Archivio del Tag ‘consenso’
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Riparare l’Italia? Impossibile, se gli Usa non vogliono
Arrivano i nostri e sistemeranno tutto, con riforme dettate dal buon senso? Perfetto, in teoria. In pratica, però, non succede mai. Motivo? Semplice: le soluzoni esistono, ma non ci è permesso adottarle. Da chi? Dalla ristrettissima élite finanziaria che ha in mano il sistema economico. Le cose vanno male (per noi) perché così hanno deciso loro. Inutile illudersi che possa davvero cambiare qualcosa, dice l’avvocato Marco Della Luna, se prima non si stracciano i trattati di sudditanza verso gli Usa e, in Europa, verso la Germania, il vassallo incaricato di frenare – con la crisi indotta – lo sviluppo del vecchio continente, allo scopo di sabotarne la sovranità e quindi la vitalità. Il pericolo, per loro, è sempre lo stesso: la nostra libertà d’azione. «Un ristretto numero di grandi famiglie bancarie, cioè l’establishment angloamericano e poc’altro, detiene nel mondo il potere economico, quindi politico e militare; il suo consenso è indispensabile per ogni significativa riforma in ogni paese dell’area del dollaro. Impone spesso, nel proprio interesse, riforme contrarie all’interesse collettivo, come l’abolizione del Glass Steagal Act, e le mantiene anche dopo che si è manifestata la loro nocività».Un giorno anche questo “impero” crollerà, come tutti gli altri, aggiunge Della Luna nel suo blog. Ma a farlo collassare non saranno certo i ragazzi di “Occupy Wall Street” o del movimento di Grillo. «Siamo inclini ancora oggi a pensare che i policy-makers, i decision-makers, siano tuttora gli Stati, i governi, i parlamenti». Ma in realtà «non lo sono più da molto tempo: essi sono controllati da chi li finanzia, detiene il loro debito, gli fa il rating». Siamo portati a pensare e a promettere: prendiamo la maggioranza assoluta e aggiustiamo le cose per il paese. Ma non funziona così: «I vincoli e i poteri esterni sono ampiamente preponderanti e dettano ciò che puoi e ciò che devi fare, e se non ottemperi ti fanno cadere, mobilitando mass media e giustizia». In piccolo, la falsa partenza della giunta Raggi a Roma dimostra la stessa verità: anche per cambiare le cose in una città non basta avere i voti, «bisogna fare i conti con interessi consolidati appoggiati da ampi settori istituzionali, mediatici e “religiosi”».Sul piano tecnico, continua Della Luna, i metodi per risanare il sistema bancario italiano e per rilanciare l’economia con idonei finanziamenti di ampio respiro sono già disponibili e più volte descritti. Ma, per introdurre riforme importanti, bisogna fare i conti con l’oste: «Chi avanza proposte di riforma di qualche rilevanza, soprattutto in ambiti economico-finanziari, geostrategici, scientifico-tecnologico (soprattutto energetici), dovrebbe preliminarmente verificare se il predetto consenso vi è o non vi è – il cosiddetto “Washington consensus” (e “Berlin consensus”), esponente degli interessi di quell’establishment finanziario-militare-politico che già Dwight Eisenhower indicava come incompatibile con la democrazia e che ancora prima Charles Wright Mills denominò “power elite”». Non se parla mai, «perché discuterne è sgradevole, scabroso». Chi fa proposte di riforma sostanziale dovrebbe prima verificare «quali siano gli spazi di manovra consentiti all’Italia dai vincoli esterni, e in primo luogo dai trattati di pace e relativi protocolli anche riservati, seguiti alla fine della II Guerra Mondiale, e configuranti per l’Italia una sovranità limitata in subordinazione agli Usa».Lo stesso vale per la Germania: «Ogni cancelliere tedesco, prima di assumere il suo ufficio, deve sottoscrivere la “Kanzlerakte”, ossia un impegno di obbedienza alla Casa Bianca». E un protocollo riservato del trattato di pace con gli Usa «attribuisce a questi la “Medienhoheit”, ossia la sovranità sui mass media tedeschi». Ma se la Germania è “previsto” che sia efficiente, per l’Italia le cose cambiano: Della Luna parla di «obblighi verso gli Usa che impongono all’Italia di restare inefficiente in determinati settori e di subire, nascondendolo all’opinione pubblica, prelievi di ricchezza e di altri assets da parte degli Usa o di loro soggetti imprenditoriali. Prelievi che si traducono in tasse e tagli». L’Italia, poi, è costretta a subire «la sistematica violazione delle regole fiscali europee» da parte della Germania, nonché «lo shopping delle sue aziende migliori». Abbiamo «subito passivamente l’attacco ai Btp per imporre il “regime change” nel 2011 con la leva dello spread». E fu il cancelliere Kohl, racconta Della Luna nel saggio “Polli da spennare” (Nexus, 2008) a frenare la riforma italiana dell’efficienza.Piatto forte, comunque, i nostri soldi da versare al sistema finanziario americano: «Negli anni ’90, i governanti italiani – costretti o corrotti – hanno stipulato con primarie banche statunitensi contratti derivati Irs del tipo “banca vince se tassi calano” quando già era determinato che sarebbero calati; quindi l’Italia, il contribuente italiano, sta pagando centinaia di miliardi di perdite su questi contratti, e questi pagamenti chiaramente costituiscono la corresponsione di un tributo alla potenza vincitrice da parte del paese sconfitto e sottomesso». Una pratica turpe, rinnovata «anche grazie all’“Europa”». Per non parlare degli F-35, aerei-rottame, o delle guerre in Iraq, Afghanistan e Libia, «contrarie agli interessi italiani». La prima vittima? Enrico Mattei: «Fu ucciso mentre, come presidente dell’Eni, disturbava il cartello petrolifero angloamericano».L’indurre destabilizzazioni finanziarie, civili e politiche nei vari paesi della loro zona di influenza, a scopo di sottometterli e sfruttarne le risorse, è una prassi costante delle multinazionali americane, come ben illustrato e documentato da uno dei principali esecutori, John Perkins, nel saggio “Confessioni di un sicario dell’economia” (Minimum Fax). Gli Usa sono il peggior “Stato-canaglia” del pianeta? Già, ma «la sua forza imperiale e il suo controllo dell’informazione gli consente di non apparire tale, in superficie». Della Luna indica una direzione di ricerca, quella dei «protocolli riservati annessi ai trattati di pace e relativi al Piano Marshall». Se risulterà che ci sono e che non permettono le progettate riforme, allora è inutile insistere nel portarle avanti, conclude il saggista. Meglio, a quel punto, progettare «una vasta campagna globale di informazione su quei vincoli, sulla loro dannosità, sulla loro iniquità, al fine di contestare la loro validità e compatibilità coi diritti dell’uomo e coi principi democratici», in modo che americani (e tedeschi) scendano dal trono.Arrivano i nostri e sistemeranno tutto, con riforme dettate dal buon senso? Perfetto, in teoria. In pratica, però, non succede mai. Motivo? Semplice: le soluzioni esistono, ma non ci è permesso adottarle. Da chi? Dalla ristrettissima élite finanziaria che ha in mano il sistema economico. Le cose vanno male (per noi) perché così hanno deciso loro. Inutile illudersi che possa davvero cambiare qualcosa, dice l’avvocato Marco Della Luna, se prima non si stracciano i trattati di sudditanza verso gli Usa e, in Europa, verso la Germania, il vassallo incaricato di frenare – con la crisi indotta – lo sviluppo del vecchio continente, allo scopo di sabotarne la sovranità e quindi la vitalità. Il pericolo, per loro, è sempre lo stesso: la nostra libertà d’azione. «Un ristretto numero di grandi famiglie bancarie, cioè l’establishment angloamericano e poc’altro, detiene nel mondo il potere economico, quindi politico e militare; il suo consenso è indispensabile per ogni significativa riforma in ogni paese dell’area del dollaro. Impone spesso, nel proprio interesse, riforme contrarie all’interesse collettivo, come l’abolizione del Glass Steagal Act, e le mantiene anche dopo che si è manifestata la loro nocività».
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Brancaccio: l’Ue distrugge il lavoro e fabbrica migranti
I partiti xenofobi guadagnano consensi e ormai influenzano le agende di governo proponendo il blocco dei movimenti migratori? «Bisognerebbe spiegare ai cittadini che la crescita dell’immigrazione è un problema del tutto secondario rispetto alla questione principale, che riguarda la libera circolazione internazionale dei capitali», spiega l’economista Emiliano Brancaccio. «L’indiscriminata libertà di movimento dei capitali è un fattore scatenante delle onde speculative, degli squilibri e delle crisi del nostro tempo». Se oggi i capitali «possono muoversi da un paese all’altro alla continua ricerca di bassi salari, bassa pressione fiscale sui profitti e blandi vincoli ambientali e contrattuali», il risultato è che «ogni istanza di progresso sociale e civile viene presto o tardi soffocata». Per questo, Brancaccio pensa a un sistema di controllo dei movimenti di capitale, fuori e dentro l’Europa, «specialmente da e verso quei paesi che adottino misure di dumping sociale e fiscale». Ma il vero problema, dice l’economista, è che l’Unione Europea è ormai un cadavere. Pura utopia sperare di poterla riformare dall’interno, come sperava la sinistra di Tsipras e soci.In Italia, ovviamente, buio pesto: «Dalle nostre parti il dibattito politico è dominato dal nulla», dichiara Brancaccio a Giacomo Russo Spena in un’intervista su “Micromega”. «Eppure, quando ai prossimi appuntamenti elettorali si tratterà di giudicare i programmi dei partiti, poche cose saranno importanti quanto la posizione che le varie forze assumeranno sul tema della circolazione indiscriminata dei capitali». L’esodo di massa dei lavoratori, dal Sud verso il Nord dell’Europa? E’ «l’unico meccanismo che può mitigare gli effetti della forbice occupazionale in atto». Ma siamo alla macelleria pura: «Quella migratoria è una valvola di sfogo delicata, complessa, dolorosa, che richiederebbe un minimo di organizzazione preventiva della direzione e della velocità dei flussi». Dinamiche che l’Ue non ha neppure provato a governare, preferendo affidarsi «a rozzi meccanismi di mercato», contribuendo così a «cospargere altra benzina sul fuoco del risentimento sociale e della xenofobia». Ci siamo dentro anche noi: «Oggi la propaganda delle forze reazionarie, in Gran Bretagna come in Germania, cattura consensi anche lamentando che “ci sono troppi italiani in giro”. Con buona pace per gli ideali di fratellanza tra i popoli europei».Queste tendenze, aggiunge Brancaccio, potrebbero sfociare in una sorta di “xenofobia liberista”, a partire dai possibili esiti della trattativa sulla Brexit. L’influente Istituto Bruegel di Bruxelles promuove un nuovo accordo tra Ue e Regno Unito che si basi da un lato sulla riaffermazione della indiscriminata circolazione internazionale dei capitali tra le due aree, e dall’altro sulla concessione ai britannici di bloccare a piacimento i flussi di immigrati dal continente. «Se questo è il meglio che gli illuminati think-tank europei sono in grado di proporre, la sintesi che ho definito “xenofobia liberista” non è più semplicemente un’ipotesi sul futuro, ma deve già esser considerata un’orrida realtà di fatto», dice Brancaccio. Gli storici revisionisti sostengono che l’avvento dei fascismi in Europa fu una reazione alla rivoluzione bolscevica? «Quel che sta avvenendo in questi anni sembra suggerire che l’ascesa di forme più o meno surrettizie di fascismo può anche verificarsi come effetto diretto del meccanismo capitalistico e delle sue crisi, pur nella totale assenza di una minaccia di tipo comunista o anche solo vagamente tradeunionista».E il peggio è che nessuna schiarita è in vista: «Mettiamocelo bene in testa: in Europa non c’è nessuna svolta, nessun vento federalista di cambiamento». La sostanza delle politiche economiche non è cambiata: «L’Eurozona resta sull’orlo della deflazione, con effetti tremendi per le economie più fragili e per i lavoratori di tutto il continente». Morale: «Il sentiero che stiamo percorrendo è palesemente insostenibile». E il problema non riguarda solo la quantità totale di liquidità erogata, ma anche l’impossibilità di indirizzarla verso i soggetti più in difficoltà: attraverso l’acquisto di titoli di Stato, il grosso delle erogazioni Bce finisce alla Germania, anziché alle economie che più ne avrebbero bisogno. E non ci sono segnali politici che possano lasciar sperare in un cambio di rotta. «Con le attuali regole, la solvibilità è del tutto compromessa in Grecia, e in prospettiva non è garantita nemmeno in Italia e negli altri paesi del Sud Europa». Se Draghi si decidesse ad affrontare davvero il problema, aggiunge Brancaccio, dovrebbe riconoscere che l’Eurozona sta implodendo: «Nessuna unione monetaria alla lunga può sopravvivere se il paese più forte si ostina ad attuare una politica di competizione al ribasso sui salari».Oggi in Germania le retribuzioni hanno cominciato finalmente a crescere, ma in questo modo «è stato eliminato solo un terzo del vantaggio competitivo che la Germania aveva accumulato nello scorso decennio, anche grazie a una ferrea politica di controllo dei salari». In una situazione di deflazione – più merci che denaro circolante – si distrugge capacità produttiva, eliminando posti di lavoro nel Sud Europa. In Italia, dall’approvazione del Jobs Act l’occupazione è aumentata meno della metà rispetto alla crescita media europea, già molto modesta. E’ provato: «La precarizzazione dei contratti non crea occupazione, serve solo a indebolire i lavoratori e a ridurre ulteriormente i salari». Così, oggi, gli italiani che lasciano i confini nazionali sono più degli immigrati che arrivano. Altro che Asia e Africa: «Almeno metà delle attuali migrazioni è interna al continente». Era tutto previsto, peraltro, dalla castrofica architettura Ue: fin dall’inizio, «si sapeva che l’assetto dell’Unione avrebbe determinato andamenti sbilanciati dell’occupazione nei diversi paesi, e quindi avrebbe indotto imponenti migrazioni di lavoratori dalle aree più deboli a quelle più forti». Rispetto al 2007, aggiunge Brancaccio, in Germania ci sono oggi circa tre milioni di occupati in più, mentre in Spagna registriamo 2 milioni e trecentomila occupati in meno. In Italia i posti di lavoro sono un milione in meno rispetto a dieci anni fa. «E in tutto il Sud Europa sono stati distrutti circa 5 milioni di posti di lavoro».I partiti xenofobi guadagnano consensi e ormai influenzano le agende di governo proponendo il blocco dei movimenti migratori? «Bisognerebbe spiegare ai cittadini che la crescita dell’immigrazione è un problema del tutto secondario rispetto alla questione principale, che riguarda la libera circolazione internazionale dei capitali», spiega l’economista Emiliano Brancaccio. «L’indiscriminata libertà di movimento dei capitali è un fattore scatenante delle onde speculative, degli squilibri e delle crisi del nostro tempo». Se oggi i capitali «possono muoversi da un paese all’altro alla continua ricerca di bassi salari, bassa pressione fiscale sui profitti e blandi vincoli ambientali e contrattuali», il risultato è che «ogni istanza di progresso sociale e civile viene presto o tardi soffocata». Per questo, Brancaccio pensa a un sistema di controllo dei movimenti di capitale, fuori e dentro l’Europa, «specialmente da e verso quei paesi che adottino misure di dumping sociale e fiscale». Ma il vero problema, dice l’economista, è che l’Unione Europea è ormai un cadavere. Pura utopia sperare di poterla riformare dall’interno, come sperava la sinistra di Tsipras e soci.
