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Ttip, fuorilegge Stati e diritti: vogliono ucciderci così
«Negoziato in segreto, questo progetto fortemente sostenuto dalle multinazionali permetterebbe loro di citare in giudizio gli Stati che non si piegano alle leggi del liberismo». Si chiama Trattato Transatlantico ed è l’uragano devastante che minaccia il futuro degli europei, o quel che ne resta. All’allarme – da più parti lanciato nei mesi scorsi – si associa ora anche Lori Wallach, direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch, prestigioso osservatorio indipendente di Washington. «Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per quanto inverosimile possa apparire, questo scenario non risale a ieri».Le fondamenta di questo trattato clamorosamente eversivo – il grande business che emana i propri diktat non più di nascosto, attraverso le lobby e i politici compiacenti, ma ormai alla luce del sole, e addirittura per legge – comparivano già a chiare lettere nel progetto di accordo multilaterale sugli investimenti (Mai) negoziato segretamente tra il 1995 e il 1997 dai 29 stati membri dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, come ricorda la Wallach in un intervento su “Le Monde Diplomatique”, il giornale che divulgò la notizia in extremis, sollevando un’ondata di proteste senza precedenti, fino a costringere i suoi promotori ad accantonare il progetto. Quindici anni più tardi, scrive oggi Lori Wallach sempre sul giornale francese, in un intervento ripreso da “Micromega”, la grande “trappola” fa il suo ritorno in pompa magna, sotto nuove sembianze.L’accordo di partenariato transatlantico (Ttip), negoziato a partire dal luglio 2013 tra Usa e Ue – accordo che dovrebbe concludersi entro due anni – non è che una versione aggiornata del Mai. Prevede infatti che «le legislazioni in vigore sulle due coste dell’Atlantico si pieghino alle regole del libero scambio» stabilite dalle corporations, «sotto pena di sanzioni commerciali per il paese trasgressore, o di una riparazione di diversi milioni di euro a favore dei querelanti». Se dovesse entrare in vigore, aggiunge Lori Wallach, «i privilegi delle multinazionali avrebbero forza di legge e legherebbero completamente le mani dei governanti». Impermeabile alle alternanze politiche e alle mobilitazioni popolari, il trattato «si applicherebbe per amore o per forza, poiché le sue disposizioni potrebbero essere emendate solo con il consenso unanime di tutti i paesi firmatari». Ciò riprodurrebbe in Europa «lo spirito e le modalità del suo modello asiatico», ovvero l’Accordo di Partenariato Transpacifico (Trans-pacific partnership, Tpp), attualmente in corso di adozione in 12 paesi dopo essere stato fortemente promosso dagli ambienti d’affari.«In virtù di numerosi accordi commerciali firmati da Washington, 400 milioni di dollari sono passati dalle tasche del contribuente a quelle delle multinazionali a causa del divieto di prodotti tossici, delle normative sull’utilizzo dell’acqua, del suolo o del legname». Sotto l’egida di questi stessi trattati, le procedure attualmente in corso – nelle questioni di interesse generale come i brevetti medici, la lotta all’inquinamento e le leggi sul clima e sulle energie fossili – fanno schizzare le richieste di danni e interessi a 14 miliardi di dollari. Il Ttip «aggraverebbe ulteriormente il peso di questa estorsione legalizzata». Basta osservare gli attori sul terreno: negli Usa sono presenti 3.300 aziende europee con 24.000 filiali, ciascuna delle quali può ritenere di avere buone ragioni per chiedere, un giorno o l’altro, riparazione per un “pregiudizio commerciale”. Dal canto loro, i paesi dell’Unione Europea si vedrebbero esposti a un rischio finanziario ancora più grande, sapendo che 14.400 compagnie statunitensi dispongono in Europa di una rete di 50.800 filiali. In totale, sono 75.000 le società che potrebbero gettarsi nella caccia ai tesori pubblici.Gli accordi-capestro per Atlantico e Pacifico «formerebbero un impero economico capace di dettare le proprie condizioni al di fuori delle sue frontiere: qualunque paese cercasse di tessere relazioni commerciali con gli Stati uniti e l’Unione Europea si troverebbe costretto ad adottare tali e quali le regole vigenti all’interno del loro mercato comune». E dato che i proponenti «mirano a liquidare interi compartimenti del settore non mercantile», i negoziati si svolgono a porte chiuse. Le delegazioni statunitensi contano più di 600 consulenti delegati dalle multinazionali, che dispongono di un accesso illimitato ai documenti preparatori. «Nulla deve sfuggire. Sono state date istruzioni di lasciare giornalisti e cittadini ai margini delle discussioni: essi saranno informati in tempo utile, alla firma del trattato, quando sarà troppo tardi per reagire». Vana la protesta della senatrice Elizabeth Warren, secondo cui «un accordo negoziato senza alcun esame democratico non dovrebbe mai essere firmato».L’imperiosa volontà di sottrarre il cantiere del trattato all’attenzione del pubblico si comprende facilmente, aggiunge la Lori Wallach: «Meglio prendere tempo prima di annunciare al paese gli effetti che esso produrrà a tutti i livelli: dal vertice dello Stato federale fino ai consigli municipali passando per i governatorati e le assemblee locali, gli eletti dovranno ridefinire da cima a fondo le loro politiche pubbliche per soddisfare gli appetiti del privato nei settori che in parte gli sfuggono ancora». Nulla sfugge alle fauci dei super-privatizzatori: sicurezza degli alimenti, norme sulla tossicità, assicurazione sanitaria, prezzo dei medicinali, libertà della rete, protezione della privacy, energia, cultura, diritti d’autore, risorse naturali, formazione professionale, strutture pubbliche, immigrazione. «Non c’è una sfera di interesse generale che non passerà sotto le forche caudine del libero scambio istituzionalizzato». Fine della democrazia: «L’azione politica degli eletti si limiterà a negoziare presso le aziende o i loro mandatari locali le briciole di sovranità che questi vorranno concedere loro».È già stipulato che i paesi firmatari assicureranno la «messa in conformità delle loro leggi, dei loro regolamenti e delle loro procedure» con le disposizioni del trattato. Non vi è dubbio che essi vigileranno scrupolosamente per onorare tale impegno. In caso contrario, potranno essere l’oggetto di denunce davanti a uno dei tribunali appositamente creati per arbitrare i litigi tra investitori e Stati, e dotati del potere di emettere sanzioni commerciali contro questi ultimi. «L’idea può sembrare inverosimile: si inscrive tuttavia nella filosofia dei trattati commerciali già in vigore». Lo scorso anno, l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), ha condannato gli Stati Uniti per le loro scatole di tonno etichettate “senza pericolo per i delfini”, per l’indicazione del paese d’origine sulle carni importate, e ancora per il divieto del tabacco aromatizzato alla caramella, dal momento che tali misure di tutela sono state considerate degli ostacoli al libero scambio. Il Wto ha inflitto anche all’Unione Europea delle penalità di diverse centinaia di milioni di euro per il suo rifiuto di importare Ogm come quelli della Monsanto, che finanziò l’elezione di Obama.«La novità introdotta dal Ttip e dal Tpp – osserva Lori Wallach – consiste nel permettere alle multinazionali di denunciare a loro nome un paese firmatario la cui politica avrebbe un effetto restrittivo sulla loro vitalità commerciale». Sotto un tale regime, «le aziende sarebbero in grado di opporsi alle politiche sanitarie, di protezione dell’ambiente e di regolamentazione della finanza», reclamando danni e interessi davanti a tribunali extragiudiziari. «Composte da tre avvocati d’affari, queste corti speciali rispondenti alle leggi della Banca Mondiale e dell’Onu «sarebbero abilitate a condannare il contribuente a pesanti riparazioni qualora la sua legislazione riducesse i “futuri profitti sperati” di una società». Questo sistema, che oppone le industrie agli Stati, sembrava essere stato cancellato dopo l’abbandono del Mai nel 1998, ma è stato «restaurato di soppiatto» nel corso degli anni. Di fatto, l’adozione del super-trattato riduce in schiavitù le istituzioni pubbliche, per le quali i cittadini votano, affidando ad esse il compito di governare il proprio paese. Con le mostruose norme in via di approvazione semi-clandestina, i poteri pubblici dovranno mettere mano al portafoglio se la loro legislazione ha per effetto la riduzione del valore di un investimento, anche quando questa stessa legislazione si applica alle aziende locali. In altre parole: la civiltà democratica finisce qui.«Negoziato in segreto, questo progetto fortemente sostenuto dalle multinazionali permetterebbe loro di citare in giudizio gli Stati che non si piegano alle leggi del liberismo». Si chiama Trattato Transatlantico ed è l’uragano devastante che minaccia il futuro degli europei, o quel che ne resta. All’allarme – da più parti lanciato nei mesi scorsi – si associa ora anche Lori Wallach, direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch, prestigioso osservatorio indipendente di Washington. «Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per quanto inverosimile possa apparire, questo scenario non risale a ieri».
