva, tutti stavano meglio e sapevano che i figli avrebbero avuto ancora più opportunità. Il deficit aveva fatto da motore, e il mastodonte Iri era il volano di un’economia che trascinava migliaia di aziende. Poi hanno fatto a pezzi tutto, dando la colpa a noi: al debito delle cicale, alla mafia, agli evasori, ai politici corrotti.Con queste miserabili menzogne hanno eretto il recinto spinato dell’attuale luna park, su cui sventola la bandierina blu-stellata della cosiddetta Europa. Mafia, evasione, corruzione? Esattamente come prima. La differenza? Non possiamo più spendere. Il risultato è una specie di catastrofe: meno servizi, meno welfare, meno sanità, meno pensioni. Meno soldi, meno consumi, meno futuro, meno tutto. Rigore, tasse, delimitazioni assurde come la suprema frode del famigerato tetto del 3% alla spesa pubblica: pura invenzione di un’ideologia maligna, spacciata per norma scientifica, per legge economica. Balordo imbroglio, grazie al caos organizzato a tradimento. Dopo decenni di cospicue regalie statali, la grande industria se la svigna in Serbia, in Romania e in Polonia, dove le maestranze costano di meno. La Fiat scappa in Olanda, lasciando a secco il fisco del paese che l’ha coperta di miliardi per decenni. E che dire dell’inflessibile Germania? Trucca i suoi conti pubblici, facendo dimagrire il debito di Stato depennando quello delle Regioni e la spesa pensionistica. E noi in piazza, valorosamente, a intonare gli inni dell’antifascismo di un secolo fa, mentre i predoni del 2019 ridono degli italiani, ingenui incorreggibili.Che bello, se qualcuno mettesse in produzione l’altro film: quello che manca. Tutti seduti allo stesso tavolo. Di Maio e Renzi, Salvini e Zingaretti, la Meloni. Conferenza a reti unificate, per dire: signori, c’è un problema. Le regole vanno cambiate. Siamo tutti d’accordo, finalmente. Vogliamo salvare gli italiani, tornare alla democrazia reale dello Stato. Lanciare una democrazia continentale. Far nascere qualcosa che ancora non esiste: una Unione Europea, di gente che si aiuta. Bello e impossibile? Soltanto un sogno, un’utopia? Pure, proprio da lì si parte: sono i sogni a dissipare il fango. Il resto, poi, viene da sé. Di fronte a un orizzonte nuovo, chi mai perderebbe ancora tempo a vomitare insulti? Molto sta nel crederci, all’orizzonte amico. Serve qualcuno che innanzitutto lo disegni, faccia vedere quanto sarebbe attraente, e spieghi anche quali passi, esattamente, sarebbe necessario compiere, verso la meta. Prima, però, deve tornare il sole almeno nei pensieri: per metter fine al fango, alla paura, alla stupidità dell’odio. Sta a noi, la prima mossa: se scoppia la pace, si mette male per gli sfruttatori. Lo sanno bene, i padroni del luna park. Gli unici a non saperlo ancora, a quanto pare, siamo noi?(Giorgio Cattaneo, “Basta fango: se tutti i partiti italiani si unissero, per salvare il paese”, dal blog del Movimento Roosevelt del 18 dicembre 2019).Fango su fango, per produrre altro fango, lungo un desolato orizzonte di fango. Tutto è uguale a niente, ormai? Buio sul povero Giulio Regeni, massacrato in Egitto: anni di parole contro il truce regime del Cairo, e silenzio assordante sugli elusivi committenti di Giulio, le ambigue e reticenti agenzie di Cambridge che probabilmente lo mandarono al macello, a sua insaputa. Fango su fango, anche se si vuole inquadrare il martirio dei migranti: tutto sembra risolversi nell’insulso derby violento all’italiana, pro o contro Salvini, senza uno sputo di analisi sull’immane tragedia dell’Africa. Solo maschere, per questo piccolo avanspettacolo nutrito di personaggi come Carola Rackete e Greta Thunberg (perfetta, la svedese, per eludere – con il suo dogma climatico – il vero dramma dell’avvelenamento terrestre). A vincere è il fango, declinato ovunque. Fango sulla Russia, anche in salsa olimpionica: tutto si esaurisce negli ipotetici Russiagate, senza che nessuno si interroghi sul ruolo di Mosca, di Bruxelles, di Berlino e di Washington. I media fotografano una società che, anziché pensare, insulta. Fango su Trump, per le presunte intrusioni in Ucraina, dopo che il paese fu travolto da una rivoluzione colorata, progettata a tavolino e finita con la consegna del gas ucraino al figlio di Joe Biden, allora vice di Obama. Fango su tutti, a turno: sui siriani e gli iracheni, sui palestinesi, sui curdi.
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Wall Street Journal: i soldi per i poveri restano in Vaticano
Mentre Papa Francesco predica contro i mali della disuguaglianza economica e i peccati del capitalismo, la Chiesa cattolica sottrae all’Obolo di San Pietro oltre 50 milioni di dollari l’anno per tappare i buchi del proprio bilancio ormai fuori controllo. E tutto questo, scrove Tyler Durden su “Zero Hedge”, dopo aver pagato, in diversi decenni, oltre 3 miliardi di dollari di risarcimenti nei processi contro i preti pedofili in tutto il mondo. Secondo il “Wall Street Journal”, la maggior parte dei circa 55 milioni di dollari che la Chiesa riceve ogni anno va a «colmare il buco nel bilancio amministrativo del Vaticano, mentre solo il 10% viene speso per opere di beneficenza». Questa assai poco pubblicizzata indiscrezione su come la Santa Sede spenda l’Obolo di San Pietro, «conosciuta solo da alcuni alti funzionari vaticani», secondo il quotidiano statunitense «sta suscitando tra alcuni leader della Chiesa cattolica il timore che i fedeli si sentano ingannati sull’utilizzo delle loro donazioni, cosa che potrebbe danneggiare ulteriormente la credibilità della gestione finanziaria vaticana di Papa Francesco». Eppure, l’Obolo di San Pietro – che raccoglie fondi ogni anno, a fine giugno – viene definito come una iniziativa per i bisognosi: un «gesto di carità, un modo per sostenere l’attività del Papa e della Chiesa Universale per favorire soprattutto i più poveri e le Chiese in difficoltà». È anche «un invito a conoscere e ad essere vicini alla nuove forme di povertà e fragilità».Una sezione del sito web, dedicata alle “opere realizzate” descrive l’utilizzo delle sovvenzioni individuali. Esempio: 100.000 euro in aiuti di prima necessità ai sopravvissuti al terremoto del mese scorso in Albania, 150.000 euro per le persone colpite nel mese di marzo dal ciclone Idai nell’Africa sud-orientale. «Lo scopo della raccolta dell’Obolo di San Pietro è quello di fornire al Santo Padre i mezzi finanziari per rispondere a coloro che soffrono a causa di guerre, oppressioni, calamità naturali e malattie», secondo il sito web della Conferenza Episcopale statunitense. Solo che, negli ultimi cinque anni – scrive Durden, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte” – solo il 10% del denaro raccolto (oltre 55 milioni di dollari nel 2018) è stato realmente destinato alle varie cause benefiche pubblicizzate per sollecitarne la raccolta. Lo affermano «persone che hanno familiarità con la questione», secondo cui «circa i 2/3 dei