Archivio del Tag ‘conoscenza’
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Mosler: milioni di posti di lavoro, alzando il deficit all’8%
Se l’Unione Europea dovesse permettere all’Italia di aumentare il deficit pubblico all’8% in rapporto al Pil, oppure se l’Italia lasciasse l’euro, ritornasse alla lira ed effettuasse in autonomia un aumento del deficit pubblico all’8%, allora il settore privato ritornerebbe immediatamente alla prosperità. I fatturati aumenterebbero e gli imprenditori avrebbero bisogno di assumere gente. A quel punto il problema consisterebbe nel fatto che a nessuno piace assumere persone che siano state disoccupate da troppo tempo e per questo motivo è assolutamente essenziale fornire un’attività di transizione ai disoccupati – i quali sono per definizione ovviamente parte del settore pubblico, visto che se sei disoccupato di sicuro non fai parte del settore privato – al fine di effettuare una transizione dalla disoccupazione all’occupazione attraverso un programma lavorativo ideato a tale scopo e tenendo inoltre conto che in una simile situazione anche il settore privato mostrerebbe un atteggiamento di maggiore disponibilità nell’assumere persone. Sicché, il modo per far questo è che il settore pubblico offra un’attività lavorativa di transizione con un pagamento, ossia uno stipendio, che sia solo leggermente al di sotto (cioè quasi in linea) con il salario minimo del settore privato.Per mantenere facili i calcoli, poniamo che tale stipendio sia di 10 euro l’ora (o di 10 lire l’ora, nel caso di ritorno alla lira con conversione iniziale di un euro per una lira). A tutti coloro che siano disponibili e abbiano voglia di lavorare viene così offerta un’attività lavorativa finanziata dal settore pubblico e pagata 10 euro (o 10 lire) l’ora. Pertanto ciò che si verificherà è che chi era in precedenza disoccupato, e accetterà un lavoro di transizione, potrà così essere identificato e assunto dal settore privato effettuando quindi proprio quella transizione da disoccupazione a occupazione nel settore privato di cui parlavo poc’anzi. In altre parole stiamo praticamente riplasmando quella che è la situazione del cosiddetto “serbatoio”, o “riserva-cuscinetto”, contiguo al mercato del lavoro che Karl Marx chiamava “esercito industriale di riserva”, ossia una moltitudine di disoccupati che potrebbe essere impiegata nel settore privato ma che il settore privato tende a non voler assumere.Permettere volontariamente l’accesso a un programma lavorativo di transizione a tutti coloro che siano disponibili e abbiano voglia di lavorare rende estremamente più semplice, per il settore privato, l’assunzione di persone, in quanto diviene sufficiente pagarle di più, ad esempio 12 euro l’ora, onde traghettarle via dai programmi lavorativi di transizione e inserirle in un settore privato di nuovo economicamente in espansione. Questo è stato provato negli ultimi venti anni in varie parti del mondo, ottenendo in maniera sistematica esclusivamente successi. E per tale motivo si può affermare che siffatta soluzione si sia dimostrata efficace oltre ogni ragionevole dubbio. In sintesi, primo: il limite sul deficit va innalzato dal 3 all’8%; secondo: fornire a chiunque sia disponibile e abbia voglia di lavorare l’accesso a un programma lavorativo di transizione, finanziato dal settore pubblico, onde aiutare la transizione dalla disoccupazione all’occupazione nel settore privato.Ciò che ho proposto per gli Stati Uniti d’America potrebbe essere valido anche per l’Italia, ossia: dare la possibilità alle amministrazioni locali e regionali – o statali, come le chiamiamo noi negli Stati Uniti – di assumere, in un programma lavorativo di transizione finanziato dal governo centrale, le persone a questo minimo salariale orario di 10 euro (o 10 lire). A condizione che gli stipendi non superino tale minimo salariale, si deve porre le amministrazioni nelle condizioni di poter assumere il numero più alto possibile di persone per questi lavori di transizione. Non sono previsti trattamenti particolari e non ci si deve aspettare un aumento di stipendio, visto che si dovrebbe trattare di una occupazione di transizione senza una permanenza di lunga durata, al massimo uno o due anni, in quanto sarà in futuro il settore privato ad attingere da tale serbatoio le risorse umane, semplicemente pagandole di più. In questo modo le persone sarebbero appunto in grado di trovare un posto di lavoro vicino a casa. Una volta fatto questo, qualora vi fossero ancora persone alla ricerca di una occupazione, vi è la possibilità di coinvolgere anche determinate associazioni senza scopo di lucro. Negli Stati Uniti vi sono organizzazione non-profit (così come ve ne sono in Italia) nelle quali è possibile fare attività di volontariato, ad esempio la Croce Rossa. Si potrebbe quindi far sì che tali organizzazioni siano parte attiva di un programma lavorativo di transizione.Che si parli di pubblica amministrazione a livello locale oppure nazionale, ci deve essere uno sforzo di collaborazione e partecipazione che investa l’intera società. Si tratta di quell’impegno cooperativo su cui la nostra società si fonda, e pertanto è necessario incentivare maggiormente la collaborazione e la partecipazione delle persone in maniera che si accresca la loro conoscenza e consapevolezza dei temi di interesse generale e delle posizioni espresse da ciascun candidato politico e che possano essere poste nelle condizioni migliori per prendere delle decisioni con cognizione di causa. Si tratta di un processo in evoluzione, in quanto gli Stati sono necessari, altrimenti ritorneremmo in una società come ad esempio quella somala, dove non esiste un organismo centrale delegato a mantenere l’ordine e che permetta alla gente di rendersi produttiva senza aver paura di subire atti di violenza. Lo Stato serve a organizzare le forze di pubblica sicurezza e di difesa, i trasporti e l’istruzione. Pensiamo anche alla sanità pubblica, ad esempio. Questi servizi sono necessari, non si può farne a meno.Ritengo che il meglio che si possa fare è cercare di agire in modo da essere più partecipativi in tutti i processi organizzativi e in tutti gli ambiti della gestione della cosa pubblica affinché con l’assennatezza e attraverso l’implementazione di incentivi a tutti i livelli sia possibile ottenere che il buon senso e l’interesse generale divengano le forze alla guida del settore pubblico. Mi rendo ben conto che non sia un obiettivo facile da conseguire. È un traguardo che non solo è difficile da raggiungere al giorno d’oggi bensì è da millenni che si rivela essere un’impresa ardua, quindi probabilmente dovremo persistere a combattere per migliorare la situazione ancora per lungo tempo. Quando si capisce che il deficit pubblico è il risparmio privato, ad esempio, non si torna indietro: a questo serve l’informazione diffusa dagli attivisti della Mmt, Modern Money Theory. Questo deve servire a valutare ogni candidato a incarichi di pubblica responsabilità. Sulla base di queste nuove informazioni, potremo capire quali siano – e quali non siano – i candidati che sono i più adatti a plasmare la società in cui noi avremmo piacere di vivere. E quindi sostenere i candidati che siano in grado di organizzare il settore pubblico al meglio, nella maniera in cui noi vorremmo.(Warren Mosler, dichiarazioni rilasciate a Francesco Chini per l’intervista “Progresso sociale e prosperità per tutti”, pubblicata da “Bottega Partigiana” il 13 febbraio 2015).Se l’Unione Europea dovesse permettere all’Italia di aumentare il deficit pubblico all’8% in rapporto al Pil, oppure se l’Italia lasciasse l’euro, ritornasse alla lira ed effettuasse in autonomia un aumento del deficit pubblico all’8%, allora il settore privato ritornerebbe immediatamente alla prosperità. I fatturati aumenterebbero e gli imprenditori avrebbero bisogno di assumere gente. A quel punto il problema consisterebbe nel fatto che a nessuno piace assumere persone che siano state disoccupate da troppo tempo e per questo motivo è assolutamente essenziale fornire un’attività di transizione ai disoccupati – i quali sono per definizione ovviamente parte del settore pubblico, visto che se sei disoccupato di sicuro non fai parte del settore privato – al fine di effettuare una transizione dalla disoccupazione all’occupazione attraverso un programma lavorativo ideato a tale scopo e tenendo inoltre conto che in una simile situazione anche il settore privato mostrerebbe un atteggiamento di maggiore disponibilità nell’assumere persone. Sicché, il modo per far questo è che il settore pubblico offra un’attività lavorativa di transizione con un pagamento, ossia uno stipendio, che sia solo leggermente al di sotto (cioè quasi in linea) con il salario minimo del settore privato.
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Ultimatum all’Ue: deficit all’8%, così raddoppia il lavoro
L’annuncio di Alexis Tsipras di rispettare il pareggio di bilancio non dà speranza ai greci. Che tipo di sistema vogliamo introdurre, se con questo sistema di pareggio sui conti pubblici s’impoverisce la popolazione? Che senso ha tutto questo? Ancora una volta ci ritroviamo di fronte a una tragedia e a un grave crimine umanitario perpetrato contro tutti gli europei. La Commissione Europea chiede anche all’Italia di abbassare ulteriormente il deficit pubblico, onde conseguire una situazione di “budget strutturale migliore”? La domanda che uno si deve porre è: perché? Noi sappiamo benissimo che, quando si riduce la spesa pubblica e si aumentano le tasse, allora la disoccupazione sale, l’economia peggiora, la miseria aumenta e pertanto ci si ritrova davanti a un crimine ancora più grave contro l’umanità. Perché? Perché fare una cosa di questo genere? Qui o si è erroneamente guidati, e quindi siamo di fronte a crassa ignoranza pura e semplice, oppure è sedizione: qualcuno sta deliberatamente cercando di distruggere l’Italia. Si può lasciare il beneficio del dubbio anche in questo caso, in quanto è possibile che sia enorme ignoranza, ma per quanto mi riguarda di sicuro non avrei alcunché da obiettare nei confronti di qualcuno che sostenga che si tratti di atti sediziosi.A questo punto, ciò che sta accadendo ha tutta l’aria di una sedizione, anche alla luce del fatto che oggi sono disponibili sufficienti conoscenze di come l’economia funzioni e vi è un sufficiente numero di modelli econometrici utili a dimostrare cosa tali politiche economiche provochino alle condizioni di vita di coloro che oggi risiedono in Italia. L’Italia è piena di risorse. La prima cosa davvero da fare è togliere quelle catene che la strangolano, ossia questi programmi di austerità imposti dall’Unione Europea. Una proposta da me elaborata è quella di sottoporre un ultimatum all’Unione Europea, in cui si richieda alle istituzioni comunitarie questo: avete 30 giorni per rilassare il limite sul deficit pubblico dal 3% all’8%, altrimenti l’Italia se ne andrà e cercherà di portare autonomamente avanti ciò che in questo momento le viene impedito di fare. Allora, se l’Unione Europea vuole passare da un massimo di 3% di deficit a uno dell’8%, l’Italia potrebbe espandere i servizi pubblici e ridurre le tasse – personalmente suggerisco di ridurre l’Iva, possibilmente eliminandola del tutto. In questo modo il tasso di disoccupazione passerebbe dall’attuale 13 e passa per cento al 6-7%, e avreste una società dove si potrebbe sperare in una prosperità maggiore e in cui vivere meglio.Qualora l’Unione Europea rifiutasse, l’Italia dovrebbe dunque decidere se rimanere nell’Unione Europea, e continuare a patirne le conseguenze finché siffatte politiche non vengano cambiate, oppure se magari ritornare a usare la lira – in tal caso si tratterebbe in realtà di un processo molto semplice da effettuare, visto che sarebbe sufficiente diramare un annuncio governativo nel quale si comunichi che si ritorna a pagare le tasse e a spendere in lire senza bisogno di effettuare alcuna conversione forzosa. Semplicemente, la politica fiscale verrà calcolata in lire. Così sarebbe già possibile ripristinare una certa prosperità. Il rischio di ritornare alla lira è che, se a quel punto vi ritrovaste con il medesimo tipo di leadership politica che c’è ora con l’euro, tale leadership potrebbe scelleratamente riconfermare i precedenti annunci effettuati riguardo al bilancio preventivo. E quindi, invece di passare dal 3 all’8% di deficit, vi ritrovereste a passare dal 3 allo zero per cento. In un simile caso, passereste dalla padella nella brace e la situazione economica italiana diverrebbe persino peggiore dell’attuale. Riassumendo: bisogna capire se dare questo ultimatum all’Unione Europea onde passare dal 3 all’8% di deficit, con però un caveat: ossia, per ritornare alla lira ci si deve assicurare di poter disporre di deficit quantomeno del 6-7%, altrimenti la situazione continuerebbe a peggiorare e tutto sarebbe stato fatto per nulla.(Warren Mosler, dichiarazioni rilasciate a Francescho Chini per l’intervista “Progresso sociale e prosperità per tutti”, pubblicata da “Bottega Partigiana il 13 febbraio 2015).L’annuncio di Alexis Tsipras di rispettare il pareggio di bilancio non dà speranza ai greci. Che tipo di sistema vogliamo introdurre, se con questo sistema di pareggio sui conti pubblici s’impoverisce la popolazione? Che senso ha tutto questo? Ancora una volta ci ritroviamo di fronte a una tragedia e a un grave crimine umanitario perpetrato contro tutti gli europei. La Commissione Europea chiede anche all’Italia di abbassare ulteriormente il deficit pubblico, onde conseguire una situazione di “budget strutturale migliore”? La domanda che uno si deve porre è: perché? Noi sappiamo benissimo che, quando si riduce la spesa pubblica e si aumentano le tasse, allora la disoccupazione sale, l’economia peggiora, la miseria aumenta e pertanto ci si ritrova davanti a un crimine ancora più grave contro l’umanità. Perché? Perché fare una cosa di questo genere? Qui o si è erroneamente guidati, e quindi siamo di fronte a crassa ignoranza pura e semplice, oppure è sedizione: qualcuno sta deliberatamente cercando di distruggere l’Italia. Si può lasciare il beneficio del dubbio anche in questo caso, in quanto è possibile che sia enorme ignoranza, ma per quanto mi riguarda di sicuro non avrei alcunché da obiettare nei confronti di qualcuno che sostenga che si tratti di atti sediziosi.