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Dal ‘45, Usa e Occidente hanno ucciso 55 milioni di persone
Gli Stati Uniti sono l’impero più sanguinario, il maggior “terrorista” del mondo: dal dopoguerra hanno ucciso 55 milioni di persone. Lo afferma Gianluca Ferrara, saggista e blogger del “Fatto Quotidiano”. Su “ByoBlu”, il video-blog di Claudio Messora, offre una spietata cronologia della strage. A cominciare dal 6 agosto 1945: Hiroshima, 200.000 civili sterminati. «Oggi gli Usa possiedono 7.000 ordigni atomici, 2.000 già dispiegati: ognuno di questi ha un potenziale esplosivo fino a tremila volte superiore a quello di Hiroshima». Come l’Impero Romano e quello napoleonico, gli Usa sono trainati da un’economia di guerra: «Per sopravvivere, hanno bisogno di trovare costantemente un nuovo nemico da combattere». Solo nel 2015 hanno investiti 1.800 miliardi di dollari in armamenti, al servizio di una politica estera «stabilita da un élite» che ci narcotizza, utilizzando i media mainstream. Di fatto, gli Usa «sono l’impero terrorista più brutale della storia: dal 1945 ad oggi, la politica estera dell’Occidente ha determinato l’uccisione di 55 milioni di esseri umani. E nel 1990 l’obiettivo degli Stati Uniti è diventato la conquista del Medio Oriente».La prima Guerra del Golfo ebbe inizio grazie ad un inganno: Saddam venne portato a credere che l’occupazione del Kuwait, che era stato un protettorato inglese ma che era rivendicato dall’Iraq fin dal 1961 come appartenente al suo territorio, sarebbe avvenuta senza l’interessamento degli Usa. «Fu una trappola tesa da April Gaspie, ambasciatrice Usa a Baghdad dell’epoca, che fece intendere che gli Usa non avrebbero interferito». Poi, l’11 settembre 2001, «l’abbattimento delle Torri Gemelle fornì il pretesto per terminare il lavoro». Dei 19 presunti attentatori nessuno era iracheno e nessuno era afghano: ben 15 di loro erano sauditi. Ma ad essere colpita non fu l’Arabia Saudita, bensì l’Afghanistan. «La sfortuna degli afghani – dice Ferrara – fu che in quel territorio doveva transitare un oleodotto, che i Talebani non volevano». Una condotta lunga 1.680 chilometri per portare il gas turkmeno di Dauletabad fino in Pakistan attraverso l’Afghanistan occidentale, cioè le province di Herat e Kandahar.Il progetto venne avviato nel 1996 dalla compagnia petrolifera statunitense Unocal, per la quale lavoravano sia Hamid Karzai che Zalmay Khalizad, in cooperazione con il regime talebano. Nel 1996, la Unocal apre una sede a Kandahar. E l’anno dopo, esponenti del governo talebano vengono ricevuti negli Usa. Ma il piano viene poi accantonato per le difficoltà politiche imputabili ai Talebani. «La seconda sfortuna era che gli anni ’70 avevano visto il boom della produzione di oppio e di eroina in Afghanistan. Era il cosiddetto triangolo d’oro», formato da Laos, Birmania e Cambogia. Triangolo «controllato dalla Cia, che in questo modo finanziava le operazioni anticomuniste nel sud-est dell’Asia». I Talebani negli anni ’90 «continuarono il business della droga con la Cia, ma nel 2000 il Mullah Omar lo mise al bando, allo scopo di guadagnarsi un consenso internazionale». L’anno dopo, la produzione di oppio crollò a valori prossimi allo zero. «Grazie alla conquista dell’Afghanistan, la produzione di eroina afghana (che gli Usa si rifiutarono di combattere, sostenendo che non era compito loro) tornò presto a soddisfare il 93% del fabbisogno mondiale».Gli Stati Uniti non combattono mai una guerra inseguendo un solo obiettivo, continua Ferrara: secondo l’Unicef, i 10 anni di embargo all’Iraq hanno causato la morte di un milione e mezzo di persone, tra cui cinquecentomila bambini. Il segretario di Stato Usa Madeleine Albright, quando le fu chiesto di commentare la morte di questi 500 mila bambini, rispose che la scelta era stata difficile, ma che ne era valsa la pena. «La balla sesquipedale delle armi di distruzione di massa, che sarebbero state in mano a Saddam, fu la scusa per impadronirsi definitivamente dell’Iraq, nel quadro della strategia economico-commerciale “Pivot to Asia”, che mirava a cinturare la Cina per impedirle un’espansione a ovest». Ma le uniche armi di distruzione di massa in mano a Saddam «erano quelle che proprio gli Stati Uniti gli avevano venduto, perché fossero usate per lo sterminio dei curdi».Un genocidio, quello del Kurdistan iracheno, al quale abbiamo contribuito anche noi italiani, con la vendita a Saddam di ben 9 milioni di mine antiuomo: «Del resto ancora adesso Matteo Renzi ritiene doveroso fare affari con chi finanzia l’Isis». Ma anche supponendo che l’Iraq avesse posseduto quelle armi, aggiunge Ferrara, i 7.000 ordigni nucleari di cui gli Stati Uniti d’America sono dotati non sono forse “armi di distruzione di massa”? Bisognerebbe chiederlo all’allora vice di Bush, Dick Cheney, che «per pura coincidenza era anche a capo della grande azienda petrolifera Halliburton, che si avvantaggiò successivamente dell’occupazione dei pozzi petroliferi iracheni». Ma, chiusa la partita con l’Iraq, il processo di colonizzazione prevedeva l’invasione della Siria. «Senza dimostrare molta fantasia, gli Stati Uniti cercarono di convincere il mondo che Assad usava armi chimiche contro i suoi cittadini». Solo la ferma opposizione di Putin riuscì a bloccare Obama, che nel 2013 era a un passo dall’attacco.Serviva allora un’altra strategia: così si inventarono la guerra per procura. «Bisognava finanziare i gruppi che si opponevano ad Assad: Al Nusra e l’Isis. Così, arrivarono piogge di dollari statunitensi sugli jihadisti, come rivelarono in tanti, tra cui ex dipendenti della Cia, ex ufficiali». Michael Flynn: «Sostenere Isis fu una nostra decisione deliberata». Tra le ammissioni persino quelle di un senatore, Rand Paul, e di una deputata, Tulsi Gabbard. Per non parlare del vicepresidente Joe Biden, che nell’ottobre del 2014 rivelò che sugli jihadisti impegnati in Siria erano arrivate piogge di dollari statunitensi. «La vera ragione per cui Assad è stato attaccato – afferma Ferrara – è che nel 2009 si era rifiutato di far transitare sul proprio territorio un gasdotto, proposto dal Qatar e dall’Arabia Saudita, che doveva passare per la Turchia e avere come destinazione l’Europa, per togliere alla Russia di Putin il monopolio». Non solo: «Assad si era accordato con l’Iraq per accogliere un gasdotto alternativo, ed era dalla parte dei palestinesi contro le aggressioni dello Stato di Israele».Poco prima, il “trattamento” era toccato alla Libia, che possiede le riserve di petrolio africane più importanti: 48.000 miliardi di barili, più 1.500 miliardi di metri cubi di gas. «Ma in realtà Gheddafi fu fatto fuori anche per un’altra ragione: proprio come Saddam, aveva deciso di non vendere più il petrolio in dollari, bensì attraverso un’altra moneta sovrana che stava creando: il dinaro libico». Dalla Libia alla Siria, fino all’attuale terrorismo internazionale: i recenti attentati in Francia, Belgio e Germania «hanno delle analogie con quello che accadde in Italia negli anni ’90, dopo la rottura del patto Stato-mafia, quando Roma e Milano furono duramente colpite dalle ritorsioni di Cosa Nostra». Dietro ai kamikaze ci sono «veri professionisti del terrore, che da sempre hanno usato mercenari, criminali, fondamentalisti e perfino squilibrati per seminare la paura e instaurare, sotto la copertura di una finta democrazia, una dittatura economico-militare». I jihadisti, poi, svolgono anche un altro ruolo importante: «Sono un eccellente concime per far germogliare il seme della paura in Occidente: più abbiamo paura, più cerchiamo protezione». Con buona pace del grande Tiziano Terzani, secondo cui «il problema del terrorismo non si risolve uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali».Gli Stati Uniti sono l’impero più sanguinario, il maggior “terrorista” del mondo: dal dopoguerra hanno ucciso 55 milioni di persone. Lo afferma Gianluca Ferrara, saggista e blogger del “Fatto Quotidiano”. Su “ByoBlu”, il video-blog di Claudio Messora, offre una spietata cronologia della strage. A cominciare dal 6 agosto 1945: Hiroshima, 200.000 civili sterminati. «Oggi gli Usa possiedono 7.000 ordigni atomici, 2.000 già dispiegati: ognuno di questi ha un potenziale esplosivo fino a tremila volte superiore a quello di Hiroshima». Come l’Impero Romano e quello napoleonico, gli Usa sono trainati da un’economia di guerra: «Per sopravvivere, hanno bisogno di trovare costantemente un nuovo nemico da combattere». Solo nel 2015 hanno investiti 1.800 miliardi di dollari in armamenti, al servizio di una politica estera «stabilita da un élite» che ci narcotizza, utilizzando i media mainstream. Di fatto, gli Usa «sono l’impero terrorista più brutale della storia: dal 1945 ad oggi, la politica estera dell’Occidente ha determinato l’uccisione di 55 milioni di esseri umani. E nel 1990 l’obiettivo degli Stati Uniti è diventato la conquista del Medio Oriente».