fondi vengono utilizzati per contribuire a colmare il deficit di bilancio della Santa Sede, in pratica l’amministrazione centrale della Chiesa Cattolica e la rete diplomatica mondiale della stessa Santa Sede». Per il 2018, si parla di un disavanzo di circa 78 milioni di dollari, su una spesa totale di circa 334 milioni.La “riallocazione” delle donazioni di beneficenza – aggiunge Durden – arriva nel momento in cui la Santa Sede sta affrontando un deficit di bilancio in forte espansione che, nell’ammonimento del Papa ai cardinali, potrebbe avere un «grave impatto» sul futuro economico della Chiesa. Papa Francesco era stato eletto nel 2013 anche con il mandato di revisionare le finanze vaticane, «dopo le accuse di corruzione, sprechi e incompetenze», secondo il “Wall Street Journal”. La notizia della cattiva gestione finanziaria del Vaticano «non potrebbe arrivare in un momento peggiore», visto che la Chiesa è alle prese «con uno scandalo legato a dubbi investimenti immobiliari londinesi che hanno portato, nel mese di novembre, al licenziamento del suo principale gestore finanziario, René Brülhart». Scoppiato per la prima volta a ottobre, quest’ultimo scandalo è imperniato sui tentativi della Santa Sede di ottenere un prestito di 110 milioni di dollari) per l’acquisto di proprietà di lusso nel quartiere londinese di Chelsea. Per contro, «i regolamenti vaticani consentono al Papa di usare le donazioni come ritiene più opportuno, anche per sostenere la propria amministrazione». Il patrimonio dell’Obolo ammonta attualmente a circa 600 milioni di euro, «in calo rispetto ai circa 700 milioni dell’inizio dell’attuale pontificato», secondo Durden «in gran parte a causa di investimenti sbagliati».Mentre Papa Francesco predica contro i mali della disuguaglianza economica e i peccati del capitalismo, la Chiesa cattolica sottrae all’Obolo di San Pietro oltre 50 milioni di dollari l’anno per tappare i buchi del proprio bilancio ormai fuori controllo. E tutto questo, scrive Tyler Durden su “Zero Hedge”, dopo aver pagato, in diversi decenni, oltre 3 miliardi di dollari di risarcimenti nei processi contro i preti pedofili in tutto il mondo. Secondo il “Wall Street Journal”, la maggior parte dei circa 55 milioni di dollari che la Chiesa riceve ogni anno va a «colmare il buco nel bilancio amministrativo del Vaticano, mentre solo il 10% viene speso per opere di beneficenza». Questa assai poco pubblicizzata indiscrezione su come la Santa Sede spenda l’Obolo di San Pietro, «conosciuta solo da alcuni alti funzionari vaticani», secondo il quotidiano statunitense «sta suscitando tra alcuni leader della Chiesa cattolica il timore che i fedeli si sentano ingannati sull’utilizzo delle loro donazioni, cosa che potrebbe danneggiare ulteriormente la credibilità della gestione finanziaria vaticana di Papa Francesco». Eppure, l’Obolo di San Pietro – che raccoglie fondi ogni anno, a fine giugno – viene definito come una iniziativa per i bisognosi: un «gesto di carità, un modo per sostenere l’attività del Papa e della Chiesa Universale per favorire soprattutto i più poveri e le Chiese in difficoltà». È anche «un invito a conoscere e ad essere vicini alla nuove forme di povertà e fragilità».
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De Benoist: il liberalismo dei diritti è nemico dell’umanità
«Femminicidi e disoccupazione giovanile di massa: cosa unisce queste due patologie sociali? C’è una causa che congiunge il matrimonio omosessuale e i confini spalancati alle immigrazioni di massa, i diritti gay con la denatalità e la delocalizzazione dei lavori in Asia? Il suicidio assistito con l’austerità imposta e l’iniquità sociale senza precedenti nella storia, e che nessuno si cura di rettificare?». Per quanto sembri incredibile, scrive il cattolico tradizionalista Maurizio Blondet, questi fenomeni apparentemente disparati hanno una sola causa: il liberalismo. Blondet non usa la parola “liberismo”, né la parolaccia “neoliberismo”: punta il dito proprio contro il liberalismo, da cui – secondo i libri di storia – è nato l’istituto della democrazia. In realtà, Blondet si riferisce all’ultimo saggio di Alain de Benoist, “Critica al liberalismo”, edito da Arianna. L’anziano giornalista, spesso acuto osservatore dell’attualità italiana e internazionale, lo definisce «testo capitale e arma intellettuale necessaria per la polemica filosofica e politica al totalitarismo vigente». Avvertenza: il liberalismo «non va confuso con la teoria economica, promotrice della libera concorrenza». Per de Benoist, pensatore e politologo della “Nouvelle Droite” francese, il liberalismo è innanzitutto «un’ideologia basata su un errore antropologico», ossia su un fatale equivoco sulla natura dell’uomo.Alla sua base – traduce Blondet, sul suo blog – c’è l’individualismo, inteso nel modo più radicale: «L’idea che esistono solo gli individui, che sono primari rispetto alla comunità», la quale «non è che somma di individui-atomi», che alla società «non devono niente». Secondo de Benoist, il liberalismo non è (come pretende essere) l’ideologia della libertà, ma «l’ideologia che mette la libertà al servizio del solo individuo, affrancato da ogni appartenenza», e trasformato essenialmente in consumatore. Questa teoria sostiene che l’uomo è anzitutto «quello che ha liberamente scelto di essere, interamente padrone di sé e delle sue scelte, a partire non da qualcosa che già c’è, ma a partire dal niente». In questo, Blondet ravvisa le tracce ideologiche della “sinistra fucsia” messa alla frusta da Diego Fusaro, fondatore di Vox Italia. Blondet evoca un «partito radicale di massa, imperante totalitariamente». E spiega: il guaio, secondo lui, è «l’idea che la libertà sia “il diritto di avere diritti”, che “lo Stato esiste solo per soddisfare i desideri individuali, subito elevati a diritti”». E’ la mentalità diffusa nell’uomo comune odierno, «che si sente “liberato” dai “tabù”, e si fa adirittura psico-poliziotto a difesa di questa ideologia, ormai “fatto sociale totale”».Ma la più radicale asserzione del pensiero contro cui si scaglia de Benoist, aggiunge Blondet, viene dallo storico tempio intellettuale del liberismo, la Mont Pélerin Society, fondata nel ’47 nientemeno da Milton Friedman, Friedrich von Hayek e Karl Popper «per promuovere il libero mercato e la società aperta». La afferma un socio francese della Mont Pélerin, Bernard Lemennicier: ogni nazione, ha scritto, «è semplicemente un aggregato di esseri umani», quindi un «feticcio politico introvabile». Infatti, dice: «Come può una società avere dei valori e delle preferenze indipendentemente dai membri che la costituiscono?». Aggiunge Lemennicier: «Non bisogna ingannarsi sul sentimento di appartenenza. Non si appartiene ad una nazione, né a un territorio, né a uno Stato, che sono qualcosa di non-esistente, senza alienare il proprio libero arbitrio e la propria condizione di essere umano». Si capisce che, se