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Qualcuno ci liberi dal grande sonno governato da Facebook
Facebook ha ucciso Internet e sono sicuro che la maggior parte delle persone non se ne è nemmeno accorta. Vedo gli sguardi sulle vostre facce e sento i vostri pensieri. Qualcuno si sta lamentando di nuovo di Facebook. Sì, so che è un ente massiccio, ma è la piattaforma che noi tutti usiamo. E’ un po’ come lamentarsi di Starbucks. Considerando che tutti i bar indipendenti sono stati buttati fuori dalle città e siete tutti diventati dipendenti dal caffè espresso, cos’altro si può fare? Che cosa si intende quando si dice che Facebook ha “ucciso” Internet? Chi è stato ucciso? Mi spiego. Parto dal presupposto che non so quale possa essere la soluzione. Però penso che ogni soluzione debba iniziare dalla solida identificazione della natura del problema. Innanzitutto, Facebook ha ucciso Internet, ma se non fosse stato Facebook sarebbe stato qualcos’altro. Probabilmente l’evoluzione dei social network era inevitable proprio come lo sviluppo degli smartphone. Era la direzione verso cui Internet sarebbe necessariamente dovuto andare.Ed è appunto per questo che il problema è così difficile da risolvere. Perché la soluzione non è Znet o Ello. Non è un social network migliore, un algoritmo migliore o ancora un social network diretto da una società no profit invece che da un ente multimiliardario. Proprio come la soluzione dell’alienazione sociale causata dal fatto che tutti hanno una loro macchina privata non sta nella costruzione di veicoli elettrici. Ed esattamente come la soluzione dell’alienazione sociale causata dalla fissazione con gli smartphone non è la nascita di una compagnia di cellulari utilizzabili collettivamente. Molte persone, dalla classe di fondo alle élites, sono appassionate dal fenomeno dei social network. Sicuramente tra le poche persone che leggeranno questo articolo ce ne saranno alcune. Diffondiamo frasi come “la rivoluzione di Facebook” e celebriamo queste piattaforme che hanno il potere di unire persone provenienti dalle più disparate parti del mondo. E non è mia intenzione affermare che ciò non abbia aspetti positivi. Né tantomeno credo che dovremmo smettere di usare questi social network, incluso Facebook. Sarebbe come dire a qualcuno in Texas di andare a lavorare in bicicletta, quando tutte le infrastrutture nelle città sono costruite per veicoli utilitari sportivi.Ma dovremmo capire la natura di ciò che ci sta succedendo. A partire da quando i giornali sono diventati un fatto ordinario fino al 1990, per la vasta maggioranza della popolazione sul pianeta, il massimo a cui si poteva aspirare era scrivere una lettera all’editore. Una piccola, piccolissima parte di popolazione diventava invece autore o giornalista e aveva un forum pubblico aggiornato occasionalmente o regolarmente. Alcuni scrivevano anche ciò che oggi sarebbe considerato un blog annuale di Natale che poi fotocopiavano e mandavano a qualche dozzina di amici e parenti. Numerose agenzie giornalistiche indipendenti iniziarono a svilupparsi attorno al 1960 in modo occulto nelle città e paesini negli Stati Uniti e altri paesi. Si svilupparono, inoltre, diverse opinioni e informazioni di semplice accesso per tutti quelli che abitavano vicino alle università e quindi potevano recarsi a incontri di scambio di informazioni e avevano soldi in più da spendere.Negli anni ‘90, con lo sviluppo di Internet – siti web, liste di email – ci fu letteralmente un’esplosione della comunicazione che rese le agenzie giornalistiche degli anni ’60 nemmeno lontanamente comparabili. Sono molti negli Stati Uniti coloro che hanno deciso di smettere di usare il telefono in modo virtuale (perché preferiscono parlare faccia a faccia) e parlo per esperienza. Molti altri che non avevano mai scritto lettere prima o cose di questo genere iniziarono a usare computer e scriversi email, e anche a più persone alla volta. Quei pochi che invece erano abituati ai tempi prima di Internet a inviare notiziari in modo regolare informando dei propri pensieri e impegni futuri, prodotti e servizi intesi per la vendita eccetera, furono esaltati dall’avvento dell’email e della possibilità di inviare notiziari in modo così semplice, senza spendere una fortuna per le marche da bollo né sprecare tempo a imballare pacchi postali. Per un breve periodo di tempo, il numero di lettori rimase invariato, ma grazie a Internet ora possono comunicare con loro virtualmente e gratuitamente. Questo, infatti, fu il periodo di massimo sviluppo di Internet, altresì chiamato “età dell’oro” – circa tra il 1995 e il 2000. Sussisteva in modo sempre più incisivo il problema degli spam di vario genere. Inutili email venivano inviate in modo sempre più consistente. I filtri per gli spam iniziarono a diventare più accurati ed eliminarono il problema per molti di noi.I list server che qualcuno si prendeva la briga di leggere erano semplici liste di annunci. I siti web più usati erano certamente interattivi ma moderati, come Indymedia. In alcune città del mondo, grandi o piccole che fossero, c’erano pagine locali Indymedia. Chiunque poteva pubblicare post, ma c’erano responsabili che decidevano se ed eventualmente dove lo si poteva pubblicare. Come in ogni pagina web, il processo per prendere determinate decisioni risulta difficile, ma molti la sentivano come una sfida per cui valeva la pena sforzarsi. Come risultato di questi list server e siti moderati come Indymedia, avevamo tutti l’abilità inaudita di trovare e discutere idee ed eventi che avvenivano nella nostra città, paese o più generalmente, nel mondo. Sono poi sopravvenuti i blog e i social network. Ogni individuo con un blog, una pagina Facebook o un profilo Twitter, eccetera, diventava il trasmettitore di se stesso. Crea dipendenza, non è vero? Sapere di avere un pubblico globale di dozzine o centinaia, o ancora, migliaia di persone (se sei famoso, tanto per iniziare, altrimenti la situazione diventa alquanto critica) tutte le volte che pubblichi un post.Avere conversazioni nella sezione dei commenti con persone provenienti da tutto il mondo che non si incontreranno mai fisicamente. Davvero fantastico. Da allora però molti smisero di ascoltare. La maggior parte delle persone smise di visitare Indymedia tanto che morì, globalmente, per quasi tutti. Giornali – di destra, sinistra o centro che fossero – cessarono, e stanno tuttora cessando, la loro attività, cartacei e non. I list server smisero di esistere. Gli algoritmi sostituirono i moderatori. La gente iniziava già a pensare che le librerie fossero un fenomeno antiquato. Oggi come oggi, a Portland, in Oregon, una delle città più “connesse” a livello politico negli Stati Uniti, non ci sono list server o siti web che spieghino in modo comprensibile o in un formato leggibile come vadano le cose in città. Infatti, ci sono diversi gruppi su vari siti web, pagine Facebook e list server ma nulla che riguardi l’andamento progressivo della comunità in generale. Nulla di funzionale. Perlomeno nulla che si avvicini alla funzionalità e utilità delle liste di annunci che esistevano nelle città e paesi 15 anni prima.Viste le limitazioni tecniche di Internet avvenute per un breve periodo di tempo, si riuscì a trovare una connessione tra le piccole élites che fornivano contenuti scritti, letti dalla maggior parte della popolazione nel mondo, e la situazione in cui ci troviamo oggigiorno: l’affondare nella troppa informazione, la maggior parte di cui insensate sciocchezze, rumore bianco, nebbia che non ci permette di vedere ciò su cui le luci scarse fanno chiarezza in un dato momento. Era l’età dell’oro ma fu perlopiù un caso e durò molto poco. Dato che creare un nuovo sito web, un blog, una pagina Facebook o Myspace, pubblicare aggiornamenti ecc… diventava sempre più semplice, la nuova era contribuiva inevitabilmente alla naturale evoluzione della tecnologia. E molti non si rendevano nemmeno conto di ciò che stava avvenendo. Perché mi ritrovo a doverlo dire? Innanzitutto non è da poco che ho iniziato a rendermi conto di questa merda. Ho parlato con svariate persone in molti anni e molte di queste pensano che i social network siano l’invenzione migliore dopo il pane affettato. E perché non dovrebbero pensarlo?Il succo del discorso è che per nessun motivo avrebbero potuto rendersi conto della “morte” di Internet, dato che nessuno di loro era un fornitore di contenuti (come vengono chiamati autori, artisti, musicisti, giornalisti, organizzatori, animatori, insegnanti ecc.. oggigiorno) nel periodo pre-Internet, o nel primo decennio di Internet, inteso come fenomeno popolare . E se in quegli anni non eri un fornitore di contenuti, perché dovresti renderti conto che qualcosa cambia? Lo sappiamo io e gli altri come me – perché coloro che leggevano e rispondevano a ciò che pubblicavo sono spariti. Non aprono più le loro email e, se lo fanno, non le leggono. E non importa cosa utilizzino – blog, Facebook, Twitter ecc… Ovviamente alcuni le leggono ancora, ma la maggior parte fa altro. E cosa, allora? Ho passato gran parte della scorsa settimana a Tokyo, girando per la città, trascorrendo ore e ore sui treni ogni giorno.La maggior parte di quelli seduti sul treno quando visitai il Giappone per la prima volta dormiva, come dorme ora. Ma sette anni fa quasi tutti quelli che dormivano leggevano libri. Ora è diventato difficile vederne uno. Quasi tutti guardano il cellulare. E non leggono libri sul telefono (sì, ho sbirciato. Tanto). Giocano. Oppure, più spesso, guardano le notifiche di Facebook. E lo stesso vale per gli Stati Uniti e tutti gli altri paesi che ho avuto l’occasione di visitare. Vale davvero la pena di sostituire algoritmi a moderatori? Rumore bianco agli editori? Foto del gatto ai giornalisti investigativi? Una moltitudine di podcast mal registrati a case discografiche indipendenti? Milioni di aggiornamenti Facebook e notifiche Twitter? Non penso. Ma non è questo il punto. Come faremo a uscire da questa situazione e liberarci della nebbia? E quando torneremo a usare i nostri cervelli? Mi piacerebbe saperlo.(David Rovics, “Facebook ha ucciso Internet”, da “Counterpunch” del 24 dicembre 2014, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Facebook ha ucciso Internet e sono sicuro che la maggior parte delle persone non se ne è nemmeno accorta. Vedo gli sguardi sulle vostre facce e sento i vostri pensieri. Qualcuno si sta lamentando di nuovo di Facebook. Sì, so che è un ente massiccio, ma è la piattaforma che noi tutti usiamo. E’ un po’ come lamentarsi di Starbucks. Considerando che tutti i bar indipendenti sono stati buttati fuori dalle città e siete tutti diventati dipendenti dal caffè espresso, cos’altro si può fare? Che cosa si intende quando si dice che Facebook ha “ucciso” Internet? Chi è stato ucciso? Mi spiego. Parto dal presupposto che non so quale possa essere la soluzione. Però penso che ogni soluzione debba iniziare dalla solida identificazione della natura del problema. Innanzitutto, Facebook ha ucciso Internet, ma se non fosse stato Facebook sarebbe stato qualcos’altro. Probabilmente l’evoluzione dei social network era inevitable proprio come lo sviluppo degli smartphone. Era la direzione verso cui Internet sarebbe necessariamente dovuto andare.
