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Bruxelles taglia i fondi, Torino-Lione in via d’estinzione?
Inutile, mostruosa, sanguinosa per il debito pubblico italiano. Ma soprattutto: senza più un soldo. Il movimento No-Tav e l’opposizione francese alla linea Tav Torino-Lione annunciano che la grande opera è ufficialmente in via di estinzione, almeno secondo la Commissione Europea. Già la Francia, lo scorso anno, aveva posticipato al 2030 l’eventuale avvio dei lavori sul versante transalpino. Pochi mesi dopo, la Svizzera ha confermato che l’attuale linea internazionale che collega Italia e Francia attraverso la valle di Susa, la Torino-Modane, appena riammodernata con l’ampliamento del traforo del Fréjus, potrebbe da sola incrementare l’attuale traffico merci del 900%. Peccato che le merci non ci siano: il trasporto fra i due paesi è ormai crollato, complice la crisi e la saturazione storica dei mercati di consumo. Dal punto di vista strategico, invece, la Torino-Lione è un binario morto: l’asse delle merci predilige la direttrice nord-sud, Genova-Rotterdam.Tuttora, la linea Torino-Lione non esiste: dopo vent’anni, l’unico cantiere aperto è quello di Chiomonte, dove si sta scavando – al rallentatore – solo un “cunicolo esplorativo”. Nessuna traccia, per ora, dei preparativi per quello che un giorno, forse, sarà il traforo ferroviario vero e proprio, lungo 57 chilometri. Quel giorno con ogni probabilità non arriverà mai, dicono i No-Tav, presentando un cospicuo dossier. Tanto per cominciare, anche se i giornali non ne hanno parlato, un anno fa è stato revocato metà del contributo europeo promesso da Bruxelles. Si tratta di una decurtazione ingente: dai 671,8 milioni di euro inizialmente concessi (cifra irrisoria, peraltro, a fronte del costo miliardario dell’opera, largamente a carico di Italia e Francia) si è scesi a 395,3 milioni di euro. Una riduzione del 41%. «Il pesante ridimensionamento riguarda tutto il programma europeo, il cui importo complessivo passa da 2,09 miliardi di euro a soli 891 milioni, quindi con una riduzione del 57%».Pressoché azzerati, continuano i No-Tav, i finanziamenti l’avvio del tunnel di base, 1,63 miliardi di euro: 150 milioni sono stati dirottati in Francia su perforazioni (non previste) nella cosiddetta Galleria di Saint Martin La Porte. Sale intanto alle stelle, secondo i No-Tav, il costo di Tlf: è di 75 milioni il conto della la società Lyon Turin Ferroviaire incaricata di realizzare l’opera, «“premiata” per la sua gestione fallimentare del contributo europeo, dimezzato dalla Commissione». Ltf, aggiunge il movimento valsusino, «cominciò a scavare quando già sapeva di non finire nei termini». All’avvio del mini-tunnel esplorativo di Chiomonte, i governi di Roma e Parigi «sapevano perfettamente che il contributo era stato dimezzato, che il termine previsto (fine 2016) sarebbe andato ben oltre il 31 dicembre 2015 e che tutte le spese effettuate dopo quella data non sarebbero state ammesse dall’Unione Europea».Anche se la stampa mainstrem racconta che la mini-galleria di Chiomonte sarebbe stata ormai scavata per metà, la realtà è tutt’altra: «La “talpa” procede a passo di lumaca, ha scavato appena 641 metri sui quasi 7 chilometri e mezzo totali, viaggiando ad appena 2,5 metri al giorno anziché i 10 metri previsti. Anche a velocità doppia, al 31 dicembre 2015 risulterà scavata solo metà galleria; tutta solo a febbraio 2018 (al di fuori dei termini del contributo europeo)». E visto che l’Ue contribuisce solo se la galleria sarà completata nei termini previsti, «si rischiamo ulteriori perdite di contributi». E se la magistratura di Torino accusa i No-Tav di aver causato parte dei ritardi con la forte opposizione all’avvio del piccolo cantiere di Chiomonte, il movimento ribatte citando la Commissione Europea, che registra, testualmente, «un notevole ritardo dovuto a difficoltà amministrative e tecniche».Inoltre, la Piattaforma del Corridoio Torino-Lione ravvisa la «infattibilità politica di proporre la costruzione di una nuova linea senza fare tutto il possibile affinché quella esistente torni a essere la principale arteria di trasporto in seguito ai lavori di ampliamento nel traforo ferroviario del Fréjus». Il movimento No-Tav lo dimostra da anni, dati alla mano: «La linea esistente è ampiamente sotto-utilizzata, nonostante il suo recente adeguamento che consente oggi il passaggio di treni merci di ogni tipo e dimensione», compresi i conteiner “navali” e i Tir caricati sui treni. «Anziché usare il Tav per fare carriera, i politici riflettano su quello che dicono», sottolineano i No-Tav, che denunciano il “patto del silenzio” sulla burocrazia europea: «Fino ad oggi la “Decisione C(2013) 1376” della Commissione Europea è rimasta nascosta al legittimo controllo dei cittadini contribuenti. Solo la pressante azione del movimento No-Tav ha permesso di squarciare il velo sull’insuccesso di Ltf e delle politiche dei governi italiano e francese». Continua, intanto, «lo scandalo del silenzio sulla gestione della Torino-Lione».Inutile, mostruosa, sanguinosa per il debito pubblico italiano. Ma soprattutto: senza più un soldo. Il movimento No-Tav e l’opposizione francese alla linea Tav Torino-Lione annunciano che la grande opera è ufficialmente in via di estinzione, almeno secondo la Commissione Europea. Già la Francia, lo scorso anno, aveva posticipato al 2030 l’eventuale avvio dei lavori sul versante transalpino. Pochi mesi dopo, la Svizzera ha confermato che l’attuale linea internazionale che collega Italia e Francia attraverso la valle di Susa, la Torino-Modane, appena riammodernata con l’ampliamento del traforo del Fréjus, potrebbe da sola incrementare l’attuale traffico merci del 900%. Peccato che le merci non ci siano: il trasporto fra i due paesi è ormai crollato, complice la crisi e la saturazione storica dei mercati di consumo. Dal punto di vista strategico, invece, la Torino-Lione è un binario morto: l’asse delle merci predilige la direttrice nord-sud, Genova-Rotterdam.
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Barnard: Ttip, ricatto finale. Ora siamo davvero finiti
Se fino a ieri una multinazionale americana poteva chiedere a Washington di denunciare un singolo governo europeo per i “mancati profitti” provocati da una legge che tutela il lavoro, l’ambiente, la salute o la sicurezza alimentare, con l’entrata in vigore del Ttip siamo alla fase-2 della globalizzazione, quella terminale: saranno le mega-aziende a denunciare direttamente i nostri governi, e lo faranno presso tribunali speciali, off shore, gestiti da avvocati d’affari che ai governi potranno infliggere sanzioni così salate da scoraggiare in partenza qualsiasi forma di resistenza a tutela di cittadini, aziende e lavoratori. “Merito” dell’oligarchia che si è messa in moto, «la solita lobby d’élite finanziaria e grande industriale», cioè «i mastini del Vero Potere», quelli che «non si fermano mai». Proprio lei, la super-lobby, secondo Paolo Barnard «ha fatto quello che doveva fare: vincere». Si chiama S2B, acronimo dell’inglese “Seattle to Bruxelles Network”. «Ci trovate: J.P. Morgan, Chevron, Bnp Paribas, Microsoft, Uniliver, Philip Morris, Glaxo, Ford, Shell, Monsanto, Goldman Sachs… devo continuare?».Barnard, il primo in Italia a segnalare in televisione gli abusi della mondializzazione selvaggia con servizi come “I globalizzatori” trasmessi da “Report”, oggi parla di «un orribile risveglio, che suona così: noi non molliamo mai, noi siamo infermabili, non sentiamo fatica, coscienza, rimorso, pietà, e alla fine vinciamo sempre. Firmato: il Vero Potere». La «nuova offensiva» chiamata Transatlantic Trade and Investment Partnership o Trattato Transaltantico «è micidiale, potenzialmente devastante come mai prima per l’esistenza stessa di democrazia e interesse pubblico». Nel 1999, all’epoca delle primissime denunce sui pericoli della globalizzazione, «intesa proprio come sistema di accordi segreti e potentissimi creato da una élite di capitalisti per ricacciare indietro decenni di progressi democratici a favore del pubblico, nelle aree dei commerci, della finanza e dei servizi», il “mostro” si muoveva, mastodontico, nella stanze di Ginevra del Wto.In pratica, il Trattato di Marrakech del Wto «stabiliva regole di potere superiore alle leggi degli Stati aderenti che, ad esempio, avrebbero potuto limitare qualsiasi intervento della politica in campo economico e finanziario se esso avesse rappresentato una barriera al Libero Commercio, al Libero Profitto, ai diritti delle Corporations». Ad esempio: «Se una multinazionale americana riteneva che le leggi italiane le impedissero di vendere in Italia un suo prodotto contenente una plastica per noi tossica, poteva chiedere al governo Usa di denunciare Roma al tribunale del Wto, per ottenere l’abolizione della legge italiana», ritenuta “una barriera” al libero sviluppo del loro business. Stessa storia in caso di gare d’appalto per un servizio pubblico: «Qualsiasi mega-corporation mondiale dei servizi poteva reclamare lo stesso diritto a partecipare di un’azienda locale, quando magari il Comune avrebbe preferito dar lavoro e reddito a italiani locali».Col Trattato di Marrakech, sovranazionale e quindi sovrastante le leggi dei singoli Stati, «l’ignorante politica del mondo occidentale aveva firmato e ratificato regole micidiali tutte a favore delle mega-corporations e tutte a sfavore di qualsiasi intervento politico nazionale o anche locale per proteggere i lavoratori, le famiglie, le aziende nazionali, le cooperative, i Comuni», ricorda Barnard. «L’Italia ratificò Marrakech con un solo politico – uno solo! – che l’avesse letto, fra Camera e Senato». Segretamente, cioè «sotto il naso disattento di milioni di cittadini», questo sistema «ha fatto danni immensi alle economie nazionali ma soprattutto ai distretti piccolo-medi industriali italiani che ci fecero ricchi dopo la II guerra mondiale, con valanghe di fallimenti e licenziati a cascata», dice Barnard. «Danni anche ai diritti dei cittadini alla tutela della salute, per non parlare dell’orrore inflitto al Terzo Mondo». C’era però ancora una clausola: la multinazione di turno avrebbe dovuto chiedere al governo Usa di fare causa al governo italiano presso il tribunale del Wto, non poteva agire direttamente. Ora, l’ostacolo è stato superato. Le multinazionali avranno pieni poteri: il loro imperio sovrasterà la sovranità democratica degli Stati.Obiettivo dichiarato: “armonizzare” le regole del commercio e della finanza fra Usa e Ue, liberalizzando gli scambi ed eliminando le barriere all’interno dell’area di libero scambio Usa-Ue, dove avviene «almeno un terzo degli scambi globali». Dalle stime della stessa Commissione Europea, aggiunge Barnard, si deduce che alle promesse del Ttip non crede neppure Bruxelles: secondo il commissario europeo al commercio, Karel de Gught, l’impatto dell’accordo sul Pil europeo è di appena lo 0,01%. Già il “meno peggio” del Ttip, per Barnard, è «una tragica porcheria», in tre atti. Primo: «In Europa verranno imposte le miserrime regole di protezione dell’ambiente e dei consumatori degli Usa, e in America verrà imposta la miserrima regolamentazione della finanza che abbiamo noi europei. Quindi una gara al ribasso ovunque». Secondo: Il Ttip propone la totale liberalizzazione del settore dei servizi pubblici – sanità, asili e scuole, assistenza anziani, trasporti, acqua potabile. Terzo: fine di quel che resta dei diritti sindacali europei.Risultato: «I lavoratori italiani, che già oggi con la bastardata dell’euro devono vedersela con una deflazione dei redditi da incubo, domani saranno anche in gara a tagliarsi i diritti del lavoro per competere con i lavoratori Usa, dove licenziare è più facile che fare un peto. Tutto questo – sottolinea Barnard – per il solito infame motivo che dipendiamo tutti dagli “investitori” per avere economia, e gli “investitori” investono quasi sempre dove i diritti sono minori». Tutto questo ci prepara (si fa per dire) al “peggio” del Ttip, ovvero: le mega-aziende denunciano direttamente gli Stati, e lo fanno presso tribuinali speciali, fuori dalla giurisdizione nazionale. «Significa che abbiamo centinaia di multinazionali che possono aggredire con cause costosissime il nostro paese (gli studi legali per questo tipo di affari prendono parcelle da 3.000 euro al giorno per ciascun avvocato e sono in media una quindicina, per tempi biblici, e moltiplicateli per una pioggia di cause infinita) senza limiti di sorta, imponendoci spese di Stato rovinose, e di fronte alle quali un governo finisce quasi sempre per cedere e cambiare la legislazione d’interesse pubblico».Il ricatto è micidiale, insiste Barnard, perché «con il dogma economico neoclassico (vedi Eurozona) non è più lo Stato che può intervenire con la sua spesa a dar lavoro, reddito e protezione a cittadini e aziende: oggi quel “pane” a tutti ce lo danno i “mercati”, cioè quelle corporations di beni e finanza». Per cui, ecco la minaccia: «Se perdono le cause ritireranno gli investimenti (il pane) dalle nostre tavole nazionali e noi siamo fottuti». Per Barnard, «già a questo stadio un governo finisce per cedere, ma c’è di peggio». E cioè: nei futuri tribunali internazionali, per gli Stati europei sarà praticamente impossibile difendersi. «In tutti gli aspetti del vivere – governati, o anche solo lambiti dai commerci di beni e servizi – il Ttip può divenire letale per famiglie, cittadini, piccole medie aziende, democrazia e Stato stesso. Ancora un’altra mazzata catastrofica all’idea di Mondo Migliore che tanti di noi sognavano o sognano per i propri bambini. Noi che sappiamo queste cose, noi che capiamo cosa fa e come si comporta il Vero Potere, noi che Renzi, i tagli Irpef, le europee, Grillo, Confindustria e i sindacati sappiamo essere fuffa, zero, nulla in grado di proteggerci da nulla. Good luck».Se fino a ieri una multinazionale americana poteva chiedere a Washington di denunciare un singolo governo europeo per i “mancati profitti” provocati da una legge che tutela il lavoro, l’ambiente, la salute o la sicurezza alimentare, con l’entrata in vigore del Ttip siamo alla fase-2 della globalizzazione, quella terminale: saranno le mega-aziende a denunciare direttamente i nostri governi, e lo faranno presso tribunali speciali, off shore, gestiti da avvocati d’affari che ai governi potranno infliggere sanzioni così salate da scoraggiare in partenza qualsiasi forma di resistenza a tutela di cittadini, aziende e lavoratori. “Merito” dell’oligarchia che si è messa in moto, «la solita lobby d’élite finanziaria e grande industriale», cioè «i mastini del Vero Potere», quelli che «non si fermano mai». Proprio lei, la super-lobby, secondo Paolo Barnard «ha fatto quello che doveva fare: vincere». Si chiama S2B, acronimo dell’inglese “Seattle to Bruxelles Network”. «Ci trovate: J.P. Morgan, Chevron, Bnp Paribas, Microsoft, Uniliver, Philip Morris, Glaxo, Ford, Shell, Monsanto, Goldman Sachs… devo continuare?».