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Lira più euro: terza via, per evitare la morte dell’Italia
Mantenere lo scudo dell’euro come valuta internazionale di scambio, ma tornare subito alle monete sovrane nazionali: è l’unica via per salvare l’economia dei paesi rovinati dalla moneta unica europea, cioè tutti tranne la Germania. Per Enrico Grazzini, si tratta semplicemente di recuperare lo storico progetto del Bancor, avanzato da Keynes a Bretton Woods. Prima, però, le forze politiche devono capire – una volta per tutte – che l’attuale euro-sistema non è che sia “in crisi”: al contrario, è stato progettato esattamente per funzionare così, cioè premiando solo i tedeschi a danno di tutti gli altri. Obiettivo finale evidente: indebolire l’Europa sulla scenario geopolitico. «Oggi perfino Romano Prodi, l’uomo politico che ha fatto entrare l’Italia nell’euro, riconosce che l’Europa è un disastro, una minaccia». La Germania «impone all’Europa una sorta di nuovo Trattato di Versailles». Neoliberismo sfrenato, estremistico. Risultato: milioni di famiglie sul lastrico, aziende in crisi, catastrofe sociale ed economica.Innanzitutto, scrive Grazzini su “Micromega”, occorre «riconoscere che questa Ue è diventata esattamente il contrario di quella auspicata dai padri costituenti». Ovvero: «Non è più un progetto di libertà, di democrazia, di cooperazione e di pace tra i popoli, ma il preciso disegno di centralizzare rigidamente l’economia dei paesi europei sotto la guida tedesca per imporre politiche neoliberiste di smantellamento delle economie nazionali a favore del capitale del nord Europa, Germania in testa». La dimostrazione più recente del miope disegno egemonico tedesco? «E’ il progetto fasullo di “unione bancaria”», appena approvato dai ministri delle finanze dell’Unione. Grazie all’intervento del tedesco Wolfgang Schäuble, che ha rifiutato ogni meccanismo di mutualizzazione dei rischi con copertura di fondi pubblici, il progetto peggiora drasticamente la situazione: «I privati (azionisti, obbligazionisti e i correntisti con più di 100.000 euro) si faranno carico in prima persona delle difficoltà delle banche in crisi, poi interverranno i fondi nazionali creati grazie a nuove tasse da applicare alle banche stesse, e infine tra dieci anni interverrà anche in ultimissima istanza un minuscolo fondo europeo sempre di origine bancaria».In questo modo, cioè «senza alcuna copertura pubblica di livello europeo», secondo Grazzini «appena una banca sarà percepita come in difficoltà, i correntisti, gli azionisti e gli obbligazionisti fuggiranno, creando una spirale perversa di fuga. Il caso Cipro insegna». Così, in modo deliberato, «si incentiva il meccanismo di panico che condanna le banche dei paesi deboli a vantaggio delle banche dei paesi forti». Wolfgang Münchau, prestigioso editorialista del “Financial Times”, considera l’accordo per unione bancaria «un esercizio per prolungare il congelamento del credito bancario» in Europa. Con questo accordo – che secondo Münchau non avrebbe dovuto neppure essere siglato dai governi dell’Eurozona, come del resto anche quello del Fiscal Compact, perché è suicida – i governi del sud Europa «si sottomettono senza condizioni ai desiderata tedeschi». Sicché, l’unione bancaria «rischia di diventare un boomerang pericolosissimo e di fare precipitare le crisi bancarie».Anche le cosiddette “riforme strutturali” peggioreranno ulteriormente la situazione, continua Grazzini. La neoeletta premier Angela Merkel vuole imporre il suo progetto di austerità grazie ad accordi di programma per rendere “più competitiva” l’Europa – con lo smantellamento della sanità, dell’istruzione, la drastica compressione degli interventi pubblici, dei salari e delle pensioni, la diminuzione delle tasse per le corporations. «Gli accordi per le dolorose riforme strutturali, impopolari e del tutto inutili, verranno addirittura finanziati dalla Ue. Chi però non farà i “compiti a casa” andrà incontro a sanzioni automatiche imposte dalla Ue e dalla Troika – Ue, Bce, Fmi. In questa maniera si vuole imporre la sottomissione dei paesi europei». Di fronte a questo, si erge un ostacolo scoraggiante: la totale inconsistenza della politica, che in Italia non ha ancora “capito” quello che sta succedendo. «Puntare a riformare l’Unione Europea cedendo ancora quote di sovranità in campo istituzionale, finanziario ed economico, costituisce un errore madornale: significa stringere la corda alla quale gli europei si sono impiccati».Il sistema dell’euro, aggiunge Grazzini, «non è riformabile in queste condizioni politiche e in tempi compatibili con l’avanzare della crisi e della disoccupazione». Ma purtroppo – ed ecco il nostro grande problema – sembra che il ceto politico dirigente della sinistra «non sia all’altezza di comprendere la nuova realtà». Vendola «sogna ancora gli eurobond e la mutualizzazione dei debiti», e punta ad aderire (ancora senza risposta) al gruppo dei partiti socialisti europei che, a suo tempo guidati da Tony Blair e Gerhard Schröder, sono proprio quelli che più di altri «hanno promosso la deregolamentazione dei mercati finanziari e del lavoro». A sinistra di Sel, anche in Italia si tenta coraggiosamente di creare una lista di sostegno ad Alexis Tsipras, il dirigente di Syriza candidato della sinistra radicale europea alla presidenza della Commissione Ue. «Il gruppo della sinistra europea di opposizione è molto più realistico e critico verso l’euro, la Ue e le larghe intese italiane, tedesche e greche. Tuttavia anche la sinistra europea sembra orientata a mantenere la moneta unica, ovviamente riformata».Così però l’opposizione alla politiche di austerità potrebbe diventare poco credibile agli occhi di una opinione pubblica sempre più esasperata dalla crisi, obietta Grazzini. «Beppe Grillo e il “Movimento 5 Stelle” attaccano frontalmente la Ue e l’euro ma poi non sanno ancora quale soluzione realmente proporre, a parte il referendum: in effetti il M5S sembra sicuro che prima o poi l’euro si spaccherà e che l’Italia sarà comunque costretta a uscire dalla moneta unica». Il grande pericolo è che «mentre la sinistra non capisce il dramma in cui si sta ficcando l’Europa – e, anche quando è al governo, come in Francia, fa infuriare la sua base elettorale popolare imponendo tagli al welfare e al lavoro – la destra, e soprattutto la destra estrema, quella peggiore e razzista, guadagna milioni di voti protestando contro l’euro e il capitalismo finanziario». Scenario prevedibile: «Silvio Berlusconi e Matteo Salvini punteranno astutamente la loro campagna elettorale soprattutto contro l’euro. Non è difficile ipotizzare che grazie alla protesta contro l’euro e le tasse potrebbero rivincere le elezioni. E’ quindi urgente che la sinistra riconosca finalmente che questa Ue e questo euro non hanno sbocco».Per Grazzini, l’unica soluzione è il ritorno – immediato – alla sovranità monetaria. Per evitare un’uscita improvvisa dall’euro, che secondo l’analista metterebbe ulteriormente a rischio le nostre disastrate economie, basterebbe mantenere anche l’euro «come moneta comune di fronte alle altre valute internazionali, come il dollaro e lo yen». Un po’ come il Bancor di Keynes. Il recupero della sovranità monetaria? «E’ ovviamente un’operazione non facile, ma sarebbe meno dolorosa che continuare su questa strada senza sbocchi dell’euro attuale». La Germania ovviamente si opporrebbe. Ma poi, rinunciando all’euro come moneta unica, «non dovrebbe più temere di pagare per le altre nazioni, e l’opinione pubblica europea ne sarebbe felice». In sostanza, «si tratterebbe di convenire un sistema di cambi fissi aggiustabili tra le monete nazionali, avendo come riferimento l’euro come moneta comune (l’euro-lira, l’euro-marco, l’euro-peseta)». La Germania «potrebbe così ritornare al suo beneamato marco gestito dalla arcigna Bundesbank», ma anche gli altri paesi europei «potrebbero ritrovare la loro autonomia in campo economico».Si tratta di una soluzione decisiva e risolutiva, perché «i paesi più deboli potrebbero inizialmente svalutare la loro moneta per riequilibrare la bilancia dei pagamenti, rilanciare l’occupazione e ridurre i debiti, e i governi europei potrebbero decidere politiche espansive per uscire dalla crisi e abbassare il rapporto debito-Pil». Moneta sovrana: benzina necessaria per uscire dalla gabbia dell’euro, che produce soltanto la tragica spirale di contrazioni – consumi, redditi, credito – nella quale stiamo precipitando. Grazzini vede strategico, di fronte a un simile scenario, il ruolo della futura Bce: la banca centrale farebbe da «camera di compensazione per le transazioni europee», come la Clearing Union progettata da Keynes, e metterebbe in piedi un meccanismo per penalizzare «sia i paesi con eccessivi surplus commerciali – come la Germania – che quelli con deficit strutturali delle bilance commerciali, come l’Italia e i paesi del sud Europa». Deficit e surplus sarebbero tassati in proporzione alla loro dimensione e alla loro durata. Obiettivo: «Ridurre le posizioni creditrici e debitrici della bilancia dei pagamenti, fino ad ottenere tendenzialmente un saldo zero».Quello è ovviamente il punto contro cui la Germania «sparerebbe a zero». Ma, grazie al meccanismo di compensazione con penalità simmetriche, «il commercio nell’area euro potrebbe aumentare in maniera equilibrata per tutti». Il nuovo euro, insomma, «funzionerebbe come una unità di conto», proprio come il Bancor di Keynes, e «non come riserva di valore». Sarebbe una “moneta virtuale” e un “paniere” delle monete nazionali europee. «La valuta comune sarebbe gestita dalla Bce e utilizzata per tutte le operazioni con i paesi extraeuropei», con l’impegno a mantenere tassi finanziari stabili. Il “nuovo euro” «rappresenterebbe la barriera comune di fronte alla speculazione del mercato monetario internazionale: questo sistema garantirebbe la necessaria flessibilità interna e la stabilità monetaria verso il resto del mondo, dal momento che un “paniere di valute” è certamente più stabile di una moneta unica».Secondo analisti come Daniela Palma e Guido Iodice, questo tipo di “euro del futuro” «salva il mercato unico e la possibilità di una costruzione politica più solida dell’Unione Europea». Inoltre, la “moneta virtuale europea” «non richiede trasferimenti fiscali o unificazioni dei debiti dei singoli Stati, superando le principali obiezioni oggi poste alle soluzioni di tipo “federale”». Enrico Grazzini torna a rivolgersi direttamente alla politica, cioè all’unica leva democratica a nostra disposizione per tentare di salvare l’economia dall’euro-catastrofe: «Perché le forze della sinistra europea e il “Movimento 5 Stelle” non propongono questa soluzione?». Già, perché? Persino Prodi, massimo “padre” dell’euro, oggi si mostra “pentito” e propone un asse con Francia e Spagna per fronteggiare la Germania. Ma senza ancora riconoscere che il passaggio obbligato resta quello del ritorno alla moneta sovrana, a disposizione dello Stato (e senza limiti) per affrontare le emergenze e dare ossigeno all’economia.Mantenere lo scudo dell’euro come valuta internazionale di scambio, ma tornare subito alle monete sovrane nazionali: è l’unica via per salvare l’economia dei paesi rovinati dalla moneta unica europea, cioè tutti tranne la Germania. Per Enrico Grazzini, si tratta semplicemente di recuperare lo storico progetto del Bancor, avanzato da Keynes a Bretton Woods. Prima, però, le forze politiche devono capire – una volta per tutte – che l’attuale euro-sistema non è che sia “in crisi”: al contrario, è stato progettato esattamente per funzionare così, cioè premiando solo i tedeschi a danno di tutti gli altri. Obiettivo finale evidente: indebolire l’Europa sulla scenario geopolitico. «Oggi perfino Romano Prodi, l’uomo politico che ha fatto entrare l’Italia nell’euro, riconosce che l’Europa è un disastro, una minaccia». La Germania «impone all’Europa una sorta di nuovo Trattato di Versailles». Neoliberismo sfrenato, estremistico. Risultato: milioni di famiglie sul lastrico, aziende in crisi, catastrofe sociale ed economica.
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Ortaggi vietati, sul nostro cibo l’ultimo diktat dell’Ue
Semi proibiti e nuovi vincoli per l’orticoltura. L’11 dicembre è scaduto il termine che i deputati del Parlamento Europeo avevano per presentare emendamenti al testo con il quale la Commissione di Barroso intende introdurre una nuova regolamentazione per il mercato delle sementi. Un testo molto criticato dalle associazioni che raccolgono le realtà contadine di base che si battono per un’agricoltura sostenibile, per la libera circolazione dei semi e per la preservazione della biodiversità. Il nuovo regolamento, infatti, punta a sostituire 12 precedenti direttive europee. Secondo l’associazione europea “Seed Freedom”, sono in arrivo «condizioni ancora più limitative e ulteriore standardizzazione delle sementi». Lo scambio dei semi «conoscerà nuove restrizioni». Conseguenza: «Ciò che costituisce la base del nostro cibo diventerà parte di regole di mercato». Per le varietà locali, gli ortaggi rari e i frutti antichi, il nuovo regolamento «significherà barriere burocratiche ed economiche che saranno molto difficili da oltrepassare», mentre «diventerà più complicato anche l’accesso alle varietà biologiche».Probabilmente, spiega Giovanni Fez su “Il Cambiamento”, la commissione agricoltura del Parlamento voterà sul testo a gennaio 2014 e qualche mese dopo ci sarà la votazione in plenaria prima che venga adottata la decisione definitiva dal Consiglio d’Europa. “Seed Freedom” chiama quindi a raccolta tutti i cittadini affinché facciano pressione sulle istituzioni europee per non far passare il testo così com’è stato redatto: «Con queste