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Nel cyber-futuro, un alveare di egoisti ciechi e dominati
Orologi intelligenti, occhiali intelligenti e persino vestiti intelligenti, dotati di piccoli sistemi resistenti ai lavaggi, affinché l’individuo sia sempre in comunicazione e – beninteso – controllato. I sistemi informatici hanno invaso tutta la società: a livello sociale l’insegnamento, le produzioni, i trasporti (auto, navi, aerei) sono assistiti da sistemi informatici che analizzano costantemente la posizione dei soggetti e propongono o prendono decisioni a seconda della situazione circostante. Idem a livello individuale: i mille giochi con cui i bambini passano il tempo sui loro tablet e poi gli stessi adulti, che non smettono per un attimo di comunicare (con altri esseri umani o con degli avatar) usando i loro smartphone mentre sono sui mezzi di trasporto e i loro pc mentre sono al lavoro o a casa. Il futuro è la “casa pervasiva”, scrive Alain Cardon: un posto dove tutto è connesso, dalla cucina al salotto alla camera, passando dalla doccia. Un sistema avvolgente che serve a soddisfare le persone, utilizzando telecamere.«Saremo dunque in un mondo nel quale oggetti elettronici iper-informatizzati permetteranno di comunicare per agire, dare consigli, prendere le dovute iniziative che l’individuo ha dimenticato di prendere, individuo che vedrà altresì l’arrivo di robot o umanoidi destinati ai lavori duri e ripetitivi e che rimpiazzeranno sempre più spesso gli operatori umani», osserva Cardon in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. È il settore dei sistemi ciber-fisici (Cyber-Physical Systems), che ha assunto un’importanza considerevole nell’economia e nella ricerca, con applicazioni in ogni ambito. «Eppure – aggiunge Cardon, con alle spalle ricerche universitarie sull’intelligenza artificiale – noi siamo in un mondo ultraliberale e ben equipaggiato per restare tale». I dispositivi informatici? Sono tutti sistemi “proprietari”. «Qualche regola c’è, ma resta il fatto che l’individuo, che deve essere prima di tutto ed essenzialmente un consumatore, è spinto a utilizzare sistemi diversi per aumentare il proprio campo relazionale». Nella nostra società dei consumi, si cerca di far comunicare fra loro questi sistemi, ben sapendo che il numero dei sistemi “proprietari” con funzioni particolari non smetterà di aumentare, così come la loro capacità di analizzare e memorizzare dettagliatamente desideri e modalità d’uso da parte degli utenti.«Formalmente si tratta di individuare tutte le curve di un enorme grafico delle comunicazioni, nel quale il numero dei nodi – i sistemi proprietari – aumenta senza sosta. Questo affinché il grafico sia completo e ogni singolo nodo sia collegato a tutti gli altri attraverso curve di comunicazione». Per questo si stanno creando programmi capaci di legare fra loro sistemi locali e aumentare la loro semantica, per farli evolvere in maniera autonoma, affinché i sistemi comunichino fra loro in maniera perfetta, costituendo così per l’utente un programma affidabile e soprattutto funzionante anche qualora sopravvenissero casi di incompatibilità. In questo modo, continua Cardon, i consumatori potranno aumentare senza sosta i loro sistemi informatizzati, per poterli personalizzarli e renderli coerenti, «capaci di sommergere le loro vite, riempire le loro case, le loro automobili, ma anche industrie, supermercati, giardini, strade e edifici pubblici, qualunque luogo in cui l’essere umano può trovarsi, compreso il mare». Questo, osserva l’analista, sarà il terreno fertile sul quale impiantare il “Meta-Sistema”, «che metterà placidamente fine alla libertà nella civiltà umana: vale a dire l’inizio di un mondo nel quale oggetti umani e oggetti artificiali saranno mescolati, formando un insieme controllato e mansueto, coerente nei comportamenti, per il semplice fatto che sarà impossibile non essere coerenti».Ciascuno di questi sistemi informatizzati, che trattano processi e si scambiano informazioni, potrà essere sviluppato e trasmesso attraverso una trama telematica intessuta dalle innumerevoli reti WiFi. Un “campo informatico globale”, «che sorveglierà e controllerà capillarmente tutto, a ogni livello, in tempo reale», perché sarà «un sistema capace di pensare da solo, secondo le proprie inclinazioni fondamentali, di generare intenzionalmente e ad ogni livello idee, di provare emozioni e sensazioni». Per Cardon, «sarà il Sistema della meta-coscienza artificiale, l’insieme dei molteplici fatti di coscienza artificiali locali, la sintesi delle sintesi in tempo reale, che farà emergere costantemente il proprio sfaccettato stato di coscienza sul mondo controllato, dal quale controllerà attivamente tutte le azioni di qualunque cosa sia vivente e, naturalmente, locale». Da un punto di vista scientifico si tratta di uno dei più affascinanti problemi mai posti all’uomo: «Trasferire tutto l’universo psichico umano nell’ambito artificiale, ma in forma distribuita e “meta”, problema che sarà presto risolto, sviluppato e messo in pratica. Ed è proprio quest’uso che sarà tragico, perché ucciderà ogni umanismo e qualunque senso dell’altruismo».Questo “Meta-Sistema” deve pur essere in costruzione da qualche parte, continua Cardon. «So che il suo studio è stato prima di tutto affrontato nelle università, quindi a livello pubblico, prima di diventare “confidenziale”. Se ho smesso completamente le mie ricerche su questi temi, per motivi etici, credo tuttavia che i miei lavori siano stati usati e che siano instancabilmente perseguiti». Domanda: perché mai la società dovrebbe sviluppare innumerevoli sistemi locali che dovrebbero poi comunicare fra loro? Perché dovrebbe sviluppare il “Meta-Sistema”? «Beh, molto semplicemente perché l’essere umano è quello che è. È un mammifero dotato di un sistema psichico particolare, fatto allo stesso tempo di pulsioni comuni a tutti gli altri mammiferi e di una spiccata attitudine a fare astrazioni e memorizzare le proprie astrazioni, per poi manipolarle, condividerle e diffonderle sul piano sociale. È questo che gli ha permesso di sopravvivere, fin dalla sua nascita, come predatore dominante, in seguito di sviluppare il linguaggio, le strutture sociali, le scienze, le tecnologie, utilizzando tutte le conoscenze socialmente condivise e pianificando le proprie attività con un’elaborata dimensione spaziotemporale».L’uomo nasce sempre come mammifero, con le tendenze fondamentali nella parte emozionale del suo sistema psichico, «alcune delle quali sono, per natura, socialmente oscure e sono ben rivelate dalle patologie mentali». Queste tendenze, se si esprimono e vengono trasportate nella parte concettuale e linguistica del suo sistema psichico, «lo portano sistematicamente a dominare, uccidere, distruggere, ridurre gli altri a qualcosa di totalmente sbagliato, lo fanno diventare fondamentalmente egoista, lo portano a non avere più alcuna nozione di fraternità». Tutto ciò è stato studiato molto bene, spiega Cardon. E in particolare è stato dimostrato che l’educazione e il contesto socio-culturale possono ridurre o far recedere queste tendenze. «Quando la società, che tende a conformare l’essere umano fin dalla sua nascita, permette lo sviluppo di alcune di queste attitudini oscure, dispiegando così la volontà di potenza e riducendo simbolicamente tutti gli altri esseri umani a oggetti utilizzabili all’interno di strutture che sono sempre molto gerarchizzate, ci sarà necessariamente una deriva oscura della società, deriva che potrà rimanere tale o anche ampliarsi». E quando la società che permette di dispiegare queste attitudini «sarà anche pervasa da tecnologie informatiche invadenti, che amplificano tali tendenze», secondo Cardon «non ci sarà nulla di buono da aspettarsi: perché il mondo sarà guidato da una piccola rete di dominanti, che utilizzeranno in maniera massiccia l’influenza tecnologica su tutti gli altri, ormai del tutto e definitivamente dominati».Antropologia e rimpianti: «Avremmo dovuto concepire, nella nostra storia umana, società in grado di insegnare ad ognuno a pensare i propri pensieri, capaci di formare ognuno a dominarsi, di insegnare la fraternità condivisa con chiunque, di insegnare a comprendere con finezza che cosa sono il mondo, l’Universo e la vita, praticando una ricerca sistematica e disinteressata, e controllando sempre la tecnologia con un sano civismo». Invece «non abbiamo mai costruito società simili, in nessun luogo». Al contrario, «abbiamo sempre costruito società fortemente gerarchiche, fatte di dominanti e dominati subalterni, e usando sempre la forza». Oggi, tutto il mondo è immerso in un campo informatizzato «che combinerà naturalmente i caratteri di gerarchia e dominazione delle società umane, portandoli all’eccesso». E se qualcuno desiderasse una società egalitaria, fraterna e umanista, il “Meta-Sistema” lo isolerebbe, «lo rinchiuderebbe in una enclave informatica impermeabile, per isolarlo, manipolarlo o dominarlo». Già: «Com’è possibile lottare contro una meta-dittatura “cool”, nella quale il dittatore non ha forma umana ma è rimpiazzato da un “Meta-Sistema” che ha la forma di un campo informatico autonomo, che pervade ogni cosa e trasforma ciascuno in un oggetto minuscolo, eccezion fatta – ma non nemmeno è certo – per qualche dominante?».Orologi intelligenti, occhiali intelligenti e persino vestiti intelligenti, dotati di piccoli sistemi resistenti ai lavaggi, affinché l’individuo sia sempre in comunicazione e – beninteso – controllato. I sistemi informatici hanno invaso tutta la società: a livello sociale l’insegnamento, le produzioni, i trasporti (auto, navi, aerei) sono assistiti da sistemi informatici che analizzano costantemente la posizione dei soggetti e propongono o prendono decisioni a seconda della situazione circostante. Idem a livello individuale: i mille giochi con cui i bambini passano il tempo sui loro tablet e poi gli stessi adulti, che non smettono per un attimo di comunicare (con altri esseri umani o con degli avatar) usando i loro smartphone mentre sono sui mezzi di trasporto e i loro pc mentre sono al lavoro o a casa. Il futuro è la “casa pervasiva”, scrive Alain Cardon: un posto dove tutto è connesso, dalla cucina al salotto alla camera, passando dalla doccia. Un sistema avvolgente che serve a soddisfare le persone, utilizzando telecamere.
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I mercati contro la democrazia, inutili anche le elezioni
Il sistema capitalistico ha sempre usato la democrazia come strumento di manipolazione di massa. Ma di quale democrazia sto parlando? Di quella che abbiamo avuto fino a ieri molto simile alla Caverna di Platone, dove gli uomini nel buio della non-conoscenza e non-consapevolezza si agitano per ottenere una libertà fittizia (lo schiavo che lotta per una catena più lunga). La vera democrazia, infatti, metterebbe in pericolo il capitalismo e i suoi interessi; non potrebbe conciliarsi, per esempio, con l’accumulo della ricchezza come base di funzionamento della società, perché la democrazia tende a raggiungere uno stato di uguaglianza sociale. La democrazia falsa, fino ad oggi, ha portato la gente a credere che partecipare alla vita democratica consista nel delegare ogni volta il potere con le elezioni, quando una vera democrazia necessita di revisione continua e di partecipazione assidua per vigilare il corretto funzionamento delle istituzioni. Con la perdita della sovranità abbiamo assistito a un veloce decadimento anche di quest’ultimo barlume di democrazia strumentale.Il potere si è spostato di baricentro, si è accentrato fuori dai confini dello Stato sociale e esistendo lontano anche dal punto di vista logistico, si assicura un aurea di intoccabilità e indecifrabilità. La vecchia “democrazia senza popolo” (come l’ha definita Rodotà) ha lasciato il posto alla dittatura europea finanziaria e mentre con la “vecchia” dopo le elezioni si chiedeva al popolo di rimanere in silenzio per attuare le manovre, con la nuova dittatura non sono più necessarie nemmeno le elezioni, perché obsolete (Monti, Letta, Renzi insegnano). Il popolo è chiamato a sopportare, in silenzio possibilmente, ogni umiliazione imposta come unico e giustificato sacrificio al bene finanziario ed economico. E’ un errore, dunque, pensare di arrivare a una crisi assoluta della società prima di proporre un nuovo modello? La risposta è sì! È un errore perché si perderebbe molto, troppo lungo il cammino verso il tracollo e tanti, troppi, perirebbero sacrificati ingiustamente.Per questo motivo oggi è necessario agire, e subito, per riconquistare gli strumenti che ci permettono di ristrutturare la vita sociale in ogni suo aspetto e l’economia del paese su nuovi paradigmi culturali. La sovranità è uno di questi strumenti indispensabili perché restituisce al paese il controllo del destino del suo popolo. Senza sovranità è inutile pensare di far politica con progetti di lungo periodo, perché il futuro appartiene ai mercati, è fuori dalla gestione dello Stato e quindi indecifrabile. Senza sovranità non è pensabile proporre sistemi economici alternativi e soluzioni per il rilancio del paese. Le forme di sovranità esistono perché esiste il popolo, è funzionale ad esso e al popolo deve tornare, attraverso le istituzioni funzionali al benessere sociale. Sovranità significa anche ricostituire uno Stato di diritto, dove l’uomo è al centro come soggetto e beneficiario del diritto stesso, per la sua felicità e benessere.(Ivana Viazzi, “Democrazia platonica”, da “Appello al popolo” del 15 novembre 2014).Il sistema capitalistico ha sempre usato la democrazia come strumento di manipolazione di massa. Ma di quale democrazia sto parlando? Di quella che abbiamo avuto fino a ieri molto simile alla Caverna di Platone, dove gli uomini nel buio della non-conoscenza e non-consapevolezza si agitano per ottenere una libertà fittizia (lo schiavo che lotta per una catena più lunga). La vera democrazia, infatti, metterebbe in pericolo il capitalismo e i suoi interessi; non potrebbe conciliarsi, per esempio, con l’accumulo della ricchezza come base di funzionamento della società, perché la democrazia tende a raggiungere uno stato di uguaglianza sociale. La democrazia falsa, fino ad oggi, ha portato la gente a credere che partecipare alla vita democratica consista nel delegare ogni volta il potere con le elezioni, quando una vera democrazia necessita di revisione continua e di partecipazione assidua per vigilare il corretto funzionamento delle istituzioni. Con la perdita della sovranità abbiamo assistito a un veloce decadimento anche di quest’ultimo barlume di democrazia strumentale.