aderisco a questa ideologia, «non ho, per principio, alcuna regola collettiva da rispettare, e nessun potere pubblico può ordinarmi di sacrificare la mia vita per una causa qualsiasi». Da questa affermazione dell’uomo della Mont Pélerin, secondo Blondet, «discendono direttamente la globalizzazione e tutti i “diritti umani”, il gender e lo spalancare le porte all’immigrazione senza limiti».Aggiunge Blondet: «Il nigeriano che è arrivato qui pagando gli scafisti e senza documenti è “un individuo” e quindi detentore assoluto dei ”diritti” superiori alla società, e un ministro che provi a frenare l’invasione viene catalogato come liberticida e malvagio», un delinquente da incriminare. Secondo de Benoist, «in nome dei diritti umani, si vuole proibire alle nazioni di approvare leggi che giudicherebbero eventualmente utili per preservare o incoraggiare la vita comune e l’educazione comune». Attenzione: come nel liberismo economico puro «non occorre tener conto della moralità o immoralità del bisogno cui risponde la cosa utile», la merce che acquistiamo, così uno Stato veramente liberale deve essere «indifferente rispetto ai fini», garante solo dei diritti «senza presupporre la minima concezione del bene». Ayn Rand, il celebre guru del libertarismo radicale, giunge a sancire: «L’altruismo è incompatibile con la libertà». Blondet riprende queste parole: «Il “diritto” che vige nel totalitarismo chiamato libertario, infatti, dissocia il senso della “giustizia” dal concetto di bene». E aggiunge: «Asserendo di prescindere da tutte le convinzioni etiche, religiose, filosofiche dei membri della comunità, rompe con l’idea secondo cui la salute pubblica e il bene comune passano anzitutto attraverso una presa in considerazione delle concezioni del bene nel dibattito pubblico».Blondet dice chiaramente come la pensa: “esagerando” con la libertà «ci si può drogare fino alla morte (depenalizzazione), infettarsi nelle dark rooms sodomitiche, farsi mutilare per cambiare sesso, affittare l’utero, esigere dallo Stato il suicidio assistito – e guai a chi giudica chi lo fa: è omofobo, fascista, bigotto». Nel falò morale finiscono «le madri che fanno somministrare ai figlioletti il farmaco che ritarda la pubertà perché possa scegliere più tardi cosa vuol essere sessualmente», assimilate alle «assistenti sociali di Bibbiano», le quali, «strappando i figli ai genitori per darli a coppie gay, puntano a creare “l’uomo nuovo”, l’individuo astratto senza appartenenze». Lo stesso individualismo radicale, sempre secondo Blondet (e de Benoist), provoca addirittura «la corruzione della democrazia». Il politico, si rammarica de Benoist, «non è più portatore di alcuna dimensione etica, nel senso che nel suo nome non si può esigere e nemmeno promuovere alcuna concezione del bene comune». E allora, conclude Blondet, perché poi ci stupiamo se quelli che eleggiamo sono senza principi? «Che svendano i monopoli pubblici redditizi come Autostrade agli amici, che intaschino i milioni del Mose invece di metterlo in funzione? Tout se tient: se volete avere come “diritti” i vostri vizi privati, dovete accettare gli effetti collaterali di questo “individualismo” radicale».Del resto, nonostante tutto il loro parlare di “democrazia”, contonua Blondet, i dirigenti liberisti sono ben pronti a eliminarla, come vediamo fare nella Ue. «Perché il loro credo è stato espresso nel modo più agghiacciante da Alain Minc, intellettuale-imprenditore a capo di una ditta autostradale: «Il capitalismo non può crollare, è lo stato naturale della società. La democrazia non è lo stato naturale della società. Il mercato lo è». C’è politica – sottolinea de Benoist – solo in riferimento a popoli e comunità: la “dittatura” del liberismo sotto cui oggi viviamo «è in sé un regime di devastazione dell’umano», come anche «della natura». Un regime «incompatibile con la cultura». Per de Benoist, è sempre il liberalismo (non il liberismo) a promuovere «l’abolizione di ogni morale che reprime la soddisfazione immediata del desiderio». E lo fa «attraverso la “deregolamentazione”», cioè la «distruzione generalizzata di tutto ciò che non ha valore mercantile». Come la famiglia: residuale «struttura collettiva non contrattuale», spazio di gratuità sottratto al mercato: in fondo, chiosa Blondet, è per questo che non facciamo più figli.Avere figli, per de Benoist, è «un sacrificio» dei nostri desideri individuali («pardon, “diritti”», corregge Blondet), oltreché «un costo» che di fatto «ostacola la nostra efficienza sul mercato del lavoro» e penalizza la nostra «competitività» nei confronti dei colleghi single. Conclusione: «Il liberalismo è il progetto politico di smantellamento completo dell’ordine della legge e uno dei più potenti motori del nichilismo». E tutta questa devastazione, scrive Blondet, si concretizza oggi «perché si è rigettata la verità antropologica sull’uomo». Ovvero: «L’uomo è un animale sociale, la cui esistenza è consustanziale alla società». Per Blondet, la comunità storica nazionale «gli ha dato quasi tutto, a cominciare dalla lingua, dalla cultura e dalla rete delle solidarietà giuridiche ed extra-giuridiche basate sulla appartenenza». La nazione, scrive de Benoist, «può chiedere alle persone di operare in primo luogo per il bene comune». Questo, secondo Blondet, distingue il cittadino dal semplice «individuo», in quanto tale «egoista, auto-distruttore e narciso».(Il libro: Alain de Benoist, “Critica al liberalismo. La società non è un mercato”, Arianna editrice, 286 pagine, euro 23,5).«Femminicidi e disoccupazione giovanile di massa: cosa unisce queste due patologie sociali? C’è una causa che congiunge il matrimonio omosessuale e i confini spalancati alle immigrazioni di massa, i diritti gay con la denatalità e la delocalizzazione dei lavori in Asia? Il suicidio assistito con l’austerità imposta e l’iniquità sociale senza precedenti nella storia, e che nessuno si cura di rettificare?». Per quanto sembri incredibile, scrive il cattolico tradizionalista Maurizio Blondet, questi fenomeni apparentemente disparati hanno una sola causa: il liberalismo. Blondet non usa la parola “liberismo”, né la parolaccia “neoliberismo”: punta il dito proprio contro il liberalismo, da cui – secondo i libri di storia – è nato l’istituto della democrazia. In realtà, Blondet si riferisce all’ultimo saggio di Alain de Benoist, “Critica al liberalismo”, edito da Arianna. L’anziano giornalista, spesso acuto osservatore dell’attualità italiana e internazionale, lo definisce «testo capitale e arma intellettuale necessaria per la polemica filosofica e politica al totalitarismo vigente». Avvertenza: il liberalismo «non va confuso con la teoria economica, promotrice della libera concorrenza». Per de Benoist, pensatore e politologo della “Nouvelle Droite” francese, il liberalismo è innanzitutto «un’ideologia basata su un errore antropologico», ossia su un fatale equivoco sulla natura dell’uomo.