modalità spesso si arriva ad ignorare la salute pubblica, la biodiversità e gli aspetti etici della produzione alimentare e degli interessi comuni». E’ in pericolo anche l’economia locale dei territori, quella delle filiere corte. «Chi si prenderà a cuore gli interessi della società civile, dei cittadini, degli agricoltori biologici e dei consumatori?». Attenzione: «L’uniformità genetica delle sementi non potrà mai risolvere il problema della fame nel mondo; in molti casi questi semi non riescono ad adattarsi alle condizioni locali e hanno bisogno di grandi quantità di pesticidi e fertilizzanti». Al contrario, «l’agricoltura biologica, biodinamica e tradizionale cerca di sviluppare varietà che diano risposte alle esigenze del luogo e che si adattino alle condizioni specifiche per produrre in maniera sostenibile».Lo dimostra un recente progetto co-finanziato dalla stessa Unione Europea attraverso il programma Alcotra (cooperazione franco-italiana), che in due anni ha creato “una rete per le biodiversità transfrontaliere”, varietà locali di ortaggi tradizionalmente coltivati in Piemonte e in Provenza, grazie all’impegno di agricoltori-custodi che hanno salvaguardato le specie, scongiurandone l’estinzione. Può apparire un impegno hobbystico, ma non lo è: la lotta contro l’erosione genetica degli ortaggi garantisce un’offerta più ampia verso il consumatore locale, fatta di prodotti veramente a chilometri zero, con un taglio netto al costo dei trasporti e all’impatto negativo – anche ecologico – della grande distribuzione, a tutto vantaggio delle economie locali e degli stessi consumatori, a cui si offrono prodotti sani, di stagione, coltivati senza pesticidi. A coordinare il progetto sono stati centri di ricerca francesi come il Grab di Avignone (agricoltura biologica) e la stessa Aiab, associazione italiana per l’agricoltura biologica. Obiettivo del progetto: il libero scambio di semi tra contadini italiani e francesi, per mettere al riparo – una volta per tutte – l’immensa ricchezza costituita dalla biodiversità coltivata negli orti.In Italia a battersi per la modifica del testo di Bruxelles è ora la Rete Semi Rurali. «La revisione attuata dalla Commissione Europea deve tenere in considerazione quegli agricoltori e quei cittadini-consumatori che, ad oggi, sono stati dimenticati dalla legislazione». Infatti, «chi cerca varietà locali, tradizionali, non uniformi o con particolari caratteristiche organolettiche o qualitative non può trovarle sul mercato, a causa di una legislazione troppo restrittiva». Inoltre, la nuova normativa sementiera «deve rispettare gli obblighi internazionali firmati dall’Unione Europea e in particolare il trattato Fao sulle risorse genetiche agricole per l’alimentazione e l’agricoltura, favorendo l’uso sostenibile della diversità agricola, tutelando i diritti degli agricoltori e garantendo l’accesso facilitato per fini di ricerca e sperimentazione alle varietà commercializzate». Le grandi lobby del cibo, comprese le multinazionali degli Ogm, vedono la sovranità alimentare dei territori come fumo degli occhi. Il guaio è che Bruxelles si limita a prendere ordini da loro. Non resta che una mobilitazione per tentare di sbarrare la strada a chi vuole cancellare la concorrenza locale al grande business. Ora, riassume “Il Cambiamento”, i prossimi mesi saranno decisivi: dopo la tappa di gennaio «ci si giocherà veramente tanto, perché non dimentichiamolo: chi controlla i semi, controlla il cibo e quindi la vita».Semi proibiti e nuovi vincoli per l’orticoltura. L’11 dicembre è scaduto il termine che i deputati del Parlamento Europeo avevano per presentare emendamenti al testo con il quale la Commissione di Barroso intende introdurre una nuova regolamentazione per il mercato delle sementi. Un testo molto criticato dalle associazioni che raccolgono le realtà contadine di base che si battono per un’agricoltura sostenibile, per la libera circolazione dei semi e per la preservazione della biodiversità. Il nuovo regolamento, infatti, punta a sostituire 12 precedenti direttive europee. Secondo l’associazione europea “Seed Freedom”, sono in arrivo «condizioni ancora più limitative e ulteriore standardizzazione delle sementi». Lo scambio dei semi «conoscerà nuove restrizioni». Conseguenza: «Ciò che costituisce la base del nostro cibo diventerà parte di regole di mercato». Per le varietà locali, gli ortaggi rari e i frutti antichi, il nuovo regolamento «significherà barriere burocratiche ed economiche che saranno molto difficili da oltrepassare», mentre «diventerà più complicato anche l’accesso alle varietà biologiche».
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Amoroso: via l’euro, se vogliamo democrazia in Europa
Monete sovrane svalutabili, o sarà la fine: dobbiamo uscire immediatamente dall’euro, per salvare la nostra economia e ripristinare la democrazia in Europa. Lo sostiene l’economista italo-danese Bruno Amoroso: l’euro non è che un dogma smentito dai fatti, mentre in realtà rappresenta un fattore devastante di disgregazione. Prima ha spaccato l’Europa in due, opponendo i 17 paesi dell’Eurozona ai 10 rimasti fuori, e ora ha diviso la stessa Eurozona, scavando un solco incolmabile tra nord e sud. La disastrosa moneta della Bce? Con la sua rigidità «è la causa prima dell’attuale situazione di crisi del progetto europeo». Un piano oligarchico, i cui gestori oggi hanno “gettato la maschera”: il rigore promosso dalla Troika formata da Bce, Fmi e Ue non è altro che l’esecuzione, in Europa, dell’ideologia neoliberista imposta dalla globalizzazione, che comprime i diritti del lavoro e mortifica lo Stato sovrano, disabilitandolo come garante dei cittadini. Fiscal Compact, Patto di Stabilità: sono gli strumenti con cui l’oligarchia finanziaria ha deciso di metterci in crisi.
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Truce Germania smemorata: noi le condonammo i debiti
Strana, pericolosa Germania: è risorta dalla vergogna mondiale del nazismo ricorrendo alla “politica della memoria” che l’ha riabilitata, beneficiando di un colossale taglio del debito accordatole nel ’53 (per motivi geopolitici, certo) da ben 65 paesi, tra cui l’Italia. Ma ora pare vittima di un’amnesia capitale, pretendendo che il debito altrui venga saldato, costi quel che costi, foss’anche la morte per fame dei poveri greci o la devastazione economica di un grande paese come il nostro. Per Barbara Spinelli, rischia di tornare in scena il peggio della storia europea: proprio i tedeschi stanno infliggendo al resto d’Europa la stessa “punizione” che furono i primi a subire, per mano della Francia, che dopo la Prima Guerra Mondiale demolì la Repubblica di Weimar spianando la strada alle camicie brune. Stessa ricetta degli “austeritari” di allora: deflazione spietata, super-export, crollo dei consumi interni, crescente irresponsabilità bellicosa verso i vicini.