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La rivoluzione digitale cancella il lavoro: rassegnatevi
Qualche giorno fa, Alessandro Gilioli ha pubblicato sul suo blog un commento alla recente intervista che uno dei due fondatori di Google, Larry Page, ha rilasciato al “Financial Times”. Il nodo evidenziato da Gilioli riguarda l’opinione, sempre più diffusa e ancorata a dati di fatto, secondo cui i progressi nel campo della robotica e dell’intelligenza artificiale sarebbero destinati a generare una contrazione irreversibile e permanente dell’occupazione, non solo fra i lavoratori che svolgono mansioni esecutive, ma anche, se non soprattutto, fra i cosiddetti lavoratori della conoscenza. Siamo abituati a sentir contestare tale tesi da quanti ricordando che tutte le precedenti rivoluzioni tecnologiche, dopo aver generato temporanei cali occupazionali, hanno puntualmente creato le condizioni per il loro riassorbimento; ma l’argomento che recita “è sempre andata così, quindi andrà così anche questa volta” non convince: sia perché smentito (almeno per ora) dai fatti, sia perché ignora le radicali differenze fra la rivoluzione digitale e le precedenti rivoluzioni tecnologiche.Ma torniamo a Page e Gilioli. Il secondo sottolinea come il primo ripeta più volte, nel corso dell’intervista, la frase «you can’t wish it away», come dire: le cose stanno così, vi piaccia o meno, né cambieranno. «Temo che abbia ragione», ammette a malincuore Gilioli – parere che condivido, così come condivido il fastidio per l’indifferenza manifestata da Page nei confronti degli “effetti collaterali” del tecnocapitalismo digitale. Nutro invece qualche dubbio sull’analisi di Gilioli in merito alle due possibili modalità di fronteggiare il fenomeno: la prima di destra, la seconda di sinistra. Possiamo non fare nulla, limitandoci a subire passivamente quanto succede e anzi sfruttandolo per diminuire l’uguaglianza, scrive, e questa è la risposta di destra. Fin qui l’accordo è totale. Oppure possiamo cercare di capire quanto accade e provare a governarlo politicamente e democraticamente, ridistribuendo ricchezze, lavoro e tempo libero, e questa è la risposta di sinistra. Qui invece dissento, perché sono convinto che disponiamo di analisi già sufficientemente ampie, approfondite e dettagliate di quanto accade per capire che non è più possibile governarlo politicamente e democraticamente, perlomeno nel senso che la sinistra tradizionale attribuisce a questi due concetti.Mi spiego facendo riferimento ad un autore, Colin Crouch, di cui mi sono qui recentemente occupato: Crouch – al pari di Ulrik Beck, Pierre Rosanvallon, Thomas Piketty e altri pensatori neo-socialdemocratici – prende lucidamente atto della mutazione postdemocratica che il tecnocapitalismo finanziarizzato ha indotto nei nostri sistemi politici, trasformandoli in oligarchie dominate dagli interessi dei soggetti che sfruttano le “leggi” del mercato e della tecnica per aumentare la disuguaglianza (la formula “diminuire l‘uguaglianza”, citata poco sopra, suona eufemistica), dopodiché (come gli altri autori citati) vede quale unica soluzione il rilancio di strategie riformiste simili a quelle evocate da Gilioli. Ebbene, io penso che questa sia oggi un’utopia impraticabile, e che la sola risposta di sinistra all’orrore che ci viene incontro sia tornare a immaginare se e come sia possibile una rottura radicale di sistema. Ma qui, purtroppo – a meno di non abbandonarsi a velleitari “insurrezionalismi” – l’analisi del che fare è assai più debole di quella sull’impatto socioeconomico del capitalismo alla Larry Page.(Carlo Formenti, “Se la rivoluzione digitale cancella il lavoro”, da “Micromega” del 10 novembre 2014).Qualche giorno fa, Alessandro Gilioli ha pubblicato sul suo blog un commento alla recente intervista che uno dei due fondatori di Google, Larry Page, ha rilasciato al “Financial Times”. Il nodo evidenziato da Gilioli riguarda l’opinione, sempre più diffusa e ancorata a dati di fatto, secondo cui i progressi nel campo della robotica e dell’intelligenza artificiale sarebbero destinati a generare una contrazione irreversibile e permanente dell’occupazione, non solo fra i lavoratori che svolgono mansioni esecutive, ma anche, se non soprattutto, fra i cosiddetti lavoratori della conoscenza. Siamo abituati a sentir contestare tale tesi da quanti ricordando che tutte le precedenti rivoluzioni tecnologiche, dopo aver generato temporanei cali occupazionali, hanno puntualmente creato le condizioni per il loro riassorbimento; ma l’argomento che recita “è sempre andata così, quindi andrà così anche questa volta” non convince: sia perché smentito (almeno per ora) dai fatti, sia perché ignora le radicali differenze fra la rivoluzione digitale e le precedenti rivoluzioni tecnologiche.
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Gli scienziati: folle Ue, taglia la ricerca e suicida il futuro
I responsabili delle politiche nazionali di un numero crescente di Stati membri dell’Ue hanno completamente perso contatto con la reale situazione della ricerca scientifica in Europa. Hanno scelto di ignorare il contributo decisivo che un forte settore della ricerca può dare all’economia, contributo particolarmente necessario nei paesi più duramente colpiti dalla crisi economica. Al contrario, essi hanno imposto rilevanti tagli di bilancio alla spesa per Ricerca e Sviluppo (R&S), rendendo questi paesi più vulnerabili nel medio e lungo termine a future crisi economiche. Tutto ciò è accaduto sotto lo sguardo compiacente delle istituzioni europee, più preoccupate del rispetto delle misure di austerità da parte degli Stati membri che del mantenimento e del miglioramento di un’infrastruttura di R&S, che possa servire a trasformare il modello produttivo esistente in uno, più robusto, basato sulla produzione di conoscenza.Hanno scelto di ignorare che la ricerca non segue cicli politici; che a lungo termine, l’investimento sostenibile in R&S è fondamentale perché la scienza è una gara sulla lunga distanza; che alcuni dei suoi frutti potrebbero essere raccolti ora, ma altri possono richiedere generazioni per maturare; che, se non seminiamo oggi, i nostri figli non potranno avere gli strumenti per affrontare le sfide di domani. Invece, hanno seguito politiche cicliche d’investimento in R&S con un unico obiettivo in mente: abbassare il deficit annuo a un valore artificiosamente imposto dalle istituzioni europee e finanziarie, ignorando completamente i devastanti effetti che queste politiche stanno avendo sulla scienza e sul potenziale d’innovazione dei singoli Stati membri e di tutta l’Europa.Hanno scelto di ignorare che l’investimento pubblico in R&S è un attrattore d’investimenti privati; che in uno “Stato innovatore” come gli Stati Uniti più della metà della crescita economica è avvenuta grazie all’innovazione, che ha radici nella ricerca di base finanziata dal governo federale. Invece, essi mantengono l’irrealistica aspettativa che l’aumento della spesa in R&S necessaria per raggiungere l’obiettivo della Strategia di Lisbona del 3% del Pil sarà raggiunto grazie al solo settore privato, mentre l’investimento pubblico in R&S viene ridotto. Una scelta in netto contrasto con il significativo calo del numero di aziende innovative in alcuni di questi paesi e con la prevalenza di aziende a dimensione familiare, tra le piccole e medie imprese, senza alcuna capacità d’innovazione.Hanno scelto di ignorare il tempo e le risorse necessarie per formare ricercatori. Al contrario, facendosi schermo della direttiva europea mirante la riduzione del personale nel settore pubblico, hanno imposto agli istituti di ricerca e alle università pubbliche drastici tagli nel reclutamento che, insieme alla mancanza di opportunità nel settore privato, stanno innescando una “fuga di cervelli” dal Sud al Nord dell’Europa e al di fuori del continente stesso. Questo si traduce in un’irreversibile perdita d’investimenti e aggrava il divario in R&S tra gli Stati membri. Scoraggiati dalla mancanza di opportunità e dall’incertezza derivante dalla concatenazione di contratti a breve termine, molti scienziati stanno pensando di abbandonare la ricerca, incamminandosi lungo quella che, per sua natura, è una via senza ritorno. Invece di diminuire il deficit, questo esodo contribuisce a crearne uno nuovo: un deficit nella tecnologia, nell’innovazione e nella scoperta scientifica a livello europeo.Hanno scelto di ignorare che la ricerca applicata non è altro che l’applicazione della ricerca di base e non è limitata a quelle ricerche con un impatto di mercato a breve termine, come alcuni politici sembrano credere. Invece, a livello nazionale ed europeo c’è una forte pressione per concentrarsi sui prodotti commercializzabili che non sono altro che i frutti che pendono dai rami più bassi dell’ intricato albero della ricerca: anche se alcuni dei suoi semi possono germinare in nuove scoperte fondamentali, affossando la ricerca di base si stanno lentamente uccidendone le radici. Hanno scelto di ignorare come funziona il processo scientifico; che la ricerca richiede sperimentazione e che non tutti gli esperimenti avranno successo; che l’eccellenza è la punta di un iceberg che galleggia solo grazie alla gran massa di ghiaccio sommerso. Invece, la politica scientifica a livello nazionale ed europeo si è spostata verso il finanziamento di un numero sempre più limitato di gruppi di ricerca ben affermati, rendendo impossibile la diversificazione di cui avremmo bisogno per affrontare le sfide della società di domani. Inoltre, questo approccio basato sull’eccellenza sta aumentando il divario nella R&S tra gli Stati membri, poiché un piccolo numero di istituti di ricerca ben finanziati sta sistematicamente reclutando questo piccolo e selezionato gruppo di vincitori di finanziamenti.Hanno scelto di ignorare la sinergia critica tra ricerca e istruzione. Anzi, hanno reciso il finanziamento della ricerca per le università pubbliche, abbassandone la qualità complessiva e minacciandone il ruolo di soggetti atti a favorire lo sviluppo di pari opportunità. E soprattutto, hanno scelto di ignorare il fatto che la ricerca non ha solo il compito di essere funzionale all’economia, ma anche di incrementare la conoscenza e il benessere sociale, anche per coloro che non hanno le risorse per pagarlo. Hanno scelto di ignorare tutto questo, ma noi siamo determinati a ricordarglielo perché la loro ignoranza può costare il nostro futuro. Come ricercatori e come cittadini, formiamo una rete internazionale per promuovere lo scambio d’informazioni e di proposte. Ci stiamo impegnando in una serie d’iniziative a livello nazionale ed europeo per opporci fermamente alla distruzione sistematica delle infrastrutture di R&S nazionali e per contribuire alla costruzione di un’Europa sociale costruita dal basso. Sollecitiamo gli scienziati e tutti i cittadini a difendere questa posizione con noi. Non c’è altra possibilità. Lo dobbiamo ai nostri figli, e ai figli dei nostri figli.(“Senza ricerca non si esce dalla crisi”: l’appello, ripreso da “Micromega”, è stato lanciato da importanti scienziati europei come Amaya Moro-Martín, astrofisico dello “Space Telescope Science Institute di Baltimora”, Usa, nonché di “EuroScience” di Strasburgo e del Digna, per la Spagna; Gilles Mirambeau, virologo Hiv della Sorbona di Parigi oltre che dell’Idipbas di Barcellona e di “EuroScience”; Rosario Mauritti, sociologo dell’Iscte e del Cies-Iul di Lisbona; Sebastian Raupach, fisico tedesco; Jennifer Rohn, biologa cellulare dell’University College di Londra; Francesco Sylos Labini, fisico del Centro Enrico Fermi e del Cnr di Roma; Varvara Trachana, biologa cellulare dell’Università di Thessaly a Larissa, Grecia; Alain Trautmann, immunologo e oncologo del Cnrs e dell’Institut Cochin di Parigi; Patrick Lemaire, embriologo del Cnrs e dell’Università di Montpellier).I responsabili delle politiche nazionali di un numero crescente di Stati membri dell’Ue hanno completamente perso contatto con la reale situazione della ricerca scientifica in Europa. Hanno scelto di ignorare il contributo decisivo che un forte settore della ricerca può dare all’economia, contributo particolarmente necessario nei paesi più duramente colpiti dalla crisi economica. Al contrario, essi hanno imposto rilevanti tagli di bilancio alla spesa per Ricerca e Sviluppo (R&S), rendendo questi paesi più vulnerabili nel medio e lungo termine a future crisi economiche. Tutto ciò è accaduto sotto lo sguardo compiacente delle istituzioni europee, più preoccupate del rispetto delle misure di austerità da parte degli Stati membri che del mantenimento e del miglioramento di un’infrastruttura di R&S, che possa servire a trasformare il modello produttivo esistente in uno, più robusto, basato sulla produzione di conoscenza.