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Cretini di sinistra, la “mafia” ipocrita che rimpiange Sciascia
Ah, Leonardo Sciascia, il letterato, il polemista, il siculo acuto e scontento, arabo e illuminista. Quanto ci manca l’intellettuale non conformista fuori dal coro, ripetono in coro i conformisti a trent’anni dalla sua morte, il 20 novembre del 1989. Per accontentarli, vorrei ricordare cinque spunti di Sciascia che non si ricordano volentieri. Il primo fu la sua polemica aperta col catto-comunismo, contro il compromesso storico e in polemica con gli intellettuali organici che reggevano la coda. Sciascia lasciò nel 1977 il Pci, di cui era consigliere comunale a Palermo. Giorgio Amendola, che rappresentava la destra comunista ma ortodossa, accusò Sciascia di disfattismo e nicodemismo, e subito un codazzo d’intellettuali plaudì alla scomunica. Sciascia non si lasciò intimidire e paragonò Amendola al famigerato ministro Liborio Romano, che era passato dai Borboni ai Savoia senza lasciare la sua poltrona di ministro (un Conte ante litteram). Con disinvoltura i comunisti passavano da avversari a consociati della Dc, che avevano criticato per una vita accusandola pure di mafia e corruzione. Il secondo spunto, famoso, riguardò le Brigate Rosse.Oggi prevale la favoletta della neutralità di Sciascia tra lo Stato e le Br, il famoso né né. In realtà Sciascia riteneva poco credibile la linea della fermezza dopo decenni di connivenza, di zona grigia e di cedimento dello Stato a ogni livello. E denunciava la rete larga di complicità intorno al terrorismo rilevando che «è in atto un’espansione del partito armato che sta trovando insediamenti sociali», mentre si continuava a negare la matrice comunista. «Le Brigate Rosse – scrisse Sciascia – erano rosse e non nere come tutti i partiti del cosiddetto arco costituzionale desideravano che fossero». Anzi, notava Sciascia, le Br si appellavano alla stessa fonte di legittimazione dello Stato democratico e antifascista: «La Resistenza è un valore indistruttibile anche per le Brigate Rosse: credono di esserne i figli». Le azioni terroristiche delle Br per lui saldarono il sistema, non lo fecero saltare. Il terzo spunto, connesso al precedente, fu il suo giudizio sul potere democristiano e su Aldo Moro. Le sue interpretazioni furono espresse già nel ’76 in “Todo Modo” e poi ne “L’Affaire Moro” e dispiacquero non solo alla Dc, ma anche al Pci e ai grandi giornali. Berlinguer arrivò a querelarlo. Scalfari lo stroncò prima che il suo libro sul caso Moro uscisse.Sciascia denunciò in Moro lo scarso senso dello Stato. Per lui Moro non era uno statista ma «un grande politicante». A Moro rimproverò pure di non aver speso una parola nelle sue tante lettere dal carcere per la sua scorta trucidata in via Fani. E come Pasolini, anche Sciascia ritenne che Moro avesse inventato un linguaggio incomprensibile, di cui fu detentore ma anche vittima (perché nessuno colse i messaggi cifrati delle sue lettere dal carcere delle Br), che secondo Sciascia serviva a tenere oscura e impenetrabile la chiave del potere. La lingua di Moro era per lo scrittore siciliano come il latino usato dalla Chiesa per rendersi incomprensibile al volgo e così alimentarne l’ossequio devoto. La lingua morotea a suo dire corrompeva la democrazia perché rendeva i percorsi del potere politico inaccessibili e arcani al popolo sovrano. Il quarto spunto di Sciascia è sulla sinistra antifascista. Mi limito a due citazioni riassuntive, tratte da “Nero su nero”: «Il più bello esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dar del fascista a chi fascista non è».E poi: «Intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile e forse ancora, se non da pochi sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra: ma mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero solo a destra e perciò l’evento non ha trovato registrazione». Ecco l’antifascista di sinistra, intollerante ma cretino. Mirabile sintesi, assai attuale. Infine, in tema di Sicilia e di malgoverno, Sciascia dette una lezione di non conformismo, paragonando l’inefficacia e la corruttela che aveva accompagnato i terremoti avvenuti durante la repubblica italiana con quel che invece era accaduto ai tempi “nefasti” della controriforma e della vituperata dominazione spagnola. Nel 1693, nella Sicilia sotto la prepotenza spagnola, un terremoto colpì una cinquantina di Comuni, tra cui Catania, Avola, Lentini e Noto. Si recò sul luogo del disastro il duca di Camastra, vicario del vicerè, con pieni poteri e con la benedizione della Chiesa. Il signorotto, la Chiesa, i fondi da gestire: il triangolo perfetto del malaffare meridionale.E invece quel duca brusco, altero e devoto, che passava a cavallo tra le macerie, in pochi mesi ricostruì al meglio quei paesi. Il duca, scrisse Sciascia, temperava il rigore cattolico con il culto della bellezza; non si dirà lo stesso dei democratici che gestirono i terremoti più recenti e i loro fondi. Sono riusciti a far rimpiangere la dominazione spagnola. E Sciascia, volterriano laico, onestamente lo riconosceva. Quanti dei signorini che oggi lo invocano e lo rimpiangono avrebbero fatto altrettanto? Certo, Sciascia ha scritto ben altro, non si può ridurre la sua opera a queste polemiche. Ma ogni volta che comincia la messa cantata su Pasolini e Sciascia che ci mancano (a noi mancano anche tanti altri scrittori rimossi perché dalla parte sbagliata), allora vorrei far notare che per questo loro non conformismo subirono in vita linciaggi verbali e peggior sorte avrebbero avuto oggi. Magari anche dalle mafie culturali che ne piangono la scomparsa.(Marcello Veneziani, “Sciascia, rimpianto con ipocrisia”, da “La Verità” del 19 novembre 2019).Ah, Leonardo Sciascia, il letterato, il polemista, il siculo acuto e scontento, arabo e illuminista. Quanto ci manca l’intellettuale non conformista fuori dal coro, ripetono in coro i conformisti a trent’anni dalla sua morte, il 20 novembre del 1989. Per accontentarli, vorrei ricordare cinque spunti di Sciascia che non si ricordano volentieri. Il primo fu la sua polemica aperta col catto-comunismo, contro il compromesso storico e in polemica con gli intellettuali organici che reggevano la coda. Sciascia lasciò nel 1977 il Pci, di cui era consigliere comunale a Palermo. Giorgio Amendola, che rappresentava la destra comunista ma ortodossa, accusò Sciascia di disfattismo e nicodemismo, e subito un codazzo d’intellettuali plaudì alla scomunica. Sciascia non si lasciò intimidire e paragonò Amendola al famigerato ministro Liborio Romano, che era passato dai Borboni ai Savoia senza lasciare la sua poltrona di ministro (un Conte ante litteram). Con disinvoltura i comunisti passavano da avversari a consociati della Dc, che avevano criticato per una vita accusandola pure di mafia e corruzione. Il secondo spunto, famoso, riguardò le Brigate Rosse.