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Un lavoro dignitoso? Non l’avrai mai più, grazie al Pd
I giovani sono serviti: non avranno mai più un lavoro decente, sicuro, dignitoso. La soddisfazione con cui i partiti di centrodestra hanno salutato l’ultima versione del decreto su contratti a termine e apprendistato è «la miglior certificazione non solo degli ulteriori e quasi incredibili peggioramenti di una legge già pessima, ma della vera e propria bancarotta – non c’è altra parola – della rappresentanza parlamentare del Partito Democratico». Con la sola eccezione di Stefano Fassina, rileva Piergiovanni Alleva, i parlamentari del Pd «si sono lasciati soggiogare da alcuni notissimi nemici storici dei lavoratori e dei sindacati», a cominciare dall’ex ministro Maurizio Sacconi, accettando un testo normativo «che mai i governi Berlusconi sarebbero riusciti ad ottenere a scapito dei lavoratori, e di cui invece il “democratico” Renzi e il “comunista” Poletti vanno invece addirittura fieri». Sono loro, i portabandiera della sinistra ufficiale, a seppellire lo Statuto dei Lavoratori su cui si sono basati decenni di sviluppo sociale nell’Italia del benessere.Col decreto Poletti, osserva Alleva in un articolo sul “Manifesto” ripreso da “Micromega”, i contratti a termine diventano “acausali”: possono essere conclusi senza una motivazione specifica. Unico obiettivo: «Tenere il lavoratore sotto il perpetuo ricatto del mancato rinnovo», senza più neppure sperare in una conferma a tempo indeterminato dopo 36 mesi, perché per questo occorrerebbe un ulteriore contratto: perché mai concederlo, visto che sarebbe più conveniente assumere un nuovo precario? Certo, ricorrere al turn-over dei precari non favorisce certo la competitività dell’azienda sul piano della qualità: ma è appunto questa, come denunciano molti osservatori, la tendenza a cui l’impresa italiana si è andata rassegnando. Meglio produzioni di bassa qualità, ovviamente a basso costo, per tentare di competere sul mercato mondiale globalizzato. Problemi che non esisterebbero se invece si puntasse sul mercato interno dei consumi, sulle filiere corte.Alleva si sofferma sull’ipocrisia del Pd, che ha «trangugiato con la massima indifferenza la “acausalità” e fissato, in cambio, un falso obiettivo, onde poter poi vantare falsi successi». Il falso obiettivo: «Ridurre le possibili proroghe di un contratto “acausale” da 8 a 5», il che però «non sposta di un millimetro il problema del potere ricattatorio consegnato al datore». Anche perché, come subito notato dai giuristi, «una cosa è la proroga di un contratto, altra cosa è il suo rinnovo, ossia la stipula di un altro successivo contratto del tutto analogo». In altre parole, «dopo avere prorogato per cinque volte un contratto acausale a termine, niente impedisce di stipulare un altro contratto simile con le sue cinque proroghe, e così via». Eppure, insiste Alleva, «i parlamentari Pd hanno avuto il coraggio di vantare questo inganno, o autoinganno, come un successo politico».Altro fronte di degradazione definitiva del mercato del lavoro, l’argine del “contingentamento” dei precari, in percentuale ai lavoratori a tempo indeterminato: una misura di salvaguardia, introdotta nel 1987. Nella sua versione originaria, prosegue Alleva, lo stesso decreto Poletti prevedeva una percentuale massima del 20% di contratti a termine per azienda, ma ora il limite è stato aggirato. Restava un ultimo punto: l’obbligo di trasformare in lavoratori stabili i dipendenti a termine, una volta superata la soglia del 20%. «Ebbene, anche su questo i parlamentari del Pd sono stati pronti al grosso passo indietro, a genuflettersi ai Poletti, ai Sacconi, agli Ichino ed ad accettare che il testo normativo preveda, invece della trasformazione, una semplice sanzione amministrativa per lo “sforamento”». Per Alleva, è come se si concedesse a chi dà lavoro in nero di non essere più obbligato a mettere in regola il lavoratore. «Si tratta di un assurdo giuridico, oltre che di una vergogna politica, che l’ineffabile capo dei deputati Pd ed ex ministro del lavoro Cesare Damiano ha avuto il coraggio di definire come “differenza minimale” rispetto al testo originario».Conclude Alleva: «Alla prova dei fatti, tra le forze politiche rappresentate in Parlamento solo i deputati di Sel e del “Movimento 5 Stelle” hanno tenuto un comportamento coerente, limpido e di appassionata difesa della dignità dei lavoratori». Ora, dopo lo scontato voto di fiducia «che consentirà di consumare definitivamente questo vero crimine sociale», la parola dovrà passare «a quanti, nei movimenti e nella società civile, hanno davvero a cuore i diritti dei lavoratori, cercando di rivendicarli anche nelle aule di giustizia italiane ed europee». Sempre che parola “giustizia”, naturalmente, ridiventi coniugabile – in un futuro indefinito – con la parola “Europa”, cioè con la tecnocrazia neoliberista del Fiscal Compact del Trattato Transatlantico che mira esattamente a ridurre a zero le protezioni dello Stato verso i lavoratori, con l’unico obiettivo di far aumentare in modo esplosivo i profitti dei vertici industriali e finanziari, a scapito di lavoratori trasformati in schiavi sottopagati e precari. Operazione a cui, in questi anni – a tappe forzate (trattati europei) – proprio il centrosinistra ha dato un contributo determinante. Buon ultimo Matteo Renzi: sta servendo ai poteri forti, su un piatto d’argento, le atroci “riforme strutturali” invocate da Mario Monti e Elsa Fornero.I giovani sono serviti: non avranno mai più un lavoro decente, sicuro, dignitoso. La soddisfazione con cui i partiti di centrodestra hanno salutato l’ultima versione del decreto su contratti a termine e apprendistato è «la miglior certificazione non solo degli ulteriori e quasi incredibili peggioramenti di una legge già pessima, ma della vera e propria bancarotta – non c’è altra parola – della rappresentanza parlamentare del Partito Democratico». Con la sola eccezione di Stefano Fassina, rileva Piergiovanni Alleva, i parlamentari del Pd «si sono lasciati soggiogare da alcuni notissimi nemici storici dei lavoratori e dei sindacati», a cominciare dall’ex ministro Maurizio Sacconi, accettando un testo normativo «che mai i governi Berlusconi sarebbero riusciti ad ottenere a scapito dei lavoratori, e di cui invece il “democratico” Renzi e il “comunista” Poletti vanno invece addirittura fieri». Sono loro, i portabandiera della sinistra ufficiale, a seppellire lo Statuto dei Lavoratori su cui si sono basati decenni di sviluppo sociale nell’Italia del benessere.
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Barnard: neo-feudalesimo, chi e perché ci ha rovinato
Il complotto. Una parola trasformatasi in un’arma micidiale ai danni di chi studia, denuncia e lotta contro il Vero Potere. E’ usata da giornalisti, soprattutto, quelli che dalle pagine dei grandi quotidiani e dagli schermi Tv ammiccano sorrisetti spregiativi quando quelli come me parlano di Unione Europea criminale, di progetto Neoclassico e infine di Neofeudalesimo. Ci tacciano di essere dei fantasisti o pazzoidi che parlano di complotti, sciocchezze… suvvia, siamo seri. Io (e pochissimi altri) denuncio cose che volano in effetti chilometri sopra la comprensione comune della gente. Esse sono così distanti dal ‘ragionevole’, dal ‘plausibile’, che è gioco facile, per coloro che sanno invece benissimo che quello che io denuncio è vero, squalificarmi come complottista. E allora l’Olocausto?Il massimo storico dell’Olocausto mai esistito si chiamava Prof. Raul Hilberg. Il suo monumentale volume “La Distruzione degli Ebrei d’Europa” racconta fra la tante cose un fatto proprio ‘irragionevole’ e ‘non-plausibile’, una cosa che si direbbe pazzesca. Ed è che, nella civilissima Germania degli anni ’40 del XX secolo, la macchina mostruosa dell’Olocausto si compose precisamente di due componenti: a) di un’ideologia divenuta fede – cioè che l’ebreo andava eliminato per la salvezza del continente Europa; b) e di una, si faccia attenzione!, macchina burocratica di sterminio AUTOPROPAGATASI autopropagatosi, cioè non comandata dall’alto né pianificata dai vertici nazisti. Ovvero di un moto perpetuo e autonomo che creava pezzi della macchina di sterminio man mano che questo moto passava da una testa all’altra, da una burocrazia all’altra, da una regione all’altra, da un’autorità locale all’altra, in Germania come in Polonia.Nessun decreto di Hitler con le parole “gassateli”, nessun comando berlinese di ingegneri pianificatori dei campi di concentramento, nessuna riunione del Terzo Reich dove ogni sei mesi si faceva il punto dello sterminio. Ma, ripeto, un moto AUTOPROPAGATOSI autopropagatosi da un’ideologia/fede e che ha finito col ricomporsi SPONTANEAMENTE spontaneamente in un Olocausto gestito da migliaia di pezzetti burocratici autonomi senza alcuna gestione centrale. Non so se vi è chiaro, ma tutto questo ha dell’incredibile, eppure fu così, lo decreta il massimo storico del Nazismo mai esistito. Ora… immaginate se un’autorità della statura immensa come quella del Prof. Raul Hilberg avesse scritto di tutto ciò, previsto tutto ciò, negli anni dell’ascesa al potere di Hitler. Ma è straovvio: lo avrebbero squalificato come un mentecatto delirante e un complottista, probabilmente anche dagli stessi ebrei tedeschi. Facile, come bere un bicchier d’acqua.E qui arrivo al nostro NEOFEUDALESIMO Neofeudalesimo. Il mio lavoro di oggi, dopo il saggio “Il Più Grande Crimine 2011”, sta svelando una pianificazione di quasi un secolo da parte delle élite Tradizionaliste Neofeudali europee, cioè il Vero Potere, per riprendersi il dominio perduto dall’Illuminismo in poi; per, soprattutto, re-imporre alle “masse ignoranti” d’Europa un GIUSTO ORDINE giusto ordine che ne avrebbe evitato, a loro parere, la degenerazione in un modello di ‘depravata democrazia all’americana’. Il GIUSTO ORDINE giusto ordine significava e significa oggi per loro l’assoluto controllo di una élite non-eletta su centinaia di milioni di cittadini europei sempre più impoveriti, e quindi resi servi impotenti. E lo strumento che queste élite Neofeudali hanno usato per portare al successo quella pianificazione è l’UNIONE MONETARIA EUROPEA Unione Monetaria Europea, oggi chiamata Eurozona, che infatti sta ottenendo la devastazione della democrazia e degli standard di vita in tutta Europa, con crolli di quegli standard e dell’economia della piccola-media borghesia di proporzioni indicibili. Ebbene, ricordate Hilberg: facile per i tromboni servi del Vero Potere ridicolizzare me e le mie autorevoli fonti accademiche come complottisti. Ma non lo siamo. Noi vi stiamo raccontando il prossimo Olocausto, dove nei campi di sterminio è già oggi finita la DEMOCRAZIA democrazia.Elite Tradizionaliste Neofeudali: da dove nascono? E cosa hanno fatto?Per semplificare un racconto immenso, parto dal New Deal di Franklyn D. Roosevelt. Quando la notizia di quella rivoluzione sociale ed economica americana giunse in Europa, essa fu accolta dai discendenti delle famiglie dominanti e dai maggiori capitani d’industria, i Tradizionalisti Neofeudali, con orrore. Niente meno che orrore. Ma che stava facendo quel pazzo degenerato di Roosevelt?, pensarono. Dio! Stava usando i soldi dello Stato per creare dei “falsi diritti” per le “masse ignoranti”, per i disoccupati, e gli stava migliorando lo standard di vita! Questo era anatema per Tradizionalisti Neofeudali, per due motivi: lo Stato Usa, poiché possessore di una moneta sovrana, aveva in mano uno strumento di potere di fuoco infinito per far avanzare proprio le spregevoli “masse ignoranti”, e questo poteva contagiare anche gli Stati d’Europa. Andava evitato a tutti i costi; e una volta che le “masse ignoranti” avessero ottenuto abbastanza diritti e benessere, sarebbero divenute troppo potenti e avrebbero definitivamente distrutto i VALORI DEL GIUSTO ORDINE SOCIALE valori del giusto ordine sociale perduto dopo il crollo dei feudalesimi a favore della democrazia.Questi valori sono: a) sottomissione delle “masse ignoranti” alla superiore saggezza delle élite non-elette, che le governa attraverso istituzioni SOVRANAZIONALI sovranazionali rette da tecnocrati fedeli ai Tradizionalisti Neofeudali (vi dice già qualcosa….?); b) una vita di permanente povertà o scarsità delle “masse ignoranti” per non alzare troppo la testa sopra il regno della Chiesa vaticana, fedele alleata della restaurazione del GIUSTO ORDINE giusto ordine; c) da quella scarsità doveva venire paura e insicurezza continua delle “masse ignoranti” per cementare tutto ciò. Un esempio concreto: essi pensarono che con “masse ignoranti” rese benestanti ‘all’americana’ non sarebbe più stato possibile spedire milioni di poveracci a crepare come maiali al macello nelle trincee di una guerra Neofeudale (I Guerra Mondiale), o in avventure coloniali dello stesso stampo; non sarebbe più stato possibile estrarre manodopera della gleba per i loro conglomerati industriali.Ora ecco chi erano i Tradizionalisti Neofeudali. Il primo gruppo si riunì fra le due Grandi Guerre attorno al Comité des Forges in Francia, finanziato dalla famiglia Wendel e dai tedeschi Krupp, con interventi finanziari di non poco conto della Banca di Francia. Erano politici, principalmente, ma raccoglievano le idee di pensatori noti, da Junger a Keyserling, Heidegger, Jouvenel, Perroux, Mounier, Céline, naturalmente selezionandone le analisi più convenienti per il loro sogno di restaurazione del GIUSTO ORDINE giusto ordine, e scartandone molte altre (ad eccezione di Perroux che fu preso e copia-incollato da cima a fondo). Gli economisti di riferimento erano i Neoclassici più noti allora: Walras, Jevons, Menger. Questo primo drappello fu immediatamente ingrossato nelle sue fila dai maggiori industriali nordeuropei (franco-tedeschi soprattutto, il cosiddetto cartello dell’acciaio-carbone), dalle famiglie nobili, prima fra tutte la famiglia tedesca dei Thurn Und Taxis e i belgi Davignon e Boel, i Reali allora esistenti in Europa (esclusa la Gran Bretagna) e la miriade di discendenti della casa Hohenstaufen (non posso qui elencare tutti questi ‘rentiers’ europei, ma sono migliaia di famiglie).Se ne deduce che era principalmente un ‘asse’ franco-tedesco, ed aveva un progetto ben preciso: sottomettere a quasi servitù intere nazioni europee a cominciare da Italia, Portogallo, Spagna, il Benelux e anche gli scandinavi. L’Europa dell’est neppure era presa in considerazione, la consideravano territorio coloniale come l’Africa. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, i Tradizionalisti Neofeudali avevano due visioni nette: la prima era che la ‘democrazia dei consumi’ d’oltreoceano avrebbe finito per corrompere quella società con i valori ‘depravati’ del benessere minimo della gente, fino alla sua distruzione. Infatti il capitalismo americano, per quanto infestato di imperfezioni, doveva (e deve) mantenere in vita un minimo di spesa pubblica per evitare il collasso totale dei consumi, che è contrario agli interessi delle corporations, e quindi doveva (e deve) mantenere le strutture democratiche di: governo sovrano, Parlamento che decide la spesa (Congresso) e Banca Centrale che la finanza (Fed). Tutti elementi, questi, che per i Tradizionalisti Neofeudali erano bestemmie politiche allo stato puro che avrebbero affondato gli Usa celebrando la vittoria della loro Europa neofeudale.La seconda visione era che appunto l’Europa non avrebbe mai dovuto diventare un modello americano di Stati Uniti d’Europa con un governo centrale democraticamente eletto, un Tesoro comune e Banca Centrale a garanzia dei debiti pubblici (vi dice già qualcosa…..?). Il fatto è che in America nessun singolo Potere era, ed è mai riuscito badate bene, come invece in Europa oggi proprio al culmine del sogno Neofeudale, a impossessarsi di tutti e tre i poteri fondamentali delle élite: il potere economico, quello politico e quello di manipolazione delle masse. I Tradizionalisti Neofeudali invece lavorarono proprio per impossessarsi di tutti e tre questi poteri, con un successo tragico oggi chiamato Unione Europea / Eurozona.Ora torniamo al loro valore numero uno, sopradescritto come: a) sottomissione delle “masse ignoranti” alla superiore saggezza delle élite non-elette, che le governa attraverso istituzioni SOVRANAZIONALI sovranazionali rette da tecnocrati fedeli ai Tradizionalisti Neofeudali. La domanda che si posero fu come ottenere una struttura simile. La risposta che gli arrivò fu lampante: creare una UNIONE MONETARIA Unione Monetaria che, privando gli Stati della loro moneta, li distruggeva di fatto totalmente e li assoggettava ai gestori esterni, sovranazionali, di quella UNIONE Unione. Uno Stato senza portafoglio è un eunuco, anche meno di questo, è come un padre di famiglia senza reddito, il cui Parlamento diventa una facciata di cartapesta: democrazia MORTA morta. Di conseguenza le “masse ignoranti” sarebbero andate allo sbando e crollate nella deflazione permanente del loro standard di vita (vi dice già qualcosa….?), esattamente lo scopo dei Tradizionalisti Neofeudali.La sopraccitata risposta gli fu servita da quattro uomini: Robert Schuman, lobbista dell’industria pesante francese di acciaio e carbone, e un prediletto del Vaticano, uomo di collegamento coi trust dell’acciao-carbone tedeschi; Jean Monnet, banchiere, esperto di finanza, e uomo strategico perché in buoni rapporti con gli Usa; Walter Funk, presidente della Reichsbank (1943); e Francois Perroux, economista, il vero cervello dietro la moneta unica e il modello di Banca Centrale Europea che poi sarebbe venuto, un filonazista puro (almeno fino a che non giudicò Hitler troppo ‘soffice’), con cui lavorava un altro economista di pura tradizione neofeudale, Jaques Rueff.I Neofeudali di Francia e Germania, a quel tempo – e qui stiamo già parlando dei primi anni dopo il 1945 – capirono però che non potevano portare avanti un progetto di rottura così violento coi valori americani, perché l’Europa ridotta a macerie era appesa alla tetta di Washington disperatamente. Qui fu la furbizia di Monnet a fare il trucco. Monnet semplicemente descrisse il micidiale progetto neofeudale della UNIONE MONETARIA Unione Monetaria ai presidenti Usa Truman e Eisenhower come un’unione europea di nazioni retta da un governo di saggi in funzione anti-sovietica! Un muro contro il ‘pericolo rosso’. Non solo, Monnet disse agli americani che la Banca di Francia avrebbe continuato a finanziare la Germania dell’ovest, visto che i Wendel erano di fatto i padroni della banca. Washington ci cascò, e rimase totalmente inconsapevole della vera natura del progetto descritta sopra, e del suo odio feroce per qualsiasi modello americano.Prima di proseguire, va spiegata una cosa di una importanza cruciale, ma veramente assoluta. Quando parliamo di uomini del Vero Potere, tendiamo automaticamente a pensare a questi vampiri che siedono su castelli stracolmi di oro, ricchezze, fortune immani, e che fanno ciò che fanno a milioni di innocenti per pura arrogante avidità. No. Fermi. Personaggi di questa matrice esistono certamente, ma sono più gli americani a essere di quella pasta, come alcuni europei certo, ma NON non i Tradizionalisti Neofeudali. No, no e no. Essi, dovete capirlo, lavorarono, e oggi lavorano, solo per due motivi: a) Un senso di investitura divina al DIRITTO diritto di governare le “masse ignoranti”, esattamente come i loro antenati in epoca feudale. Ma soprattutto… b) Un senso del DOVERE dovere, cioè di dover fare quello che fanno, se no, essi sono convinti, il mondo del GIUSTO ORDINE SOCIALE giusto ordine sociale verrà travolto dalla depravazione di quel mostro purulento chiamato democrazia, che per loro è la fonte della fine di ogni valore, di ogni buon senso, la fonte della fine di tutto. Loro DEVONO devono salvarsi e salvarci, a costo di ammassare montagne di cadaveri.Ricordate bene: un uomo come l’attuale presidente del Consiglio Europeo, il super-Neofeudale Herman Von Rompuy, o un uomo come Mario Monti, ne sono convinti fin nel midollo. Così Juncker, Draghi, Issing, Barnier, Rehn, così erano Padoa Schioppa e soci. Ecco perché non mostrano un milligrammo di pietà umana per le sofferenze di milioni di europei oggi (vedi Grecia). Pensano che essa è la giusta via del SACRIFICIO sacrificio per impedire a tutto il continente di sprofondare nella sparizione finale dei loro ‘GIUSTI VALORI’ ‘giusti valori’. Lo Stato non dovrà MAI PIU’ mai più garantire alle masse i “falsi diritti” del welfare, della democrazia, del benessere in crescita (non vi dice già qualcosa….?).In questo i Tradizionalisti Neofeudali odierni derivano la loro ideologia non solo dai personaggi sopraccitati, ma anche da Heidegger, Hitler, Goebbels, Funk e Schacht, tutti autori di scritti e noti discorsi contro la ‘perversione’ del New Deal di Roosevelt, cioè del modello di Stato interventista nel sociale, e a favore invece della supremazia delle elite su Stati imbelli. Ma la derivano soprattutto (Monti fra i primi) da colui che si contende il titolo di ‘Il più sociopatico economista mai vissuto’ con Robert Malthus, cioè Friedrich Von Hayek, della cosiddetta scuola austriaca, un vero razzista di proporzioni epiche, l’uomo che scrisse di poter tollerare un minimo di Stato Sociale ma solo «per impedire ai poveri di esasperarsi al punto da divenire un pericolo fisico per le classi dominanti» (sic). E’ l’uomo che dopo il francese Perroux si batté per impedire l’accesso delle “masse ignoranti” all’istruzione pubblica, considerata pericolosa perché avrebbe fatto comprendere alle masse l’economia.Il salto del Neofeudalesimo dei Tradizionalisti al Vero Potere Neofeudale del giorno d’oggi.Non vi faccio perdere tempo. La nascita dell’Unione Europea è roba stranota come tappe formali: Piano Schuman 1949, la Ceca nel 1951, il Trattato di Roma 1957, nel 1967 la Comunità Europea (Ce), nel 1979 eleggemmo il primo Parlamento Europeo, poi arriva il 1993 quando nasce l’Unione Europea col Trattato di Maastricht, che sancì una serie di riforme eclatanti, fra cui dal 1° gennaio 2002 quella dell’euro come moneta unica per i suoi membri. La nostra Banca Centrale Europea di oggi è stata modellata precisamente sulle indicazioni del tradizionalista neofeudale François Perroux, che già allora scrisse quelli che oggi sono i comandamenti della Bce: impedire agli Stati di spendere a deficit per il terrore dell’inflazione; le crisi si curano con Austerità feroci, cioè tagli sociali e super-tasse; il Mercato Unico deve esser il Signore assoluto senza nessuna interferenza degli Stati; la flessibilità del lavoro è un comandamento imprescindibile. Questo scrisse il neofeudale Perroux nel 1943 (!), e questo è oggi!E sempre stando col francese, ma anche con l’ultra-neofeudale austriaco sopraccitato, Hayek, si viene a sapere che l’idea di sottomettere le banche al potere delle élite neofeudali – oggi in pieno svolgimento con l’Unione Bancaria Ue (………………………..) – fu loro già 60 anni fa. Oggi, le idee tradizionaliste/neofeudali degli anni ’30 di UNIONE MONETARIA Unione Monetariia, Banca Centrale e distruzione della spesa pubblica degli Stati, hanno preso la forma della perversa struttura dell’Eurozona, con l’UNIONE MONETARIA Unione Monetaria, la Bce e le AUSTERITA’ austerità. Queste perfette riproduzioni del vecchio progetto tradizionalista neofeudale hanno di fatto spogliato totalmente gli Stati ex sovrani di ogni reale potere consegnandolo a élite non-elette (Commissione Ue), e ne hanno esautorato i Parlamenti con i Trattati Ue sovranazionali che sono superiori in autorità alle nostre leggi, cioè il sogno neofeudale come detto più sopra.Ora notate però una cosa: il progetto tradizionalista neofeudale ha tolto tutto allo Stato nazionale meno una cosa: il potere di polizia fiscale, proprio per imporre a milioni di esasperati cittadini gli orrori del ‘giusto sacrificio’ del GIUSTO ORDINE giusto ordine neofeudale, che io ho battezzato coi nomi di Economicidio e Chemiotassazione. Bene, anche questa idea risale al club di Perroux, Funk, Rueff e soci, altra mostruosità neofeudale presente sulla soglia di casa di milioni di noi oggi. Ma chi sono oggi i portatori dell’oscena torcia Neofeudale nella Ue? Cioè: CHI SONO GLI UOMINI CHE HANNO RACCOLTO L’EREDITA’ DEL PIANO TRADIZIONALISTA NEOFEUDALE DEGLI ANNI ’30, E CHE LA STANNO PORTANDO ALLA VITTORIA CON LA DEVASTAZIONE DI TUTTE LE NOSTRE EX DEMOCRAZIE, CON DISOCCUPAZIONE RECORD, PAURA SOCIALE, E DEFLAZIONE ECONOMICA PERMANENTE AI MASSIMI LIVELLI DA 70 ANNI CREATE A TAVOLINO DALL’EUROZONA E DAI SUOI TRATTATI?Chi sono gli uomini che hanno raccolto l’eredità del piano tradizionalista neofeudale degli anni ‘30, e che la stanno portando alla vittoria con la devastazione di tutte nostre ex democrazie, con disoccupazione record, paura sociale e deflazione economica permanente ai massimi livelli da 70 anni, create a tavolino dall’Eurozona e dai suoi trattati?Ne ho già nominati alcuni, cioè Herman Von Rompuy, Mario Monti, Juncker, Draghi, Issing, Barnier, Rehn, Barroso, così era Padoa Schioppa. Aggiungo alcuni altri colossi neofeudali: Jaques Attali, Jaques Santer, lo fu François Mitterrand, Jean-Claude Trichet, poi Giuliano Amato, Romano Prodi, Theo Weigel, col codazzo di centinaia di vassalli tecnocrati come gli italiani Marco Buti e Massimo Tononi. Vi si aggiunge la corte di latifondisti, nobili e massoni ammorbati di Opus Dei che si riuniscono attorno a Etienne Davignon e al famigerato club Bilderberg, sempre potentissimi. Poi il micidiale Jaques Delors, l’uomo di devota ‘scuola Perroux’ che ha tenuto le massime redini d’Europa (presidente della Commissione Europea, il vero potere Ue) per tutti i 10 anni cruciali del passaggio dalle democrazie degli anni ’70 agli Stati fantoccio del dopo-Maastricht, Eurozona. Poi non si dimentichino le correnti tedesche di economia della Scuola di Berlino e di Bremen, con il cosiddetto ‘Ordo-Liberismo’ di Walter Eucken che ha spacciato a generazioni di gonzi tedeschi il Neofeudalesimo come corrente sociale!Ma qui c’è un altro passaggio da capire, che è cruciale. L’avanzata del NEOFEUDALESIMO Neofeudalesimo, cioè della VERA ANIMA vera anima di tutto quello che a voi raccontano come Eurozona e Unione Europea e che ci sta distruggendo come democrazie, si è servita di una specie di ‘ascensore’ per arrivare invisibile nella stanze del potere. Hanno usato l’economia cosiddetta Neoclassica e quella Neoliberista. Come detto, i Neofeudali hanno usato un’arma principale per ottenere l’abbattimento del potere degli Stati di spendere per la crescita del popolo e della democrazia: l’UNIONE MONETARIA Unione Monetaria che, ripeto, significa 1) bloccare la spesa pubblica 2) creare il terrore dei deficit 3) imprigionare i governi entro spese pubbliche microscopiche 4) quindi paralizzare il flusso di denaro nelle società, portando deflazione economica, fallimenti a catena, disoccupazione alle stelle, paura e insicurezza di tutti 