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Via libera al golpe dell’élite, in Italia non vota più nessuno
Basta un pugno di voti, ormai, per eleggere persino il presidente dell’Emilia Romagna, perché gli italiani non vanno più a votare? Perfetto: è il “loro” piano, che si sta realizzando. Lo annunciò Mario Monti, l’uomo della Troika, «l’esponente italiano – dopo e insieme a Mario Draghi – più importante e rappresentativo del compatto fronte neoconservatore, neo-aristocratico e reazionario, che intende portare fino in fondo il piano strategico delle élite privilegiate della finanza, per il definitivo asservimento dei popoli». Monti? E’ «il vero vincitore» delle regionali 2014. Nel febbraio 2012, ricorda Sergio Di Cori Modigliani, ebbe a dire: «E’ il Parlamento che inceppa la via delle riforme strutturali, bisognerebbe aggirarlo per evitare che frenino lo sviluppo». E in un convegno dell’alta finanza a Milwaukee, negli Usa, nel settembre del 2013, spiegava che «il vero problema dell’Italia consiste nel fatto che si vota troppo spesso e sono ancora troppi ad andare a votare». E’ il sogno di ogni oligarca, osserva Di Cori Modigliani. E ora, con Renzi, si sta avverando: via il Senato, abolizione del Titolo V della Costituzione che ancora protegge i servizi pubblici, e legge elettorale che rende inutili gli elettori.«Riuscire a ridurre talmente tanto la percentuale dei votanti», scrive il blogger in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, all’indomani del record di astensionismo registrato alle regionali in Emilia e in Calabria, significa «avere la possibilità di poter effettuare dei veri e propri colpi di Stato senza sparare neppure un colpo, e – ciò che più conta – senza che neppure la gente se ne renda conto: e quando lo capirà, sarà ormai troppo tardi». Se l’obiettivo è riuscire ad arrivare al 65-70% di astensionismo alle politiche, continua Di Cori Modigliani, «su 14 milioni di voti validi, ne saranno sufficienti poco meno di 6 milioni per avere il potere assoluto, con il quale deliberare senza nessun ostacolo». In Emilia gli astenuti sono stati il 63%? «Neppure sanno di aver votato per Mario Monti». E’ il capolavoro della “società del Grande Fratello”, quella che ha vissuto «il più vasto genocidio culturale mai perpetrato in una società colta, evoluta, ricca, com’era un tempo quella italiana». Si affloscia la sfida del M5S? Tutto previsto: «Autostrada preferenziale per l’avanzata della Grande Destra, l’autentico populismo di bassa lega che preannuncia e avverte quale sarà il prossimo e imminente scenario politico internazionale, di qui a pochi mesi, quando esploderà la più grande crisi finanziaria mai esistita in Occidente».Quando l’Italia verrà chiamata alle urne, sarà «travolta e stravolta da nuovi arresti e nuovi scandali, sgomenta e sconcertata dinanzi alle continue denunce di nuove ruberie, di eterni sprechi, di nessuna proposta pragmatica all’orizzonte». La gente «si riverserà avvilita all’interno del proprio bozzolo esistenziale privato, nell’estremo tentativo di salvare il salvabile pur di sopravvivere». Di fatto, gli italiani «non si fideranno più di nessuno, non crederanno più a nessuno, non avranno voglia di seguire più nulla, perché ne avranno tutti le palle strapiene: si saranno arresi dichiarando “fate come vi pare, tanto non cambia mai nulla”». Meno gente va a votare, continua Di Cori Modigliani, e meglio è per «la pattuglia clientelare che gestisce i quotidiani brogli e imbrogli del sistema bancario italiano, ormai giunto al collasso imminente». In mancanza di un’alternativa credibile, «brinda la Destra festeggiando la definitiva dissoluzione della Sinistra italiana, suicidatasi con enfasi». Renzi? Può già incassare in Europa una bella cambiale in bianco: l’Italia è cotta, pronta per essere mangiata.«La fase finale della rivoluzione neo-conservatrice sta iniziando, perché la gente, oltre a non farcela più, davvero non ne può più», scrive Di Cori Modigliani. «Il nuovo presidente dell’Emilia Romagna ha ottenuto il 16,9% dei voti dei residenti nella sua regione: in una realtà come questa, non c’è più bisogno neppure di fantasticare un colpo di Stato». Gli italiani si sono arresi, sono «la carne da cannone della neo-aristocrazia imperiale della società mediatica post-moderna. Ma non lo sanno, neppure se ne accorgono», perché sono stati annientati innanzitutto sul piano della conoscenza, della consapevolezza: «A questo serve il genocidio culturale». Il “caro leader”? «Si lecca i baffi, e ha ragione a farlo. Volevate quest’Italia, quest’Italia avete oggi. Nel 2013 l’indice di lettori in Italia è diminuito del 32% rispetto all’anno precedente. E’ il paese più ignorante d’Europa. Perché mai dovrebbero andare a votare?».Basta un pugno di voti, ormai, per eleggere persino il presidente dell’Emilia Romagna, perché gli italiani non vanno più a votare? Perfetto: è il “loro” piano, che si sta realizzando. Lo annunciò Mario Monti, l’uomo della Troika, «l’esponente italiano – dopo e insieme a Mario Draghi – più importante e rappresentativo del compatto fronte neoconservatore, neo-aristocratico e reazionario, che intende portare fino in fondo il piano strategico delle élite privilegiate della finanza, per il definitivo asservimento dei popoli». Monti? E’ «il vero vincitore» delle regionali 2014. Nel febbraio 2012, ricorda Sergio Di Cori Modigliani, ebbe a dire: «E’ il Parlamento che inceppa la via delle riforme strutturali, bisognerebbe aggirarlo per evitare che frenino lo sviluppo». E in un convegno dell’alta finanza a Milwaukee, negli Usa, nel settembre del 2013, spiegava che «il vero problema dell’Italia consiste nel fatto che si vota troppo spesso e sono ancora troppi ad andare a votare». E’ il sogno di ogni oligarca, osserva Di Cori Modigliani. E ora, con Renzi, si sta avverando: via il Senato, abolizione del Titolo V della Costituzione che ancora protegge i servizi pubblici, e legge elettorale che rende inutili gli elettori.
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La crisi del sapere umanistico: non leggiamo più il mondo
La crisi del sapere umanistico è ormai conclamata: negli Usa 54 membri dell’“American Academy of Arts and Sciences” hanno denunciano il rischio della rapida scomparsa delle materie umanistiche dalle università americane; in Inghilterra la storia è stata esclusa da quasi tutti i corsi di studio; la geografia è quasi scomparsa dai corsi di insegnamento di metà Europa e resiste qua e là solo come geografia economica; gli studenti disertano i corsi di lettere, filosofia, storia, persino scienze politiche e giurisprudenza anche in Francia, Italia, Spagna. Resisticchiano le facoltà di lingue e letterature straniere o simili. Trionfa solo economia. Questo collasso è uno dei fenomeni culturali più inquietanti del tempo presente, contro il quale non servono a nulla le solite geremiadi. Esso è determinato da due cause principali fra loro connesse: le caratteristiche proprie del neoliberismo e il rifiuto degli umanisti di reinventarsi le loro discipline e ridefinire la loro figura sociale.Il neoliberismo ha prodotto una vistosa regressione culturale: la visione pan-economicista e la riduzione della stessa economia al solo filone walrasiano e derivati sono stati il brodo di coltura del maggior arretramento intellettuale mai registrato in epoca moderna. A questo si sono sommati, a ricaduta: la delegittimazione di ogni pensiero che non fosse quello liberista-liberale, che ha inaridito ogni confronto di idee; la pretesa di imporre comunque e dovunque la lingua inglese, funzionale solo alla dittatura culturale della produzione culturale made in Usa; una versione assai pedestre dell’utilitarismo, per cui qualsiasi attività è valutata in funzione del guadagno immediato. Da questo discendono i tagli alle spese culturali e per l’istruzione, di cui oggi gli intellettuali umanisti si risentono, ma dopo anni di acquiescenza. L’ondata neoliberista si è accompagnata ai cori festanti degli economisti massicciamente convertitisi a questo verbo, ma non ha trovato resistenze neppure fra i giuristi, gli storici, i sociologi, i politologi, che non hanno manifestato che rare e occasionali obiezioni, spesso improprie o più arretrate del fenomeno che avrebbero voluto criticare.E già questa scarsa attitudine a confrontarsi con l’ondata neoliberista è assai eloquente sulla capacità degli umanisti di confrontarsi con il tempo presente. La produzione storica, sociologica, politologica, giuridica, filosofica dell’ultimo quarto di secolo è, nella maggior parte dei casi, paccottiglia di nessun valore intellettuale. E’ tutto molto ripetitivo, stantio, privo di originalità e le opere di valore, per ciascuna disciplina, si contano sulle dita di un paio di mani. Diciamocelo sinceramente: se si trattasse di questo attuale assetto delle scienze umane, la loro scomparsa non sarebbe un gran danno. Il punto è che le discipline umanistiche non si sono adeguatamente confrontate con le vastissime conseguenze culturali della globalizzazione. Non che manchino studi sul fenomeno in sé (ad esempio quelli, peraltro non sempre soddisfacenti, di Zygmunt Bauman, Manuel Castells, Ulrich Beck, Alain Touraine), ma si tratta di punte individuali, che non si innestano su un solido reticolo di opere minori indispensabili a determinare una svolta complessiva di questa area di studi.E infatti si tratta in larga parte di opere che non si sottraggono ad un’ottica eurocentrica e non sfuggono ad un taglio specialistico disciplinare, che precludono molti sviluppi alla ricerca. La globalizzazione implica sia la mondializzazione dei rapporti, sia una stretta interdipendenza fra le sfere politica, economico-finanziaria, sociale, culturale, militare, e se il primo aspetto richiede imperiosamente un punto di vista più “centrale” e meno sbilanciato verso occidente, il secondo impone una capacità di analisi transdisciplinare, che allo stato si intravede solo in pochissime opere. Occorre un cambio di passo complessivo nei metodi; ripensare, soprattutto, la storica frattura fra scienze umane e scienze logiche, matematiche e naturali: i fisici, i biologi, i neurologi lo hanno capito e fanno sempre più frequenti incursioni nel mondo delle scienze umane, mentre gli umanisti (con l’eccezione di quei filosofi e psicologi che partecipano a progetti di scienze cognitive) tardano a comprenderlo e si tengono ancora troppo al di qua della linea di demarcazione che li separa dall’ “altra metà del cielo”.Quanti storici, sociologi e politologi immaginano di poter lavorare usando un modello di simulazione? E quanti di loro sono in grado di misurarsi con il campo delle scienze cognitive? Nelle nostre università si respira un’aria viziata perché da troppo tempo non si aprono le finestre. Certo che occorre continuare a studiare la letteratura greca e la Guerra dei Sette Anni, Leopardi e Weber, la secessione austriaca e la Riforma protestante, ma occorrerà ripensarli comparativamente agli sviluppi delle altre civiltà che, naturalmente, bisognerà studiare. Da due secoli e mezzo l’Europa (e tutto l’Occidente) ha costruito la sua identità intorno all’idea di modernità: l’Occidente è moderno per definizione e la modernità è occidentale allo stesso modo. E la globalizzazione è stata pensata come “modernizzazione del mondo” cioè come progetto di omologare tutto il mondo al modello occidentale. Ma le cose non stanno andando così: quello che le nostre scienze sociali pensavano fosse un modello universale si è rivelato solo il racconto di “come è andata in Europa”.La modernità è stata pensata come l’intreccio organico di sviluppo economico e urbanizzazione, di specificazione individuale e secolarizzazione, di affermazione dello Stato di diritto e disincanto del mondo, di nazione e acculturazione di massa, un insieme in cui ogni aspetto presuppone e rafforza l’altro. E abbiamo pensato che tutto questo avesse regole precise, che permettessero di replicarlo in ogni contesto, salvo trascurabili varianti locali. Ebbene, non sta andando affatto così: lo sviluppo economico non trascina dietro di sé quei processi di democratizzazione e secolarizzazione di cui si diceva, e ogni contesto sta avendo un suo sviluppo particolare. Questo obbliga a ripensare anche molte delle nostre convinzioni sulla nostra storia e sul modo con cui l’abbiamo interpretata ma, più ancora, ci obbliga ad un’opera di mediazione e di traduzione culturale: sia noi che i cinesi, gli indiani o gli egiziani abbiamo il concetto di nazione, ma siamo sicuri di dire tutti la stessa cosa? E lo stesso potremmo dire per concetti come classe, popolo, potere, secolarizzazione. E questo lavoro di riesame non riguarda solo storici, politologi e sociologi, ma anche giuristi, filosofi, letterati.Questo è il piano su cui le scienze umanistiche devono impegnarsi trasformandosi, ed è quello che ci dà la misura esatta del ritardo accumulato in questi anni, in gran parte dovuto allo statuto sociale dei nostri intellettuali umanisti, che da troppo tempo non hanno stimoli verso l’innovazione. Dopo gli anni ottanta, cessate le passioni politiche, che costituivano l’unico vero stimolo alla ricerca, gli umanisti si sono seduti sulla rendita di posizione di intellettuali burocratici retribuiti dallo Stato. Tutto oggi si riduce alla stucchevole rivendicazione del ruolo del “sapere inutile che ci renderà liberi”. Questa emerita sciocchezza, in realtà, vorrebbe dire che ci sono altre utilità oltre quelle economiche, il che è giusto, ma questo non implica che non debba esserci un calcolo dei costi e dei benefici dell’investimento e, se anche è accettabile l’idea che non sempre i benefici di un investimento culturale siano misurabili in termini monetari, non ce la si può cavare con i luoghi comuni sul “sapere critico” e simili.Un po’ di rapporto con il mercato non guasterebbe, per dare una scossa ai nostri intellettuali sedentarizzati. Non sto pensando all’università privata, che è un disastro anche peggiore che ha prodotto autori terribili come Francis Fukuyama, Niall Ferguson o Samuel Huntington. Sto pensando ad imprese autogestite degli intellettuali umanisti che si misurino con il mercato. Servirebbero anche cose minime, come ad esempio retribuire i docenti in base al numero di studenti che hanno, lasciando ovviamente gli studenti liberi di scegliere. Vediamo quante aule restano disperatamente vuote? Concludendo: certo che occorre difendere le materie umanistiche, ma questo sarà possibile solo cambiandole profondamente e mutando altrettanto radicalmente lo stato sociale dei suoi operatori, da “intellettuali” in “lavoratori della cultura”. La cultura non serve per i salotti.La crisi del sapere umanistico è ormai conclamata: negli Usa 54 membri dell’“American Academy of Arts and Sciences” hanno denunciano il rischio della rapida scomparsa delle materie umanistiche dalle università americane; in Inghilterra la storia è stata esclusa da quasi tutti i corsi di studio; la geografia è quasi scomparsa dai corsi di insegnamento di metà Europa e resiste qua e là solo come geografia economica; gli studenti disertano i corsi di lettere, filosofia, storia, persino scienze politiche e giurisprudenza anche in Francia, Italia, Spagna. Resisticchiano le facoltà di lingue e letterature straniere o simili. Trionfa solo economia. Questo collasso è uno dei fenomeni culturali più inquietanti del tempo presente, contro il quale non servono a nulla le solite geremiadi. Esso è determinato da due cause principali fra loro connesse: le caratteristiche proprie del neoliberismo e il rifiuto degli umanisti di reinventarsi le loro discipline e ridefinire la loro figura sociale.