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I 5 Stelle? Crolleranno quando nascerà un’alternativa seria
I 5 Stelle scivolano nella palude romana, per la gioia del mainstream politico e mediatico che finalmente li vede in seria difficoltà alla prova del comando? Male, anzi malissimo. Ma chi scommette sul crollo dei grillini si illude, dice Aldo Giannuli: la base pentastellata sa benissimo che il movimento di Grillo non ha una vera classe dirigente, ed è pronta – ancora – a perdonargli ingenuità anche gravi, pur di non tornare ai figuranti del sistema precedente. Se i grandi media e i partiti concorrenti (Pd in testa) sparano a man salva sui 5 Stelle dichiarandoli incapaci di governare, ben altre critiche provengono dall’area di opinione che si esprime su molti blog: il vero problema dei grillini è che non hanno soluzioni radicali e risolutive per la crisi, sociale ed economica, innescata dal dominio della finanza e, in Europa, tradottasi nei diktat dell’Unione Europea e della Bce, con la storica confisca della moneta sovrana. Anche a Roma i grillini si sono tenuti alla larga dal problema, evitando di denunciarlo apertamente. Eppure, vengono ancora visti da una larga parte di elettorato come una forza politica alternativa, l’unica in campo.Tutta la polemica di queste settimane – gli incarichi discutibili, le procedure di trasparenza – si sviluppa a valle del grande problema: come rilanciare l’economia italiana, a partire da una metropoli come Roma, senza disporre di investimenti strategici? Come è possibile impostare un governo radicalmente “rivoluzionario” senza prima rivendicare, ad alta voce, il diritto alla sovranità finanziaria, senza più la tagliola del patto di stabilità imposto da Bruxelles? Sono i temi sui quali era stata lanciata, dal Movimento Roosevelt di Gioele Magaldi, la candidatura (altamente simbolica) di un fuoriclasse dell’economia keynesiana, il professor Nino Galloni. Premessa: per poter impostare una politica sociale, di sviluppo e benessere, occorre prima azzerare tutti i vincoli imposti dal sistema dell’Eurozona, anche con azioni dimostrative – e un palcoscenico come quello di Roma sarebbe perfetto, per ottenere la massima risonanza anche a livello europeo, “costringendo” anche i maggiori partiti a prendere atto che è giunto il momento di cambiare passo, regole, paradigma: la missione dell’ente pubblico non può essere il pareggio di bilancio, perché solo l’investimento pubblico può rilanciare le aziende.Nessuno, oggi, cavalca questa battaglia in Italia – nemmeno la Lega di Salvini lo fa in modo organico. Eppure, il 30% dell’elettorato (perlomeno, quello votante) scommette ancora sui 5 Stelle, non avendo altra offerta politica da prendere in considerazione. Il politologo Giannuli, non certo ostile ai grillini, avverte: il consenso attorno al Movimento 5 Stelle non è un fenomeno solo italiano, ma è «qualcosa che investe tutto l’Occidente o, quantomeno, Europa ed Usa». L’elettorato mette in discussione «la legittimazione dei sistemi di potere consolidati». Negli anni ‘30, ricorda Giannuli, «si affermò un modello di democrazia sociale, fondato sul compromesso socialdemocratico fra capitalismo e organizzazioni del movimento operaio: pace sociale contro redistribuzione della ricchezza e Stato assistenziale». Questo ordine, continua Giannuli, «è andato in frantumi man mano che è avanzata la controrivoluzione neoliberista per affermare un nuovo ordinamento basato sul comando della finanza, la delocalizzazione industriale, la precarizzazione di massa, la distruzione del ceto medio». Risultato: «Una concentrazione della ricchezza senza precedenti e una globalizzazione pensata in funzione del monopolarismo imperiale americano».Oggi, otto anni dopo l’esplosione definitiva di una crisi che «ha distrutto risparmi, posti di lavoro, garanzie sociali, falcidiando salari e stipendi, si sta manifestando la rivolta delle classi subalterne e dei ceti medi che ritirano la delega ai partiti tradizionali di sistema (liberali, socialdemocratici, cattolici, conservatori) aggregandosi in nuove formazioni abbastanza improvvisate». Formazioni che, nel caso dei 5 Stelle, non indicano neppure chiaramente la causa del problema, né avanzano soluzioni precise – ma agli elettori, almeno per ora, sembra bastare la semplice denuncia del malessere, dei sintomi sociali più acuti. Toni che ricorrono dall’Europa agli Usa, dal Front National di Marine Le Pen fino a Donald Trump. Lo scenario, peraltro, è dominato dalle ondate migratorie cui stiamo assistendo: «E’ un fenomeno strutturale che non torna indietro», e produce immediate ripercussioni elettorali: i delusi, che ormai sono la stragrande maggioranza, «possono passare da una formazione antisistema ad un altro movimento simile o forse passare all’astensione, ma, in gran parte, non pensano affatto di rifluire nella gabbia del sistema dalla quale sono uscite. E questo vale anche per il M5S».Per questo, insiste il politologo dell’ateneo milanese, sbaglia chi pensa che gli elettori stiano per abbandonare i grillini: sono pronti a perdonare loro «una quantità di sciocchezze», viste come «il prezzo da pagare per portare il sistema al crollo». Perché di questo sarebbero convinti, molti elettori di Grillo: credono davvero che la missione del movimento sia l’abbattimento del sistema, anche se il M5S non ha finora neppure sfiorato il tema capitale, cioè la drammatica sottomissione al supremo potere euro-Ue – sottomissione che rende semplicemente impossibile la realizzazione di qualsiasi politica alternativa, democratica, partecipativa e trasparente, fondata sulla riconversione sociale dell’economia. La crisi morde, e produce «umori contrastanti», dall’insofferenza verso la folle pressione fiscale alla classica rivolta contro la “casta” (vista come detentrice di privilegi, non come l’entità che ha svenduto il paese alla super-casta Ue). «Poi c’è di tutto: da quelli che temono gli immigrati al sindacalismo radicale, da vegani e nonviolenti a frange fascistoidi, da pezzi di sinistra comunista a cattolici impegnati nel volontariato. Tutto e il contrario di tutto».«E questo magma – avvisa Giannuli – attraverserà molte trasformazioni, diventerà cose diverse, ma non sparirà nel nulla». Il Movimento 5 Stelle? Rischierà davvero di sparire solo quando comparirà un’alternativa seria, realmente anti-sistema, decisa a ribaltare per davvero le regole del gioco. E cioè: fine della svendita dell’interesse pubblico, fine delle privatizzazioni e di tutte le altre conseguenze-capestro imposte dal regime autoritario dell’Eurozona, dalla super-tassazione al pareggio di bilancio. Servirà un gruppo dotato di visione prospettica, capace di rifondare l’economia abbattendo i falsi dogmi del neoliberismo, che prevedono la demolizione dello Stato come garante del cittadino. Ma anche qui, conclude Giannuli, è inutile farsi illusioni: «Per ora, non c’è nessun segno che lasci presagire una sfida del genere in tempi politicamente prevedibili». I 5 Stelle, dunque, potranno dormire sonni tranquilli: con buona pace dell’Italia che, senza una vera alternativa, continuerà ad affondare.I 5 Stelle scivolano nella palude romana, per la gioia del mainstream politico e mediatico che finalmente li vede in seria difficoltà alla prova del comando? Male, anzi malissimo. Ma chi scommette sul crollo dei grillini si illude, dice Aldo Giannuli: la base pentastellata sa benissimo che il movimento di Grillo non ha una vera classe dirigente, ed è pronta – ancora – a perdonargli ingenuità anche gravi, pur di non tornare ai figuranti del sistema precedente. Se i grandi media e i partiti concorrenti (Pd in testa) sparano a man salva sui 5 Stelle dichiarandoli incapaci di governare, ben altre critiche provengono dall’area di opinione che si esprime su molti blog: il vero problema dei grillini è che non hanno soluzioni radicali e risolutive per la crisi, sociale ed economica, innescata dal dominio della finanza e, in Europa, tradottasi nei diktat dell’Unione Europea e della Bce, con la storica confisca della moneta sovrana. Anche a Roma i grillini si sono tenuti alla larga dal problema, evitando di denunciarlo apertamente. Eppure, vengono ancora visti da una larga parte di elettorato come una forza politica alternativa, l’unica in campo.
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Ma quest’Europa è da cestinare: partiti, prendetene atto
Non basta l’evocazione di Ventotene per resuscitare il sogno europeo, messo nero su bianco dall’antifascista Altiero Spinelli, insieme a Ernesto Rossi e Ursula Hirschmann, con prefazione di Eugenio Colorni. Doveva essere l’antidoto naturale contro gli opposti appetiti truccati da nazionalismi. Né basta una location tutt’altro che casuale – il ponte della portaerei Garibaldi, nave intitolata all’eroe cosmopolita dell’unificazione italiana – per dare credibilità alle promesse di Angela Merkel, François Hollande e Matteo Renzi. «Il meeting ha voluto provare al mondo che il “sogno europeo” non è morto e che andrà avanti, nonostante il Brexit». Eppure, scrive Marco Moiso, quelli che oggi si dicono protettori del progetto europeo «rischiano di diventare i carnefici del sogno europeo a causa della loro palesata incapacità di capire il significato, profondo, che quel sogno ha e potrebbe avere per il popolo europeo». Ovvero, il sogno di Spinelli: «Un’unione federale delle nazioni europee, gli Stati Uniti d’Europa, volta a creare una società libera dalla paura, dal bisogno e dalle costrizioni, in cui ci sia uguaglianza nelle opportunità di realizzazione personale e collettiva, e in cui sia diffuso un senso di fratellanza che vada oltre la diversità di razze, nazionalità e religioni».Vale a dire: l’esatto opposto del “mostro tecnocratico” rappresentato oggi dall’Ue, che per Moiso – esponente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi – va assolutamente archiviato e superato, varando una vera federazione paritaria da realizzare a qualsiasi costo, «tramite un’evoluzione dell’attuale Unione Europea o tramite la sua dissoluzione». Nulla di simile è in vista, però, stando alle velleitarie conversazioni che hanno avuto luogo a Ventotene, dove sono emerse soltanto proposte «contingenti al contesto politico attuale e completamente incapaci di ridisegnare il progetto europeo, per ridargli senso e finalità». Se infatti «è auspicabile identificare un gruppo di nazioni disposte a proseguire verso una federazione degli Stati europei», partendo quindi dai partner di maggior peso come appunto Francia, Italia e Germania, «non è certo con i temi dell’esercito, della difesa e del rigore finanziario che si possono riaccendere gli animi per far ripartire il processo di unificazione europea».L’unione federale delle nazione europee è un progetto ambizioso, insiste Moiso, «ed è con ambizione che bisogna affrontarlo, senza cedere a particolarismi nazionali e comprendendo la necessità e l’opportunità, nel 21° secolo, di un’unione politica, economica e sociale del vecchio continente». I futuribili Stati Uniti d’Europa? «Dovranno essere capaci di restituire dignità (economica e sociale) e sovranità (politica) al popolo europeo, rimettendo l’uomo al centro del confronto politico e ridando al Parlamento continentale – eletto tramite suffragio universale – il ruolo di legislatore, di fulcro del processo integrativo e della governance complessiva dell’Europa: ruolo oggi usurpato malamente dalla Commissione Europea e sciaguratamente da una Banca Centrale Europea asservita ad interessi privati». Soltanto attraverso una completa ridefinizione del ruolo e delle finalità degli “Stati Uniti d’Europa”, conclude Moiso, «il 21° secolo potrà vedere un’ulteriore evoluzione della società in senso democratico ed egualitario, su scala globale».Organismo meta-partitico sorto per sollecitare il “risveglio” dei partiti sui temi più strategici, il Movimento Roosevelt proprone «l’apertura di un cantiere, trasversale alle identità partitiche e movimentiste, che avrà la finalità di riscrivere la Costituzione Europea per rilanciare un progetto sinceramente democratico e social-liberale». Imposta come un approdo istituzionale necessario e non negoziabile, l’attuale Ue – rivelatasi un formidabile strumento di controllo geopolitico per ingabbiare l’Europa, bloccando lo sviluppo delle relazioni con Mosca dopo la caduta del Muro – è stata in realtà progettata come una struttura autoritaria e antidemocratica: un comitato d’affari dove migliaia di lobbisti condizionano la Commissione, le cui direttive – scritte sotto dettatura – esaudiscono i voleri delle maggiori multinazionali. Il capolavoro dell’Ue consiste nell’aver demolito la sovranità democratica neutralizzando l’autonomia finanziaria degli Stati, obbligati – con l’euro – a ricorrere al mercato anche per rifornirsi di moneta, strumento indispendabile per la pianificazione strategica dell’economia. E’ la morte dell’interesse pubblico, come spiega Paolo Barnard: lo Stato è costretto a ricorrere e prestiti, esattamente come fosse una famiglia o un’azienda.E senza più la minima capacità di investire, utilizzando lo strumento-chiave del deficit positivo (il debito pubblico che ha permesso lo sviluppo del dopoguerra, del quale stiamo ancora beneficiando – infrastrutture, servizi) lo Stato è costretto a tagliare e privatizzare i settori vitali del welfare e a super-tassare il settore privato, aggravando la crisi, come più volte sottolineato da economisti indipendenti del calibro di Nino Galloni: se persino la moneta è “privatizzata”, cioè non più a disposizione del bilancio in modo teoricamente illimitato, si innesca una spirale depressiva che si traduce nel disastro economico che stiamo vivendo, di cui – in ultima analisi – è vittima anche lo Stato, che vede costantemente diminuire il gettito fiscale, nonostante l’aumento esasperante delle imposte. L’Europa sta rischiando grosso: l’allarme viene dalla catastrofe della disoccupazione, dal Brexit, dall’emergere della protesta attraverso il crescente consenso popolare di cui godono i nuovi movimenti nazionalisti, ostili alla gestione monopolitica del potere da parte di Bruxelles. Riscrivere le regole, da zero: mission impossibile? L’ostacolo enorme è rappresentato dalla super-piramide del potere finanziario, il vero padrone dell’Ue. Primo passo, per il Movimento Roosevelt: cominciare almeno a “costringere” i partiti a prendere atto che, così, non si può più andare avanti.Non basta l’evocazione di Ventotene per resuscitare il sogno europeo, messo nero su bianco dall’antifascista Altiero Spinelli, insieme a Ernesto Rossi e Ursula Hirschmann, con prefazione di Eugenio Colorni. Doveva essere l’antidoto naturale contro gli opposti appetiti truccati da nazionalismi. Né basta una location tutt’altro che casuale – il ponte della portaerei Garibaldi, nave intitolata all’eroe cosmopolita dell’unificazione italiana – per dare credibilità alle promesse di Angela Merkel, François Hollande e Matteo Renzi. «Il meeting ha voluto provare al mondo che il “sogno europeo” non è morto e che andrà avanti, nonostante il Brexit». Eppure, scrive Marco Moiso, quelli che oggi si dicono protettori del progetto europeo «rischiano di diventare i carnefici del sogno europeo a causa della loro palesata incapacità di capire il significato, profondo, che quel sogno ha e potrebbe avere per il popolo europeo». Ovvero, il sogno di Spinelli: «Un’unione federale delle nazioni europee, gli Stati Uniti d’Europa, volta a creare una società libera dalla paura, dal bisogno e dalle costrizioni, in cui ci sia uguaglianza nelle opportunità di realizzazione personale e collettiva, e in cui sia diffuso un senso di fratellanza che vada oltre la diversità di razze, nazionalità e religioni».