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Grillo, fai un regalo all’Italia: chiudi il Movimento 5 Stelle
Quelli che sin dagli esordi avrebbero voluto che non esistesse e quelli come me, furibondi con il Movimento da almeno tre anni, commenteranno: “Cosa parli ancora del M5S, che è bene che sparisca dalla faccia della Terra!?” (aggiungendo magari qualche comprensibile insulto a Grillo e al sottoscritto, in quanto editorialista costantemente controvento). Secondo la mia interpretazione, costoro hanno ragione al 90% perché, in realtà, finché è stato in vita Gianroberto Casaleggio questa forza politica era davvero qualcosa di straordinario e solo chi ha militato può saperlo: l’essere antisistema (aristocrazie finanziarie parassitarie), la partecipazione dal basso, le leggi create sulla piattaforma, eccetera.Il successo del 2018 preparato dai media (ricordate gli applausi a Di Maio a La7?) e da loro incensato fu un detonatore sotto le terga dei pentastellati: promuovevano il 5S se si prostrava agli “europeones”, al pensiero dominante franco-germanocentrico razzista contro gli italiani, ma in itinere creavano le basi per distruggerlo avvicinando esponenti grillini di spicco nelle istituzioni, per “blandirli” e infine utilizzarli per creare divisioni ovviamente mal tollerate dai cittadini, soprattutto quando riguardavano temi caldi come l’immigrazione.La naturale tendenza al cambiamento del 5S doveva essere avvelenata e stravolta: l’unico irrinunciabile valore grillino condiviso da tutti gli italiani con un cervello non delegato era la fine dell’austerity, della deindustrializzazione, della colonizzazione estera; e doveva essere terminato. A causare la fine del Movimento non è stata quindi la scelta di essere né di destra né di sinistra, e infatti la stessa Lega è votata in modo trasversale e ha sostituito abilmente il 5S nella lotta all’establishment; la vera causa della fine del 5S era nella sua radice! Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, dopo anni di Berlusconi, credettero fosse sensato imperniare questa forza politica sin dagli albori sul progressismo (quello che uccise il Pci sull’altare del “Washington Consensus”), ma non si resero conto che la vittoria auspicata contro i cosiddetti “poteri forti stranieri” dentro questo schema non sarebbe stata possibile, dato che le lobbies si nutrono proprio di questo paradigma! E’ stato semplice per l’establishment agire su schiere di eletti ad esso affini e su attivisti pseudo-ribelli in cerca di posto al sole, fancazzisti e adolescenti perenni; bastavano una Carola o una Greta, figuriamoci qualche comoda poltrona.Paradossalmente, visto che si autodefiniscono progressisti, non è da loro che potrà giungere a noi qualsivoglia cambiamento, perché la loro “anima” ed arma è una forma di feroce conformismo pronto alla discriminazione; e quindi, se dovrà nascere qualcosa di nuovo dovrà essere pragmatico e agli antipodi rispetto al “fu M5S”. Le orde di piddini inconsapevoli interni al 5S non studiavano (e sposavano) quelle battaglie geopolitiche ed economiche vitali per l’Italia (ma purtroppo complesse e poco comprese dalle masse), ma in linea con i pochi neuroni di cui disponevano si vestivano di stereotipi emotivi berciando su questioni orecchiabili come la pace, l’ambiente, gli omosessuali, la corruzione, l’Europa, l’anticlericalismo, i migranti (da assistere una volta resi degli straccioni apolidi, anziché da emancipare nei loro paesi), e tutto per ottenere quella ottantina di voti con i quali approdare in Parlamento nel 2013. Successivamente, in rispetto del dogma che gli incapaci di norma sono furbissimi nelle dinamiche da branco, costoro si sono impossessati gerarchicamente del potere interno al Movimento.A questo punto per loro è stato semplice “ragionare da casta” prostituendo tutto il prostituibile; non mi riferisco solo a Di Maio, ma a quelli che lo affiancano al governo e soprattutto a chi adesso lo accusa e ha cercato di trasformare il 5S nella succursale del Pd, tra cui l’inguardabile Lombardi, Luigi Gallo e la Ruocco. Un avvelenamento dei pozzi, quindi, quello agito sul povero Movimento premendo costantemente sui peones e sul solito principio attivo letale dell’establishment: “glebalizzare” le maggioranze facendosi servire dalle minoranze arcobaleniche (lobbies Lgbt, pseudo-pacifisti, pseudo-femministi, pseudo-ambientalisti, anticlericalisti, “decresciuti felicemente”, ecc) che se ne fregano di temi quali il lavoro e la vita delle famiglie perché interessate patologicamente al loro monotema. Con questi presupposti, approdare al fantastico mondo delle politiche del rigore spacciate per espansive (!?!) e da lì al vergognoso tentativo di alleanza definitiva con il Pd (con la Lega era solo un contratto) il passo è stato breve. Tutto perfetto, se non ci fosse un fattore stranamente ancora presente e fastidioso per i nostri padroni esteri: gli elettori.E pensare che con nuove elezioni un binomio Di Battista – Salvini avrebbe potuto fare moltissimo per la nostra nazione (termine legato antropologicamente ai diritti umani e alla cultura, ditelo alle capre radical chic): magari eleggere un presidente della Repubblica libero e con a cuore il nostro Stato. Invece qualcuno, cioè Beppe Grillo con la sua corte di scherani (uno tra tutti, il presidente della Camera Roberto Fico) per qualche ragione oscura, manco fosse un ricattato, ha operato improvvisamente e violentemente in direzione opposta. Tranquilli, ciò significa che anche quel binomio di cui sopra non avrebbe funzionato a causa dei peones; quindi meglio così, il M5S deve chiudere baracca per il nostro bene. Beppe Grillo se vorrà salvare la faccia dovrà dovrà portare profonde scuse pubbliche agli italiani, esporre le scomode verità elencate in pezzi come questo e lasciare a chi è rimasto fuori da questa immondizia il compito di fondare qualcosa di differente.Questo soggetto dovrà “imporre” democraticamente ai cittadini una grammatica differente, una nuova visione con determinate linee valoriali e con fondamenta coerenti con l’obiettivo della liberazione dal giogo neoliberista sfrenato, perbenista-schiavista (e non ad esso