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Pallante: monasteri del terzo millennio, così ci salveremo
Ora che tutto sta crollando, meglio si intende la strana lingua degli eretici. Lo spettacolo aiuta a comprendere: l’economia in recessione, la frana del Pil, l’assurdità lunare delle “grandi opere inutili” e la catastrofica impresentabilità di una politica ridotta a balbettare rottami di dogmi. Sono solo appunti sotto dettatura, sillabati da un mainstream autistico e pilotato dalle grandi lobby coi loro economisti di complemento, i profeti disonesti del rigore altrui. Di fronte al crollo storico del mito progressivo dello sviluppo – “comunque vada, il futuro sarà migliore” – la scena critica è dominata da due approcci paralleli e complementari: il primo è quello di chi sostiene la necessità di dare innanzitutto battaglia, per impedire a una minoranza “golpista” di rovinare milioni di cittadini. Il secondo schieramento, nel quale milita da decenni un intellettuale come Maurizio Pallante, all’analisi dei rapporti di forza (lo scontro sociale) preferisce lo sguardo lungo, la prospettiva culturale, il mondo che verrà.Se il regime di Wall Street e Bruxelles impone un nuovo feudalesimo senza più diritti, proprio dal cuore del medioevo Pallante ripesca una lezione dimenticata e attualissima: quella del sistema socio-economico cooperativo. “Monasteri del terzo millennio”, mini-saggio comparso per la prima volta diversi anni fa grazie al “Manifesto”, si ripresenta oggi per i tipi di Lindau in una versione aggiornata, e arricchita di nuovi contributi. Quei “monasteri” non invecchiano, tutt’altro: orto, comunità e fede restano le tre parole-chiave per tornare a respirare, verso un futuro credibile. Sovranità alimentare e cibo per tutti, relazioni sociali collaborative e liberate dalla mercificazione industriale. La “fede” di ieri si traduce oggi in un impianto ideologico che diventa una “contro-narrazione del mondo”. Televisione e pubblicità hanno desertificato il nostro immaginario di neo-schiavi compulsivi, ora frustrati anche dal ritrovarci in bolletta? La lezione dei monaci è chiara: contemplare la bellezza (letteralmente: racchiuderla in un tempio) è un “motore” potente, per animare un’umanità responsabile e vitale, non ostile, capace di produrre economia sana grazie al sistema della mutualità.A un quarto di secolo dal visionario “Comitato per l’uso razionale dell’energia”, fondato insieme a scienziati come Tullio Regge, il fondatore del Movimento per la Decrescita Felice torna a scommettere sui “suoi” monasteri, oggi reincarnati in casali di collina, borgate di montagna, quartieri “solidali”, orti urbani, co-housing, gruppi di acquisto solidale, finanza etica. «La potenza raggiunta dalla megamacchina industriale sta esaurendo gli stock di risorse non rinnovabili ed emette quantità crescenti di scarti», cioè residui liquidi, solidi e gassosi «non metabolizzabili dalla biosfera». Per questo, occorre cominciare a pensare a un “nuovo rinascimento” fondato su modelli economici praticabili e concreti, alternativi e funzionali. Solo «relazioni umane fondate sulla collaborazione e la solidarietà» hanno il potere di «promuovere l’autosufficienza, soprattutto alimentare ed energetica, delle comunità locali». Si comincia dal posto in cui si vive, ma l’obiettivo è il mondo: si tratta di «realizzare forme più eque di redistribuzione delle risorse tra i popoli», in modo da «garantire il futuro delle generazioni a venire», respingendo definitivamente il totem bugiardo della crescita indiscriminata di un valore-spazzatura come il Pil.Rivoluzione dolce, la chiama Pallante, citando Gandhi: «Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo». La crescita incessante della produzione di merci, aumentata in modo esponenziale dalle innovazioni tecnologiche, «ha indotto a confondere il ben-essere col tanto-avere», e a utilizzare come unico indicatore il prodotto interno lordo, «ovvero il valore monetario degli oggetti e dei servizi scambiati con denaro». Così, i beni (quelli veri) sono finiti nel magma su cui galleggiano le merci (comprese quelle usa e getta, senza valore) e «le cose sono diventate più importanti delle relazioni». Scenari più che allarmanti: entro il 2050, il 75% dell’umanità si ammasserà nelle aree urbane, 27 delle quali supereranno i venti milioni di abitanti, e qualcuna i trenta. Risultato: dipendenza totale dai servizi, nessuna capacità di procurarsi cibo. Mai l’umanità è stata così vulnerabile. Milioni di persone (miliardi) lavorano in modo cieco, per servizi alienanti e prodotti di dubbia utilità, che non controlleranno mai. Pallante richiama l’attenzione sui monasteri medievali, vere e proprie “aziende” per comunità autosufficienti, a chilometri zero. «Se il lavoro che svolgi risponde davvero a un bisogno umano, questo attenua il disagio, riduce la fatica e migliora il rendimento, la comunicazione, la qualità della vita».Coi politici, è un dialogo tra sordi: non uno di loro rinuncia a parlare, ancora, di “crescita”. E’ un tragico equivoco: l’impennarsi del Pil è fatto anche di rifiuti, gas di scarico, auto in coda, case-colabrodo non protette dal freddo. Oggi, “crescita” è esattamente l’opposto di “progresso”. In più, ormai anche il mitico Pil sta franando. «Se la causa della crisi è la crescita, tutti i tentativi di superare la crisi rimettendo in moto la crescita sono destinati a fallire: non si può risolvere un problema aggravando le cause che l’hanno generato». La grande eresia della decrescita – ridurre gli sprechi velenosi, per pesare meno sulla Terra e vivere meglio, impedendo alla grande crisi di travolgerci – si sta facendo faticosamente strada, “aiutata” dal disastro che avanza: collasso energetico, climatico, economico-finanziario. Spesso, chi invoca una svolta sovranista e democratica per opporsi all’oligarchia del super-potere trascura il quadro mondiale, vicino all’implosione per raggiunti limiti di espansione e saturazione delle capacità di consumo. Intanto, cresce una foresta silenziosa di individui e gruppi, decisi a resistere ma non ancora rappresentati. Se il “monastero” potesse anche votare, e dotarsi di propri portavoce, probabilmente la “rivoluzione dolce” potrebbe davvero cominciare, col necessario sostegno di politiche strategiche, capaci di rilanciare l’occupazione “utile”: l’unica possibile, quella del futuro.(Il libro: Maurizio Pallante, “Monasteri del terzo millennio”, Lindau, 176 pagine, 13 euro).Ora che tutto sta crollando, meglio si intende la strana lingua degli eretici. Lo spettacolo aiuta a comprendere: l’economia in recessione, la frana del Pil, l’assurdità lunare delle “grandi opere inutili” e la catastrofica impresentabilità di una politica ridotta a balbettare rottami di dogmi. Sono solo appunti sotto dettatura, sillabati da un mainstream autistico e pilotato dalle grandi lobby coi loro economisti di complemento, i profeti disonesti del rigore altrui. Di fronte al crollo storico del mito progressivo dello sviluppo – “comunque vada, il futuro sarà migliore” – la scena critica è dominata da due approcci paralleli e complementari: il primo è quello di chi sostiene la necessità di dare innanzitutto battaglia, per impedire a una minoranza “golpista” di rovinare milioni di cittadini. Il secondo schieramento, nel quale milita da decenni un intellettuale come Maurizio Pallante, all’analisi dei rapporti di forza (lo scontro sociale) preferisce lo sguardo lungo, la prospettiva culturale, il mondo che verrà.