5) e consegnare noi cittadini/aziende nelle mani dei produttori ‘privati’ di denaro, cioè le banche, visto che il produttore di denaro pubblico, lo Stato, è stato castrato.Bene, queste folli regole erano per coincidenza anche il vangelo degli economisti prezzolati dal Vero Potere che si organizzarono per distruggere, per letteralmente polverizzare, tutta l’Economia Sociale nata dal pensiero di Marx, di Keynes, della Robinson, di Kalecki, di Godley, quella cioè che predicava l’esatto opposto: uno Stato DEVE SPENDERE PIU’ DI QUELLO CHE TASSA PER FAR CRESCERE IL 99%, A SCAPITO DELL’1%. Deve spendere più di quello che tassa per far crescere il 99% a scapito dell’1%. Questi economisti prezzolati dal Vero Potere erano e sono appunto i Neoclassici e i Neoliberisti, quelli che (parlando dell’Italia) oggi campeggiano alla Bocconi e sul “Corriere della Sera”, cioè i Giavazzi, gli Alesina, i Boeri, i Mingardi, Stagnaro, Boldrin, ecc. Ma soprattutto i loro ‘superiori’ internazionali come Von Mises, Friedman, Brunner, Tsiang, Meltzer, Lucas, Reinhart e Rogoff, Mankiw.La cosa pietosa di ’sto drappello di venduti con crimini sociali sulla coscienza è che non si sono mai resi conto di essere stati usati come ‘ascensori’ da un potere ben più devastante, quello Neofeudale, che li disprezza persino, considerandoli troppo morbidi nell’opera di annientamento delle “masse ignoranti”, così come Perroux considerava Hitler troppo morbido. Ma i Neofeudali li hanno e li stanno ancora usando. Il problema è che tantissimi antagonisti del Vero Potere credono in buona fede che il nemico da combattere in Ue siano ’ste ‘puttane’ dell’economia Neoclassica e Neoliberista, mentre no! NO!, No!, il nemico ha un altro nome: NEOFEUDALESIMO Neofeudalesimo. Ma naturalmente…. Barnard è un complottista… eh? Cari miei economisti ‘di sinistra’ eteroignari alla Brancaccio, Zezza o Bellofiore? Non avete ancora capito NIENTE niente del Vero gioco, sciocchi.Il grande paradosso capitalistico.Una domanda, sono certo, vi ha già percorso la mente da un bel po’. Questa: ma le classi capitaliste europee non la vedono la contraddizione fra la dottrina ormai dilagante del Neofeudalesimo e i loro interessi? Non lo vedono che distruggere la ricchezza immessa dallo Stato in cittadini/aziende (la spesa pubblica), creare così deflazione permanente e ridurre alla semi-povertà milioni di europei li danneggia nei commerci di beni e servizi e quindi nei profitti? La risposta a questa domanda è sempre – come tutto è quando si parla di Vero Potere, e così come nell’esempio iniziale dell’Olocausto – scioccante e incredibile. La semplifico. Uno dei colossi dell’economia sociale, quella dell’INTERESSE PUBBLICO Interesse Pubblico, e naturalmente sepolto e dimenticato, era Michal Kalecki, polacco. Già lui negli anni ’40 del XX secolo ci avvisava della miopia, MIOPIA, miopia, permanente e irrimediabile della classe capitalista imprenditrice. Disse Kalecki che, contrariamente a tutte le evidenze della scienza economica, gli imprenditori nascono, crescono e muoiono con stampato nel loro cervello il Dogma secondo cui un’azienda profitta se paga i lavoratori il meno possibile. E questo, già ai tempi del geniale polacco, valeva per il gigante Krupp come per il salumaio di quartiere.Oggi questa demenziale distorsione mentale esiste identica in tutta la classe imprenditrice europea, dalla Fiat o Siemens, alle piccole medie imprese, al bar. Non è valso nulla che un altro genio dell’economia sociale come John Maynard Keynes abbia dimostrato all’infinito che il “Paradosso del Risparmio” è una rovina di tutto il ciclo economico mondiale: se si pagano poco i lavoratori, se si risparmia e non si spende, crolla il flusso di liquidità che è proprio quello che fa crescere aziende ed economia, che permette gli investimenti e infine i profitti stessi. E’ lampante no? Ma no. Non è valso a nulla che Marx nell’800 o che Godley pochi decenni fa abbiano spiegato ai capitalisti i precisi meccanismi della creazione del profitto, che richiede SEMPRE sempre l’esistenza di categorie di salariati capaci di spendere bene a favore di altre categorie (e se possibile senza ricorrere al debito con le banche) con, come fornitore di liquidità di ultima istanza, lo Stato. No. Niente. I capitalisti non lo capivano, e non lo capiscono ancora oggi.Gli imprenditori colossi, ma anche quelli medi e piccoli, non la vogliono capire. E allora ecco che si spiega perché il fanatismo dei Neoclassici di ridurre tutti i salari a livelli di semi-povertà gli va a genio perfettamente. E’ il trionfo del loro istinto idiota di dominare i dipendenti credendo di trarne profitto. E’ il trionfo della cocciuta stupidità dell’imprenditore che NON CAPISCE MAI, non capisce mai, MAI NULLA DEI FONDAMENTALI DELLA MACROECONOMIA KEYNESIANA, mai nulla dei fondamentali della macroeconomia keynesiana, che invece farebbe la fortuna sua e dei suoi dipendenti allo stesso tempo. Pensate, in questo contesto, al fenomeno delle mega-fusioni e acquisizioni industriali e bancarie. Spiego: da diversi anni assistiamo a una corsa maniacale di corporations e banche ad acquistare rivali, o aziende minori, per creare questi colossi sempre più immensi. Cito solo la tedesca Audi o la Deutsche Bank, perché la Germania è oggi lo Stato che più al mondo corre per gonfiare in modo mostruoso le dimensioni delle proprie maggiori aziende; ma anche la nostra Unicredit, Eni o Enel tentano espansioni simili, e altri esempi sono infiniti. Il punto che hanno in comune tutti questi operatori del mega-capitale è sempre il medesimo: tagliare i costi e i salari.Cosa stanno facendo questi sciagurati? Semplice: obbediscono all’ordine Neofeudale secondo cui, appunto, l’immane concentrazione del potere dei Signori deve ritornare agli splendori dei secoli IX o XII, con servitù della gleba come manodopera sia di colletti bianchi che blu. E di nuovo non comprendono che questo deprimerà proprio l’economia su cui vivono. No! Comandare è più importante per loro, del resto sono ciechi. E poi si faccia attenzione: i Neofeudali sanno benissimo che una volta che una Corporation o una banca divengono ipertroficamente colossali, è impossibile per qualsiasi Stato lasciarle fallire quando l’economia che esse stesse hanno depresso, come detto sopra, collassa, perché finirebbero per trascinarsi dietro mezzo mondo. E allora gli Stati devono usare il denaro pubblico per salvarle, chinando la testa come sguatteri. E perché la chinano? PERCHE’ NON POSSONO PIU’ USARE LA LEGGE DEI PARLAMENTI PER COMANDARE NELL’INTERESSE PUBBLICO, VISTO CHE I NEOFEUDALI SONO OGGI I SOLI POSSESSORI DELLA LEGGE SOVANAZIONALE. Perché non possono più usare la legge dei Parlamenti per comandare nell’Interesse Pubblico, visto che i Neofeudali sono oggi i soli possessori della legge sovranazionale. Attenti a questo passaggio, lo ripeto. Solo i Tecnocrati Neofeudali possono oggi controllare questi colossi industriali e bancari, visto che sono loro, i Neofeudali della Commissione Europea, della Bce o del Consiglio Ue che gestiscono l’arma finale di tutte le armi: LA LEGGE la legge, oggi da loro esclusivamente creata in Ue.La disperazione di un pubblico che non capisce. Cosa va fatto.Una precisazione importantissima per i lettori, che, mi perdonino, non riescono mai bene a capire le ombre del Vero Potere e virano sempre verso un quadro di buoni contro cattivi, chi vince chi perde. No, le cose nel mondo del Vero Potere, specialmente nella sua versione Neofeudale, non stanno così. La guerra è in corso, non è vinta; i Neofeudali hanno indiscutibilmente ottenuto vittorie agghiaccianti, le ho già descritte alla noia, ma ribadisco: basti pensare al fatto che Camera e Senato oggi sono stati resi teatrino di campagna assieme alla nostra Costituzione; basti pensare che l’Italia non ha mai visto un crollo dei consumi come quello odierno dalla fine della II Guerra Mondiale (Istat), con i giovani disoccupati italiani in numeri di livello africano. Io qui vi ho raccontato dell’esistenza di questo mostro e di ciò a cui mira in futuro. Ma ci sono forze antagoniste alla restaurazione finale del NEOFEUDALESIMO Neofeudalesimo in Europa: non sono certo gli attivisti, che non ci capiscono nulla e si rifiutano di capire; non sono certo (perdonate, conato…) i sindacati. Sono alcune forze di capitalismo europeo filo-Usa; è una parte del mondo finanziario, quella più vicina al sistema bancario ‘retail’, cioè piccole-medie banche; ma soprattutto sono le colossali incognite del capitalismo russo e cinese, dell’asse che stanno creando con l’idea di uno Yuan moneta di riserva internazionale sostenuta dal gas/petrolio russo, cioè una rivoluzione economica sempre modellata sugli Stati Uniti che potrebbe spazzare via da sola tutto il progetto neofeudale in pochi anni.Ma per ora i Neofeudali sono qui, a Bruxelles e a Francoforte, e sono micidiali, hanno in mano tutto il potere, TUTTO tutto. E qui arriva la mia disperazione: un pubblico che non capisce. Lo avete capito che tutto ciò che hanno creato i NEOFEUDALI Neofeudali in oltre 70 anni è all’origine della più devastante crisi delle democrazie, dell’economia, dei posti di lavoro, del futuro dei giovani, della tutela sociale dalla fine della II Guerra Mondiale? Lo capite che l’urlo dell’operaio del Veneto, che la depressione della famiglia laziale una volta benestante e oggi in crisi, che il collasso dei diritti alla vita dignitosa alla salute alla prosperità di milioni di noi provengono tutti dal progetto Neofeudale, OGGI VINCITORE oggi vincitore? Lo avete capito che quel progetto ha distrutto la spesa pubblica, la sovranità dei Parlamenti e l’economia dell’Interesse Pubblico, per restaurare il GIUSTO ORDINE giusto ordine del regno delle élite sulle “masse ignoranti”? E si chiama Eurozona, Ue dei tecnocrati.Lo avete capito che un fantoccio patetico come Renzi, immediatamente chiamato a obbedienza dalla neofeudale Angela Merkel, conta come una cacca di piccione sul davanzale d’Europa? Lo capite che i politici di Roma sono ridicoli figuranti impotenti e grottescamente ignari di tutto il Vero Potere? Vi è chiaro che gli sbraiti di un cretino di Genova neppure arrivano alla soglia di casa dell’autista di uno come Herman Von Rompuy? Che neppure arrivano all’orecchio della camiciaia di Barnier? Lo avete capito che il Vero Potere va studiato e che dobbiamo contrapporgli una guerra totale combattuta da uomini e donne con pedigree d’acciaio, con una preparazione che spacca un capello con uno sguardo? Che va combattuto da chi ha la seguente idea chiara, limpida e scolpita nell’acciaio della propria determinazione a liberarsi:I NEOFEUDALI CI HANNO SOTTOMESSI, DEPREDATI DI DEMOCRAZIA E DIRITTI, CI HANNO SCHIAVIZZATI USANDO CODICI DI LEGALITA’ DA LORO RESI ‘PLAUSIBILI’, QUANDO INVECE ERANO ‘INIMMAGINABILI’, E CI RISERVANO UN FUTURO DA SERVITU’ DELLA GLEBA NEL TERZO MILLENNIO.ORA NOI DOBBIAMO RIPRENDERCI 250 ANNI DI CODICI DI VERA LEGALITA’, QUELLA CHE HA PRODOTTO LE PIU’ AVANZATE COSTITUZIONI DEL MONDO PER L’INTERESSE PUBBLICO, E SBATTERGLIELA IN FACCIA, CON IL POTERE RESTITUITO AGLI STATI SOVRANI E AI PARLAMENTI DI FERMARLI E DI ARRESTARLI, DI PROCESSARLI PER I LORO IMMANI CRIMINI, E DI FARLI SPARIRE.I Neofeudali ci hanno sottomessi, depredati di democrazia e diritti, ci hanno schiavizzati usando codici di legalità da loro resi ‘plausibili’, quando invece erano ‘inimmaginabili’, e ci riservano un futuro da servitù della gleba nel terzo millennio.Ora noi dobbiamo riprenderci 250 anni di vera legalità, quella che ha prodotto le più avanzate Costituzioni del mondo per l’Interesse Pubblico, e sbattergliele in faccia, con il potere restituito agli Stati sovrani e ai Parlamenti di fermarli e di arrestarli, di processarli per i loro immani crimini, e di farli sparire.Questo dobbiamo fare. Significa: l’uscita dell’Italia dall’Eurozona neofeudale, il ripristino della nostra SOVRANITA’ MONETARIA E PARLAMENTARE sovranità monetaria e parlamentare, e l’applicazione in Italia della migliore economia dell’Interesse Pubblico mai esistita: la Mosler Economics Mmt (leggete il Programma di Salvezza Economica per il Paese). Ma significa soprattutto un’altra cosa, caro lettore, cara lettrice: che tu, come me, ritrovi il CORAGGIO coraggio, il coraggio di ribellarti, ora che sai cosa ti stanno facendo. Caro lettore, cara lettrice, senza coraggio siete morti, e saranno morti i vostri figli, e se non avrete coraggio ve lo meritate. Ps: buone elezioni europee… come andare a investire in un pollaio di Vicenza credendo di influenzare la Borsa di New York.(Paolo Barnard, “Il feudalesimo si chiama Eurozona. E’ un mostro. Storia, nomi, fatti”, dal blog di Barnard del 27aprile 2014).Il complotto. Una parola trasformatasi in un’arma micidiale ai danni di chi studia, denuncia e lotta contro il Vero Potere. E’ usata da giornalisti, soprattutto, quelli che dalle pagine dei grandi quotidiani e dagli schermi Tv ammiccano sorrisetti spregiativi quando quelli come me parlano di Unione Europea criminale, di progetto Neoclassico e infine di Neofeudalesimo. Ci tacciano di essere dei fantasisti o pazzoidi che parlano di complotti, sciocchezze… suvvia, siamo seri. Io (e pochissimi altri) denuncio cose che volano in effetti chilometri sopra la comprensione comune della gente. Esse sono così distanti dal ‘ragionevole’, dal ‘plausibile’, che è gioco facile, per coloro che sanno invece benissimo che quello che io denuncio è vero, squalificarmi come complottista. E allora l’Olocausto?
