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Sycamore, Usa-Siria: il più grande traffico d’armi della storia
Migliaia di tonnellate di armi, per miliardi di dollari. Si chiama “Timber Sycamore” e, secondo il giornalista Thierry Meyssan, è stato il più grosso traffico di armi della storia, grazie alla complicità di ben 17 paesi. E’ stato organizzato dalla Cia, sotto Obama, insieme al Pentagono, a servizi Nato e agli alleati mediorientali. Obiettivo: armare l’Isis contro il governo siriano di Bashar Assad. Traffico scoperto e svelato, a suo rischio e pericolo, da una coraggiosa giornalista bulgara, Dilyana Gaytandzhieva, autrice di un clamoroso scoop sul suo giornale di Sofia, “Trud”. Tutto comincia a fine 2016, quando la reporter – durante la liberazione di Aleppo da parte dell’esercito siriano appoggiato dall’aviazione russa – scopre armi di origine bulgara in 9 diversi arsenali abbandonati dai jihadisti. La Bulgaria, ricorda Meyssan, è governata da Boyko Borisov, da tempo identificato come “capomafia” dai servizi internazionali di polizia, che lo ritengono espressione diretta della Sic, uno dei maggiori cartelli criminali europei. Ma né la Nato né l’Ue, organizzazioni in cui la Bulgaria milita, hanno mai contestato l’ascesa al potere da parte di Borisov.E se la Bulgaria è stata uno dei principali esportatori di armi in Siria, aggiunge Meyssan, ha beneficiato di una “triangolazione segreta” con l’Azerbaigian, sempre sotto copertura Cia: per esportare armi destinate al terrorismo non solo in Siria, ma anche in Libia, in Afghanistan e persino in India. «Dall’inizio delle primavere arabe – premette Meyssan in un report su “Megachip” – la Cia e il Pentagono hanno organizzato un gigantesco traffico di armi in violazione di numerose risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu». Si badi: anche quando società private fanno da paravento, è impossibile esportare “attrezzature sensibili” senza l’autorizzazione dei governi interessati. Qui si tratta di un traffico gigantesco e particolarmente elusivo: gli armamenti trasportati erano infatti di tipo sovietico, per distinguerli da quelli (di fabbricazione Nato) in dotazione alle poche unità non-Isis, ufficialmente inquadrate dal Pentagono. Le altre armi, quelle per i tagliagole dello Stato Islamico, dovevano sembrare sottratte alle truppe di Assad.Forse, in questa ricostruzione, è di aiuto il nome stesso dell’operazione, “Sycamore”, che designa in inglese l’albero di sicomoro. Ancora una volta, le vicende dell’intelligence militare Nato in Medio Oriente sembrano dimostrare l’adozione di nomi tratti da testi antichi e sacre scritture: il sicomoro è l’albero sul quale, secondo il Vangelo, si arrampicò il gabelliere Zaccheo (inviso al popolo) per poter osservare Gesù senza essere visto. Non che fossero tutti ignari, comunque, delle manovre degli “amici del sicomoro”: già si sapeva, dice Meyssan, che la Cia avesse fatto appello proprio alla famigerata Sic di Borisov per produrre urgentemente il Captagon, la nuova “droga dei soldati” destinata agli jihadisti, distribuita in Libia prima ancora che in Siria. Una inchiesta di Maria Petkova, pubblicata dalla rete di segnalazione investigativa balcanica “Brin”, ha rivelato che tra il 2011 e il 2014 la Cia e il Socom (Pentagon Special Operations Command) avevano acquistato armi per 500 milioni di dollari dalla Bulgaria per conto dell’Isis. «Poi, in seguito, abbiamo appreso che altre armi erano state pagate dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti e trasportate da Saudi Arabian Cargo e Etihad Cargo».Secondo Krešimir Žabec, del quotidiano di Zagabria “Jutarnji List”, alla fine del 2012 la Croazia ha consegnato 230 tonnellate di armi a jihadisti siriani per un valore di 6,5 milioni di dollari. «Il trasferimento in Turchia è stato gestito da tre Ilyushin della compagnia Jordan International Air Cargo, e le armi sono state poi paracadute dall’esercito del Qatar». Secondo Eric Schmitt del “New York Times”, l’intero sistema era stato creato dal generale David Petraeus, allora direttore della Cia, agli ordini di Barack Obama. Nel 2012, continua Meyssan, quando la milizia libanese filo-siriana Hezbollah era sulle tracce del traffico Cia-Socom, venne commesso in Bulgaria un attentato contro turisti israeliani all’aeroporto