funzionale). Ferme restando alcune regole presenti nel M5S incentrate sull’opportuno concetto “di cittadino punto e basta” (no condanne, no tessere di altri partiti da almeno 5 anni, massimo 2 mandati, no alle correnti – tutti contributi che riconosco ai fondatori del Movimento) il nuovo soggetto politico non dovrà “ripartire” ma iniziare da capo senza temere di prendere anche un misero 5%. Questa volta al centro di questo movimento dovrà esserci un paradigma identitario, patriottico, che si ponga a difesa delle nostre splendide tradizioni a cominciare dalla riscoperta dei valori cristiani della famiglia tradizionale, del Natale (iniziando da quello alle porte) festa bellissima ma ormai umiliata, rarefatta strategicamente dall’attuale Pontefice e derisa dagli adepti di ideologie massonico-anticlericali come il gender e il suicidio assistito (confuso a dovere con l’eutanasia, vedasi “Suicidio assistito, l’ennesimo abuso della lobby massonica”).Se davvero un simile nuovo soggetto politico si affaccerà nel panorama democratico, esso innanzitutto dovrà manifestare concreta vicinanza ai pilastri dello Stato come le forze di sicurezza, carabinieri e polizia, come le università e i suoi giovani, come i sindacati. Meritocrazia, competenza, capacità, scuola, ricerca, innovazione tecnologica e ambientale, giustizia sociale (salario orario minimo garantito), efficienza della pubblica amministrazione, sicurezza (idrogeologica e cittadina), lotta alle grandi evasioni ed elusioni dovranno fare il resto. Come target economico di questo movimento dovranno esservi la valorizzazione dell’economia reale regolamentando la finanza selvaggia ed estremista, la fine della austerity, l’abolizione del Fiscal Compact e del pareggio di bilancio, l’attuazione di politiche davvero espansive, la piena occupazione anche “di cittadinanza attiva” e il riaffermare del principio che vede la Costituzione sopra ogni trattato internazionale. Nessun attuale eletto nelle fila degli attuali partiti-movimenti potrà candidarsi per almeno 5 anni.A livello strettamente geopolitico il nuovo movimento dovrà porsi come obiettivo l’Italia, sostenuta nelle sue peculiarità: se il nostro Stato continuerà ad appiattirsi sulla Ue come fosse una realtà continentale (lo sono Francia e Germania), finirà per condannarsi alla desertificazione socioeconomica e ad essere ininfluente. L’Italia perciò dovrà guardare fortemente verso Mosca, verso il Mediterraneo e verso le correnti di Trump e Johnson nel mondo anglosassone senza comunque chiudere alla Via della Seta; con i vicini centroeuropei la scelta più sensata sarà edificare rapporti simili a quelli presenti in passato in ambito Cee (un po’ come fanno gli inglesi specularmente col Brexit), concordando inoltre l’uscita dalla moneta unica. Sui temi migratori l’Italia dovrà tornare a chiudere i porti alle Ong (fermo restando l’aiuto verso i veri profughi) ma allo stesso tempo dovrà stabilire quote annuali di stranieri da integrare lavorativamente (esiste anche una fisiologica richiesta di manodopera estera) ma anche da formare culturalmente, spiegando loro cosa è stato fatto loro dal neocolonialismo, in primis francese, con particolare riguardo alla tematica del franco Cfa.La linea scelta da Grillo negli ultimi tempi invece è quella del kamikaze, perché al sistema mafioso internazionale poco importa se il M5S scompare: ciò che importa ad esso è il piazzare Mario Draghi (ne sia consapevole o meno) alla presidenza della Repubblica a costo di sacrificare vecchi e nuovi servi. Se notate ogni mossa dei media, del Pd, delle più alte cariche della Repubblica e via discorrendo, fino all’ultimo mandarino di sistema di provincia, è sotto sotto quello di difendere una moneta privata e straniera che paghiamo a caro prezzo: l’euro. Per il bene dell’Italia, il M5S deve scomparire perché qualsiasi cosa venisse riproposta da Di Maio e soci sarebbe una minestra riscaldata, la fase dell’innamoramento (cit. Alberoni) è terminata, e pure quella dell’amore visto che siamo addirittura alla sopportazione e alla commiserazione (Di Maio). E’ un vero peccato, non perché ne sia l’autore, che questo pezzo passi inosservato e poco condiviso sui social (mi auguro l’opposto) perché il sogno di tanti 5S è stato distrutto da qualcuno che a mio avviso passerà alla storia come un giullare traditore, mentre le energie contenute in questo sogno potrebbero ancora emancipare l’Italia e portarla fuori dal soffocamento organizzato da Parigi e Berlino, permesso sin dai decenni precedenti da una classe politica di complici e incapaci.(Marco Giannini, “Grillo passerà alla storia come un giullare traditore se non chiuderà la baracca pentastellata”. Fino al 2016, con la svolta “eurista” dei 5 Stelle al Parlamento Europeo, Giannini aveva sostenuto il M5S. Antropologo, è autore del saggio “Il neoliberismo che sterminò la mia generazione”, edito da Andromeda).Quelli che sin dagli esordi avrebbero voluto che non esistesse e quelli come me, furibondi con il Movimento da almeno tre anni, commenteranno: “Cosa parli ancora del M5S, che è bene che sparisca dalla faccia della Terra!?” (aggiungendo magari qualche comprensibile insulto a Grillo e al sottoscritto, in quanto editorialista costantemente controvento). Secondo la mia interpretazione, costoro hanno ragione al 90% perché, in realtà, finché è stato in vita Gianroberto Casaleggio questa forza politica era davvero qualcosa di straordinario e solo chi ha militato può saperlo: l’essere antisistema (aristocrazie finanziarie parassitarie), la partecipazione dal basso, le leggi create sulla piattaforma, eccetera. Il successo del 2018 preparato dai media (ricordate gli applausi a Di Maio a La7?) e da loro incensato fu un detonatore sotto le terga dei pentastellati: promuovevano il 5S se si prostrava agli “europeones”, al pensiero dominante franco-germanocentrico razzista contro gli italiani, ma in itinere creavano le basi per distruggerlo avvicinando esponenti grillini di spicco nelle istituzioni, per “blandirli” e infine utilizzarli per creare divisioni ovviamente mal tollerate dai cittadini, soprattutto quando riguardavano temi caldi come l’immigrazione.