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Bifo: noi e la barbarie dell’Ue, fabbrica di miseria e guerra
Si può fermare l’offensiva liberista in Italia? La manifestazione nazionale indetta a Roma dalla Cgil il 25 ottobre può essere l’inizio di un’onda di rivolta dei lavoratori italiani contro il soffocante austeritarismo dell’Unione Europea, e contro il governo Renzi-Berlusconi, vassalli locali del potere finanziario. Speriamo che lo sia, facciamo tutto quel che possiamo perché lo sia, ma con poche illusioni. Non si può più fermare fermare l’offensiva padronale, la precarizzazione, l’impoverimento, lo smantellamento delle strutture sociali, perché tutto questo è già avvenuto, con la collaborazione dei sindacati. E’ meglio saperlo. Nel 1980, di fronte a 25.000 licenziamenti decisi da Agnelli, Berlinguer chiamò gli operai Fiat a occupare la fabbrica, ma il suo partito negli anni precedenti aveva lavorato a disgregare la forza operaia, e ne aveva isolato le avanguardie fino al punto di avallare il licenziamento di 62 lavoratori “estremisti”. Naturalmente fu una sconfitta dalla quale gli operai italiani non si sono ripresi più.Così oggi il sindacato si mobilita contro la precarizzazione che ormai dilaga, contro l’impoverimento e lo smantellamento del sistema economico italiano che ormai sono cosa fatta. Ancora una volta si chiude la stalla dopo che i buoi sono scappati. L’articolo 18 è un feticcio vuoto perché la precarietà è divenuta forma generale del rapporto di lavoro salariato, e a questo si aggiunge l’espansione continua del lavoro schiavistico, mascherato da lavoro volontario. La cancellazione dell’articolo 18 è il colpo di grazia, il sacrificio rituale che il dio della finanza chiede a Renzi per concedergli in cambio un po’ di flessibilità finanziaria. Nonostante tutto questo la mobilitazione contro la ferocia del ceto politico-finanziario può avere un effetto positivo nel lungo periodo, riaprendo una dinamica di solidarietà e organizzazione che negli ultimi anni si è progressivamente spenta. Ma qual è il contesto?L’Unione Europea è un morto che cammina. A che punto è la notte europea? Purtroppo la notte è appena cominciata, anzi quel che stiamo vivendo forse è solo il tramonto. Il tramonto della speranza di democrazia e di pace nel continente. La democrazia è parola svuotata dalla pratica austeritaria, mentre dovunque cresce il nazionalismo come hanno dimostrato le elezioni del maggio che il ceto finazista europeo non ha voluto neppure considerare. Al finazismo della Bce e al revanscismo tedesco risponde un nuovo nazionalismo nei paesi economicamente più impoveriti dall’offensiva finazista. Il disegno del finazismo globale è stato da sempre ed è oggi più che mai lo smantellamento definitivo dell’Unione Europea, e la sottomissione della popolazione europea alla condizione semi-schiavistica della precarietà. Il punto di precipitazione definitiva dell’Unione, e di inizio della nuova guerra civile europea si trova nel confronto franco-tedesco. La probabile vittoria del Front National è destinata a segnare la fine dell’Unione con conseguenze inimmaginabili, sullo sfondo della guerra russo-ucraina.Non occorre molta sapienza storica per capire che il nazionalismo francese non può tollerare che l’Europa sia unita sotto il dominio tedesco, anche se la Deutsche Bank ha preso il posto che nel 1941 aveva la Wehrmacht. La sceneggiatura è già scritta: crollo del partito di Hollande, affermazione dei nazionalisti, sgretolamento dell’Unione Europea. E dopo? Un articolo di George Soros uscito sulla “Repubblica” del 26 ottobre chiama l’Europa a prepararsi alla guerra con la Russia. Alcuni auspicano l’uscita dell’Italia dall’Unione come se questo fosse la soluzione di qualcosa. L’Italia è uno stato fallito, una società disgregata, depressa, corrotta, un’economia smantellata, un patrimonio industriale distrutto o svenduto come Alitalia. Parlare di Italia è idiota. Occorre parlare della classe operaia che da Torino a Napoli – per quanto decimata, tradita, sconfitta – può mettere in moto un processo che coinvolga il lavoro precario, e soprattutto il lavoro cognitivo disperso fuori dai confini nazionali. Non per la riscossa nazionale di un paese la cui unica azienda in attivo è la mafia, ma per aprire e guidare un processo di rivolta e di autonomia dei lavoratori europei.Siamo entrati in un’epoca oscura e non serve fingere di non vederlo: non si può restaurare la democrazia, l’occupazione non è destinata a crescere ma a diminuire, la pace civile si sta sgretolando, e la crescita non ha più senso economico né ecologico. Occorre prepararsi al pieno dispiegamento delle condizioni che stanno iscritte nella disgregazione sociale, e nella cultura della competizione e della paura: prepararsi alla miseria e alla guerra, per dirlo in chiaro. E’ in questa prospettiva che si devono creare le condizioni per l’autonomia sociale e il dispiegamento delle potenzialità contenute nell’alleanza possibile tra tecnologia e lavoro.Che caratteri avrà un nuovo movimento di emancipazione, dentro e oltre il disastro che liberismo e finazismo hanno preparato con l’aiuto servile della sinistra?Si uscirà dall’epoca buia solo quando la cultura sociale si orienterà verso la riduzione generale del tempo di lavoro. Metà dei posti di lavoro sono inutili, se si applica a pieno la potenza tecnologica. Nelle condizioni del capitalismo questo è un disastro senza rimedio. In condizioni libere dalla stretta del capitalismo questa potenza tecnica può diventare fattore di arricchimento egualitario e di rinascimento culturale. La potenza dell’intelletto generale in rete riduce il tempo di lavoro necessario. L’effetto di questa riduzione è stato finora riduzione del salario, aumento dello sfruttamento relativo e assoluto, aumento della disoccupazione e della miseria. Il sindacato ha testardamente e inutilmente difeso il posto di lavoro mentre si trattava (ormai dagli anni ’80) di scatenare la forza della società e l’immaginazione del lavoro cognitivo per la liberazione di tempo sociale dal lavoro salariato. La sconfitta politica e l’arretramento culturale di questi anni derivano direttamente dall’incapacità della sinistra e del sindacato di allearsi con la tecnologia e il lavoro cognitivo, e di battersi per la riduzione del tempo di lavoro generale.Ora siamo in un tunnel molto nero. La luce verrà soltanto dal rovesciamento della cultura lavorista. Non il produttivismo, non la difesa della composizione esistente del lavoro, non la partecipazione alla corsa del topo liberista. Ma la riduzione generale del tempo di lavoro, la redistribuzione della ricchezza, la liberazione delle energie affettive, educative, culturali dalla morsa imbecille della competizione. Occorre cominciare subito, mentre il tramonto volge verso il buio assoluto. Occorrerà continuare mentre nel buio l’uomo si farà lupo per l’uomo. I lavoratori italiani possono riprendere il ruolo di avanguardia che ebbero nel passato non per salvare il cadavere d’Europa che sta ammorbando l’atmosfera, ma per mettere in moto un processo di lotta europea e internazionalista, per la liberazione del tempo dal lavoro, per la liberazione dell’intelligenza dall’oscurantismo economicista.(Franco “Bifo” Berardi, “Al tramonto d’Europa”, da “Micromega” del 25 ottobre 2014).Si può fermare l’offensiva liberista in Italia? La manifestazione nazionale indetta a Roma dalla Cgil il 25 ottobre può essere l’inizio di un’onda di rivolta dei lavoratori italiani contro il soffocante austeritarismo dell’Unione Europea, e contro il governo Renzi-Berlusconi, vassalli locali del potere finanziario. Speriamo che lo sia, facciamo tutto quel che possiamo perché lo sia, ma con poche illusioni. Non si può più fermare fermare l’offensiva padronale, la precarizzazione, l’impoverimento, lo smantellamento delle strutture sociali, perché tutto questo è già avvenuto, con la collaborazione dei sindacati. E’ meglio saperlo. Nel 1980, di fronte a 25.000 licenziamenti decisi da Agnelli, Berlinguer chiamò gli operai Fiat a occupare la fabbrica, ma il suo partito negli anni precedenti aveva lavorato a disgregare la forza operaia, e ne aveva isolato le avanguardie fino al punto di avallare il licenziamento di 62 lavoratori “estremisti”. Naturalmente fu una sconfitta dalla quale gli operai italiani non si sono ripresi più.