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Il Club di Sofia: falsa Europa, in guerra contro di noi
Quello che, per molti decenni, è stato considerato il cuore della civilizzazione europea è il modello sociale europeo. Esso viene ora demolito dall’offensiva neo-liberistica delle politiche estreme di austerità. L’istituto della famiglia come sorgente naturale di valori morali e come strumento essenziale di educazione e di socializzazione della persona umana è stato anch’esso demolito. Queste politiche minacciano l’idea stessa di Europa. L’imperativo presente è di ritornare alle radici dell’Europa unita, che nacquero già 200 anni fa, come idee di pace e di cooperazione. Come europei che credono nell’importanza dei diritti umani, noi sosteniamo l’idea di una Europa che muova verso valori sociali, democratici, pacifici e rispettosi dell’ambiente naturale, un’Europa del popoli e dei cittadini. Una tale visione dell’Europa è incompatibile con ogni forma di egemonismo, di xenofobia, di razzismo e di nazismo.Ora la competizione, che è stata la macchina dello sviluppo degli ultimi tre secoli, sta diventando la macchina che produce la guerra. Ciò è l’effetto dei limiti dello sviluppo, nel frattempo emersi, e della fine dell’“era dell’abbondanza”. Ciò si sta verificando in condizioni di profonda e generale disuguaglianza: nel campo della potenza militare; nel campo delle tecnologie; nel campo del consumo e dei redditi; nel campo del denaro; nel campo delle risorse, nel campo delle istituzioni. Se questi vincoli noi li mettiamo assieme alla vecchia idea della competizione è ovvio che il mondo sarà fatalmente spinto verso l’uso della forza. È ciò cui stiamo assistendo: coloro che sono più forti saranno spinti dalla circostanze a usare la loro forza. Lo faranno. Lo hanno già fatto. Lo stanno facendo ora in Siria. Chi sarà il prossimo della lista?Il contesto globale è orientato verso la falsa idea della società di consumatori. Noi riteniamo che muoversi in questa direzione significhi promuovere una successione di conflitti, sia globali, sia regionali – che condurranno il mondo intero in un vicolo cieco, in fondo al quale c’è la catastrofe di una nuova guerra mondiale. Una tale guerra sarà simile a quella che il mondo conobbe 100 anni orsono, ma ingigantita dall’esistenza di armi nucleari e di altro genere, dotate di un potere tremendamente distruttivo. I pericoli di guerra stanno aumentando. Molti segnali sono già visibili, ma molti preferiscono non vederli. Il collasso di una civilizzazione moderna basata sul consumo è inevitabile. Non è questione di buona o cattiva volontà. Il fatto è che la crisi mondiale si va estendendo sia in termini di complessità, e di dimensione, sia in termini di profondità, e non vi è chi abbia una soluzione in vista: non gli Stati, non la scienza del XX secolo, non le differenti culture e religioni.Siamo in presenza di una tremenda carenza di comprensione proprio della complessità della crisi. Essa non si riduce a una semplice somma di fattori, come la crisi finanziaria, quella dei cambiamenti climatici, quella dell’energia, dell’acqua, della disoccupazione, della crescita demografica, degli ecosistemi violati, della diversità biologica compromessa. Inoltre noi non siamo di fronte a una crisi lineare. Al contrario noi vediamo i rischi di una catastrofe senza precedenti che richiede, prima di tutto, di essere compresa e, insieme, controllata. Stiamo già assistendo a un accelerato percorso verso una catena di collassi interconnessi tra di loro e che possono demolire i pilastri portanti della civilizzazione umana. Noi riteniamo che soltanto una Nuova Europa Unita possa essere uno dei pilastri di una coesistenza pacifica multipolare nel XXI secolo.È un’Europa multiculturale che si adopera per gettare un ponte tra il Nord e il Sud, specialmente nell’area mediterranea. Un’Europa che venisse concepita come una fortezza dovrebbe affrontare non solo una ma molte Lampedusa tutto attorno ai suoi confini e perfino all’interno di essi. Noi siamo contro ogni tentativo di costruire un nuovo “Muro di Berlino” nella forma di “arco Mar Baltico-Mar Nero-Mar Caspio”, utilizzando i partner orientali dell’Unione Europea. La Russia – nonostante le differenze tra regimi politici – è già sotto molti profili interconnessa con l’Europa ed è il grande vicino che l’Unione Europea deve considerare partner affidabile. La Russia, la Turchia, l’Unione Europea e i suoi partner dell’est – Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldavia, Ucraina – devono considerare se stessi come componenti decisive di una indivisibile sicurezza europea. Questo sarà il contributo dell’Europa alla pace e alla sicurezza del mondo intero. Gli Stati Uniti d’America, che durante la Guerra Fredda hanno svolto il ruolo di un alleato “privilegiato e protettore” dell’Unione Europea, devono ora diventare partner con eguali diritti.Una Nuova e Unita Europa, capace di svolgere un attivo ruolo di pace, deve essere forte e autonoma nelle sue decisioni. Una Nuova e Unita Europa costruita su questi principi non ha nemici. Ciò significa che essa deve avere un proprio esercito, che dovrà essere utilizzato solo ed esclusivamente sotto l’autorizzazione delle Nazioni Unite. È giunto il tempo di abbandonare lo schema amici-nemici che fu caratteristico della Guerra Fredda. Esso è ormai il passato. La sicurezza è di ciascuno e di tutti. Ogni tentativo di costruire la sicurezza solo per noi stessi senza tenere contro di quella degli altri produrrà soltanto tensioni e conflitti. Il compito primario è dunque quello di costruire amicizie di lunga durata, cooperazioni strategiche in tutte le direzioni. Una nuova guerra globale sarebbe la fine dell’umanità e ogni piano che la preveda come possibile è un’idea folle. Noi, membri del Club di Sofia, ci impegniamo a costruire un tale approccio e a proporlo a tutti i soggetti di tutti i continenti, a trovare una via comune per la comprensione della nuova epoca che irrompe ad alta velocità nelle nostre vite e che tratteggia il destino delle future generazioni. Noi vogliamo agire non solo per il loro benessere, ma per la loro stessa sopravvivenza.(Sintesi della Dichiarazione costitutiva del “Club di Sofia”, think-tank paneuropeo costituitosi nella capitale bulgara il 26 ottobre, su iniziativa di Giulietto Chiesa, presidente del laboratorio politico “Alternativa”, con Antonio Ingroia di “Azione Civile”, il greco Panos Trigazis di “Syriza” e la lettone Tatjana Zdanoka, europarlamentare dei Verdi e co-presidente del “Partito per i diritti umani nella Lettonia Unita”. Tra i promotori anche altri parlamentari come l’ucraino Vadim Kolesnichenko, del “Partito delle Regioni”, e il deputato comunista moldavo Zurab Todua. Completano la lista dei fondatori del “Club di Sofia” il russo Sergey Kurginyan, presidente del partito “Essenza del Tempo”, il polacco Mateusz Piskorski, direttore esecutivo dell’“European Centre of Geopolitical Analysis”, il lituano Algirdas Paleckis, del partito “Fronte Socialista del Popolo” e il bulgaro Zakhari Zakhariev, presidente della “Sklavyani Foundation” e dirigente del Partito Socialista di Bulgaria).Quello che, per molti decenni, è stato considerato il cuore della civilizzazione europea è il modello sociale europeo. Esso viene ora demolito dall’offensiva neo-liberistica delle politiche estreme di austerità. L’istituto della famiglia come sorgente naturale di valori morali e come strumento essenziale di educazione e di socializzazione della persona umana è stato anch’esso demolito. Queste politiche minacciano l’idea stessa di Europa. L’imperativo presente è di ritornare alle radici dell’Europa unita, che nacquero già 200 anni fa, come idee di pace e di cooperazione. Come europei che credono nell’importanza dei diritti umani, noi sosteniamo l’idea di una Europa che muova verso valori sociali, democratici, pacifici e rispettosi dell’ambiente naturale, un’Europa del popoli e dei cittadini. Una tale visione dell’Europa è incompatibile con ogni forma di egemonismo, di xenofobia, di razzismo e di nazismo.