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Magaldi: sta cambiando tutto, e adesso ve ne accorgerete
Forse adesso anche i più sprovveduti, i teorici della “follia estiva” del Papeete, capiranno perché Salvini ha staccato la spina al governo gialloverde, una volta capito che Conte e Tria gli avrebbero impedito di alleggerire la pressione fiscale e inaugurare una politica finalmente espansiva. Ultimo tradimento, il voto dei grillini per Ursula von der Leyen alla Commissione Europea. Ragionamento del leghista: guai se resto al governo, costretto a firmare una manovra che rappresenta l’esatto contrario di quanto promesso. Risultato: Salvini ora fa il pieno alle regionali in Umbria (57,5%), umiliando Zingaretti e in particolare Di Maio, con i 5 Stelle al di sotto dell’8%. «Logico che gli italiani, a partire dall’Umbria, puniscano le forze del Conte-bis e la loro manovra finanziaria deprimente, persino preoccupante», con la crociata contro i mini-evasori e la demonizzazione del contante. Gioele Magaldi canta vittoria: il suo Movimento Roosevelt si è schierato con la Tesei sostenendo “Umbria Civica” del battitore libero Nilo Arcudi: «Non per rieditare l’obsoleto e deludente centrodestra, ma per promuovere un dialogo trasversale coi progressisti del centrosinistra, contro i conservatori di entrambe le coalizioni».Un esito scontato: «Nel 2018, i gialloverdi avevano promesso un vero cambiamento: assaporato il quale, ora gli elettori non possono digerire l’imbarazzante Conte-bis», sottomesso ai consueti vincoli-capestro imposti da Bruxelles. Per Magaldi, tutto sta insieme: gli elettori umbri premiano il Salvini che si è circordato di economisti post-keynesiani come Bagnai e Rinaldi, contrari alla “teologia” del rigore Ue. Nel frattempo, Giuseppe Conte è sulla graticola: oltre alla débacle umbra, che taglia le gambe alla grottesca alleanza tra il Pd e i grillini che proprio in Umbria li avevano denunciari, facendo cadere la giunta “rossa” di Catiuscia Marini, il premier teme sviluppi dal caso Russiagate, dopo le strane omissioni (segnalate dal “Corriere della Sera”) che rendono incompleta, se non reticente, la sua prima audizione al Coapasir. Il sospetto: Conte avrebbe usato in modo improprio i servizi segreti italiani, mettendoli a disposizione del ministro statunitense William Barr, impegnato a cercare prove contro Joe Biden, rivale di Trump. Non è tutto: proprio mentre Perugia si trasformava nella Caporetto di “Giuseppi”, il “Financial Times” ipotizzava che Conte potrebbe essere accusato di conflitto d’interessi per aver fatto da consulente a un fondo d’investimento di area vaticana, ora accusato di corruzione.«Me ne compiaccio», dichiara Magaldi, irridente, pensando alla “macchina del fango” scatenata contro Salvini per “Moscopoli”, anche attraverso il servizio di “Report” trasmesso in prossimità dell’audizione di Conte al Copasir e alla vigilia delle elezioni in Umbria. «Segno che tra i cosiddetti “poteri forti” non ci sono soltanto quelli di segno reazionario, che sostengono il Conte-bis, dopo aver sorretto i governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni». Esponente italiano del network massonico progressista internazionale (Grande Oriente Democratico, Rito Europeo Universale), Magaldi annuncia: i massoni progressisti sono impegnati in una controffensiva, in tutto il mondo, dopo i decenni devastanti della globalizzazione neoliberista. Il presidente del Movimento Roosevelt cita la Cina, che ha rimosso la governatrice di Hong Kong contestata dalla popolazione, e segnala anche l’esultanza di Trump per l’annuncio della morte del capo dell’Isis, «il massone reazionario e terrorista Abu Bakr Al-Baghdadi, esponente della superloggia “Hathor Pentalpha” fondata dal clan Bush per terremotare il pianeta anche col terrorismo, grazie ad affiliati come lo stesso Osama Bin Laden».Se le creazioni supermassoniche chiamate Isis e Al-Qaeda avevano marcato l’ultima svolta (terroristica) del piano di dominio del pianeta, fondato sulla strategia della tensione internazionale per imporre a mano armata questa globalizzazione a senso unico e senza diritti, secondo Magaldi – autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014) – tutto era cominciato l’11 settembre 1973 in Cile, con il golpe di Pinochet che aveva introdotto con la massima violenza la dottrina neoliberista della “scuola di Chicago” di Milton Friedman. A maggior ragione, dice oggi Magaldi, riempie il cuore – oggi – assistere a una protesta spettacolare come quella in corso a Santiago del Cile, sfidando il coprifuoco imposto da un governo che, come allora, ha schierato i carri armati nelle strade. «Tutto sta cambiando, a livello planetario, grazie alla regia della massoneria progresista», avverte Magaldi, lasciando capire che lo stesso Salvini – in apparenza esaltato dai mojito del Papeete, ad agosto – è stato «sapientemente consigliato» sul da farsi. «Salvini sta studiando», disse Magaldi, dopo il divorzio del leader leghista dal governo coi grillini. «E’ vero, sto studiando», ha confermato Salvini, nel “duello” televisivo con Renzi, da Bruno Vespa.«Fortemente trasformata da Salvini, la Lega è comunque ancora caratterizzata da un’impostazione tradizionalista, ad esempio in merito ai diritti civili (unico merito di Renzi, l’aver varato almeno le “unioni civili”)». Tuttavia, aggiunge Magaldi, «il Carroccio di Bossi e Maroni era apertamente liberista, mentre la Lega di Salvini si è affidata a economisti progressisti, dotati di una visione che prevede il ritorno dell’intervento dello Stato nell’economia: meno tasse e investimenti strategici da non inserire nel computo del deficit». Se son rose fioriranno, sembra dire Magaldi: anche perché, in ogni caso, tutti gli altri (Conte e Di Maio, Zingaretti e Renzi, lo stesso Berlusconi) non hanno mai osato neppure ipotizzare un cambio delle regole, da intavolare a Bruxelles. Potrebbe farlo ora l’ipotetico “nuovo” Mario Draghi, che – di colpo – evoca la sovranità monetaria, con l’emissione di denaro illimitata prescritta dalla Modern Money Theory? Meglio non correre con la fantasia, raccomanda Magaldi: Draghi potrebbe sostituire Conte «solo se si facesse garante con Bruxelles di una vera espansione della spesa strategica per l’Italia», e dopo aver fatto ammenda delle sue “malefatte”. «Come per la mafia contano i pentiti, che ne scardinano l’organizzazione, così Draghi dovrebbe dimostrare di essere davvero pentito della sua pessima governance reazionaria e neoaristocratica, prima di Bankitalia e poi della Bce».Forse adesso anche i più sprovveduti, i teorici della “follia estiva” del Papeete, capiranno perché Salvini ha staccato la spina al governo gialloverde, una volta capito che Conte e Tria gli avrebbero impedito di alleggerire la pressione fiscale e inaugurare una politica finalmente espansiva. Ultimo tradimento, il voto dei grillini per Ursula von der Leyen alla Commissione Europea. Ragionamento del leghista: guai se resto al governo, costretto a firmare una manovra che rappresenta l’esatto contrario di quanto promesso. Risultato: Salvini ora fa il pieno alle regionali in Umbria (57,5%), umiliando Zingaretti e in particolare Di Maio, con i 5 Stelle al di sotto dell’8%. «Logico che gli italiani, a partire dall’Umbria, puniscano le forze del Conte-bis e la loro manovra finanziaria deprimente, persino preoccupante», con la crociata contro i mini-evasori e la demonizzazione del contante. Gioele Magaldi canta vittoria: il suo Movimento Roosevelt si è schierato con la Tesei sostenendo “Umbria Civica” del battitore libero Nilo Arcudi: «Non per rieditare l’obsoleto e deludente centrodestra, ma per promuovere un dialogo trasversale coi progressisti del centrosinistra, contro i conservatori di entrambe le coalizioni».