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La legge anti-vegana e il cibo-spazzatura di troppi minori
Vegetariani clandestini: chi preferisce il cibo sano a quello cancerogeno dovrà cominciare a nascondersi? Nel mirino i gentori, quelli più informati, che infatti nutrono i propri figli con molta frutta e verdura, cereali e legumi, evitando zuccheri, farine raffinate e bibite gassate, oltre naturalmente alla carne, indicata anche dall’Oms come fonte di rischio-tumore. Paolo Franceschetti punta il dito contro una recentissima proposta di legge in materia di regime alimentare, subito bollata come “legge anti-vegana” perché rende penalmente perseguibile quel genitore che “impone o adotta nei confronti di un minore degli anni 16”, sottoposto alla sua responsabilità, “una dieta alimentare priva di elementi essenziali per la crescita sana ed equilibrata del minore stesso”. A parte il fatto che in teoria «è vegana anche una dieta composta di sola Coca Cola e patatine fritte» e che in genere «il “bambino che mangia di tutto” ingurgita anche Coca Cola, panini da McDonald’s, latte e biscotti a colazione, pizze magari surgelate», bisogna sapere che «nessun genitore conosce la tabella degli alimenti», selezionando la baby-dieta. «Al contrario: i bambini mangiano di tutto, sì, ma anche una quantità di schifezze industriali senza precedenti nella storia dell’umanità», col pieno consenso «del 99% dei genitori al mondo».Per Franceschetti, a lungo avvocato, la legge in realtà è «figlia di quella diffusa sottocultura giuridica – o mania, se preferiamo – di voler legiferare anche nelle materie più impensate, per pretendere di regolare anche ciò che non è possibile regolare (come alcune leggi americane che regolano quale tipo di rapporto sessuale è ammesso tra coniugi)». L’allora ministro della salute Girolamo Sirchia, ad esempio, voleva proporre di “dimezzare le porzioni dei ristoranti” e “imporre lattine di bibite solo da 250 ml” per combattere l’obesità.Tutto inutile, naturalmente. Ora, il testo della nuova disposizione «non colpisce i “vegani”; colpisce in realtà chiunque adotta una dieta carente di alcuni elementi essenziali rendendo potenzialmente criminali il 90% dei genitori italiani». In sostanza, continua Franceschetti, «la legge va a punire anche i genitori onnivori; anzi, soprattutto quelli», non certo i genitori vegani, molto ben informati sugli equilibri nutrizionali. La dieta di un bambino onnivoro medio, invece, «è fatta da colazione con latte e biscotti, primo secondo e contorno, a pranzo e cena, e spesso pure dolci e merendine a metà giornata».In altre parole, «la dieta di un bambino vegano sarà pure carente di ferro, zinco e vitamina B12 come dicono alcuni nutrizionisti male informati, ma la dieta di un bambino onnivoro medio è carente di quasi tutto e in compenso abbondante di zuccheri raffinati e grassi, molti dei quali addirittura idrogenati», sintetizza Franceschetti. «La legge, quindi, lungi dal colpire i genitori vegani, potenzialmente può innescare lotte e denunce per i genitori che portano i propri figli troppo spesso al McDonald’s, o per quelli che per merenda gli danno sempre e comunque (non frutta, o alimenti sani ma) merendine, biscotti, gelati, panini industriali». E quando verrà riscontrata una carenza, «chi potrà mai stabilire che tale carenza sia dovuta all’alimentazione, e non invece ad una predisposizione del bambino a mal assimilare certe sostanze?». Da parte dei genitori vegani, aggiunge Franceschetti, basterà dire: “Mio figlio fa una dieta varia e sana, mangia molta frutta, molta verdura, legumi, cereali, cercando di tenere basso il numero di zuccheri raffinati e di grassi idrogenati”. «In questo modo si chiuderà la polemica, nessuno avrà nulla da ridire, e si eviterà di impattare contro un sistema ancora troppo ignorante per poter capire l’importanza della dieta ai fini della crescita».Tutt’al più, qualche onnivoro agguerrito e smaliziato, sentendo questo elenco, farà la fatidica domanda: “E la carne? La carne è importante per il ferro”. Al che, il genitore vegano potrà rispondere: “Certo che la mangia, cerco di limitarla e di dargli solo carne di allevamenti scelti, non quella comprata al supermercato piena di estrogeni e nutrita con alimenti innaturali, per questo evito che mangi carne alla mensa scolastica”. «E l’onnivoro demente sarà ridotto al silenzio». Il problema sono i termini, ribadisce il giurista. «Vegano è termine che si presta a distorsioni e strumentalizzazione, anche grazie a molti attivisti vegani il cui fondamentalismo e la cui ottusità ha contribuito a danneggiare il veganismo vero e consapevole più di qualsiasi altra cosa; meglio utilizzare il termine “dieta sana e naturale” termine contro cui nessuno potrà obiettare nulla, specie gli onnivori che, nel 90% dei casi non hanno una dieta né sana né naturale».Vegetariani clandestini: chi preferisce il cibo sano a quello cancerogeno dovrà cominciare a nascondersi? Nel mirino i gentori, quelli più informati, che infatti nutrono i propri figli con molta frutta e verdura, cereali e legumi, evitando zuccheri, farine raffinate e bibite gassate, oltre naturalmente alla carne, indicata anche dall’Oms come fonte di rischio-tumore. Paolo Franceschetti punta il dito contro una recentissima proposta di legge in materia di regime alimentare, subito bollata come “legge anti-vegana” perché rende penalmente perseguibile quel genitore che “impone o adotta nei confronti di un minore degli anni 16”, sottoposto alla sua responsabilità, “una dieta alimentare priva di elementi essenziali per la crescita sana ed equilibrata del minore stesso”. A parte il fatto che in teoria «è vegana anche una dieta composta di sola Coca Cola e patatine fritte» e che in genere «il “bambino che mangia di tutto” ingurgita anche Coca Cola, panini da McDonald’s, latte e biscotti a colazione, pizze magari surgelate», bisogna sapere che «nessun genitore conosce la tabella degli alimenti», selezionando la baby-dieta. «Al contrario: i bambini mangiano di tutto, sì, ma anche una quantità di schifezze industriali senza precedenti nella storia dell’umanità», col pieno consenso «del 99% dei genitori al mondo».