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Rischio fame: il clima impazzito farà scoppiare i prezzi
Rivolte, città a secco, impennata dei prezzi, fame devastante. «Se questo vi sembra allarmismo degli scienziati, parlate con gli agricoltori», scrive sul “Guardian” Richard Shiffman. La “madre di tutti i report sul clima” è così spaventosa che uno dei suoi autori si è dimesso in segno di protesta dall’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici. «Gli agricoltori non sono stupidi», ha detto l’economista della Sussex University Richard Tol, mentre centinaia di ricercatori si sono ritirati a Yokohama, in Giappone, per elaborare il testo finale di un documento che lui ha definito “allarmistico” quando tratta delle tante minacce del riscaldamento globale. Le più inquietanti proiezioni del report Ipcc chiariscono ciò che avevano ipotizzato tanti altri studi: il futuro dell’agricoltura – della fame nel mondo – è praticamente segnato. Per dirla in modo più soft con il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon, «il caldo si fa sentire. Dobbiamo agire».I ghiacciai continueranno a ridursi in Himalaya, secondo l’Ipcc, impattando seriamente la disponibilità di acqua per l’agricoltura in vaste aree dell’Asia meridionale e della Cina. E il cambiamento climatico, rileva il “Guardian” in un servizio ripreso da “Come Don Chisciotte”, potrebbe danneggiare le colture sensibili al calore come il grano e il mais, prima ancora che incidere sulla produzione di riso e soia. Sul mercato globale, i prezzi per i raccolti essenziali saliranno. E la fame aumenterà in gran parte dell’Asia e dell’Africa. «Nessuno su questo pianeta sarà immune dagli effetti del cambiamento climatico», ha previsto il capo dell’Ipcc, Rajendra Pachauri. Il nuovo rapporto dice che tutte queste cose accadranno nei prossimi decenni, mentre il cambiamento climatico si rafforza. Ma questo futuro è già il presente per tanti agricoltori di tutto il mondo, dice Shiffman, reduce da una ricognizione in Africa Orientale: «In Tanzania le piogge stagionali biannuali da cui dipendono tanti produttori non arrivano mai al tempo giusto», sporadici acquazzoni torrenziali si alternano a prolungati periodi di siccità.«I picchi di calore stanno facendo appassire le colture di mais, mentre i pozzi e i corsi d’acqua si stanno sempre più prosciugando», continua il “Guardian”. Nel Kenya meridionale le fattorie sembrano lussureggianti, «ma l’apparenza inganna». Venticinque anni fa, nella regione il tempo era prevedibile: le lunghe piogge iniziavano a metà marzo fino a maggio, poi le brevi piogge iniziavano a fine agosto, o ai primi di settembre. «Negli ultimi dieci anni queste precipitazioni non sono mai arrivate in tempo. Abbiamo avuto inondazioni, e poi settimane e settimane senza pioggia. Gli agricoltori sono confusi su quando e cosa piantare. È una cosa davvero preoccupante». Sconvolgimenti simili, continua Shiffman, sono già una sfida per gli agricoltori di tutto il mondo. «Nel delta del Mekong in Vietnam, le popolazioni rurali stanno perdendo i terreni perché le acque salate del mare stanno salinizzando troppo i fiumi per poter crescere il riso». E in Nicaragua «l’aumento delle temperature sta diffondendo “il fungo della ruggine del caffè”, una malattia che sta uccidendo migliaia di alberi e che potrebbe rendere inutilizzabile l’80% delle aree per la coltivazione del caffè da qui al 2050».Dall’America all’Asia: nelle Filippine centrali gli agricoltori di cocco stanno lottando per riprendersi dal tifone novembrino Haiyan, che ha gravemente danneggiato o divelto circa 33 milioni di alberi. «Così come non ci sono atei in trincea, ci sono pochi scettici del cambiamento climatico tra coloro che coltivano il cibo del mondo, se non nessuno. Gli agricoltori – continua il “Guardian” – non devono leggersi i resoconti delle Nazioni Unite per sapere quanto radicalmente sta cambiando il loro clima. E i consumatori non hanno bisogno di studi accademici o di prove provate per sapere che i prezzi degli alimenti sono in costante aumento». L’ultimo report dell’Institute of Development Studies nel Regno Unito «prevede uno spaventoso aumento dal 20 al 60% dei prezzi degli alimenti per il 2050, a seconda del tipo di cibo, principalmente per la diminuzione della resa dovuta al cambiamento climatico». E il mondo intero potrebbe dover affrontare uno shock ancora più grave: «L’Ipcc prevede che un aumento di a 2,5°C nelle temperature globali costerà all’economia mondiale fino al 2% della sua produzione, con una stima di 1,4 trilioni di dollari all’anno».Secondo il gruppo Oxfam, «il riscaldamento globale potrebbe far posticipare la lotta contro la fame nel mondo per decenni, mettendo a rischio la vita di altri 50 milioni di persone». Il mondo è «assolutamente impreparato» all’impatto sul cibo, sostiene Oxfam: più del 75% delle varietà di semi in tutto il modo sono scomparse nell’ultimo secolo, e la spesa di ricerca e sviluppo per l’agricoltura è ai minimi storici. Lester Brown, fondatore dell’Earth Policy Institute, afferma che ci troviamo di fronte una incombente «crisi alimentare», non solo a causa del cambiamento climatico, ma anche per le sempre maggiori scarsità d’acqua e per la conversione di terreni agricoli verso usi non alimentari. Le grandi quantità di terreno utilizzate per la produzione di biocarburanti e di grano per nutrire il bestiame stanno riducendo i raccolti dei cereali di base, di cui le persone hanno bisogno per sopravvivere.Ma le tensioni più forti per il nostro approvvigionamento alimentare, dice Shiffman, verranno proprio dal cambiamento climatico. «Il sistema agricolo odierno è stato progettato per massimizzare la produzione all’interno del sistema climatico che è esistito negli ultimi mille anni. Ora, improvvisamente, non sappiamo cosa succederà esattamente nel futuro». Sappiamo solo che «abbiamo bisogno di frenare il prima possibile». Richard Tol, il ricercatore che denuncia “l’allarmismo” dell’Ipcc, dice che i contadini «si adatteranno». Ma è come aspettarsi che gli scoiattoli si adattino a un incendio boschivo, protesta Shiffman. «Come potrà Amani Peter, un giovane agricoltore che ho incontrato in Tanzania, adattarsi se il suo pozzo si prosciuga? Come farà ad adattarsi al mais che appassisce, quando le piogge si fermano un mese in anticipo, come hanno fatto lo scorso anno? E cosa faranno i nove agricoltori su dieci della Cina occidentale che non hanno un’assicurazione sui raccolti quando i raccolti di grano cominceranno a mancare? Anche l’agricoltore più brillante potrebbe non farcela».L’unica buona notizia – il bicchiere mezzo pieno – è che «ci saranno anche i vincitori nella roulette globale del cambiamento climatico: i rendimenti per alcune colture che amano il caldo sono in aumento negli Stati Uniti e in Canada, anche se l’agricoltura sta già soffrendo per i raccolti rinsecchiti nel sud-ovest degli Stati Uniti e per una siccità estrema in California». In ogni caso, l’Ipcc invita i politici a prepararsi, da subito: «Gli adattamenti del cambiamento climatico non sono un bizzarro ordine del giorno che non è mai stato provato», dichiara Chris Field, co-presidente di uno dei gruppi di lavoro. «Ricordate il costo annuale di 1,4 trilioni di dollari del cambiamento climatico? Se una piccola frazione di questa somma venisse spesa per la ricerca sull’agricoltura locale, sarebbe di grande aiuto», charisce il “Guardian”. «Gli agricoltori hanno bisogno di nuove varietà di semi, resistenti al calore, che tollerino le frequenti siccità. Hanno bisogno di programmi di sensibilizzazione per la loro formazione nelle tecniche di coltivazione più all’avanguardia. E, naturalmente, dobbiamo smettere di vomitare sempre più CO2 nell’aria. Proprio mentre suona l’allarme».Rivolte, città a secco, impennata dei prezzi, fame devastante. «Se questo vi sembra allarmismo degli scienziati, parlate con gli agricoltori», scrive sul “Guardian” Richard Shiffman. La “madre di tutti i report sul clima” è così spaventosa che uno dei suoi autori si è dimesso in segno di protesta dall’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici. «Gli agricoltori non sono stupidi», ha detto l’economista della Sussex University Richard Tol, mentre centinaia di ricercatori si sono ritirati a Yokohama, in Giappone, per elaborare il testo finale di un documento che lui ha definito “allarmistico” quando tratta delle tante minacce del riscaldamento globale. Le più inquietanti proiezioni del report Ipcc chiariscono ciò che avevano ipotizzato tanti altri studi: il futuro dell’agricoltura – della fame nel mondo – è praticamente segnato. Per dirla in modo più soft con il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon, «il caldo si fa sentire. Dobbiamo agire».
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Sorpasso cinese sugli Usa, cresce il pericolo di guerra
Mentre la francese Alstom sta per cedere alla General Electric il settore energia e la crisi ucraina si approfondisce, l’ambasciata statunitense a Roma invia una comunicazione ufficiale al governo italiano invitandolo a rispettare l’impegno a comprare tutti i 90 aerei F-35, come da accordi sottoscritti a suo tempo, perché «ulteriori riduzioni sul programma potrebbero incidere sugli investimenti e, dunque, sui benefici». Con tanti saluti all’ipotesi renziana di “risparmiare” i conti pubblici sotto stress, in vista del Fiscal Compact. Non solo: gli Stati Uniti, ricorda Claudio Conti, hanno riannodato i rapporti con le Filippine per aprire basi militari in esplicita funzione anti-cinese, mentre tentano di riprendere possesso dell’America Latina foraggiando le opposizioni in Venezuela, Bolivia, Ecuador. Gli Usa sono nervosi: stanno per perdere la loro secolare leadership economica mondiale in favore della Cina, e stanno col dito sul grilletto. In caso di guerra, una sola certezza: non ci saranno vincitori.Secondo l’ultimo studio della Banca Mondiale, citato dal “Financial Times”, gli Stati Uniti stanno per consegnare alla Cina lo scettro di prima economia al mondo: «Il sorpasso avverrà molto prima del previsto 2019, forse già quest’anno», scrive Conti su “Contropiano”. Gli Usa detengono il primo posto dal 1872, quando avevano superato la Gran Bretagna. E saranno presto incalzati anche dall’India, che sta per prendersi il terzo posto. «È la temuta crisi dell’egemonia statunitense, affermatasi pienamente con la Seconda Guerra Mondiale ma lungamente preparata nei decenni precedenti». Storia: «Non si è mai vista una potenza imperiale dominare sul mondo senza essere anche la prima economia del pianeta». Ma il “lungo addio” della Gran Bretagna all’egemonia globale è potuto maturare «solo grazie a un mondo assai più lento di oggi e allo “speciale rapporto” con l’ex colonia che stava diventando una superpotenza».Oggi, continua Conti, l’economia finanziaria viaggia in tempo reale: la competizione, a questo livello, si gioca sui centesimi di secondo. «E anche le forze militari sono mobilitabili in tempi infinitamente più rapidi». Peccato però che gli approvvigionamenti energetici stiano diventando sempre più problematici, tra risorse storiche in via di esaurimento e “risorse non convenzionali” appena sufficienti, per ora, a mantenere allo stesso livello i consumi planetari. «Gli Stati Uniti sanno meglio di tutti che il loro dominio sul mondo è a rischio, e hanno deciso di lottare per non farsi scalzare, nemmeno a favore di un “multipolarismo” in cui non potrebbero restare dei “primus inter pares”», perché non possono più sperare all’infinito di «affrontare i propri problemi stampando dollari e imponendo agli altri di accettarli in cambio di prodotti fisici».Così, gli Stati Uniti di Obama «attaccano in Europa cogliendo i due punti deboli dell’emergente imperialismo dell’Unione Europea: forniture energetiche e dotazione militare», e inoltre «attaccano in Asia tentando di “contenere” militarmente l’esplosiva influenza economica cinese». E’ un azzardo, un’offensiva inedita su tutti i fronti, dall’Atlantico al Pacifico. «È una dinamica antica e ripetitiva», sostiene Conti: «Una coazione a ripetere, ma estremamente pericolosa», perché «la crisi economica non passa», e quindi «la guerra inter-imperialista si affaccia di nuovo come possibile soluzione». Peccato, chiosa l’editorialista di “Contropiano”, che tutte quelle testate nucleari in giro per il mondo garantiscano – da 70 anni – una sola certezza: la Terza Guerra Mondiale non conoscerebbe vincitori, ma solo vittime.Mentre la francese Alstom sta per cedere alla General Electric il settore energia e la crisi ucraina si approfondisce, l’ambasciata statunitense a Roma invia una comunicazione ufficiale al governo italiano invitandolo a rispettare l’impegno a comprare tutti i 90 aerei F-35, come da accordi sottoscritti a suo tempo, perché «ulteriori riduzioni sul programma potrebbero incidere sugli investimenti e, dunque, sui benefici». Con tanti saluti all’ipotesi renziana di “risparmiare” i conti pubblici sotto stress, in vista del Fiscal Compact. Non solo: gli Stati Uniti, ricorda Claudio Conti, hanno riannodato i rapporti con le Filippine per aprire basi militari in esplicita funzione anti-cinese, mentre tentano di riprendere possesso dell’America Latina foraggiando le opposizioni in Venezuela, Bolivia, Ecuador. Gli Usa sono nervosi: stanno per perdere la loro secolare leadership economica mondiale in favore della Cina, e stanno col dito sul grilletto. In caso di guerra, una sola certezza: non ci saranno vincitori.