di Burgas, centro nevralgico di quel traffico. «Ignorando l’inchiesta della polizia bulgara e la relazione del medico legale, il governo di Borisov accusò del crimine Hezbollah mentre l’Unione Europea classificò la resistenza libanese come un’organizzazione terroristica». Posizione poi smentita dal nuovo ministro degli esteri, Kristian Vigenin, dopo la caduta provvisoria di Borisov. E non è tutto. Secondo una fonte curda vicina al Pkk, nel maggio-giugno 2014 i servizi segreti turchi hanno noleggiato treni speciali per consegnare armi ucraine a Raqqa, la “capitale” di Daesh. «Le armi ucraine sono state pagate dall’Arabia Saudita, così come un migliaio di veicoli Hilux (pick-up a doppia cabina) appositamente modificati per resistere alle sabbie del deserto».Secondo un’altra fonte, belga, l’acquisto dei veicoli era stato negoziato con la ditta giapponese Toyota dalla società saudita Abdul Latif Jameel. E Andrey Fomin della “Oriental Review” aggiunge che il Qatar, «che non voleva essere tagliato fuori, ha acquistato per i jihadisti la versione più recente del complesso di difesa missilistica Air “Pechora-2D” presso la società statale ucraina UkrOboronProm. La consegna è stata effettuata dalla società cipriota Blessway Ltd». Ancora: secondo Jeremy Binnie e Neil Gibson, della rivista professionale di armamenti “Jane’s”, il comando militare Sealift della Us Navy ha pubblicato due bandi nel 2015 per il trasporto delle armi dal porto rumeno di Costanza fino al porto giordano di Aqaba. Il contratto è stato vinto dalla Transatlantic Lines. Trasporto poi «eseguito il 12 febbraio 2016, subito dopo la firma del cessate il fuoco da parte di Washington, in violazione del suo impegno». Pierre Balanian, di “Asia News”, dichiara che questo sistema è stato esteso nel marzo 2017 con l’apertura di una linea marittima regolare della compagnia statunitense Liberty Global Logistics, che collega il porto italiano di Livorno a quello di Aqaba in Giordania, nonché allo scalo marittimo di Gedda in Arabia Saudita.Secondo il geografo Manlio Dinucci, notista del “Manifesto”, questa linea-fantasma era destinata principalmente alla consegna di blindati in Siria e in Yemen. Stando a due giornalisti turchi, Yörük Işık e Alper Beler, gli ultimi contratti dell’era Obama sono stati eseguiti da Orbital Atk, che ha organizzato, attraverso Chemring e Danish H. Folmer & Co, una linea regolare tra Burgas (Bulgaria) e Gedda. Per la prima volta – precisa Meyssan – stiamo parlando non solo di armi prodotte dalla bulgara Vmz (Vazovski Machine Building Factory), ma anche da Tatra Defense Industrial Ltd, della Repubblica Ceca. «Molte altre operazioni si sono svolte in segreto, come dimostrano gli affari del carico Lutfallah II, ispezionato dalla marina militare libanese il 27 aprile 2012, o il cargo Trader, battente bandiera del Togo, ispezionato dalla Grecia il 1° maggio 2016», aggiunge sempre Meyssan. «Il totale di queste operazioni rappresenta centinaia di tonnellate di armi e munizioni, forse anche migliaia, prevalentemente pagate dalle monarchie assolute del Golfo, con il pretesto di sostenere una “rivoluzione democratica”. In realtà, le petro-dittature intervenivano solo per dispensare l’amministrazione Obama dal rendere conto al Congresso statunitense».In altre parole, il Parlamento Usa doveva restare all’oscuro dell’operazione “Sycamore”. «Tutto questo traffico era sotto il controllo personale del generale Petraeus, dapprima attraverso la Cia, di cui era direttore, poi tramite la società di investimenti finanziari Kkr, per la quale ha lavorato successivamente». Petraeus ovviamente «ha beneficiato dell’assistenza di alti funzionari, occasionalmente sotto la presidenza di Barack Obama e poi – massicciamente – sotto quella di Donald Trump». Gli Usa in cabina di regia, più alleati europei (Belgio, Croazia), nazioni Nato come la Turchia, paesi mediorientali (Giordania) e petro-monarchie del Golfo. E non solo: Meyssan rivela anche il ruolo, fin qui segreto, di uno Stato ex-sovietico come l’Azerbaigian, grande produttore di petrolio attraverso le piattaforme di Baku sul Mar Caspio. Secondo Sibel Edmonds, agente “pentita” dell’Fbi, poi fondatrice della National Security Whistleblowers Coalition (associazione che diffonde notizie riservate e imbarazzanti) l’Azerbaigian