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Isis, cioè turchi e sauditi: guerra in Siria per un gasdotto
Lo sapevate che Steve Jobs, il guru della Apple, era figlio di un siriano immigrato negli Usa negli anni ‘50? E che il presidente Assad ha un consenso democratico superiore a quello di Obama? E ancora: chi sapeva che la principale fonte dei media occidentali sul conflitto siriano è un negozio di magliette in Inghilterra? «Non è uno scherzo», assicura “TheAntiMedia.org”. «Se seguite le notizie è probabile che abbiate sentito i media parlare di un’entità grandiosamente definita “Osservatorio Siriano per i Diritti Umani” (“Syrian Observatory for Human Rights”, Sohr)». Ebbene, questo cosiddetto “osservatorio” è gestito da una sola persona nella propria casa, a Coventry, a migliaia di chilometri di distanza dal conflitto siriano. «Eppure è definito come la fonte più rispettata dai media occidentali: “Bbc”, “Reuters”, “Guardian”». Le credenziali di questa persona? «Consistono nell’essere proprietario di un negozio di magliette nella stessa via della propria casa, nonché di essere un noto dissidente dell’attuale presidente siriano». E questa è solo una delle tante cose che i media mainstream non raccontano, del conflitto in Siria. Dove, a innescare la guerra, è stato il rifiuto di Assad di concedere il proprio territorio per un gasdotto che avrebbe collegato Arabia Saudita e Turchia.Lo scrive Darius Shahtahmasebi, in un post ripreso da “Zero Hedge” e rilanciato da “Voci dall’Estero” per illuminare le clamorose falle della narrazione ufficiale sulla guerra in Siria. Una notizia decisamente irrintracciabile, su giornali e televisioni, è il tasso di popolarità di Bashar Assad: «Dall’inizio del conflitto nel 2011 – scrove Shahtahmasebi – Assad ha sempre mantenuto il sostegno della maggioranza del suo popolo. Le elezioni del 2014 – dove Assad ha ottenuto una vittoria schiacciante, e osservatori internazionali hanno dichiarato che non ci sono stati brogli – è la prova del fatto che, sebbene Assad sia stato accusato di gravi violazioni dei diritti umani, continua a mantenere un’ampia popolarità presso il popolo siriano». Obama, dal canto suo, ha vinto le elezioni del 2012 con una maggioranza di appena il 53,6%, e con solo 129 milioni di cittadini recatisi alle urne. «Questo significa che circa 189,8 miliori di americani non hanno votato Obama». Il suo attuale tasso di approvazione è quindi attorno al 50%, inferiore a quello del “dittatore” Assad.Un’autentica barzelletta, continua Shahtahmasebi su “TheAntiMedia.org”, riguarda la famosa “opposizione moderata”: se mai c’è stata, non esiste più. «Il cosiddetto Libero Esercito Siriano sostenuto dall’Occidente è dominato da anni dalle forze estremiste. Gli Usa lo sanno già, eppure hanno continuato a sostenere l’opposizione siriana. Il “New York Times” nel 2012 ha riportato che la maggior parte degli armamenti spediti in Siria finivano nelle mani degli jihadisti». Un report riservato della Dia prediceva l’ascesa dell’Isis nel 2012: «Se la situazione si dipana – recitava testualmente il documento – è possibile che si stabilisca un principato Salafita, sia esso dichiarato o meno, nella Siria orientale. Questo è esattamente ciò che vogliono attualmente le forze dell’opposizione, per isolare il regime siriano». Inoltre, una testimonianza di un comandante del Libero Esercito Siriano mostra non solo l’ammissione che i suoi combattenti partecipano regolarmente ad azioni congiunte con al-Nusra (il braccio siriano di Al-Qaeda), ma anche che lui stesso spera di vedere la Siria governata dalla legge della Sharia.Altra super-montatura, quella dell’uso di armi chimiche da parte del regime nell’agosto 2013, che rischiò di innescare bombardamenti Nato: tra gli altri, un giornalista Premio Pulitzer come Seymour Hersh dimostrò che l’intelligence Usa era perfettamente al corrente dell’uso del gas Sarin da parte dei “ribelli”. Darius Shahtahmasebi ricorda che lo stesso generale Wesley Clark rivelò che, all’indomani dell’11 Settembre, il Pentagono aveva sviluppato un piano per rovesciare, in cinque anni, i governi di sette paesi: oltre alla Siria l’Iraq (invaso nel 2003), il Libano (attaccato da Israele nel 2006), la Libia (distrutta nel 2011), la Somalia (oggi sorvolata dai droni Usa) e il Sudan, smembrato nel 2011 al termine di una sanguinosa guerra civile. Nell’elenco degli Stati da abbattere era compreso anche l’Iran, che con la Siria ha un accordo di reciproca difesa stipulato nel 2005. Gioco pericoloso: con l’Iran sono schierate Russia e Cina. E l’intervento militare russo in Siria «dimostra che queste non sono vane minacce: il loro impegno ha seguito le loro parole».I media raccontano che l’Isis è nato in Siria? Sbagliato: il Califfato è nato come conseguenza dell’invasione statunitense in Iraq, dice Shahtahmasebi. Prima, l’Isis era noto come “Al-Qaeda in Iraq”, ed è diventato importante in seguito all’invasione Nato del 2003. «È ben noto che non c’era alcuna traccia tangibile di Al-Qaeda in Iraq prima di quella invasione, e per un motivo ben preciso: quando Paul Bremer ricevette il ruolo di inviato presidenziale in Iraq nel maggio 2003, dissolse le forze di polizia e l’esercito. Bremer licenziò quasi 400.000 uomini in servizio, tra cui ufficiali militari di alto rango che avevano combattuto nella guerra Iran-Iraq negli anni ’80. Questi ufficiali oggi detengono importanti posizioni all’interno dell’Isis. Se non fosse stato per l’azione statunitense, l’Isis probabilmente non sarebbe mai esistito». I suoi tagliagole oggi «sono diventati fondamentali nel programma occidentale di rovesciamento dei regimi in Libia e in Siria. Quando i vari gruppi iracheni e siriani affiliati ad al-Qaeda si sono uniti lungo il confine siriano nel 2014, ci siamo trovati con il gruppo terroristico che conosciamo oggi».Oltre al ruolo della Turchia di Erdogan nel fornire assistenza di ogni genere all’Isis in Siria, c’è poi un altro fondamentale retroscena: «Turchia, Qatar e Arabia Saudita volevano costruire un gasdotto lungo la Siria, ma Assad ha rifiutato». Ed ecco i guai. La storia comincia nel 2009, quando il Qatar propose di costruire una conduttura lungo la Siria e la Turchia per esportare il gas saudita, scrive Shahtahmasebi. «Assad rifiutò la proposta e formò al contrario un accordo con l’Iran e l’Iraq per costruire una conduttura verso il mercato europeo, che avrebbe tagliato fuori Turchia, Arabia Saudita e Qatar». Da allora, prosegue “TheAntiMedia.org”, questi paesi sono diventati forti sostenitori dell’opposizione siriana che voleva rovesciare Assad. «Complessivamente, hanno investito miliardi di dollari, prestato armamenti, incoraggiato la diffusione del fanatismo ideologico e hanno permesso il passaggio dei combattenti lungo i propri confini». Grazie alla resistenza di Assad sostenuto da Putin, la conduttura Iran-Iraq «rafforzerà l’influenza iraniana nella regione e minerà il suo rivale, l’Arabia Saudita, l’altro grande produttore Opec. Se avrà la capacità di trasportare gas verso l’Europa senza dover passare per gli alleati di Washington, l’Iran guadagnerà potere contrattuale e potrà negoziare accordi di escludano completamente gli Usa e il dollaro». Un mare di soldi: e questo, più di qualunque altro argomento, aiuta a capire meglio lo strano accanimento contro il governo di Damasco.Lo sapevate che Steve Jobs, il guru della Apple, era figlio di un siriano immigrato negli Usa negli anni ‘50? E che il presidente Assad ha un consenso democratico superiore a quello di Obama? E ancora: chi sapeva che la principale fonte dei media occidentali sul conflitto siriano è un negozio di magliette in Inghilterra? «Non è uno scherzo», assicura “TheAntiMedia.org”. «Se seguite le notizie è probabile che abbiate sentito i media parlare di un’entità grandiosamente definita “Osservatorio Siriano per i Diritti Umani” (“Syrian Observatory for Human Rights”, Sohr)». Ebbene, questo cosiddetto “osservatorio” è gestito da una sola persona nella propria casa, a Coventry, a migliaia di chilometri di distanza dal conflitto siriano. «Eppure è definito come la fonte più rispettata dai media occidentali: “Bbc”, “Reuters”, “Guardian”». Le credenziali di questa persona? «Consistono nell’essere proprietario di un negozio di magliette nella stessa via della propria casa, nonché di essere un noto dissidente dell’attuale presidente siriano». E questa è solo una delle tante cose che i media mainstream non raccontano, del conflitto in Siria. Dove, a innescare la guerra, è stato il rifiuto di Assad di concedere il proprio territorio per un gasdotto che avrebbe collegato Arabia Saudita e Turchia.
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Fermare Trump: maxi-attentato e terzo mandato per Obama
Un terzo mandato per la presidenza Obama? Sarebbe perfetto per sospendere le presidenziali di novembre e allontanare quello che resta l’incubo numero uno per Wall Street, ovvero Donald Trump. Naturalmente, per arrivare a tanto servirebbe qualcosa di eccezionale, mostruoso, devastante. Come ad esempio un replay del maxi-attentato dell’11 Settembre. La cosa incredibile è che se ne stia parlando apertamente, negli Usa, come racconta Alexander Azadgan: «Recentemente, si è sollevato un certo interesse (negli Stati Uniti e all’estero) sulla validità giuridica di un eventuale terzo mandato della presidenza Obama nel caso di una guerra imminente in forma di attacco terroristico stile 11 Settembre che, senza essere di quelle proporzioni, permetterebbe una sospensione temporanea delle elezioni presidenziali di novembre». Solo supposizioni, naturalmente, che si devono a esponenti della destra dell’intellighenzia americana e a fonti di intelligence. L’uica certezza è che Wall Street e i cospiratori del Pnac desiderano «il proseguimento della politica di Obama attraverso la candidatura di Hillary Clinton», dal momento che «rappresenta per loro l’opzione più sicura, la più prevedibile, malleabile e controllabile».In ogni caso, avverte Azadgan in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, meglio stare in guardia rispetto all’auto-terrorismo “false flag”, alias strategia della tensione: «Queste astuzie diaboliche sono sempre state usate nel corso della storia umana, ma abbiamo assistito a una concentrazione senza precedenti del loro impiego a partire dall’11 Settembre, che altro non era che una ricetta prefabbricata per garantire la durata del primo mandato di Bush (2000-2004) e, poi, della sua rielezione nel 2004-2008». La storia del ‘900 parla da sola. Prima il naufragio del Lusitania nel 1915 come preludio all’entrata di Washington nella Prima Guerra Mondiale. Poi la macchinazione di Hitler per bruciare il Reichstag nel 1933 ed eliminare i suoi avversari politici schierati a sinistra. Quindi l’attacco giapponese a Pearl Harbor nel 1941, servito come pretesto per l’ingresso di Washington nella Seconda Guerra Mondiale. E ancora: l’incidente nel Golfo di Tonchino che è servito come scusa per la guerra in Vietnam. Ultimo, ma non meno importante, l’11 Settembre. Quindici anni di guerra ininterrotra in Medio Oriente, a scopo di dominio.Tutti eventi «progettati con astuzia, attraverso un calcolo preprogrammato avente come conseguenza la fabbricazione fallace del consenso del popolo americano, ipnotizzato da paure largamente false e mal percepite». Tornando a oggi: “colpo di Stato” di Obama nel caso in cui Trump abbia la meglio contro Clinton? «Tutti questi fattori di paura, in combinazione con il crollo economico del 2008 che non è mai stato veramente risolto (tranne che per quell’1% a scapito del 99%), così come le dispendiose e sconsiderate guerre del primo decennio del 2000, e non solamente nel Medio Oriente, ma anche alle porte della Russia, attraverso l’Ucraina», secondo Azadgan ha creato avversione e diffidenza nei confronti di Hillary Clinton, «essendo lei coinvolta in pieno in queste decisioni rivelatesi errate, ossia l’invasione del 2003 e l’occupazione dell’Iraq e la seguente in Libia con la destituzione di Muhammar Gheddafi nel 2011 e l’assassinio dell’ambasciatore Stevens, un colpo organizzato dai servizi americani in associazione con quel guazzabuglio chiamato Bengasi».Pesa il coinvolgimento della Clinton in tutti questi fatti, e più ancora il suo comportamento sospetto ed evasivo, la sua intenzionale mancanza di trasparenza (la soppressione di migliaia di mail dal server del suo computer personale nel corso delle sue attività per sovvertire il regime libico, fatto nel quale lei è invischiata fino ai collo). «Il suo comportamento arrogante e solitamente aggressivo hanno prodotto ed esacerbato una profonda avversione e sospetto da parte di una notevole porzione di elettorato americano, democratico e repubblicano in ugual misura: ciò che spiega il fenomeno Bernie Sanders benché quest’ultimo fosse ormai a fine carriera». Tutto questo favorisce la campagna di Donald Trump, che peraltro fino a oggi ha offerto «uno spettacolo clownesco della realtà, nel quadro di una politica demagogica tossica e pericolosa». Ci sarebbero dunque le condizioni (teoriche) per «una continuazione del regime Obama», alla quale però lo stesso Azadgan dice di non credere. Ma restano rischi, «se le strutture di potere a Wall Street (e a Washington) si sentissero minacciate da ciò che potrebbe somigliare a una presa di controllo imminente da parte di Trump».Alcuni gruppi di analisti, conclude Azadgan, sostengono che «la cricca di Washington neocon/neolib potrebbe produrre un’altra operazione sotto falsa bandiera stile 11 Settembre, ma non di pari grandezza, al fine di sostenere il regime Obama con il falso pretesto di un’urgenza nazionale». Questi stessi ambienti, inoltre, denunciano che il complesso delle percezioni, dei sentimenti e dei timori americani è già stato perfettamente «plasmato per preparare le masse ad accettare questo possibile scenario attraverso una serie di operazioni “false flag”». Lo scenario non è rassicurante: «Dall’ “inside job”dell’11 Settembre al 7 luglio 2005 nel Regno Unito, e tutto il cammino percorso per arrivare alla creazione di uno stato di ferocia permanete attraverso gli agenti Isis a Parigi, San Bernardino, Bruxelles, e adesso nell’orribile atto di Orlando, in Florida».Un terzo mandato per la presidenza Obama? Sarebbe perfetto per sospendere le presidenziali di novembre e allontanare quello che resta l’incubo numero uno per Wall Street, ovvero Donald Trump. Naturalmente, per arrivare a tanto servirebbe qualcosa di eccezionale, mostruoso, devastante. Come ad esempio un replay del maxi-attentato dell’11 Settembre. La cosa incredibile è che se ne stia parlando apertamente, negli Usa, come racconta Alexander Azadgan: «Recentemente, si è sollevato un certo interesse (negli Stati Uniti e all’estero) sulla validità giuridica di un eventuale terzo mandato della presidenza Obama nel caso di una guerra imminente in forma di attacco terroristico stile 11 Settembre che, senza essere di quelle proporzioni, permetterebbe una sospensione temporanea delle elezioni presidenziali di novembre». Solo supposizioni, naturalmente, che si devono a esponenti della destra dell’intellighenzia americana e a fonti di intelligence. L’uica certezza è che Wall Street e i cospiratori del Pnac desiderano «il proseguimento della politica di Obama attraverso la candidatura di Hillary Clinton», dal momento che «rappresenta per loro l’opzione più sicura, la più prevedibile, malleabile e controllabile».