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Odifreddi: è stata questa sinistra a tradire i lavoratori
Fino a qualche anno fa, il primo maggio costituiva l’occasione per festeggiare le conquiste dei lavoratori: non solo il diritto al lavoro stesso, ma anche le regole e le tutele al suo proposito. Si festeggiava il fatto che, poco a poco, i lavoratori stavano cessando di essere considerati ingranaggi di un macchinario per la produzione di beni per il consumo altrui, e iniziavano a essere visti come persone con bisogni e diritti propri, oltre agli ovvi obblighi e doveri. Tutto questo oggi è finito. Vent’anni di coalizione fra berlusconismo, leghismo e fascismo, e qualche anno di crisi più o meno costruita e pilotata ad arte, hanno azzerato la condizione dei lavoratori, riportandola all’anno zero. Tutto ciò che era stato conquistato goccia a goccia, a costo di giuste rivendicazioni e dure lotte, è stato cancellato. Oggi, in una crociata al grido di “l’Europa, i mercati e le banche lo vogliono”, i lavoratori sono ridiventati semplici rotelle di un meccanismo, da usare quando servono e buttare quando non servono più.Naturalmente, questa concezione antiumanistica del lavoro ha radici lontane, anche nel passato prossimo. Risale da un lato alle controrivoluzioni liberiste di Reagan e della Thatcher, e dall’altro ai tradimenti delle sinistre di Blair e di Craxi. Ma oggi è stata portata a compimento, nel nostro paese, da un’insolita coalizione, che ha visto unite la destra intransigente di Berlusconi e Monti, con la sinistra inesistente di Napolitano e Renzi. Un presidente della Repubblica che ha da sempre lavorato, all’interno del Partito Comunista, come cavallo di Troia del capitale e del mercato, ha guidato dall’alto del Quirinale l’opera di smantellamento dei diritti dei lavoratori. Quando Berlusconi non ha più potuto agire in prima persona in questo compito, Napolitano gli si è sostituito imponendo governi al limite della costituzionalità e della democrazia, da Monti a Renzi.E oggi i giovani parvenu della politica, forti soltanto della debolezza del paese e privi di qualunque mandato elettorale, stanno completando l’opera di picconamento dei loro predecessori. Il programma è soltanto “far presto”, cambiare tutto prima che l’elettorato possa esprimersi, magari scegliendo partiti e candidati che possano contrastare i voleri e le pretese della santissima Trinità costituita appunto dall’Europa, i mercati e le banche. Con un autoritarismo mascherato da efficientismo, il governo Renzi fa il possibile per varare, il più presto possibile, riforme raffazzonate e unilaterali, con un metodo da repubblica delle Banane: “Ci confrontiamo per qualche giorno, ma poi decidiamo noi”. Per questo il primo maggio ormai non è più una festa, ma un giorno di lutto. Forse è ormai troppo tardi, ma le prossime elezioni europee sono l’ultima spiaggia: se non serviranno a rimandare a casa i traditori dei lavoratori che siedono in Quirinale e a palazzo Chigi, sarà un lutto che durerà a lungo, segnato dalle lacrime richieste dai nemici e imposte dai sedicenti amici.(Piergiorgio Odifreddi, “Un Primo Maggio di lutto”, da “Repubblica” del 1° maggio 2014, ripreso da “Micromega”).Fino a qualche anno fa, il primo maggio costituiva l’occasione per festeggiare le conquiste dei lavoratori: non solo il diritto al lavoro stesso, ma anche le regole e le tutele al suo proposito. Si festeggiava il fatto che, poco a poco, i lavoratori stavano cessando di essere considerati ingranaggi di un macchinario per la produzione di beni per il consumo altrui, e iniziavano a essere visti come persone con bisogni e diritti propri, oltre agli ovvi obblighi e doveri. Tutto questo oggi è finito. Vent’anni di coalizione fra berlusconismo, leghismo e fascismo, e qualche anno di crisi più o meno costruita e pilotata ad arte, hanno azzerato la condizione dei lavoratori, riportandola all’anno zero. Tutto ciò che era stato conquistato goccia a goccia, a costo di giuste rivendicazioni e dure lotte, è stato cancellato. Oggi, in una crociata al grido di “l’Europa, i mercati e le banche lo vogliono”, i lavoratori sono ridiventati semplici rotelle di un meccanismo, da usare quando servono e buttare quando non servono più.
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Def Renzi-Fornero, la stessa droga che ci ha rovinato
«La flessibità non è una cura, ma una droga: un rimedio peggiore del male, che alla lunga stronca il paziente anziché guarirlo». Brutte notizie, dunque, dalla ricetta del “medico” Matteo Renzi: con lui l’Italia continuerà a perdere terreno, in Europa. Lo sostiene Paolo Pini, analizzando il Def 2014. Il documento programmatico «fotografa un paese che faticherà assai a crescere», tant’è vero che nel 2018 «non avrà recuperato la perdita di 9 punti percentuali di reddito accumulati dall’inizio della crisi, il 2008» e si allontenerà ulteriormente dalla Germania, che invece crescerà ben sopra l’1,5%, cioè l’incremento medio previsto per l’Eurozona. I conti non tornano: il Def renziano prevede una crescita dello 0,8% nel 2014, quando solo a dicembre 2013 era stata fissata dal governo Letta all’1,1%. Previsioni che le istituzioni internazionali come il Fmi già ora rivedono al ribasso, ipotizzando uno 0,6%. Lo stesso governo Renzi ridimensiona anche le stime per il 2015 e il 2016 (rispettivamente 1,3% e 1,6% contro il 2% del governo Letta), mentre «si spinge ottimisticamente all’1,8% e 1,9% per il 2017 e 2018».Il Def confida negli investimenti privati – dati in crescita del 2% già quest’anno – e nell’export, che si mantiene sopra il 4% annuo: calcolando anche le importazioni, il saldo commerciale resta positivo, pari all’1,5% del Pil (contro il 2,5% della media dell’Eurozona e addirittura il 6% della Germania, sempre più mercantilista). I consumi delle famiglie, continua Pini in un’analisi pubblicata da “Micromega”, faticano invece a tenersi vicino all’1% di incremento se non alla fine del periodo, nel 2018, mentre alla crescita dei consumi non contribuisce certo la spesa pubblica, “azzoppata” dalla spending review che – a regime, nel 2016 – deve realizzare “risparmi” per 32 miliardi. Impensabile, peraltro, ipotizzare un aumento del reddito – aggiunge Pini – se lo Stato è costretto a “bruciare” l’avanzo primario per compensare gli interessi sul debito pubblico, che rappresentano il 5% del Pil italiano: i soldi che il governo non spende più per i cittadini vanno a tappare le falle della finanziarizzazione di un debito non più sovrano, non ripianabile in moneta sovrana.«D’altronde – osserva Pini – le regole del “rigore ad ogni costo” sono ferree e assai poco ammorbidite dai viaggi di Renzi prima in Germania e poi al Consiglio Europeo: il pareggio di bilancio strutturale viene quasi raggiunto nel 2015 (-0,1% del Pil), assicurato negli anni successivi sino al 2018, mentre per il 2014 siamo ancora sotto di oltre mezzo punto percentuale, anche perché il deficit sul Pil non diminuisce così tanto quanto raccomanda la Commissione per ridurre il debito, che infatti cresce alla soglia del 135% nel 2014 per attestarsi poi al 120% nel 2018». Sempre secondo Pini, «si intravvede così un primo rinvio del raggiungimento dell’obiettivo di medio termine imposto dal Fiscal Compact, e anche – ricordiamolo – dall’articolo 81 della nostra Costituzione, che ora impone il bilancio in pareggio (corretto dal ciclo) già per il 2014». Misura aberrante, ma approvata dal Parlamento nel 2012, proposta dal governo Monti e votata dal Pd di Bersani e dal Pdl di Berlusconi.Le tendenze economiche mondiali «penalizzano la competitività del made in Europe ed in particolare del made in Italy, che tende purtroppo più di altri a competere sul prezzo dei prodotti più che sul loro contenuto tecnologico». Eppure il Def di Renzi (e Padoan) presenta uno strano modello, trainato da esportazioni e investimenti, ma senza domanda interna. «A cosa attribuire questo slancio vitale dell’economia italiana», in un contesto «di quasi stazionarietà di consumi delle famiglie»? Risposta: si pensa di tagliare – ancora e sempre – il costo del lavoro, sostiene Pini. «Flessibilità del lavoro, liberalizzazioni e semplificazioni: le fonti della crescita son tutte qui». Secondo l’analista, «gli effetti macro degli interventi appaiono risibili», nel 2014 valgono appena lo 0,2% sul fronte dell’occupazione. «Le riforme sul mercato del lavoro e le liberalizzazioni e semplificazioni spiegano da sole tutto l’impatto sul reddito, le riforme sul lavoro tutto quello sull’occupazione, mentre gli effetti delle detrazioni Irpef sono annullate dal modo scelto per finanziarle (spending review). Gli altri interventi, compreso il pagamento dei debiti commerciali della pubblica amministrazione e la riduzione dell’Irap, sono ad impatto nullo».Per registrare effetti consistenti, aggiunge Pini, occorre attendere il lontano 2018, con un contributo degli interventi pari a un 2,4% nella crescita del Pil (+1,3% sull’occupazione). «Ma anche al 2018, sono le riforme del lavoro ed il binomio liberalizzazioni/semplificazioni che spiegano quasi i 3/4 di questo impatto su reddito e occupazione». In particolare, sul mercato del lavoro si tratta per il governo Renzi del decreto Poletti sul contratto a termine e sull’apprendistato e degli eventuali provvedimenti prospettati con il Jobs Act, che non comportano oneri aggiuntivi per le finanze pubbliche. Irrilevanti degli interventi di stimolo alla domanda interna – alleggerimenti fiscali per le famiglie – oppure alla domanda estera, cioè maggiore competitività di costo e prezzo per le imprese, mediante riduzione del cuneo fiscale. Interventi di sostegno della domanda pubblica? «Non sono previsti. Anzi: la spending review implica effetti negativi sulle componenti della domanda aggregata».Nulla in vista neppure per politiche industriali o di sostegno all’innovazione. Ricapitolando: interventi irrisori, a cui però «vengono attribuiti effetti a dir poco sorprendenti sulla competitività del sistema produttivo italiano». Da oggi al 2018 si prevede un incremento del 4% della produttività, che invece dal 2000 al 2012 è stato di appena lo 0,03% annuo. «Cosa mai potrà determinare tale inversione di marcia dal 2014 in poi è per noi un mistero», scrive Pini. «L’unica politica annunciata che vediamo all’opera per ora è quella della deregolamentazione del mercato, del lavoro in particolare con il decreto Poletti ed il Jobs Act presentato al Parlamento». Deregolamentazione del mercato del lavoro: si prosegue cioè sulla strada tracciata nel 1997 dalla legge Treu (governo Prodi), per arrivare alla legge Maroni del 2003 (governo Berlusconi), sino ai più recenti “indirizzi” di Sacconi e alla legge Fornero del 2012 (govenro Monti). Col Jobs Act, la flessibilità non fa che aumentare ancora.Si è ormai capito, però, che la precarizzazione del lavoro non è certo un toccasana per l’economia. Ma il Def di Renzi non ne tiene conto. Eppure, osserva Pini, il lavoro flessibile meno tutelato e la diffusione di contratti che rendono più instabili i rapporti di lavoro «induce le imprese a investire meno sulla formazione, sull’innovazione organizzativa dei luoghi di lavoro, sull’innovazione tecnologica», e le spinge «a concorrere sulla riduzione dei costi piuttosto che sulla qualità del lavoro e del prodotto, sulla sua intensità tecnologica». Al contrario, la crescita delle imprese che innovano «è frenata dalla concorrenza sui costi esercitata delle imprese che non innovano e che utilizzano lavoro flessibile, a bassa produttività e bassa retribuzione». In realtà, «la deregolamentazione del lavoro introduce incentivi distorti per le imprese, che ne modificano i comportamenti e comportano un peggioramento della dinamica della produttività, anziché una sua crescita. È ciò che è avvenuto in Italia dagli anni novanta: la crescente flessibilizzazione del mercato del lavoro non ha contrastato il declino della produttività, anzi ha contribuito a determinare quella “trappola della stagnazione della produttività” nella quale siamo immersi da oltre dieci anni».È quindi impensabile che ancor maggiori dosi di flessibilità possano curare il malato, conclude Pini. «La logica distorta del medico insipiente vuole che se con una cura dai deboli e dubbi effetti positivi non si intravvede la guarigione del malato, anzi lo si vede peggiorare, invece di cambiare la diagnosi e quindi migliorare la prognosi, si somministrino dosi ancor maggiori del letale medicamento, che a dosi crescenti intossica completamente il paziente». La flessibilità? E’ come una droga: «Più la prendi, più ne diventi dipendente, più difficile è rinunciarvi, ed al contempo ti indebolisce fino a farti schiattare». La ricetta che ci raccomanda l’Europa delle tecnocrazie, e che l’Italia fa sua con il Def 2014, è purtroppo un connubio perverso di “austerità espansiva” e “precarietà espansiva”.«Consolidamento fiscale e riforme strutturali vengono declinate a senso unico in termini di tagli alla spesa pubblica e al welfare sociale, svalutazione del lavoro, indebolimento progressivo della contrattazione collettiva, precarizzazione, contenimento dei salari: tutti fattori che assieme deprimono la domanda interna, abbassano la crescita, riducono l’occupazione e accrescono il debito». Tutto ciò, sostiene Pini, favorisce anche le divergenze tra nazioni e le divisioni tra i popoli: «Una miscela esplosiva che gioca a favore dei populismi europei, di ogni natura ed in ogni paese, e contro l’Europa stessa. Non sarebbe il caso a questo punto di rivedere la diagnosi e quindi finalmente cambiare prognosi, rinunciando alla droga, prima che il popolo-malato si ribelli e “rottami” anche questo medico fiorentino?».«La flessibità non è una cura, ma una droga: un rimedio peggiore del male, che alla lunga stronca il paziente anziché guarirlo». Brutte notizie, dunque, dalla ricetta del “medico” Matteo Renzi: con lui l’Italia continuerà a perdere terreno, in Europa. Lo sostiene Paolo Pini, analizzando il Def 2014. Il documento programmatico «fotografa un paese che faticherà assai a crescere», tant’è vero che nel 2018 «non avrà recuperato la perdita di 9 punti percentuali di reddito accumulati dall’inizio della crisi, il 2008» e si allontenerà ulteriormente dalla Germania, che invece crescerà ben sopra l’1,5%, cioè l’incremento medio previsto per l’Eurozona. I conti non tornano: il Def renziano prevede una crescita dello 0,8% nel 2014, quando solo a dicembre 2013 era stata fissata dal governo Letta all’1,1%. Previsioni che le istituzioni internazionali come il Fmi già ora rivedono al ribasso, ipotizzando uno 0,6%. Lo stesso governo Renzi ridimensiona anche le stime per il 2015 e il 2016 (rispettivamente 1,3% e 1,6% contro il 2% del governo Letta), mentre «si spinge ottimisticamente all’1,8% e 1,9% per il 2017 e 2018».