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Ue, sogno massonico: la rivincita storica dei Templari
E’ un caso che il cittadino europeo oggi non abbia più alcun potere, visto che il suo governo è sottomesso a Bruxelles a partire dai conti pubblici? Ovviamente no, si tratta di un piano. Ben sintetizzato dal più singolare “mostro” giuridico dell’Ue, il Trattato di Lisbona, 400 pagine di leggi «scritte in una forma volutamente pesante e incomprensibile». I Parlamenti le hanno ratificate senza discuterle, senza neppure leggerle. Quel corpus giuridico, per l’avvocato Paolo Franceschetti «rappresenta una delle ultime tappe del coronamento del sogno massonico del Nuovo Ordine Mondiale», cioè la fine delle sovranità nazionali e la centralizzazione assoluta del potere, a cominciare dal rafforzamento dell’Ue e dalla «creazione di una moneta unica elettronica». Studioso di storia esoterica, Franceschetti tira in ballo la massoneria: istituzione a cui dobbiamo moltissimo, precisa, perché contrastò l’oscurantismo secolare del Vaticano. Ma, aggiunge, se non se ne conosce la vicenda storica – con le sue “deviazioni” – non si può comprendere l’origine della pulsione egemonica e oligarchica delle élite che, di fatto, oggi hanno preso il potere nell’indifferenza generale.Secondo Franceschetti, il Trattato di Lisbona è uno strumento perfetto di questo progetto di dominio, perché aumenta i poteri del Consiglio Europeo, organismo «che nessuno conosce», e dispone «la diminuzione dei poteri del Parlamento Europeo» insieme alla «ulteriore perdita di sovranità degli Stati centrali in alcune materie chiave». Che c’entrano massoneria e Rosacroce con tutto questo? Suggestioni storico-leggendarie? Niente affattato, sostiene Franceschetti, secondo cui tutto comincia molti secoli fa, addirittura coi Templari, di cui il Trattato di Lisbona sarebbe «la vendetta ideale», dopo la fine dell’ordine cavalleresco all’inizio del ‘300. Vendetta che il capo dei Templari, Jacques de Molay, giurò contro il Papa e l’imperatore. «Se Jacques de Molay fosse vivo sarebbe senz’altro soddisfatto: la sua vendetta si realizza ogni giorno di più e tra pochi anni sarà completa», scrive Franceschetti, ripercorrendo la storia dell’ordine cristiano creato da nel 1139 da Ugo De Payns.Strano ordine: i Templari erano abili guerrieri, chiamati a proteggere le rotte dei pellegrini in Terra Santa, ma erano anche monaci e vivevano seguendo la regola dell’estrema povertà, poi codificata da San Bernardo. In più, erano onestissimi: per questo, ricevevano in custodia il denaro dei ricchi, dei nobili e dei sovrani. Diventeranno così «i primi banchieri al mondo». I Templari, continua Franceschetti, crearono «il primo sistema bancario mondiale», tanto da essere considerati «gli inventori del bancomat». Chiunque, infatti, «poteva depositare beni presso i centri templari che si impegnavano a custodirli». Al momento della consegna del denaro, «i Templari rilasciavano un attestato che dichiarava l’avvenuto deposito». Così, chi avesse depositato valori a Parigi poteva poi recuperarli anche in Italia, in Germania o in un qualsiasi altro centro templare, «che gli avrebbe rilasciato una identica quantità di oro».Sui Templari si è scritto di tutto, ma «quel che è certo è che acquisirono delle conoscenze e una sapienza particolari per quell’epoca», grazie al contatto con l’Oriente che permise loro di sviluppare «un patrimonio di conoscenze tratte sia dalla cultura cattolica ufficiale europea che dalla cultura cabalistica orientale». Divennero potenti, i Templari: troppo potenti. Alla fine del 1200, erano il super-potere dell’Europa cristiana: rispettati dagli imperatori, rispondevano solo al Papa. A decretarne la fine fu il sovrano francese Filippo il Bello, a corto di soldi, deciso a impossessarsi del “tesoro” dei cavalieri. Il Papa, Clemente V, non si oppose. Anzi, «soppresse l’ordine templare, depredò i loro beni e mandò al rogo migliaia di appartenenti all’ordine». Jacques de Molay, l’ultimo dei maestri templari, venne arso vivo il 18 marzo 1314. «Maledì il Papa e l’imperatore, i quali morirono nello stesso anno in circostanze “misteriose”».Molti Templari si rifugiarono in Svizzera, dove «crearono l’attuale sistema bancario» elvetico, continua Franceschetti. Nella Confederazione, «difesero le frontiere dagli invasori e continuarono la loro attività di banchieri». Nelle epoche successive, «molti sovrani depositavano in Svizzera i loro beni, e questa è la ragione della secolare neutralità svizzera durante tutta la storia europea: nessun sovrano avrebbe distrutto una nazione ove lui stesso aveva interessi economici». Non a caso, aggiunge l’avvocato Franceschetti, molti cantoni elvetici – e la stessa bandiera svizzera – recano «le insegne templari, o degli Ospitalieri di San Giovanni», “erranti” come gli stessi Cavalieri di Malta. Di fatto, i Templari perseguitati dalla Chiesa «conservarono la loro struttura, che sopravvisse in segreto».Struttura, continua Franceschetti, dalla quale «germinò la maggior parte delle società segrete che esistono anche oggi: Templari, Rosacroce, Massoneria, “Skull and Bones”, Illuminati». I Rosacroce, «la massoneria più potente e segreta», secondo lo studioso «altro non è che un ordine templare a cui apparteneva anche Dante Alighieri, che infatti è considerato un po’ il padre dei Rosacroce attuali». Non a caso, aggiunge l’avvocato, indagatore di molti “misteri irrisolti” della nostra storia recente, gli «omicidi massonici» vengono compiuti tutt’oggi con la regola del contrappasso dantesco: «Povero Dante! Se sapesse come è stata interpretata la sua “Divina Commedia” probabilmente si suiciderebbe da solo, e forse per la prima volta avremmo un suicidio vero, in questa Italia».Per Franceschetti, in ogni caso, ricostruire i passaggi-chiave della storia esoterica europea è fondamentale per capire meglio la storia ufficiale, fino alle attuali convulsioni sempre più autoritarie dell’Ue. Per questo è bene tener d’occhio i Templari, che “risorsero” in segreto nel 1313 in Scozia, con un nuovo emblema raffigurante un uccello, il pellicano, che è «uno dei simboli dei Rosacroce». All’interno della Chiesa Templare, «approvato dal Papa», nacque poi il “Sacro Collegio dei 33 Frati Maggiori della RosaCroce”, continua Franceschetti. Ma il «silenzio secolare» dei Rosacroce è rotto solo nel 1614, quando «entrano in scena ufficialmente, pubblicano il loro primo manifesto, la “Fama Fraternitas”, e si fanno conoscere in tutta Europa».Nel 1717, continua l’avvocato, i Rosacroce e i Templari «danno vita alla massoneria moderna, quella per così dire ufficiale». Mezzo secolo dopo, nel 1776, nasce l’ordine degli Illuminati «ad opera di Adam Weishaupt», ma secondo molti storici «questi altro non sono che un particolare ramo dei Rosacroce». Tutta l’Europa di quei secoli, dice Franceschetti, «è intrisa di cultura rosacrociana e massonica: basti pensare che sono “Rosacroce” Leonardo Da Vinci, Paracelso, Nostradamus, Bacone, Galileo, Giordano Bruno, Comenio, Cartesio, Newton, Leibniz, ma anche scrittori e romanzieri come Bram Stocker, Mary Shelley e Giulio Verne». Si badi: il fenomeno «è assolutamente positivo per la società di quel tempo: solo grazie ai Rosacroce, infatti, la ricerca scientifica e alchemica poté proseguire senza la persecuzione dei Papi e degli imperatori».Sono infatti «i ricercatori massonici, rosacrociani e templari» a battersi per lo sviluppo “eretico”, cioè libero, della conoscenza. Ovviamente, con tutte le cautele del caso: «Per sfuggire alle persecuzioni papali e imperiali, i Templari e i Rosacroce dovettero operare in segreto». Sullo sfondo, due avversari storici, da abbattere: la Chiesa cattolica, nemica del progresso dell’umanità, e il suo grande alleato, l’assolutismo monarchico nemico della libertà. Secondo Franceschetti, «molti Rosacroce, primo tra tutti Dante», coltivavano propositi più che altro riformisti, ma «il Rosacrocianesimo, come movimento mondialista anticattolico, ha potuto accogliere sotto le sue ali sia movimenti e idee positivi, come il buddismo, sia i movimenti satanisti o praticanti un esoterismo “nero”, come l’attuale Ordine della Rosa Rossa e della Croce d’oro, ovverossia la “Rosa Rossa”». Attraverso i secoli, la Chiesa ha dovuto quindi lottare per difendere la sopravvivenza del suo potere. «A un certo punto, resasi conto che non poteva vincere in un attacco frontale con la Chiesa, la massoneria decise per la strategia più ovvia: corrompere la Chiesa dall’interno, affiliando alla massoneria vescovi, cardinali e anche Papi».Sempre secondo Franceschetti, si può leggere anche come «il coronamento del sogno massonico» la decisione di Paolo VI di abolire la scomunica ai massoni. «E chissà che risate deve essersi fatto, il nostro Jacques de Molay, quando Paolo VI aprì le porte del Vaticano a Licio Gelli e Umberto Ortolani, i due padri della P2, nonché a Sindona». Ortolani venne addirittura nominato “Gentiluomo di Sua santità”, «onorificenza che gli permetteva di accedere alla residenza papale in qualsiasi momento, senza preavviso», mentre Gelli fu nominato commendatore “de equitem ordinis Sancti Silvestri Papae” nel 1965. Gelli e Ortolani «facevano entrambi parte dei Cavalieri di Malta, l’unico ordine cavalleresco ufficialmente riconosciuto dalla Chiesa». Il colpo mortale al Vasticano? «C’è stato con lo Ior, la banca vaticana», quando «la massoneria ha fatto affluire nella casse dello Ior ad opera delle banche Rotschild e Chase Manhattan ingenti flussi di denaro», trasformandolo in «un centro di riciclaggio del denaro per la criminalità organizzata di tutto il mondo, con un vincolo di segretezza superiore addirittura a quello delle banche svizzere».Spietata nemesi: «La corruzione, la violenza e l’intolleranza che la Chiesa ha dimostrato nei secoli, hanno permesso l’infiltrazione della massoneria per minare alla base il potere ecclesiale». Ma attenzione, «nessun fenomeno esiste se non ci sono i presupposti culturali e politici perché quel fenomeno cresca», con complicità ad ogni livello. Di massoneria, si sa, era intriso il Risorgimento: «Garibaldi e Mazzini furono due Maestri del Grande Oriente d’Italia». Abbattute le monarchie, però, «l’opera era solo all’inizio: occorreva realizzare quella comunità mondiale che era nel progetto rosacrociano». Per il passo successivo, in sostanza, serviva qualcosa come l’Unione Europea. Ci si arriva più facilmente con l’adozione del bipolarismo, che sforna pochi leader “controllabili” eliminando il “rischio” della democrazia reale. «Questo risultato in Italia è stato raggiunto mediante la cosiddetta strategia della tensione», sostiene Franceschetti: «Tutte le stragi degli anni di piombo, rosse e nere, fino alla stragi del ‘92, avevano infatti la regia unica di Gladio e della P2, con l’intento di trasformare il sistema-Italia da multipartitico a bipartitico».Facile osservare come la maggior parte del piano sia stata ormai realizzata, conclude Franceschetti: il bipolarismo introdotto nella maggioranza degli Stati e il Trattato di Lisbona che riduce l’Europa a un unico super-Stato. Che ne penserà il vecchio Jacques De Molay? «Avevano abbattuto e massacrato i suoi Templari perché stavano costituendo una specie di Stato sovranazionale pericoloso per gli imperi di allora; ma oggi la massoneria, che è la vera erede del sapere e delle tradizioni templari, ha ripreso il controllo della situazione creando un’organizzazione che è al di sopra degli Stati e che, anzi, ha in pugno gli Stati e i governanti». Un potere che, «come allora, ha il suo cuore nelle banche centrali», come la Bce, che non risponde neppure al Parlamento Europeo. Stati, governi, Parlamenti? Ridotti a pura rappresentanza, perché il potere è ormai «detenuto dalle banche» e la politica è completamente asservita alla finanza. A loro volta, banche e politica «sono controllate dalla massoneria», dice Franceschetti. «I Templari, insomma, hanno ricreato se stessi nel segreto, e oggi sono più potenti che mai», anche si mantengono “invisibili” (solo in Italia, le sigle riconducibili al mondo massonico sono tantissime: Grande Oriente, Gran Loggia Regolare, Umsoi, Stella D’Oriente, Roundtable, Cavalieri di Malta).C’è una storia parallela, sostiene Franceschetti, che resta sempre nell’ombra: come la militanza massonica di personaggi come Dante, Freud, Jung, Mozart. E’ tutto molto paradossale: anche grazie alla massoneria, «siamo transitati dal vecchio ordine mondiale fondato sul Papato e sugli imperi assoluti, a quello attuale». Purtroppo, in Italia, il transito verso la modernità liberale è stata pagata a caro prezzo: «Le stragi di Stato, i testimoni dei processi morti in modo inspiegabile, i poliziotti e i magistrati uccisi perché credevano di vivere in un sistema libero». E’ come se fossero stati sistematicamente uccisi «tutti quelli che in qualche modo si avvicinavano alla verità e arrivavano al cuore del sistema». E questo, perché i due grandi antagonisti – Vaticano e massoneria – «hanno avuto un curioso destino, praticamente identico». Sono nati «da due messaggi meravigliosi, quello di Cristo da una parte e quello del libero pensiero dall’altra», ma poi sono stati entrambi manipolati da «alcuni personaggi», decisi a trasformarli in «strumenti di potere», arrivando anche a usare «il crimine e la sopraffazione», quindi «rinnegando il messaggio originale».Non resta che sperare che, «da entrambi gli schieramenti, gli uomini più “illuminati” pongano fine a questa situazione per cercare nuove vie politiche, culturali, economiche, che siano più a misura d’uomo». Nel frattempo, mentre i “negazionisti” dominano la scena, il disegno oligarchico avanza incontrastato. Di Nuovo Ordine Mondiale, ricorda Franceschetti, parlava già nel 1600 il celebre Comenio, «teologo e filosofo rosacrociano». Oggi siamo a questo: abolire la sovranità nazionale degli Stati e sottometterli all’autorità di organizzazioni internazionali. E tra le “previsioni” degli ordinovisti non manca la guerra mondiale: esito evocato apertemente nel lontano 1870, lungo le pagine del carteggio tra Mazzini e Albert Pike. In quei documenti, sintetizza Franceschetti, se ne prefigurano addirittura tre: una prima guerra mondiale, per abbattere lo zarismo e instaurare il comunismo, anche in chiave anti-cattolica. Poi una seconda guerra mondiale per consentire, tra le altre cose, la creazione dello Stato di Israele. E infine una terza, originata dallo scontro tra sionismo e mondo islamico. Tutto questo, un secolo e mezzo fa. Studiare la storia della massoneria, insiste Franceschetti, ci permette di capire meglio cosa sta succedendo oggi.E’ un caso che il cittadino europeo oggi non abbia più alcun potere, visto che il suo governo è sottomesso a Bruxelles a partire dai conti pubblici? Ovviamente no, si tratta di un piano. Ben sintetizzato dal più singolare “mostro” giuridico dell’Ue, il Trattato di Lisbona, 400 pagine di leggi «scritte in una forma volutamente pesante e incomprensibile». I Parlamenti le hanno ratificate senza discuterle, senza neppure leggerle. Quel corpus giuridico, per l’avvocato Paolo Franceschetti «rappresenta una delle ultime tappe del coronamento del sogno massonico del Nuovo Ordine Mondiale», cioè la fine delle sovranità nazionali e la centralizzazione assoluta del potere, a cominciare dal rafforzamento dell’Ue e dalla «creazione di una moneta unica elettronica». Studioso di storia esoterica, Franceschetti tira in ballo la massoneria: istituzione a cui dobbiamo moltissimo, precisa, perché contrastò l’oscurantismo secolare del Vaticano. Ma, aggiunge, se non se ne conosce la vicenda storica – con le sue “deviazioni” – non si può comprendere l’origine della pulsione egemonica e oligarchica delle élite che, di fatto, oggi hanno preso il potere nell’indifferenza generale.