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I nostri eroi: guai se il popolo decide da solo, come a Londra
Dopo lo shock mattutino, che ha regalato al mondo una imprevista uscita della Gran Bretagna dall’Europa, tutti gli europeisti più convinti (in mala o buona fede che siano) hanno dedicato la giornata a metabolizzare questa fragorosa legnata sui denti. Il risultato di questa metabolizzazione si può riassumere in due diverse correnti di pensiero: la prima dice, sostanzialmente, che “l’Europa deve cambiare, se non vuole morire”. Questo ovviamente non significa nulla, perché l’Europa per come è stata costruita, con un Parlamento senza alcun reale potere esecutivo, non sarà mai in grado di modificare se stessa. E’ stata creata apposta come una gabbia per convogliare e controllare i consensi, e quello dell’“Europa che deve cambiare” è soltanto lo slogan disperato di coloro che si rendono conto che il loro “sogno europeo” ha ormai imboccato la china del tramonto. La seconda corrente di pensiero invece è molto più interessante, poiché era più difficile da prevedere: c’è infatti un diffuso senso di insoddisfazione – o quasi di rancore, si potrebbe dire – verso “le masse che non sono in grado di decidere”.Questo concetto è stato espresso, con diverse sfumature, da molti di coloro che hanno partecipato ieri alle varie trasmissioni televisive. Il capro espiatorio di questo presunto “errore” è naturalmente lo stesso Cameron, l’uomo che pur di essere rieletto aveva promesso al suo popolo un referendum sulla permanenza in Europa. Il rancore contro Cameron non è soltanto stato espresso da personaggi come Mario Monti (cosa più che prevedibile, nel suo caso), ma anche da semplici giornalisti come ad esempio Beppe Severgnini. Durante la trasmissione di Lilli Gruber, infatti, l’editorialista del “Corriere” ha gettato la maschera dell’imparzialità e ha dichiarato apertamente che il popolo inglese non andava lasciato votare «su una questione così complessa e delicata come l’uscita dall’Europa», perché il popolo non è pronto a fare scelte di tale importanza.Il popolo può fare i referendum – ha detto sostanzialmente Severgnini – finché si tratta di scegliere sull’acqua pubblica, oppure sull’abolizione di una certa legge, ma le cose più complicate, come appunto un’eventuale uscita dall’Europa, andrebbero lasciate «a chi se ne intende». Ovvero – secondo lui – agli stessi euro-tecnocrati che questo grande pasticcio l’hanno creato. Sulle stesse corde, anche se non ha parlato apertamente di “ignoranza popolare”, si è ritrovato anche Antonio Padellaro, ex-direttore del “Fatto Quotidiano”. Insomma, il sentimento diffuso, fra coloro che si sentono sconfitti dal risultato del referendum, è che “la prossima volta bisogna stare molto più attenti, prima di mettere in mano al ‘popolo bue’ scelte di radicale importanza come la struttura dell’Unione Europea”.Naturalmente, tutte queste persone accettano ben volentieri il voto del “popolo bue” quando questo si reca alle urne, chiude gli occhi e mette una crocetta su un partito a caso, lasciando poi a questo partito di decidere chi e come andrà a rappresentarlo nelle varie sedi parlamentari. Ma se per caso il popolo bue decide di prendere in mano direttamente le sorti del proprio destino, allora questo non va più bene, “perché il popolo non è preparato”. Insomma, a questi personaggi la democrazia va bene soltanto finché la gente vota come fa piacere a loro.(Massimo Mazzucco, “La tentazione antidemocratica”, da “Luogo Comune” del 25 giugno 2016).Dopo lo shock mattutino, che ha regalato al mondo una imprevista uscita della Gran Bretagna dall’Europa, tutti gli europeisti più convinti (in mala o buona fede che siano) hanno dedicato la giornata a metabolizzare questa fragorosa legnata sui denti. Il risultato di questa metabolizzazione si può riassumere in due diverse correnti di pensiero: la prima dice, sostanzialmente, che “l’Europa deve cambiare, se non vuole morire”. Questo ovviamente non significa nulla, perché l’Europa per come è stata costruita, con un Parlamento senza alcun reale potere esecutivo, non sarà mai in grado di modificare se stessa. E’ stata creata apposta come una gabbia per convogliare e controllare i consensi, e quello dell’“Europa che deve cambiare” è soltanto lo slogan disperato di coloro che si rendono conto che il loro “sogno europeo” ha ormai imboccato la china del tramonto. La seconda corrente di pensiero invece è molto più interessante, poiché era più difficile da prevedere: c’è infatti un diffuso senso di insoddisfazione – o quasi di rancore, si potrebbe dire – verso “le masse che non sono in grado di decidere”.
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Altro che Isis: chi pilota il terrore teme la Brexit e Trump
Ci stanno massacrando, utilizzando la solita manovalanza per le stragi “false flag”. Excalation del terrorismo, ci attendono sei mesi d’inferno: quelli che separano le due paure capitali dell’élite, la Brexit e la vittoria di Trump. «Il sistema euro-atlantico, d’ora in avanti, lotta per la sua sopravvivenza», annuncia Federico Dezzani, che allinea l’inquietudine della super-casta mondiale con l’esplodere degli attentati. «La carneficina di Orlando è l’inizio della strategia della tensione che accompagnerà i prossimi, convulsi, mesi», scrive Dezzani sul suo blog. «A distanza di nemmeno 48 ore è la volta dell’ennesimo attentato dell’Isis in Francia, peso massimo europeo in piena crisi, attraversata da proteste e disordini sempre più accesi. L’escalation di violenza è sintomo che le oligarchie hanno perso il controllo della situazione». L’angoscia che attanaglia le élite atlantiche, aggiunge Dezzani, ricorda quella vissuta dalla classe dirigente europea tra la prima e la seconda guerra mondiale: «Si avverte chiaramente come un’epoca stia finendo ed un mondo, ancora funzionante dal punto di vista formale, sia in realtà in rapida decomposizione».Capita così che il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, uno dei massimi alfieri dell’atlantismo, evochi con riferimento alla Brexit la fine della civiltà occidentale. Puro delirio: «Il collasso dell’Unione Europea e dell’Alleanza Nord Atlantica implicherebbe la fine solo delle oligarchie cui appartiene l’ex-premier polacco, non certo dei popoli europei che, al contrario, potrebbero finalmente rifiatare e riacquistare spazi di manovra». La crucialità del momento, continua Dezzani, nasce dall’accavallarsi di una molteplicità di consultazioni elettorali e dal concomitante deteriorarsi dell’economia, negli Usa come nell’Eurozona: si comincia con il referendum inglese sulla permanenza nella Ue e si termina con le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, mentre il rialzo del tassi da parte della Fed è procrastinato sine die e l’Eurozona si dibatte ancora nella deflazione, a distanza di 15 mesi dall’avvio dell’allentamento quantitativo della Bce. «Una vittoria degli anti-europeisti al referendum inglese, un successo di Donald Trump alle presidenziali, il ritorno dell’Eurozona in recessione, rischiano di infliggere il colpo di grazia alla già traballante impalcatura atlantica».Per Dezzani, le contromisure adottate dall’establishment sono riconducibili ad un unico comun denominatore: incutere paura. «Si minaccia l’opinione pubblica inglese di recessione e pesanti sacrifici economici nel caso cui il Regno Unito uscisse dalla Ue, si assaltano i mercati finanziari europei per scongiurare l’eventualità che altri paesi indicano referendum analoghi, si dipingono scenari a tinte fosche qualora si affermassero i candidati “populisti”». Ma attenzione: «Gli effetti sull’elettorato sarebbero modesti senza l’apporto dell’ingrediente più esplosivo: il terrorismo. Bombardando l’opinione pubblica con notizie, immagini e video di stragi compiute nei luoghi della quotidianità (aeroporti, stazioni ferroviarie, discoteche, stadi, quartieri della movida) si ottiene un duplice risultato: si distoglie l’attenzione dalle criticità economiche e si genera domanda di normalità e sicurezza, a discapito delle formazioni anti-establishment e a vantaggio dei partiti tradizionali, difensori dell’ordine vigente».Non è quindi un caso se l’inizio di questa fase delicatissima sia stato scandito da due attentati compiuti a distanza di nemmeno 48 ore l’uno dall’altro, il primo negli Stati Uniti ed il secondo in Francia, entrambi perpetrati ufficialmente allo Stato Islamico. «Dire “Isis” equivale a dire “servizi israeliani ed angloamericani” e sul perché Tel Aviv, Washington e Londra svolgano un ruolo così attivo nella strategia della tensione che sta insanguinando l’Europa, già ci soffermammo in occasione degli attentati di Bruxelles: l’Unione Europea rappresenta il “contenitore geopolitico” dentro cui è racchiuso il Vecchio Continente e la sua sopravvivenza è di vitale importanza per piegare i 28 membri ad unica volontà (quella atlantica), come hanno dimostrato in questi anni i casi delle sanzioni economiche all’Iran e alla Russia». E così, l’attentato dell’11 giugno («firma inequivocabile») al locale omosessuale di Orlando, Florida, «è la sanguinosa ouverture della strategia della tensione che accompagnerà l’Occidente per i prossimi mesi». Omar Mateen, americano di origine afghane, già inserito dall’Fbi in una lista di possibili simpatizzanti dell’Isis, si arma fino ai denti e fa irruzione in una discoteca, dove replica il copione del Bataclan.Per inquadrare l’attentato in una cornice più ampia e ricondurlo all’angoscia delle oligarchie atlantiche, Dezzani consiglia la lettura dell’editoriale “Orlando and Trump’s America” apparso sul “New York Times” il 13 giugno e firmato da Roger Cohen. Il giornalista si fa interprete delle paure che attanagliano le élite, allarmate per la valanga degli eventi (il Brexit, la vittoria alle presidenziali di Trump, l’ingresso all’Eliseo di Marine Le Pen) che rischia di sommergerle. Secondo Cohen, la strage di Orlando e i crescenti consensi raccolti da Trump e dalla Le Pen germogliano nello stesso humus: il malessere economico, la rivolta contro le élite e la frustrazione sociale. «Sono le cause che spingono l’elettorato verso pericolosi salti nel vuoto e i lupi solitari ad imbracciare i fucili». L’esplicito richiamo alla Francia è profetico: nemmeno due giorni dopo, «la strategia della tensione sorvola l’Atlantico e torna a materializzarsi in Francia, la più grande minaccia al sistema atlantico sul versante europeo, seconda solo ad una vittoria degli anti-europeisti all’imminente referendum inglese».Della Francia si è scritto moltissimo: le opache trame degli 007 della Dgse dietro all’attentato di Charlie Hebdo, la censura imposta ai magistrati col segreto militare, le firme “templari” della strage del 13 novembre 2015. Francia in ebollizione, contro il Jobs Act che l’Eliseo vorrebbe infliggere ai cittadini, in ossequio ai diktat neoliberisti della Troika, le famigerate riforme strutturali. Puntuale, la sedicente Isis, cioè «la stessa organizzazione che russi, iraniani e siriani hanno quasi smantellato in Medio Oriente», è tornata a colpire – a cronometro – nella notte tra il 13 ed il 14 giugno, a Magnanville, periferia nord-occidentale di Parigi. Autore dell’ennesima prodezza-kamizake, il solito jihadista già noto ai servizi, Larossi Abballa, che uccide un poliziotto e sua moglie. Finale invariabile: crivellato dal fuoco delle teste di cuoio. Per Dezzani, il duplice omicidio di Magnanville targato Isis è «una vera e propria ciambella di salvataggio lanciata a François Hollande», che ha appena stabilito un nuovo record in termini di impopolarità (è detestato dall’83% dei francesi).«L’attenzione dei media e dell’opinione pubblica è così dirottata sull’attacco del “Califfato”, proprio quando a Parigi, nelle stesse ore, è in programma la nuova mobilitazione dei sindacati contro la riforma del lavoro, una prova di forza con cui la Confédération générale du travail e le altre sigle sindacali di sinistra vogliono spingere l’esecutivo socialista alla capitolazione, costringendolo a ritirare la riforma». La protesta sta crescendo per estensione e profondità, continua Dezzani: «Dopo le raffinerie, i treni, le metropolitane, i porti e il personale di Air France, agli scioperi hanno aderito anche gli addetti alla raccolta dei rifiuti a Parigi». E così, «nonostante lo stato d’emergenza, nonostante il freno inibitorio della minaccia terroristica», con i media concentrati solo sull’attentato, la mobilitazione di Parigi il 14 giugno ha coinvolto un milione e 300.000 cittadini, rafforzando la volontà dei sindacati a continuare gli scioperi ad oltranza.«L’efferatezza della strage di Orlando, il susseguirsi a distanza di meno di 48 ore dell’attacco a Magnanville, l’organizzazione approssimativa degli attentati ed il concomitante crollo delle piazze finanziarie, sono segnali dell’impotenza e dello stato confusionale in cui versa l’establishment euro-atlantico, conscio di quanto l’intera impalcatura su cui è costruito il suo potere sia vicina al collasso», conclude Dezzani. «La prossima, decisiva, tappa è il referendum inglese sulla permanenza nella Ue. L’esplosione del terrorismo internazionale a distanza di pochi giorni dalla consultazione corrobora l’ipotesi che le forze anti-europeiste siano in testa, proprio come il “venerdi nero dell’Isis”, la serie di attentati che insanguinò Tunisia, Francia, Kuwait e Somalia il 26 giugno 2015, preannunciò la vittoria dell’Oxi al referendum greco del 5 luglio». Tutto lascia pensare che lo scenario cambierà di ora in ora, peggiorando ulteriormente, secondo questo invariabile copione di morte e terrore.Ci stanno massacrando, utilizzando la solita manovalanza per le stragi “false flag”. Excalation del terrorismo, ci attendono sei mesi d’inferno: quelli che separano le due paure capitali dell’élite, la Brexit e la vittoria di Trump. «Il sistema euro-atlantico, d’ora in avanti, lotta per la sua sopravvivenza», annuncia Federico Dezzani, che allinea l’inquietudine della super-casta mondiale con l’esplodere degli attentati. «La carneficina di Orlando è l’inizio della strategia della tensione che accompagnerà i prossimi, convulsi, mesi», scrive Dezzani sul suo blog. «A distanza di nemmeno 48 ore è la volta dell’ennesimo attentato dell’Isis in Francia, peso massimo europeo in piena crisi, attraversata da proteste e disordini sempre più accesi. L’escalation di violenza è sintomo che le oligarchie hanno perso il controllo della situazione». L’angoscia che attanaglia le élite atlantiche, aggiunge Dezzani, ricorda quella vissuta dalla classe dirigente europea tra la prima e la seconda guerra mondiale: «Si avverte chiaramente come un’epoca stia finendo ed un mondo, ancora funzionante dal punto di vista formale, sia in realtà in rapida decomposizione».