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Gaffe, bugie e arroganza: la Merkel smaschera Obama
Gaffe, arroganza e menzogne: così perfino Angela Merkel finisce per “smascherare” un’America in cui l’opinione pubblica è distratta dal «pessimo debutto della nuova sanità obamiana», i mass media “dormono al volante” e Barack Obama «è lento a reagire all’ultima puntata del Datagate», lo scandalo sullo spionaggio globale rivelato da Edward Snowden, ex consulente Cia e Nsa oggi riparato a Mosca. Il capo della Casa Bianca, spiega Federico Rampini, è stato «colto di sorpresa dalla durezza di Angela Merkel», ovvero dalla brusca telefonata “voluta da Berlino” per protestare vibratamente contro lo spionaggio del cellulare della cancelliera. «L’impreparazione della Casa Bianca e dell’America intera di fronte allo sdegno degli alleati – osserva Rampini – traspare nei bizantinismi adottati per placare e minimizzare: false smentite e bugie dalle gambe corte tradiscono imbarazzo e pigrizia, sottovalutazione o arroganza».Obama risponde alla Merkel che «l’America non spia e non spierà la cancelliera tedesca», ma si guarda bene dall’usare il verbo al passato: dunque, scrive Rampini su “Repubblica”, non esclude che lo spionaggio sia accaduto in passato. Trucchi semantici come quelli usati dal capo dell’intelligence, James Clapper: di fronte alle rivelazioni di “Le Monde” sui 70 milioni di telefonate francesi sorvegliate dalla National Security Agency in un solo mese, Clapper smentisce che siano state “intercettate”. Ma lo spionaggio nell’èra di Big Data, per controllare quantità così smisurate di comunicazioni, cattura a tappeto i “meta-dati”, registrando chi ha chiamato chi, da dove, quando. «L’intercettazione dei contenuti scatta semmai ex post, se gli algoritmi che analizzano i meta-dati segnalano qualcosa di sospetto». Questo, aggiunge Rampini, è il succo dei due maggiori programmi di spionaggio, “Prism” e “Swift”.Del resto, lo stesso Clapper non smentisce le intercettazioni alle ambasciate francesi a Washington e all’Onu, indebolendo la linea difensiva di Obama, secondo cui la Nsa avrebbe «salvato vite umane, sventato attentati terroristici anche ai danni dei nostri alleati». No, protesta Rampini: «Lo spionaggio delle ambasciate all’Onu serviva per le manovre della diplomazia Usa ai tempi delle sanzioni contro l’Iran». La tempesta con Berlino, ricorda il giornalista di “Repubblica”, era stata anticipata da un primo screzio il 19 giugno, quando Obama si preparava a replicare lo storico discorso di Kennedy. Poche ore prima, in una gelida conferenza stampa, la Merkel aveva avanzato le prime proteste per iniziali rivelazioni sullo spionaggio della Nsa ai danni degli alleati Usa. Già allora, Obama rispose che quelle intercettazioni erano «servite a prevenire attacchi terroristici, anche qui sul territorio tedesco». Spiegazione, osserva Rampini, accettata in un primo momento sia dai media, sia dall’opinione pubblica «assuefatta al Grande Fratello post-11 Settembre».Analoga indifferenza, dal mainstream americano, anche dopo la telefonata di protesta della Merkel del 23 ottobre. E le proteste del presidente francese Hollande per lo spionaggio? «Quattro righe nei notiziari esteri del “New York Times”, un colonnino sul “Wall Street Journal” che precisa: “Il governo francese vuole già ridimensionare, non ci saranno conseguenze”». In questo clima, «autoreferenziale e distratto», Obama è colto in contropiede dalla cancelliera e dalla sua minaccia di “gravissimi danni” nelle relazioni bilaterali Germania-Usa. «Difficile, stavolta, rispondere alla Merkel che il suo cellulare fu spiato per prevenire attacchi terroristici», annota Rampini. Per di più, «l’incidente con Berlino giunge al termine di un crescendo di disastri». Dilma Roussef, presidente del Brasile, «non si è accontentata di cancellare una visita di Stato»: è andata all’Onu per proclamare la sua indignazione all’assemblea generale. E il Messico, alleato di ferro degli Stati Uniti, «è in subbuglio per lo spionaggio sul suo ex-presidente». L’intera America latina sprofonda in un clima “anti-yankee” che non si ricordava da decenni. «Valeva la pena pagare un prezzo così alto, pur di lasciare le briglie sciolte al Grande Fratello della Nsa?».È questo, dice Rampini, il dibattito assente negli Stati Uniti, tra la classe dirigente e sui media. È vero, Obama aveva promesso una riforma dell’intelligence con nuove tutele per la privacy, come conferma anche oggi alla Merkel. «Ammesso che questa riforma avanzi, la sua lentezza tradisce la sottovalutazione del danno inflitto nel mondo intero al “soft power” americano», scrive il giornalista di “Repubblica”. «Visti da Washington, gli europei sono sempre un’Armata Brancaleone che reagisce in ordine sparso». Hollande, Letta, Merkel: «Ciascuno parla per sé, con sfumature diverse,». Una posizione unitaria dell’Europa? Forse è ormai imminente. Nonostante la tradizionale debolezza politico-diplomatica di Bruxelles, «dall’Europa si sente crescere la voglia di rappresaglie: contro la cooperazione anti-terrorismo tra le due sponde dell’Atlantico, o contro il patto per la liberalizzazione degli scambi e degli investimenti». Risultato: «Per un’America obamiana che partiva da una popolarità a livelli record, la caduta dovrebbe essere inquietante». Sintetizza da Parigi il presidente della commissione parlamentare affari legislativi: «Gli Stati Uniti non sanno avere alleati, per loro il mondo si divide tra nemici e vassalli».Gaffe, arroganza e menzogne: così perfino Angela Merkel finisce per “smascherare” un’America in cui l’opinione pubblica è distratta dal «pessimo debutto della nuova sanità obamiana», i mass media “dormono al volante” e Barack Obama «è lento a reagire all’ultima puntata del Datagate», lo scandalo sullo spionaggio globale rivelato da Edward Snowden, ex consulente Cia e Nsa oggi riparato a Mosca. Il capo della Casa Bianca, spiega Federico Rampini, è stato «colto di sorpresa dalla durezza di Angela Merkel», ovvero dalla brusca telefonata “voluta da Berlino” per protestare vibratamente contro lo spionaggio del cellulare della cancelliera. «L’impreparazione della Casa Bianca e dell’America intera di fronte allo sdegno degli alleati – osserva Rampini – traspare nei bizantinismi adottati per placare e minimizzare: false smentite e bugie dalle gambe corte tradiscono imbarazzo e pigrizia, sottovalutazione o arroganza».
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Io faccio così: diario dall’Italia che ha voltato pagina
Il futuro, questo sconosciuto. Da una parte la faccia dura della crisi, l’Europa-zombie che sembra stata creata apposta per non funzionare, se non a scapito di milioni di sventurati senza più lavoro né diritti. Sopravvive benone solo la cosiddetta casta: partiti e istituzioni, banche e finanzieri, ex industriali convertiti alla finanza speculativa. Ma il sistema sembra ora sul punto di crollare, schiantato da una globalizzazione senza paracadute. Un disastro, che sta già travolgendo l’altra Italia, quella che ancora presidia i territori, li difende dalle “grandi opere inutili” e prova a resistere al deserto della deindustrializzazione. E’ rabbia, che sfila in corteo e chiede giustizia e democrazia. Ma soprattutto sovranità. Che in fondo significa: tornare padroni della propria vita. E’ quello che, in silenzio, migliaia di italiani hanno cominciato a fare, completamente ignorati dai grandi media. Una foresta che cresce, e che sta gettando semi. Giovani e famiglie che, semplicemente, hanno cambiato vita. Si sono rimboccati le maniche, inventandosi un nuovo lavoro. Un nuovo modo di stare al mondo. «E funziona?». «Sì, certo: guarda, io faccio così».Ne è testimone Daniel Tarozzi, reduce da un “giro d’Italia” di sette mesi, alla guida del suo camper, lungo i paesaggi dell’Italia in cambiamento. Tutte e 20 le Regioni dello Stivale, isole comprese. Migliaia di contatti, centinaia di storie. Tutte diverse e tutte simili. «Quando avete cominciato, a vivere così?». Risposta invariabile: «Cinque, sei anni». Cioè da quando la Grande Crisi ha affondato le zanne nel tessuto socio-economico: gli sciacalli della speculazione, Wall Street, il rigore imposto dall’Eurozona. Ovvero: la certezza matematica che sarebbe crollato, con la recessione, un sistema peraltro insopportabile e insostenibile come quello basato sui consumi inutili, drogati dalla pubblicità. Vite in scatola? No, grazie. «La scoperta – racconta Daniel Tarozzi – è che si sta creando una rete diffusa, dal nord al sud, di micro-economie che