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Hopkins: filiera corta, la nostra rivoluzione fa miracoli
Se la crescita globale e globalizzata andava bene per il ventesimo secolo, quando c’erano combustibili fossili a basso prezzo, ora non è più fattibile. Bisogna utilizzare la resilienza e far sì che siano le persone normali a fare accadere il cambiamento. Io viaggio per tutto il mondo e vedo che queste cose stanno accadendo. I governi possono fare delle cose, le aziende e le imprese possono farne altre, ma per superare la crisi ci vuole la gente normale, che rappresenta la grande riserva di risorse, di energia, non sfruttata. Io sono uno dei fondatori del movimento “Transition Town, Transition Network”. Uno dei progetti che abbiamo in atto è proprio la Transition Town, la Totnes. “Transition” è un processo bottom up, parte dal basso verso l’alto per rendere la comunità locale resiliente. Non è un movimento politico, non è una cosa di destra odi sinistra, non è verde, non è contro la crescita né a favore della crescita, ma mira semplicemente a coinvolgere tutte le persone, la popolazione locale, nel creare questa forma di resilienza come forma di sviluppo economico.Come forma di sviluppo abbiamo la creazione di società energetiche, di piccole società agricole, l’agricoltura urbana, il tentativo di rivitalizzare a livello locale le comunità, dare supporto a agli imprenditori locali. Nella città di Bristol, una delle Transition Town, c’è la valuta locale, hanno fatto la Sterlina di Bristol con il supporto dell’amministrazione comunale. Uno dei progetti realizzato recentemente da Transition Network è “The New Economy in Twenty Enterprises”, la nuova economia in venti imprese. Abbiamo mappato tutto il territorio del Regno Unito e scelto venti imprese rappresentative dell’economia di transizione, che potevano essere replicate ovunque, non dipendenti perciò da una particolare situazione geografica o altro. Abbiamo scelto una banca della comunità, la comunità che aveva la propria valuta, piuttosto che il proprio sistema di trasporti, gestito dalla comunità, l’agricoltura, le aziende agricole della comunità, fonti energetiche.Alcune di queste iniziative nascono e si sviluppano in modo del tutto spontaneo; la differenza che fa “Transition” è creare un collegamento tra tutte queste cose. Infatti dalla natura, dall’ecologia, abbiamo imparato che la cosa potente è il collegamento tra i vari elementi, che vanno così a formare un sistema. “Transition” fa questo: tesse il tessuto che collega l’economia locale, consentendo a queste iniziative di parlare le une con le altre facendo sì che la resilienza della comunità diventi una forma di sviluppo economico.“Transition” è nata nel Regno Unito nel 2005 e da allora si è diffusa in tutto il mondo: siamo presenti in 44 paesi e ci sono migliaia di iniziative “Transition” in tutto il mondo. E’ è un movimento che si auto-organizza, nel senso che noi non siamo come un franchising della Coca Cola, che è sempre uguale ovunque esso si trovi, il nostro modello è diverso a seconda di dove nasce.C’è un movimento “Transition”, un’organizzazione, un Network Transition anche in Italia, che è stato uno dei primi posti a replicarlo, con grande successo, nel paese di Monte Veglio, in provincia di Bologna. C’è questa storia molto positiva, dove l’amministrazione locale ha promulgato una risoluzione per rendere il paese più resiliente, quindi esiste “Transition Italy”, Ci sono a disposizione possibilità di training, di collaborare a dei progetti. C’è una rete molto attiva, molto vitale, in Italia, cui ci si può collegare se si è interessati a “Transition”. Spesso pensiamo che il cambiamento possa accadere soltanto attraverso le proteste, i picchetti con i cartelli, le dimostrazioni, e sottovalutiamo quello che è il potere di ritirare il nostro supporto a ciò che non ci piace. C’è un movimento negli Stati Uniti che si chiama Divest, cioè “disinvestite”, che invita e incoraggia a disinvestire dal combustibile fossile per investire invece nelle rinnovabili.Si può disinvestire in un modo molto semplice, cioè con la spesa che facciamo ogni giorno: invece di fare delle scelte di acquisto che vanno a privilegiare l’economia “corporate”, quella delle grandi aziende, si scelgono prodotti che stimolano la resilienza locale, una economia locale, più inclusiva. Ogni giorno possiamo scegliere dove depositare i nostri risparmi, se dare supporto alle aziende locali o meno. Ho letto, per esempio, che negli Stati Uniti, prima che scoppiasse la guerra con l’Iraq, l’amministrazione Bush aveva previsto le dimostrazioni, ma era anche altrettanto sicuro che quella protesta non si sarebbe tradotta in cambiamento di modello del consumo – infatti le persone non hanno smesso di comprare benzina. Quindi il sistema è concepito proprio per lasciar sfogo a questo rumore, a queste dimostrazioni, perché tanto questo non corrisponde a un cambiamento delle azioni delle persone. Oggi, dare supporto all’economia locale rappresenta una delle scelte più radicali che si possano fare.(Rob Hopkins, “La transizione verso le economie locali”, sintesi del video-intervento di Hopkins sul blog di Beppe Grillo del 24 marzo 2014).http://www.beppegrillo.it/2014/03/passaparola_-la_transizione_verso_le_economie_locali_-_rob_hopkins.htmlSe la crescita globale e globalizzata andava bene per il ventesimo secolo, quando c’erano combustibili fossili a basso prezzo, ora non è più fattibile. Bisogna utilizzare la resilienza e far sì che siano le persone normali a fare accadere il cambiamento. Io viaggio per tutto il mondo e vedo che queste cose stanno accadendo. I governi possono fare delle cose, le aziende e le imprese possono farne altre, ma per superare la crisi ci vuole la gente normale, che rappresenta la grande riserva di risorse, di energia, non sfruttata. Io sono uno dei fondatori del movimento “Transition Town, Transition Network”. Uno dei progetti che abbiamo in atto è proprio la Transition Town, la Totnes. “Transition” è un processo bottom up, parte dal basso verso l’alto per rendere la comunità locale resiliente. Non è un movimento politico, non è una cosa di destra odi sinistra, non è verde, non è contro la crescita né a favore della crescita, ma mira semplicemente a coinvolgere tutte le persone, la popolazione locale, nel creare questa forma di resilienza come forma di sviluppo economico.
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Gas: è scoppiata la Terza Guerra (mondiale) dell’energia
Negli ultimi mesi si sono prodotti una serie di avvenimenti che hanno investito pesantemente il mondo dell’energia: la crisi di Crimea, che sta profilando una crisi nella vendita di gas russo alla Ue, con conseguente arresto del progetto South Stream e parallela proposta americana di forniture sostitutive; la forte penetrazione dei cinesi nel mercato mediorientale, dove sono diventati i primi acquirenti del petrolio iracheno; la destabilizzazione sociale e finanziaria del Venezuela (terzo produttore mondiale); l’inasprimento della crisi libica, dove le forniture sono sempre più a rischio; la crescente tensione fra il Qatar (detentore di fortissime riserve di gas e petrolio) e l’Arabia Saudita, che non approva l’appoggio ai Fratelli Musulmani e le pretese egemoniche quatarine sul Golfo. Il tutto mentre prosegue la guerra civile siriana e l’embargo euro-americano contro l’Iran.Una precipitazione di eventi assai insolita, che profila tendenze di medio periodo suscettibili di mutare l’assetto strategico mondiale dell’energia. E ovviamente non dobbiamo stare a spendere parole sulla centralità dell’energia, sia dal punto di vista economico che politico, nell’ordine mondiale. A partire dagli anni novanta, si era determinato un quadro che possiamo descrivere come segue. Con la comparsa delle ingenti masse di gas russo, si produceva una accentuata diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico (ancora molto petrolio, ma anche gas, nucleare, carbone, etanolo da biomasse e fonti alternative) e, di conseguenza, delle tecnologie necessarie al trattamento delle varie fonti. La differenziazione di fonti e tecnologie induceva i vari paesi ad adottare diversi mix energetici, per così dire “personalizzati”, in base alle esigenze di ciascuno. E questo, a sua volta, dava luogo ad un accentuato policentrismo sia dei produttori che dei consumatori, assicurando un regime di relativa abbondanza energetica a basso costo.Questo accentuato policentrismo energetico, insieme all’affermarsi più rapido del previsto di nuove potenze economiche emergenti, determinava un più generale policentrismo dell’ordine mondiale. Un aspetto particolarmente importante di questa nuova situazione è stato rappresentato dal gas, rapidamente affermatosi fra le primissime fonti in ordine di importanza. Come si sa, esso è difficilmente trasportabile via mare (per i costi di liquefazione e poi rigasificazione del prodotto) e prevalentemente è distribuito attraverso gasdotti che hanno elevati costi di costruzione, per cui si privilegia lo scambio fra paesi limitrofi o, comunque, non eccessivamente distanti. Anche per questo motivo si è formato un mercato separato del gas che, cosa importante, non è necessariamente venduto in dollari ma in monete diverse. E questo è uno dei motivi della rapida ripresa russa dal 1998 in poi.In questo quadro, la diversificazione energetica ha avuto oggettivamente un ruolo di contrappeso al progetto di ordine mondiale monopolare degli Usa, alimentando le tendenze centrifughe verso un ordine policentrico. Le stesse guerre mediorientali degli Usa erano il tentativo di affermare il proprio progetto egemonico guadagnando una posizione di controllo della più importante area petrolifera mondiale. Ma, come è noto, le cose sono andate in modo diverso dal previsto e le tendenze dal policentrismo se ne sono rafforzate, garantendo il ritorno della Russia fra i grandi protagonisti della scena mondiale, insieme a Usa e Cina. Questo quadro ha subito una prima destabilizzazione fra il 2006-2010: in un primo momento si era temuto un rapido avvicinarsi del pick oil a causa dei forti consumi cinesi (quel che aveva fatti impazzire il prezzo del petrolio salito sino a 170 dollari al barile), ma dopo, per effetto della crisi bancaria del 2007-8 e delle prospettive offerte dal petrolio di scisti e dallo shale gas con la tecnica del fracking, la situazione si è in gran parte normalizzata, ma scontando nel frattempo un rafforzamento del gas e, pertanto, della Russia da cui la Ue, ormai, dipendeva largamente.Di qui partiva la “guerra dei gasdotti”, complicata dall’attraversamento ucraino dei gasdotti euro-russi. L’Ucraina, oltre che onerosi diritti di passaggio, esercitava massicci prelievi aggiuntivi, che peraltro non pagava. Di qui la decisione russa di costruire gasdotti che la aggirassero: Northstream, dalla Russia alla Germania via Baltico, e South Stream dalle coste russe meridionali all’Italia. Questo progetto fu sottoscritto dall’Eni nel 2009, sotto l’aperta protezione di Berlusconi (siamo nel momento della grande amicizia con Putin con lo scambio di regali come il famoso lettone ed altro). Gli americani non presero bene la cosa, anche perché stavano cercando di realizzare un progetto concorrente, Nabucco, che avrebbe portato il gas centroasiatico sulle sponde del mediterraneo e poi, di lì, in Europa che così sarebbe stata sottratta al temuto magnete russo. La guerra dei gasdotti venne vinta, in un primo momento, dai russi, e sembrò per un attimo che Europa e Russia fossero destinate ad una fatale integrazione crescente (“Eurussia: è il nostro destino?” si chiedeva una copertina di “Limes” del 2009).Oggi questo quadro subisce un attacco frontale a seguito dei fatti ucraini e dell’annessione della Crimea da parte dei russi. Gli Usa sono stati rapidi nell’approfittare dell’ondata (peraltro largamente strumentale) di condanna dell’iniziativa russa e nello spingere la Ue in rotta di collisione con Mosca, che, a sua volta, ha reagito minacciando ritorsioni proprio sul gas. Gli americani si sono fatti avanti offrendo la sostituzione delle forniture russe. In realtà, agli americani preme la creazione di un mercato del gas regolato in dollari, così come è per tutto il resto, e la manovra americana va capita insieme alla questione del negoziato per l’area di libero scambio Usa-Ue. Ovviamente, se gli americani riuscissero nel loro intento, ai russi non resterebbe che offrire il loro gas alla Cina ed, in prospettiva, all’India. Pertanto assisteremmo alla nascita di due blocchi energetici: da un lato la tradizionale alleanza euro-americana cui corrisponderebbe, per reazione, il blocco euro-asiatico cino-russo, suscettibile di diventare cino-russo-indiano. E la competizione fra i due blocchi si sposterebbe rapidamente sull’accaparramento dei mercati mediorientali dove, abbiamo detto, la Cina è già entrata e con tutti due i piedi.Peraltro, è ragionevole aspettarsi un comportamento non omogeneo dei paesi di quell’area: realisticamente l’Iran si orienterebbe verso il blocco asiatico, mentre l’Arabia Saudita resterebbe il tradizionale alleato degli americani, ma con la fastidiosa spina irritativa del Qatar. Sull’altro fianco, l’evolvere della situazione potrebbe portare alla “normalizzazione” del Venezuela chavista. La Cina, che ha trovato spazio in Iraq (e ha la prospettiva del gas russo) potrebbe essere sempre meno generosa con il suo debitore latinoamericano e perdere interesse alle sue forniture, anche in ragione della precaria situazione politica. Viceversa, gli Usa stanno palesemente certando di compattare l’asse ispano-pacifico del continente meridionale, lungo l’asse Messico-Cile per isolare il Brasile (ed eventualmente l’Argentina); il Venezuela è dalla parte dell’Atlantico, ma sarebbe una gran bella posizione da occupare per il controllo del Sud America. Dunque, è facile prevedere che gli Usa cercheranno di approfittare dell’attuale situazione per destabilizzare il regime chavista (motivo di più per comporre subito il conflitto in atto con la piazza, cercando una via di uscita politica).Si profilano, pertanto, mutamenti geopolitici di grande rilievo, ad esempio il ritorno ad una logica di blocchi tendenzialmente bipolare. Beninteso: la globalizzazione ci ha abituato a tendenze fortemente reversibili, per cui più di un disegno è abortito strada facendo (a cominciare da quello monopolare americano) ed è possibile che anche questa volta intervengano controtendenze che scombinino in tutto i in parte il gioco iniziato. Anche perché rivedere l’assetto energetico mondiale, rifare gasdotti nuovi ed abbandonarne di vecchi non sono cose che si fanno in pochi mesi, durante i quali di cose possono succederne. Ma è anche vero che questa situazione di forte reversibilità del quadro non può durare all’infinito e, prima o poi, in modo naturale o cruento, un qualche ordine stabile finirà con affermarsi. Sicuramente una parte di questa battaglia sarà combattuta in Italia e ne vedremo i segni molto presto, con la nuova governance dell’Eni e le conseguenti decisioni su South Stream, che ormai può saltare da un momento all’altro.(Aldo Giannuli, “Si sta profilando una frattura strategica nel campo dell’energia”, dal blog di Giannuli dell’11 aprile 2014).Negli ultimi mesi si sono prodotti una serie di avvenimenti che hanno investito pesantemente il mondo dell’energia: la crisi di Crimea, che sta profilando una crisi nella vendita di gas russo alla Ue, con conseguente arresto del progetto South Stream e parallela proposta americana di forniture sostitutive; la forte penetrazione dei cinesi nel mercato mediorientale, dove sono diventati i primi acquirenti del petrolio iracheno; la destabilizzazione sociale e finanziaria del Venezuela (terzo produttore mondiale); l’inasprimento della crisi libica, dove le forniture sono sempre più a rischio; la crescente tensione fra il Qatar (detentore di fortissime riserve di gas e petrolio) e l’Arabia Saudita, che non approva l’appoggio ai Fratelli Musulmani e le pretese egemoniche quatarine sul Golfo. Il tutto mentre prosegue la guerra civile siriana e l’embargo euro-americano contro l’Iran.