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Giannini: il governo del ricatto se ne vada, o il M5S è morto
Il cittadino italiano non ha molto tempo da dedicare ai trastulli dei politici, quindi non ama le faccende troppo complesse e quando si tratta di esprimere una croce su un simbolo entra nella cabina elettorale ed agisce in modo istintivo: “Chi voto? Basta con i soliti”. Negli ultimi mesi, caso mai non ve ne foste accorti, siamo passati dal “governo del cambiamento” al “governo del ricatto”: o governiamo noi progressisti o i mercati, sicari di Bruxelles, alzano lo spread e falliamo (a questo punto aboliamo la democrazia visto che essa si esercita votando…). Di fronte a questa evidente violazione della Costituzione, come popolo italiano, i nostri partiti tutti dovrebbero marciare (metaforicamente) compatti su Bruxelles, chiedendo una uscita concordata dalla Moneta Unica per dimostrata incompatibilità con la democrazia. E se all’elettore girassero le scatole proprio per questo (ferme restando le peculiarità umbre)? E se l’intuito più bestiale dell’elettore gli facesse comprendere che c’è uno stretto nesso tra la corruzione locale e la democrazia assassinata? Oettinger affermò candidamente che «i mercati insegneranno agli italiani a votare». Meno impulsivamente e più analiticamente si comprende che questo nesso è il muro di gomma (di retorica) tipico dei progressisti.Stiamo andando incontro a un’altra crisi economica ferocissima? Non preoccupatevi, vi parleranno delle magnifiche sorti progressive dell’“Europa”, dell’Amazzonia che brucia (lo fa da 50 anni), del riscaldamento globale (idem), del fascismo, dei migranti, della tassa sul diesel per migliorare (secondo loro) l’ambiente, della tassa sulla sigaretta elettronica e sullo zucchero per migliorare (secondo loro) la nostra salute (sic!), degli immancabili diritti civili, del muro in Messico, ecc ecc. Chi a marzo 2018 votò 5S e Lega si opponeva a questa vomitevole melassa, eppure se l’è ritrovata di nuovo nel piatto! Vero che Salvini ad agosto ci è andato giù di Mojito, ma da lì a rimettere al governo “i soliti” ce ne passava. Chi sono quindi i soliti? Sono quelli che umiliano la sostanza con la forma! Sono coloro che trasformano i fatti in chiacchiere! Quelli che cambiano nome (etichetta) ad una cosa e ti dicono che ora è un’altra cosa! I soliti possono anche essere neoeletti in forze politiche nate recentemente; ma non puoi confonderli a lungo, perché prima o poi compiono operazioni così rapide e così sfacciate (trattandoci da cretini) che definirle di “trasformismo” è un eufemismo: No alleanze Sì alleanze, No vaccini Sì vaccini, No euro Sì euro, No Bibbiano Sì Bibbiano (un quarto d’ora dopo), No Fiscal Compact Sì Fiscal Compact, No pareggio di bilancio Sì pareggio di bilancio, uno vale uno decide tutto uno, Bella Ciao mescolata al migrante e perfino condita con Greta, ecc ecc ecc.I soliti sono anche quelli che perdono le elezioni (il Pd e LeU) ma ogni volta governano e non li scolli di lì nemmeno con le cannonate; i soliti sono quelli che si prestano (i 5S) a far rientrare dalla finestra chi è stato cacciato a pedate dalla porta (del seggio) cioè il Pd e LeU; i soliti sono quelli che promettono il cambiamento (ad esempio in Ue-M) e poi finiscono per fare ciò che ordinano “le lobbies”; i soliti sono quelli che fanno altissimi ed inconsistenti discorsi sulla pace, sull’ecologia, sulla cultura, possibilmente preceduti da autorevoli pause e preferibilmente dotati di toni gutturali e quindi (secondo certe menti) credibili! Orge di retorica, mentre il processo di “glebalizzazione” (cit. Fusaro) procede spedito. In conclusione? In conclusione tre conclusioni. 1) Per quanto legittimo, costituzionalmente parlando, questo governo gli italiani non lo volevano; dopo mesi di risse tra i fichiani del “politically correct” del 5S e la Lega, la gente voleva dire la sua e non certo ritrovarsi Renzi, Zingaretti, Speranza, il bollitissimo Di Maio e Dottor Jekyll (Conte 1) / Mister Hyde (Conte 2) a dare lezioni di lana caprina (caro M5S, cestinatelo prima che lo faccia lui con voi).2) Ancora meno i cittadini hanno digerito un Movimento che si professava equidistante tra destra e sinistra ma che mentre con la Lega parlava al massimo di contratto, col Pd ha calato le braghe per una fusione ideologica! Si è proprio avvertito che il 5S non vedeva l’ora di rivelarsi progressista, e infatti ne ha immediatamente incamerato il lessico radical chic come gli fosse sempre calzato (basta ascoltare le dirette parlamentari…). A meno di miracoli (Di Battista) difficilmente i pentastellati potranno riconvincere gli italiani di essere “Oltre” gli schemi tradizionali e di non fingere solamente. Un outing progressista incancellabile dalla mente di chiunque (salami a parte) ancor più grave, visto che tutti abbiamo ben chiaro di come i fucsia, in pochi anni, abbiano macellato non solo il tessuto produttivo ma ancor peggio le nostre tradizioni, le nostre radici (vero, Beppi Grillo?) sostituendole col fucsia importato da Killer-y Clinton…3) Il governo quindi deve andare immediatamente a casa e chi deve staccare la spina è proprio il MoVimento 5 Stelle. In caso contrario i grillini non la faranno franca, non ci sarà scusa, non ci sarà stucchevole tatticismo ad evitargli l’estinzione (assorbiti dal Pd). Il M5S è pienamente consapevole che si condannerà alla fine se sceglierà di obbedire al solito Mattarella, e se lo farà potrà essere solo perché il vertice è stato ricattato o perché il M5S non opera per sé ma per qualcun altro. Le lobbies finanziarie, infatti, mirano a mantenere artificialmente in vita questa legislatura decotta, eleggere un presidente della Repubblica a loro congeniale (uno dei soliti)…(Marco Giannini, “Il ‘Governo del ricatto’ se ne vada”, da Libreidee del 29 ottù 2019).Il cittadino italiano non ha molto tempo da dedicare ai trastulli dei politici, quindi non ama le faccende troppo complesse e quando si tratta di esprimere una croce su un simbolo entra nella cabina elettorale ed agisce in modo istintivo: “Chi voto? Basta con i soliti”. Negli ultimi mesi, caso mai non ve ne foste accorti, siamo passati dal “governo del cambiamento” al “governo del ricatto”: o governiamo noi progressisti o i mercati, sicari di Bruxelles, alzano lo spread e falliamo (a questo punto aboliamo la democrazia visto che essa si esercita votando…). Di fronte a questa evidente violazione della Costituzione, come popolo italiano, i nostri partiti tutti dovrebbero marciare (metaforicamente) compatti su Bruxelles, chiedendo una uscita concordata dalla Moneta Unica per dimostrata incompatibilità con la democrazia. E se all’elettore girassero le scatole proprio per questo (ferme restando le peculiarità umbre)? E se l’intuito più bestiale dell’elettore gli facesse comprendere che c’è uno stretto nesso tra la corruzione locale e la democrazia assassinata? Oettinger affermò candidamente che «i mercati insegneranno agli italiani a votare». Meno impulsivamente e più analiticamente si comprende che questo nesso è il muro di gomma (di retorica) tipico dei progressisti.