valorizzano il territorio e le competenze delle persone, spesso promuovendo lavori che le statistiche nemmeno rilevano».Succede anche in città, non solo in campagna, per iniziativa di gruppi organizzati ma anche di singoli “pionieri” convertiti alla sostenibilità, al risparmio e alla qualità della vita. Parola d’ordine: ridurre le dipendenze. Autocostruzione, energia pulita e autoprodotta, cibo di stagione assicurato tutto l’anno dall’orto sotto casa, grazie alla pratica della permacoltura. E’ una rivoluzione culturale, che spinge le persone a cooperare tra loro riscoprendo il valore spontaneo della solidarietà. «Io credo che dobbiamo passare dal “vinco io, perdi tu” al “vinciamo tutti”», sintetizza Michela Scibilia, di Venezia. E non è solo un orizzonte per nuovi contadini. Ci sono anche inventori, imprenditori, manager. E artigiani, neolaureati, artisti. «Le loro storie non fanno più parte dell’aneddotica, ma ormai costituiscono una realtà che va raccontata e fotografata. E dimostrano che un altro Pil, più vero e di qualità, è possibile». Ci sono tantissime realtà italiane in movimento, conferma l’altoatesino Hans Schmieder, promotore dell’Accademia dei Colloqui di Dobbiaco, Bressanone. «Il problema è che queste realtà sono invisibili: dobbiamo lavorare per farle vedere».E’ quello che ha fatto Daniel Tarozzi, col suo diario “on the road” pubblicato da “Chiarelettere”. «L’idea di questo viaggio e poi di questo libro – dice – è nata da un’esigenza fortissima che sentivo da dieci anni». Da giornalista, direttore del newsmagazine “Il Cambiamento”, si è sempre occupato di sostenibilità, decrescita e transizione. «Tutti questi movimenti e queste realtà, solo apparentemente piccoli, non solo sono attivi sul territorio, ma riescono a incidere concretamente e positivamente nel cambiare, nel raggiungere i propri obiettivi. E la cosa bella è che queste persone alla fine riescono nel loro intento». “Io faccio così”, il leit-motiv di tanti incontri, è diventato il titolo del libro, anticipato da un blog sul “Fatto Quotidiano”. Fotogrammi da un popolo in marcia. Il cambiamento richiede pazienza, ammette un religioso come don Gianni Fazzini, promotore dell’iniziativa “Bilanci di giustizia”, per aiutare le persone bisognose a risparmiare. L’importante, però, è non perdere mai di vista un fatto decisivo: «Il bene più prezioso è un bene immateriale: il tempo». Pazienza e fiducia. «C’è un’Italia che non molla, che va avanti e crede nel futuro».Dal centro di Bologna alla trincea degradata di Scampia, si moltiplicano iniziative solidali che diventano attività organizzate e sostenibili. Nel libro di Daniel Tarozzi, abbondano i paesaggi extraurbani. E il ritorno alla terra è un richiamo potente. «Vogliamo convincere le amministrazioni a inserire gli orti nei loro piani regolatori», dicono Gianfranco Bettega e Adriana Stefani dello Slow Food di Trento, ideatori del progetto “orto in condotta”, nelle scuole. «E’ andato molto bene: ci cercano in tantissimi, non riusciamo a star dietro a tutte le chiamate». Cristina Tagliavini, di “Accesso alla Terra”, sta realizzando una cooperativa aperta a tutti, che acquisti terreni abbandonati o destinati all’edilizia, per affidarli a chi voglia iniziare a coltivare la terra. «Vogliamo seguire i neo-contadini offrendo assistenza e formazione, mettendoli in rete tra loro». Buone notizie da tutta Italia. «Oggi in Puglia c’è un ritorno di tanti giovani che erano emigrati e che – spesso per mancanza di lavoro – decidono di riprovare a costruirsi un futuro qui», racconta Virginia Meo di “Ressud”, sodalizio che mette in contatto le realtà di economia solidale dall’Abruzzo alla Sicilia. «Sono davvero tante – dice Daniel Tarozzi – le persone che, in questo momento di crisi e senza neppure avere le spalle coperte, si licenziano e cercano di costruire una vita diversa». Motivo: «Contestano il sistema in cui vivono, e i suoi falsi valori». Ebbene sì: «C’è davvero un’Italia che cambia, ed è quella che ho cercato di raccontare».(Il libro: Daniel Tarozzi, “Io faccio così”, Chiarelettere, 368 pagine, euro 14,50).Il futuro, questo sconosciuto. Da una parte la faccia dura della crisi, l’Europa-zombie che sembra stata creata apposta per non funzionare, se non a scapito di milioni di sventurati senza più lavoro né diritti. Sopravvive benone solo la cosiddetta casta: partiti e istituzioni, banche e finanzieri, ex industriali convertiti alla finanza speculativa. Ma il sistema sembra ora sul punto di crollare, schiantato da una globalizzazione senza paracadute. Un disastro, che sta già travolgendo l’altra Italia, quella che ancora presidia i territori, li difende dalle “grandi opere inutili” e prova a resistere al deserto della deindustrializzazione. E’ rabbia, che sfila in corteo e chiede giustizia e democrazia. Ma soprattutto sovranità. Che in fondo significa: tornare padroni della propria vita. E’ quello che, in silenzio, migliaia di italiani hanno cominciato a fare, completamente ignorati dai grandi media. Una foresta che cresce, e che sta gettando semi. Giovani e famiglie che, semplicemente, hanno cambiato vita. Si sono rimboccati le maniche, inventandosi un nuovo lavoro. Un nuovo modo di stare al mondo. «E funziona?». «Sì, certo: guarda, io faccio così».
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Whitney: gli Usa sono la più grande piaga del mondo
Gli Stati Uniti sono la più grande piaga del mondo. Non importa dove vivi o cosa fai, gli Stati Uniti troveranno sempre qualche scusa per ficcare il naso negli affari tuoi e per renderti la vita infelice. Ecco perché gli Stati Uniti hanno tanti nemici, perché si mettono sempre in mezzo, in qualsiasi impiccio che capiti, in qualsiasi parte del mondo. Quelli di Washington proprio non riescono a sopportare l’idea che ci sia qualcuno, non importa dove, che potrebbe vivere una vita normale e felice senza doversi aspettare di essere bombardato per un attacco di “drone” o di essere sbattuto dentro qualche buco nero, dove la Cia può strapparti le unghie o farti diventare nero e blu. Questo è tutto quello che ha prodotto questa guerra globale al terrorismo – solo questo.
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Amoroso: via dall’euro, o facciamo la fine della Jugoslavia
La ricreazione è finita, presto vi dovrete arrangiare anche per le pensioni. Questo, in sintesi, il discorso-choc che il sovrano olandese Guglielmo Alessandro ha rivolto alla nazione: la globalizzazione impone anche all’Olanda l’addio al glorioso sistema del welfare e delle protezioni sociali. E’ l’élite, direttamente, che parla: la stessa élite feudale che si è impadronita della moneta, imponendoci l’Eurozona, per poi dirci: scusate, non ci sono più soldi. Falso. I soldi li “fabbricano” loro, mentre a mancare sono i politici in grado di difenderci. Enrico Letta, che rincorre i diktat della Merkel, governa con Berlusconi, che nel suo videomessaggio del 18 settembre, di fronte alla catastrofe economica dell’Italia, proclama: «Occorre imboccare la strada maestra del liberalismo: meno Stato, meno spesa pubblica». Il liberismo: cioè il tunnel senza uscita del quale siamo già prigionieri, da vent’anni. Attenti, avverte il professor Bruno Amoroso: di questo passo, già a novembre sprofonderemo nel baratro della Grecia, saremo esposti a tempeste mai viste e rischiamo di fare la fine della Jugoslavia.
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Generazione decrescente, costretta a reinventarsi la vita
«Faccio parte di un generazione formata da moltissimi individui che vogliono più dei propri avi, pur essendo meno (o per nulla) in grado di accontentarsi di poco». Giovani che spesso «vogliono ottenere troppo senza sforzarsi molto», ma allo stesso tempo «hanno meno mezzi a livello caratteriale per ottenere ciò che vogliono». Più che “bamboccioni” troppo viziati durante l’infanzia e l’adolescenza, sono ragazzi che «hanno la sfortuna di vivere in un momento storico in cui le maggiorate esigenze non combaciano con un’economia che non può crescere all’infinito». Fine corsa: il sistema «non può dare le stesse possibilità di guadagno e di gratificazione dei decenni passati». Così Andrea Bertaglio tratteggia la sua “generazione decrescente”, quella che – per la prima volta – sa che non potrà avere a disposizione più risorse di quella che l’ha preceduta. Ormai è ufficiale: la Grande Crisi non fa sconti. Ma proprio la sua durezza suggerisce una soluzione: imparare a consumare meno (e meglio) per vivere un’altra vita, lontano dalla solitudine della pulsione consumistica.