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Brancaccio: tutti precari? Pessimo affare, ditelo a Renzi
«I contratti precari incentivano forse i datori di lavoro ad assumere, ma favoriscono anche la distruzione di posti di lavoro nelle fasi di crisi. L’effetto netto è prossimo allo zero». Secondo Emiliano Brancaccio, si sta profilando lo scenario previsto dal “monito degli economisti”, pubblicato lo scorso settembre sul “Financial Times”. La dottrina della “austerità espansiva”, secondo cui l’austerità dovrebbe assicurare la crescita, viene sostituita da quella – altrettanto improbabile – della “precarietà espansiva”: «L’idea è che attraverso ulteriori dosi di precarizzazione del lavoro si dovrebbe generare crescita dei redditi e dell’occupazione», ma rischio è che «si passi da una vecchia a una nuova illusione». Già la “austerità espansiva”, invece di favorire la ripresa, ha solo «alimentato la depressione». Idem per l’aumento della precarizzazione su cui puntano Renzi e la Merkel: «Le evidenze empiriche, dell’Ocse come del Fondo Monetario Internazionale, ci dicono che la flessibilità del lavoro non è correlata all’aumento dell’occupazione».Dare ossigeno all’economia senza aumentare il deficit oltre i limiti imposti da Bruxelles? «La scommessa di Renzi – rispettare il vincolo e abbassare le tasse – si basa evidentemente sulla possibilità che il Pil aumenti, che sia cioè il denominatore ad aumentare facendo scendere il rapporto», dice Brancaccio, intervistato da Luca Sappino per “L’Espresso”. L’economista è scettico: «L’effetto espansivo che Renzi ha previsto di ottenere con questa riduzione delle tasse sarà in realtà modesto, e verrà in parte mitigato dalla diminuzione della spesa pubblica. La spending review su cui tutti puntano può avere un effetto contrario agli 80 euro in busta paga, soprattutto quando si tagliano spese sensibili, come ad esempio il trasporto pubblico». Per il 2014, aggiunge Brancaccio, il taglio della spesa sarà certamente inferiore rispetto a quanto previsto da Renzi. «E’ chiaro quindi che siamo di fronte a un buco di bilancio. Anzi, in un certo senso dovremmo augurarcelo. Anche perché, a prescindere dalle cifre, non esiste un programma di revisione della spesa che sia credibile se realizzato in un semestre».La storia, continua Brancaccio, ci insegna che le revisioni di spesa condotte in fretta e furia «si trasformano in tagli lineari brutali, che colpiscono sempre i soggetti più deboli e non aiutano certo la crescita del Pil». Forse, in Europa sono iniziate «le prove generali per l’annunciato scambio tra un po’ meno austerità e un po’ più riforme del lavoro», ma certo non se ne esce con la dottrina della “precarietà espansiva”, perché la precarietà non espande proprio nulla. Dietro, «vi è l’idea che l’intera Eurozona si salva solo se i paesi periferici, a colpi di precarizzazione del lavoro, riescono ad abbattere i salari, i costi e i prezzi. In questo modo si dovrebbe colmare il divario di competitività rispetto alla Germania e si dovrebbero quindi riequilibrare i rapporti di credito e debito all’interno dell’Unione». La storia però smonta ogni illusione: questo meccanismo non funziona, perché «impone ai soli paesi debitori il peso del riequilibrio». In questo modo, «l’intera Unione viene trascinata in una corsa salariale al ribasso, che può determinare una deflazione generalizzata e una nuova crisi del debito».«I contratti precari incentivano forse i datori di lavoro ad assumere, ma favoriscono anche la distruzione di posti di lavoro nelle fasi di crisi. L’effetto netto è prossimo allo zero». Secondo Emiliano Brancaccio, si sta profilando lo scenario previsto dal “monito degli economisti”, pubblicato lo scorso settembre sul “Financial Times”. La dottrina della “austerità espansiva”, secondo cui l’austerità dovrebbe assicurare la crescita, viene sostituita da quella – altrettanto improbabile – della “precarietà espansiva”: «L’idea è che attraverso ulteriori dosi di precarizzazione del lavoro si dovrebbe generare crescita dei redditi e dell’occupazione», ma rischio è che «si passi da una vecchia a una nuova illusione». Già la “austerità espansiva”, invece di favorire la ripresa, ha solo «alimentato la depressione». Idem per l’aumento della precarizzazione su cui puntano Renzi e la Merkel: «Le evidenze empiriche, dell’Ocse come del Fondo Monetario Internazionale, ci dicono che la flessibilità del lavoro non è correlata all’aumento dell’occupazione».
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Augè: noi, l’umanità, contro l’utopia nera dell’oligarchia
Gli ideologi neoliberisti come Francis Fukuyama ci avevano annunciato la “fine della storia”, cioè la grande narrazione in base alla quale avremmo conquistato una “democrazia universale” fondata sul libero mercato? Tutto sbagliato, come s’è visto. Sotto i nostri occhi, sostiene il filosofo Marc Augé, c’è «l’utopia nera dell’oligarchia planetaria»: nel mondo delle reti globalizzate, la competenza scientifica e il potere economico e politico si concentrano in poche mani. Non una democrazia diffusa su tutta la Terra, bensì «un’oligarchia planetaria dominata da tutti coloro che sono in qualche modo collegati alla sfera del potere politico, scientifico ed economico, mantenuto e riprodotto dalla massa degli utilizzatori passivi quali sono i consumatori costretti al dovere di consumare, ma anche dalla massa sconfinata di tutti gli esclusi dal sapere e dai consumi». Altro che “fine della storia” concepita come accordo unanime sulla forma definitiva di governo degli uomini. Uscite di sicurezza? Una, l’utopia: rimettere la conoscenza al centro della nostra vita, declassando il culto della produttività.Voler scindere economia e educazione, scrive Augè in una riflessione su “La Stampa” ripresa da “Micromega”, ha significato il fallimento di entrambi i campi. «Dissociarli significa infatti cedere alla grande tentazione postmoderna: rifiutare di porsi la questione delle finalità». Oggi, sotto i morsi della grande crisi, la priorità viene sempre data agli obiettivi a breve termine: aiuti d’emergenza, piani sociali, formazione professionale. Ma, intanto, viene elusa la questione centrale: «In vista di cosa si lavora o si studia?». Il nostro fine ultimo, la nostra umanità profonda. «È considerata una sorta di lusso, un sogno da intellettuali idealisti a beneficio di altri sognatori», da dimenticare in fretta per ripiegare prontamente sugli obiettivi a breve termine. «Come in altri ambiti, il problema dei fini ultimi è abbandonato alle divagazioni talvolta letali dei fanatici e dei folli». Ma le conseguenze sono catastrofiche: non siamo più sicuri di sapere perché facciamo quello che facciamo, in una sorta di pericolosa alienazione sempre più funestata dal peggiorare delle condizioni socio-economiche.«Nel momento in cui si invocano requisiti di redditività per giustificare i ridimensionamenti che provocano un calo del potere d’acquisto, a sua volta causa del rallentamento della crescita (è uno dei circoli viziosi del capitalismo nella sua fase attuale), le politiche educative sono sempre meno orientate all’acquisizione del sapere in sé e per sé», scrive Augè. Risultato: a cominciare da quelli “economicamente svantaggiati”, i bambini hanno una possibilità alquanto scarsa se non nulla di accedere a determinati tipi di insegnamento. Così, il sistema educativo tende a riprodurre le disuguaglianze sociali. E persino l’apertura delle università a tutti «è ufficialmente considerata come un mutamento della loro vocazione: le si invita a rispondere anzitutto ai bisogni del mercato del lavoro». Forse, continua Augè, un giorno ci ricorderemo che «non v’è altra finalità per gli uomini sulla Terra se non l’imparare a conoscersi e a conoscere l’universo che li circonda», un compito “infinito” che definisce l’umanità: «La conoscenza è l’unico modo di conciliare le tre dimensioni dell’uomo: individuale, culturale e generica».Se decidessimo di sacrificare tutto all’istruzione, alla ricerca e alla scienza, «facendo investimenti massicci e senza precedenti, nel settore dell’insegnamento a ogni livello», secondo Augè avremmo «più occupazione e maggior prosperità», perché l’ideale della conoscenza «non ha bisogno di disuguaglianze sociali o economiche ma, all’opposto, tali disuguaglianze sono fattori di stagnazione, sono ostacoli, una notevole dispersione di energia, un attentato al potenziale intellettuale dell’umanità». È certo, invece, che lasciare aumentare lo scarto tra i più istruiti e i non istruiti significa «aggravare irrimediabilmente l’impoverimento della stragrande maggioranza». Idea utopica? Per contro, quelle che guidano le politiche reali sono «follie», nutrite di «settarismo e ignoranza». Sicché, «obbligandoci a porre nuovamente la questione dei fini», proprio l’utopia «può aiutarci a definire un programma». In fondo, continua Augè, «quali individui mortali, siamo tutti condannati all’utopia. In vista di cosa viviamo? Malgrado la forma interrogativa, questa domanda è l’unica risposta – risposta critica, risposta di crisi – che si possa dare a coloro che pretendono di gestire la nostra vita quotidiana e al contempo di incaricarsi del nostro avvenire».È probabile che la crisi del mondo globalizzato «firmi l’atto di morte dell’ultimo “grande racconto”», per citare l’espressione di Jean-François Lyotard. Era il racconto liberale di Fukuyama: la felicità universale garantita da democrazia rappresentativa e libero mercato. Come sappiamo, la storia ha ripreso a correre – ma purtroppo in direzione opposta: siamo in balia di una élite nient’affatto democratica, anzi dispotica e oligarchica. Capace di infliggere infinite sofferenze all’umanità: diventa abissale il divario tra ricchi e poveri, pure «in un universo socio-economico in espansione», crescita che peraltro contrasta «con le dimensioni limitate del pianeta: ecco cosa la crisi ci ha manifestamente rivelato o confermato». A forza di «cullarci nell’illusione di un eterno presente», finiremo per scoprire di colpo che «i problemi attuali non erano che le premesse di uno sconvolgimento più radicale». Stiamo già vivendo «un ridimensionamento, al quale il nostro sguardo non si è ancora abituato e di cui la crisi è una delle conseguenze». Non possiamo sapere se a vincere sarà «l’utopia nera dell’oligarchia» o l’umanità, magari grazie «a un capovolgimento storico imprevisto, a qualche importante scoperta scientifica». Ma intanto già conosciamo l’utopia di domani: sarà la Terra, «il pianeta in quanto tale».Gli ideologi neoliberisti come Francis Fukuyama ci avevano annunciato la “fine della storia”, cioè la grande narrazione in base alla quale avremmo conquistato una “democrazia universale” fondata sul libero mercato? Tutto sbagliato, come s’è visto. Sotto i nostri occhi, sostiene il filosofo Marc Augé, c’è «l’utopia nera dell’oligarchia planetaria»: nel mondo delle reti globalizzate, la competenza scientifica e il potere economico e politico si concentrano in poche mani. Non una democrazia diffusa su tutta la Terra, bensì «un’oligarchia planetaria dominata da tutti coloro che sono in qualche modo collegati alla sfera del potere politico, scientifico ed economico, mantenuto e riprodotto dalla massa degli utilizzatori passivi quali sono i consumatori costretti al dovere di consumare, ma anche dalla massa sconfinata di tutti gli esclusi dal sapere e dai consumi». Altro che “fine della storia” concepita come accordo unanime sulla forma definitiva di governo degli uomini. Uscite di sicurezza? Una, l’utopia: rimettere la conoscenza al centro della nostra vita, declassando il culto della produttività.