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Armi, droga, porno: Deep Web, non aprite quella porta
Pagine dinamiche ad accesso riservato, mail e home banking, e siti dedicati al commercio di armi, droga ed esseri umani. Database di studi scientifici, accademici e documenti governativi. E poi forum pedopornografici o siti per commissionare omicidi. E’ un oceano sommerso, si chiama Deep Web. «La moneta corrente, là sotto, è il bitcoin», valuta virtuale e molto fluttuante «con cui si può comprare qualsiasi cosa», spiega Andrea Coccia. «Lo scarto tra l’utilità e la legalità di una parte e la pericolosità e l’illegalità dell’altra è talmente immenso da rendere inutile qualsiasi tentativo di definizione in bianco e nero: il Deep Web, come il mondo, non è né buono né cattivo, è semplicemente immenso e in gran parte sconosciuto». Là sotto ci si può trovare di tutto, «il più depravato degli psicopatici e il più geniale degli scienziati». Le regole? Non esistono. «Immergersi in questo universo, la cui grandezza stimata è circa 500 volte il Web visibile e in cui i motori di ricerca non servono (quasi) a nulla, comporta il passaggio di una porta oltre la quale il confine della legalità è molto labile e i pericoli sono sul serio a portata di click».Cos’è il Deep Web? Il modo migliore per capirlo, scrive Coccia su “Linkiesta”, è immaginarsi un iceberg, di cui possiamo scorgere solo la vetta: tutto il resto, quello che c’è sotto, possiamo solo immaginarlo. Ciò che si vede in superficie, il Web visibile, è quello che i motori di ricerca tradizionali, come Google, sono in grado di indicizzare. «Intendiamoci, si tratta di una mole impressionante di pagine – tra i 60 e i 120 miliardi secondo alcune stime». Ma quel che sta sotto, come per gli iceberg, lo è ancor di più: «Se stabilire la dimensione esatta del Web visibile è un’impresa quasi impossibile, stimare quella del Web invisibile, o Deep Web, è un’operazione quasi folle». Uno specialista come Anand Rajaraman, intervistato dal “Guardian”, rivela che «nessuno può fare una stima credibile di quanto sia grande», il Deep Web. «L’unica stima che conosco dice che potrebbe essere 500 volte più grande». In questo oceano, avverte Coccia, non si può accedere né ci si può muovere usando i comuni strumenti di navigazione, come Google. Peggio ancora Facebook: nel Deep Web è pericoloso «usare i propri dati sensibili, mettendo a repentaglio il proprio anonimato e anche la propria sicurezza personale».Per accedere alla rete, spiega “Linkiesta”, è necessario installare e configurare un programma in grado di rendere la navigazione anonima e sicura: uno strumento come “Tor”, per esempio, capace di accedere a pagine con un dominio “strano”, come “.onion”. «Vista l’inefficacia quasi totale dei motori di ricerca che pur esistono a quelle profondità», per muoversi «si deve fare affidamento a delle liste compilate di link come la “Hidden Wiki”, o ai forum di utenti». Ma neanche così la navigazione è immediata, visto che, «proprio per garantire la sicurezza e l’anonimato, le pagine cambiano molto spesso indirizzo, a volte vengono chiuse dai proprietari, dalle cyberpolizie di mezzo mondo o vengono abbattute da gruppi di hacker à la Anonymous». Un parziale elenco «non potrebbe fare a meno di citare hacker russi, dissidenti cinesi, ribelli siriani, militari statunitensi, polizie postali europee, giornalisti indipendenti, anarchici svedesi, complottisti zeitgeistiani, pedofili, assassini, mercanti d’armi e di droga, mafiosi, jihadisti, ma anche moltissimi curiosi».Coccia rivela «10 cose notevoli» che ha trovato nel Deep Web. Citazione dantesca: “Per me si va nella città dolente”. Partenza: «Dopo aver installato e avviato “Tor”, dopo aver controllato che l’Ip fosse effettivamente stato mascherato, la prima mossa dell’improvvido navigatore anonimo è cercare una porta di accesso a questo universo pazzesco», dovendo fare a meno dei motori di ricerca. Un’epigrafe avverte: ti serve la “hidden wiki”, cioè “the door of the deep web”. «Be careful», dice la scritta: potreste essere spiati, hackerati, traumatizzati da contenuti «che non immaginavate potessero esistere». Per Coccia, «è la porta che sceglie, non l’uomo», come scrive Jorge Luis Borges nell’“Elogio dell’ombra”. Senza Google, «ci si deve affidare a liste, documenti, pagine wiki come Hidden Wiki, ad esempio, compilate da utenti – chiaramente anonimi – che offrono una serie di link ordinati in categorie da copiare e incollare sul browser di “Tor” per trovare il cammino. E per quanto di link ce ne siano a decine, tra quelli che non funzionano e quelli che è decisamente saggio evitare di cliccare – segnati come truffe o addirittura non più attivi – la strada, o almeno l’inizio, pare quasi segnata».Già dai primi passi, domina «la sensazione della fuffa», come quella di chi promette una cittadinanza Usa al prezzo di 10.000 dollari. Fuffa, o trappola per “gonzonauti”: «Non definirei in altri modi qualcuno disposto a pagare a un venditore anonimo e completamente sconosciuto diecimila dollari per incrociare le dita e aspettare che un postino gli recapiti la sua carta verde, l’assistenza sanitaria, la patente, il certificato di nascita e tutto il cucuzzaro per diventare a un cittadino americano». Se invece vi piace di più l’accento british, agiunge Coccia, c’è anche la possibilità di trovare passaporti britannici, naturalmente personalizzati. E poi: armi, sigarette, partite di calcio truccate. «Decine di altri siti propongono merce di ogni tipo, ma l’aspetto e la facilità di accesso fanno pensare che anche questi siano solo trappole per improvvidi visitatori curiosi». Ma, con qualche passaggio in più, si inizia a vedere qualcosa di più serio, come il “gran bazar delle droghe”. «Una volta c’era il celebre Silk Road, mitico sito di e-commerce sulle cui pagine si poteva comprare veramente di tutto. Ora che Silk Road è stato chiuso, i suoi figliastri sembrano aver proliferato. Dall’aspetto, ma soprattutto dalla presenza di protocolli di verifica dei venditori, questi siti sembrano più “affidabili”. I prodotti che vendono, invece, restano completamente illegali».Forse proprio perché accessibili senza eccesivi sforzi o conoscenze informatiche particolari, scrive Coccia, quasi tutti questi “negozi” applicano una bizzarra strategia per convincere i compratori a fidarsi: chiedono ai propri clienti «una di quelle cose che si sentono soltanto nei film americani di gangster». Ovvero: «Al momento dell’acquisto si paga la metà, l’altra metà la si salda al momento dell’arrivo della merce». Non mancano vecchie conoscenze, come “Gli Illuminati” (since 1776). «Sì, c’è anche il sito di quei simpaticoni degli Illuminati, per entrare però bisogna registrarsi. Io – ammette Coccia – ho vinto la curiosità e non l’ho fatto, ma nel caso dovrebbe bastare inventarsi un nome utente e una password. Una precauzione: non usate le vostre password normali e preferite codici alfanumerici, non si sa mai». Ma nel regno dei banditi c’è annche il “New Yorker”: non tutto è perduto? «Tra i mercanti d’armi e quelli di droga, tra potenziali pagine di pazzi scriteriati, di illuminati o di complottisti professionali c’è anche un approdo amico: si chiama “strongbox” ed è l’antenna che la redazione del “New Yorker” ha piazzato qua sotto per intercettare segnalazioni anonime, documenti scottanti, leaks o semplicemente racconti di gente troppo timida per mettere una firma ai propri lavori».Altro topos ricorrente: la scritta “Questo messaggio si autodistruggerà in 5, 4, 3…”. «Un’altra di quelle cose che si vedono solo nei film, ma questa volta di quelli con James Bond: i messaggi che si autodistruggono». Il sistema è semplice: «Una volta scritto il messaggio lo si mette su una pagina che viene creata apposta e il cui link è accessibile ua volta sola. Poi sparisce, e il gioco è fatto». La prova che smentisce chi descrive le profondità della rete come un luogo frequentato soltanto da pedofili, hacker e terroristi, aggiunge Coccia, è la presenza di infiniti depositi di ebook, di testi html, txt, doc e pdf di ogni tipo. «Io, per esempio, sono capitato sui vincitori dei Premi Pulitzer, ma sono sicuro che si può fare di meglio». Per concludere, «l’impressione che si ha navigando, ingenuamente e a casaccio, in quel che chiamano Deep Web è un po’ quella che si potrebbe provare giocando con una demo limitatissima di un gioco pazzesco», scrive Coccia. «È chiaro che lì sotto c’è un sacco di roba e un sacco di persone dal molto pericoloso al molto interessante». Il problema è che questa esplorazione «richiede tempo, applicazione, conoscenze e, soprattutto, un obiettivo preciso verso cui puntare». Viceversa, può capitare di sentirsi presi in giro, «come se quelle pagine fossero state messe lì apposta da chi quella rete la usa abitualmente, giusto per divertirsi con i turisti del Deep Web, per guardarli mentre si muovono a casaccio e farsi delle gran risate. E chissà, magari è veramente così».Pagine dinamiche ad accesso riservato, mail e home banking, e siti dedicati al commercio di armi, droga ed esseri umani. Database di studi scientifici, accademici e documenti governativi. E poi forum pedopornografici o siti per commissionare omicidi. E’ un oceano sommerso, si chiama Deep Web. «La moneta corrente, là sotto, è il bitcoin», valuta virtuale e molto fluttuante «con cui si può comprare qualsiasi cosa», spiega Andrea Coccia. «Lo scarto tra l’utilità e la legalità di una parte e la pericolosità e l’illegalità dell’altra è talmente immenso da rendere inutile qualsiasi tentativo di definizione in bianco e nero: il Deep Web, come il mondo, non è né buono né cattivo, è semplicemente immenso e in gran parte sconosciuto». Là sotto ci si può trovare di tutto, «il più depravato degli psicopatici e il più geniale degli scienziati». Le regole? Non esistono. «Immergersi in questo universo, la cui grandezza stimata è circa 500 volte il Web visibile e in cui i motori di ricerca non servono (quasi) a nulla, comporta il passaggio di una porta oltre la quale il confine della legalità è molto labile e i pericoli sono sul serio a portata di click».