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False flag: usano terroristi per ucciderci sotto falsa bandiera
Da sempre il potere proclama dei valori, attraverso i quali si legittima, ma li nega con una parte delle sue azioni, con le quali si rafforza. È una questione che si ripropone nel corso del tempo. Niccolò Machiavelli affermava del Principe che «è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua». Parlava di un potere che all’occorrenza non esitava a mostrare senza maschera la sua faccia più crudele, e guai ai vinti. Nella variante moderna il potere vuol farsi amare dal popolo promettendo la democrazia, ossia il potere del popolo, ma usa ugualmente la paura come strumento di governo, solo che ha bisogno di attribuire ad altri l’intento di causarla, attraverso atti spesso eclatanti. Ecco dunque le “false flag”, aggressioni ricevute sotto falsa bandiera, attentati terroristici da addossare a nemici veri o inventati, contro i quali scatenare l’isteria dei propri media, che a sua volta trascina interi popoli. Le false flag aiutano il nucleo più interno del potere a conquistare sufficiente consenso per imporre la disciplina dettata dalla paura. Gli diventa più facile restringere le libertà, neutralizzare e disperdere il dissenso, pur esibendo ancora agli occhi dei popoli i simulacri delle vecchie costituzioni.Come diceva il maiale Napoleone nella “Fattoria degli animali” di Orwell: «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri». E oggi i governanti sembrano dirci: «Tutte le libertà sono in vigore, ma alcune sono meno vigenti delle altre». Il prezzo da pagare può essere altissimo. Il preavviso passa attraverso i secoli e ci viene da uno dei padri costituenti degli Stati Uniti d’America, Benjamin Franklin: «Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza non merita né la libertà né la sicurezza». Il libro che avete in mano ricostruisce una serie impressionante di vicende diverse, attribuibili a differenti Stati e legate a circostanze storiche non sempre connesse direttamente fra di loro, ma accomunate da un metodo che sembra essere uno strumento essenziale della moderna “arte di governo”. Enrica Perucchietti entra in dettaglio sui misteri e le scoperte che rivelano da un’altra prospettiva decine di incidenti militari, attentati, azioni terroristiche: di fronte a tanti gialli politici per i quali i governi forniscono su due piedi spiegazioni piatte, sprovviste di profondità, riduttive, banali, riferite a killer solitari e a gruppi isolati che non godrebbero di indecenti connivenze dentro gli apparati dello Stato fra chi potrebbe bloccarli, l’autrice del saggio fa invece affiorare indizi, prove, collegamenti clamorosi, fino a raccontare le storie che la censura di tipo moderno aveva eclissato in mezzo alla sua immensa produzione di notizie inutili.Perciò viene citato regolarmente il saggista statunitense Webster Tarpley, che ha coniato un concetto efficacissimo per descrivere questo sistema, ossia «terrorismo sintetico», che altro non è che «il mezzo con cui le oligarchie scatenano contro i popoli guerre segrete, che sarebbe impossibile fare apertamente. L’oligarchia, a sua volta, ha sempre lo stesso programma politico […] Il programma dell’oligarchia è di perpetuare l’oligarchia». In tante pagine il vostro sguardo potrà posarsi su un secolo intero di vicende storiche innescate o favorite dalle flase flag, fino a notare come queste diventino sempre più numerose. Episodi più lontani nel tempo, come l’affondamento del Lusitania, l’incendio del Reichstag, l’incidente del Tonchino, diventano – decennio dopo decennio – una prassi rodata e frequente, che si moltiplica nel corso degli ultimi 15 anni. E cosa ha inaugurato quest’ultimo periodo? Esattamente la più spettacolare e visionaria delle false flag, lo scenario apocalittico dell’11 settembre 2001. Quel che è venuto dopo – ossia la “guerra infinita”, la “guerra al terrorismo”, lo spionaggio totalitario coperto dal Patriot Act e altre leggi liberticide – una volta illuminato dalla luce terribile dell’11/9, si è avvalso di una sorta di “terapia di mantenimento” a base di attentati piccoli e grandi, perpetrati da gruppi di terroristi presso i quali sono sempre riconoscibili l’ombra e l’impronta dei servizi segreti.I servizi segreti sono il grande convitato di pietra, sempre più ingombrante eppure ancora sottovalutato nelle analisi politiche, storiche e giornalistiche. Anche se gli apparati di intelligence sono formalmente subordinati al potere politico ed esecutivo, hanno risorse enormi in grado di sfuggire ai deboli criteri di trasparenza che possono mettere in campo le eventuali commissioni parlamentari di controllo. Pertanto sono capaci di costruire reti di interessi che in tutta autonomia possono condizionare sia l’agenda politica sia l’agenda dei media. Settori interi di questi servizi giocano partite autosufficienti grazie a budget incontrollabili ed enormi, in grado di mettere in campo forze pervasive. All’interno di quello che certi politologi definiscono “lo Stato profondo” esistono settori ombra del governo, dotati di proprie catene di comando presso le forze armate, di budget non rendicontabili che uniscono risorse pubbliche e autofinanziamento in simbiosi con le attività criminali delle mafie, provvisti di idee proprie in merito al modo di intendere l’interesse nazionale, portati a costruire ogni tipo di rapporto con gruppi terroristici che poi manovrano con “leve lunghe” e irriconoscibili.Le attività sono organizzate e adempiute mascherando ogni responsabilità riconducibile ai governi, tanto che immense risorse sono spese per depistare e neutralizzare le eventuali scoperte con il noto principio della «plausible deniability», ossia la smentita plausibile. Ove rimanesse ancora una notizia impossibile da smentire, la si potrà disinnescare grazie all’immenso arbitrio in mano ai dirigenti dei media più importanti, che hanno mille intrecci con il mondo dei servizi. Il giornalista tedesco Udo Ulfkotte, che ha a lungo lavorato per la “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, uno dei principali quotidiani tedeschi, ha scritto un saggio bestseller, “Gekaufte Journalisten” (giornalisti venduti), in cui rivela che per molti anni la Cia lo aveva pagato per manipolare le notizie, e che questa è la consuetudine ancora attuale nei media germanici. Tutto fa pensare che la consuetudine sia identica anche altrove. Di certo non leggerete su “La Repubblica” una recensione sul libro di Ulfkotte, mentre leggerete le geremiadi dei suoi editorialisti su dove andremo a finire con questi complottisti, signora mia…Come spiegarsi altrimenti il silenzio che circonda certe notizie, che vengono pur date per salvarsi la coscienza, ma non hanno un prosieguo, una campagna di inchieste, nessun impegno? Eppure perfino Human Rights Watch (Hrw) ha denunciato: «L’agenzia Fbi pagava dei musulmani per compiere attentati». Secondo un’indagine su 27 processi e 215 interviste, l’agenzia di intelligence interna americana «ha creato dei terroristi sollecitando i loro obiettivi ad agire e compiere atti di terrorismo». Notare bene: “creato dei terroristi”. In che modo? «In molti casi il governo, usando i suoi informatori, ha sviluppato falsi complotti terroristici, persuadendo e in alcuni casi facendo pressione su individui, per farli partecipare e fornire risorse per attentati», scrive Hrw. Per l’organizzazione, metà dei casi esaminati fa parte di operazioni portate avanti con l’inganno e nel 30% dei casi un agente sotto copertura ha giocato un ruolo attivo nel complotto. «Agli americani è stato detto che il loro governo veglia sulla loro sicurezza prevenendo e perseguendo il terrorismo all’interno degli Stati Uniti», ha detto Andrea Prasow, vice direttore di Hrw a Washington. «Ma se si osserva da vicino si scopre che molte di queste persone non avrebbero mai commesso crimini se non fossero state incoraggiate da agenti federali, a volte anche pagate». La notizia, se non la vogliamo ignorare, è semplice e terribile: gran parte degli attentati terroristici sul suolo Usa sono indotti dalla stessa organizzazione che li dovrebbe combattere, cioè l’Fbi.Gli organi di informazione che hanno lasciato appesa al nulla questa notizia impressionante, sono gli stessi che per anni – ad ogni attentato avvenuto o sventato – avevano ripetuto i comunicati dell’Fbi senza chiedere spiegazioni. Queste veline diventavano titoli urlati in prima pagina, notizie di apertura dei telegiornali. Quando la verità emerge, spesso molti anni dopo, non gode certo degli stessi spazi, rimanendo confinata in qualche insignificante pagina interna, in taglio basso. Chi aveva voluto raggiungere un certo effetto con i titoli cubitali, lo aveva già ottenuto. Resta viceversa la prima impressione dell’allarme, quando l’annuncio strillato e falso si deposita nella coscienza di lettori e spettatori. Ed è per responsabilità di questa informazione – che si è curata solo di aizzare (quando gli è stato comandato), o di “sopire e troncare” (quando era comodo) – che ogni giorno ci è stato depredato un pezzo di libertà, di sovranità, e infine imposto lo spionaggio totalitario della Nsa, l’agenzia che perfino di ciascun lettore di questo libro, in nome della sicurezza, possiede tutte le tracce delle sue comunicazioni, tutte le e-mail, i suoi orientamenti, i segreti personali. Ed è naturalmente in grado di ricattare ogni politico-maggiordomo occidentale, esposto al tempismo di qualche scandalo che lo potrebbe colpire e affondare se dovesse ribellarsi ai padroni dei segreti.Enrica Perucchietti ricompone un vasto mosaico di “false flag” che nell’insieme disegnano un allarme sicurezza permanente che ha fatto da base giuridica e premessa politica delle guerre di aggressione intraprese dal 2001 in poi, nonché delle leggi che hanno consentito lo spionaggio di massa indiscriminato oltre ad aver reintrodotto gli arresti extralegali assieme alla tortura. In questo quadro emerge chiaramente che il terrorismo sintetico è un’interminabile catena di azioni in cui gli attori hanno sempre il fiato sul collo dell’intelligence, che li manipola per i propri fini. Quel che nel senso comune si chiama terrorismo è in prevalenza una forma di manipolazione di massa, coperta da entità statali e usata con l’accordo dei pochi proprietari della quasi totalità dei media mainstream, i quali sono adibiti a organizzare a comando gli isterismi collettivi e a rinfrescare la paura, ricordando certe vittime innocenti e dimenticandone altre.Nel saggio si sottolinea ad esempio come ci sia una notevole compartecipazione tra servizi segreti e gruppi islamisti, compresa l’Isis/Daesh. Enrica Perucchietti pone la domanda che nella maggior parte dei nostri media è tabù: «Spuntando dal nulla nel giro di pochi mesi, l’Isis si è assicurata un gran numero di risorse, armi, attrezzature multimediali high-tech e specialisti in propaganda. Da dove provengono i soldi e le tecniche di guerriglia?». L’Isis, cioè lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Siria), è uno stato-non-stato che nel costituire per definizione un’entità terrorista si prende il “diritto” di non attenersi ad alcuna legalità, come se fossero i corsari dei giorni nostri. Nell’epoca dei paradossi, gli Usa – con buone ragioni – definiscono l’Isis e altre organizzazioni della galassia jihadista come “organizzazioni terroriste”; ma quando sentiamo vecchi astri della politica imperiale statunitense come Zbigniew Brzezinski e John McCain definire i jihadisti come «i nostri asset», sembra quasi che definirli terroristi implichi proprio il diritto-dovere di essere terroristi. Catalogarli così somiglia quasi a una “lettera di corsa” da parte della superpotenza nordamericana, simile a quelle autorizzazioni con cui le potenze di un tempo abilitavano i corsari ad attaccare e razziare navi di altre potenze.Mentre i soldati “normali” sarebbero in una certa misura esposti al dovere di rispettare le Convenzioni di Ginevra e altri elementi del diritto internazionale, i terroristi/corsari, viceversa, costituiscono una legione che infrange questi limiti nascondendo la catena delle responsabilità. Quelli dell’Isis condividono valori oscurantisti e l’uso delle decapitazioni con la dinastia saudita che li appoggia e foraggia. Ma siccome l’Arabia Saudita è «un’Isis che ce l’ha fatta», come dice il “New York Times”: il ruolo della canaglia rimane comodamente attaccato solo alla manovalanza di assassini che si rifà al jihadismo, senza estendersi ai mandanti occulti. Ma poi è arrivato l’intervento in Siria dell’aeronautica russa. Gli aerei di Mosca hanno distrutto quasi tutte le migliaia di autobotti con cui il petrolio razziato dai nuovi corsari veniva smerciato in un paese Nato, la Turchia, proprio con il consenso di Ankara (altro grande sponsor dell’Isis). La mossa strategica di Mosca ha perciò aperto una nuova fase che spinge molti paesi a porsi un semplice problema: che rapporto devo avere adesso con la Russia di Vladimir Putin, ora che i miei alibi sono stati bruciati? Non è un caso che dopo l’intervento russo gli attentati jihadisti, con tutto il loro tipico fumo di false flag, si stiano intensificando drammaticamente, aumentando la pressione e il ricatto sui sistemi politici di mezzo mondo e mostrandosi come una presenza ormai permanente della scacchiera internazionale. Una scacchiera che possono demolire.Sarebbe il momento giusto per fare chiarezza, ma le istituzioni si chiudono a riccio, come nel caso dell’inchiesta sulla strage di Charlie Hebdo: mentre emergevano particolari inquietanti su quell’attentato e i suoi torbidi contorni, il ministro degli interni francese, Cazeneuve, ha deciso che l’inchiesta doveva essere subito insabbiata. Perché? “Segreto militare”. Il che implica – come il lettore vedrà poi in dettaglio in questo saggio – che l’evento terroristico, ancora una volta, andava oltre l’attentato “islamico”, perché erano coinvolti organi di Stato che agivano da complici, se non da pianificatori dell’atto, corresponsabili quindi di un delitto che sacrificava propri cittadini. Le nuove norme eccezionali approvate in Francia si presentano come l’annuncio di una tendenza generale, e già ci sono le avvisaglie del fatto che queste norme saranno usate per restringere le libertà e i diritti, ad esempio di lavoratori o cittadini che manifestino per rivendicare migliori condizioni di vita.Gran parte degli intellettuali – freschi reduci di un’indigestione retorica di “Je suis Charlie” – non leva una sola voce contro le restrizioni della libertà, nemmeno quando toccano in modo massiccio un paese Nato come la Turchia, che ha praticamente schiacciato un’intera generazione di giornalisti che osavano indagare sulle complicità del governo con il terrorismo. Per colmo, accusandoli di terrorismo. Occorre un risveglio intellettuale e morale che accompagni un rinnovamento politico, occorre spostare il pendolo del potere dalle istituzioni modellate dall’«eccezione» e dalla paura verso le istituzioni ispirate alla sovranità popolare e alla corretta informazione. Smascherare il sistema fondato sulle false flag non è una condizione sufficiente per questo risveglio (che ha bisogno anche di coraggio e partecipazione di massa). Ma rivelare ai molti cittadini obnubilati dalla bolla mediatica dominante la verità sugli inganni che hanno subito è una condizione necessaria per difendere e ampliare le proprie libertà. Questo è un buon punto di partenza.(Pino Cabras, prefazione al libro “False flag. Sotto falsa bandiera”, di Enrica Perucchietti, pubblicata sul blog di Cabras. Il libro: Enrica Perucchietti, “False flag. Sotto falsa bandiera”, Arianna Editrice, 256 pagine, euro 12,50).Da sempre il potere proclama dei valori, attraverso i quali si legittima, ma li nega con una parte delle sue azioni, con le quali si rafforza. È una questione che si ripropone nel corso del tempo. Niccolò Machiavelli affermava del Principe che «è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua». Parlava di un potere che all’occorrenza non esitava a mostrare senza maschera la sua faccia più crudele, e guai ai vinti. Nella variante moderna il potere vuol farsi amare dal popolo promettendo la democrazia, ossia il potere del popolo, ma usa ugualmente la paura come strumento di governo, solo che ha bisogno di attribuire ad altri l’intento di causarla, attraverso atti spesso eclatanti. Ecco dunque le “false flag”, aggressioni ricevute sotto falsa bandiera, attentati terroristici da addossare a nemici veri o inventati, contro i quali scatenare l’isteria dei propri media, che a sua volta trascina interi popoli. Le false flag aiutano il nucleo più interno del potere a conquistare sufficiente consenso per imporre la disciplina dettata dalla paura. Gli diventa più facile restringere le libertà, neutralizzare e disperdere il dissenso, pur esibendo ancora agli occhi dei popoli i simulacri delle vecchie costituzioni.
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Matteo stai sereno, stanno già arrivando i titoli di coda
La coppia presidenziale Boschi-Renzi ha stufato? Avevano cercato di far apparire l’appuntamento amministrativo di giugno come un insignificante stretching, prima della sfida all’O.K. Corral referendario di ottobre. La possibilità di iniziare già da ora a spedire un chiaro messaggio al duo rampante, rispondendo per le rime alle loro evidenti propensioni alla presa per i fondelli dei cittadini, è stata irresistibile; riuscendo perfino nel miracolo di interrompere per una volta il trend al non-voto, tanto da riportare alle urne in alcune città un numero superiore di aventi diritto rispetto alle occasioni precedenti. Ora possono dire quello che vogliono, questi pervicaci manipolatori del pensiero, che di volta in volta – e a seconda di quanto conviene loro – pretendono di stabilire se un dato elettorale ha una qualche valenza generale o meno. Le europee 2014 (drogate dalla paghetta degli 80 euro, che per molti si è rivelata soltanto un prestito truffaldino pro tempore) venivano proclamate un test estremamente rilevante; le consultazioni di domenica un semplice appuntamento localistico.Solo perché gli scricchiolii nei consensi stavano a indicare un pericoloso risveglio dall’incantamento, nei confronti di chi ha monopolizzato la scena pubblica con un’opera sistematica di colonizzazione degli immaginari; intasandoli di sogni infondati quanto apparentemente rassicuranti. Dalle erogazioni a sorpresa (ossia con la clausola mimetizzata – come nelle obbligazioni di Banca Etruria – per la loro restituzione a valore maggiorato; tipo l’abbattimento di tasse nazionali a fronte di incrementi locali) alle riforme bidone, il cui sapore rancido veniva mascherato dagli abbondanti inzuccheramenti lessicali: la “buona” scuola, il “buon” lavoro e così via. Difatti la dark lady in tailleur da fata turchina Boschi, forse avvisata dalle proprie antenne sensibilissime alle questioni di potere (come dimostrò alle elezioni per il sindaco di Firenze, mollando per tempo il candidato dalemiano Michele Ventura di cui era portavoce, per imbarcarsi sul carro renziano), già da qualche giorno si era premurata di mutare registro: dal trionfalismo al terrorismo.Difatti ora passa dal cinguettio molesto sui “partigiani buoni” al sibilo del «se vince il no si apriranno scenari di instabilità». Staremo a vedere cosa si inventerà il suo partner dai pantaloni a tubo di stufa, che solitamente funziona meglio quando può giocare all’attacco in chiave di seduzione; mentre le bugie difensive gli vengono peggio, perché tradiscono la sua cinica arroganza. Do you remember “stai sereno”? Certo, l’esito delle consultazioni domenicali è ancora aperto. Ma già emettono due messaggi importanti. Il primo è che in questo Paese, dove la condiscendenza al potere e ai potenti è un tratto caratteriale estremamente diffuso, alla fine ci si stufa del fenomeno di turno. E Renzi presumibilmente sta per essere investito da un effetto disaffezione che ricorda la metafora del “marziano a Roma” di Ennio Flaiano: l’alieno Knut atterrato nella capitale che, esaurito il primo effetto sorpresa, viene liquidato dal millenario scetticismo capitolino con un beffardo “ancora qui?”.La seconda questione è se dallo scombussolamento prenderà corpo una qualche proposta di governo credibile, che smentisca l’argomentazione (ricattatoria) che “a Renzi non ci sono alternative”. Oltre il (più che legittimo) voto punitivo che ha caratterizzato in larga misura gli esiti (liberatori) che abbiamo sotto gli occhi. Visto che oggi ci è data l’opportunità di meditare su una grande verità che Flaiano faceva pronunciare al suo “marziano”: «La parola serve a nascondere il pensiero, il pensiero a nascondere la verità. E la verità fulmina chi osa guardarla in faccia».(Pierfranco Pellizzetti, “Elezioni amministrative 2016, dopo un po’ Renzi stufa”, da “Il Fatto Quotidiano” del 6 giugno 2016).La coppia presidenziale Boschi-Renzi ha stufato? Avevano cercato di far apparire l’appuntamento amministrativo di giugno come un insignificante stretching, prima della sfida all’O.K. Corral referendario di ottobre. La possibilità di iniziare già da ora a spedire un chiaro messaggio al duo rampante, rispondendo per le rime alle loro evidenti propensioni alla presa per i fondelli dei cittadini, è stata irresistibile; riuscendo perfino nel miracolo di interrompere per una volta il trend al non-voto, tanto da riportare alle urne in alcune città un numero superiore di aventi diritto rispetto alle occasioni precedenti. Ora possono dire quello che vogliono, questi pervicaci manipolatori del pensiero, che di volta in volta – e a seconda di quanto conviene loro – pretendono di stabilire se un dato elettorale ha una qualche valenza generale o meno. Le europee 2014 (drogate dalla paghetta degli 80 euro, che per molti si è rivelata soltanto un prestito truffaldino pro tempore) venivano proclamate un test estremamente rilevante; le consultazioni di domenica un semplice appuntamento localistico.