vanta un passato estremamente collaborativo, nei confronti del terrorismo Cia: sotto il presidente Heydar Aliyev, dal 1997 al 2001 ha ospitato a Baku nientemeno che la primula rossa di Al-Qaeda, il medico egiziano Ayman Al-Zawahiri, già braccio destro di Osama Bin Laden.Al-Zawahiri sarebbe stato nascosto a Baku «su richiesta della Cia». Sebbene fosse ufficialmente ricercato dall’Fbi, aggiunge Meyssan, il super-terrorista «viaggiò regolarmente su aerei della Nato in Afghanistan, Albania, Egitto e Turchia». Di più: avrebbe anche «ricevuto frequenti visite dal principe Bandar Bin Sultan dell’Arabia Saudita». Per i suoi rapporti in materia di sicurezza con Washington e Riad, aggiunge Meyssan, l’Azerbaigian – la cui popolazione è in prevalenza sciita – si è unito alla sunnita Ankara, «che lo sostiene nel suo conflitto con l’Armenia per la secessione della Repubblica di Artsakh (Nagorno-Karabakh)». L’anziano, storico presidente Heydar Aliyev è morto negli Stati Uniti nel 2003, lasciando il posto al figlio Ilham Aliyev. Dopo la fine dell’Urss, la Camera di Commercio Usa-Azerbaigian è diventata «il retrobottega di Washington», esibendo accanto al presidente Aliyev personaggi del calibro di Richard Armitage, James Baker, Zbigniew Brzezinski, Dick Cheney, Henry Kissinger, Richard Perle, Brent Scowcroft e John Sununu.Secondo la giornalista bulgara Dilyana Gaytandzhieva, nel 2015 il ministro per i trasporti Ziya Mammadov ha messo la compagnia statale Silk Way Airlines a disposizione della Cia, con spese a carico dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi, sotto la copertura di “voli diplomatici”, al riparo dalle ispezioni previste dalla Convenzione di Vienna. «In meno di tre anni – sottolinea Meyssan – oltre 350 voli hanno beneficiato di questo straordinario privilegio». Naturalmente, aggiunge, il “voli diplomatici” non sono autorizzati a trasportare materiale bellico. Ma a chiudere un occhio – oltre agli Stati coinvolti direttamente nel traffico – furono paesi come Germania, Serbia, Polonia, Romania, Slovacchia, Repubblica Ceca e Gran Bretagna, più Turchia e Israele. Risultato: «In meno di tre anni, la Silk Way Airlines ha trasportato armamenti per un valore di almeno un miliardo di dollari». Secondo Dilyana Gaytandzhieva, l’organizzazione clandestina ha trafficato armi anche in Pakistan e Congo, sempre a carico di sauditi ed Emirati. Alcune delle armi consegnate in Arabia Saudita sarebbero state “reindirizzate” in Sudafrica e quelle arrivate in Pakistan sarebbero servite a commettere attentati “islamisti” in India, mentre quelle trasportate in Afghanistan «sarebbero pervenute ai Talebani, sotto il controllo degli Stati Uniti, che fingono di combatterli».In questi anni, conclude Meyssan, tra i principali mercanti d’armi figurano le aziende statunitensi Chemring, Culmen International, Orbital Atk e Purple Shovel. Poi i caucasici: «Oltre alle armi di tipo sovietico prodotte dalla Bulgaria, l’Azerbaigian, sotto la responsabilità del ministro dell’industria della difesa Yavar Jamalov, acquistò delle scorte in Serbia, Repubblica Ceca e anche in altri Stati, dichiarando ogni volta che l’Azerbaigian era il destinatario finale di questi acquisti». Per quanto riguarda il materiale elettronico di intelligence, «Israele ha messo a disposizione la ditta Elbit Systems, che ha finto di essere il destinatario finale, in quanto l’Azerbaigian non ha il diritto di acquistare questo tipo di apparecchiature». Israele, che ha finto di essere neutrale lungo tutto il conflitto siriano, ha comunque bombardato più volte l’esercito di Damasco. Ogni volta, Tel Aviv ha accampato «il pretesto di aver distrutto armi destinate agli Hezbollah libanesi». In realtà, oggi sappiamo che Israele ha supervisionato le consegne di armi agli jihadisti, rivestendo quindi un ruolo centrale nella guerra sporca contro la Siria. Per l’Onu, falsificare certificati di consegna per la fornitura di armi a mercenari e terroristi è un crimine internazionale. L’operazione Timber Sycamore, nei suoi vari aspetti, è il caso criminale più importante di traffico di armi nella storia: «Coinvolge almeno 17 Stati e rappresenta diverse decine di migliaia di tonnellate di armi per svariati miliardi di dollari».Migliaia di tonnellate di armi, per miliardi di dollari. Si chiama “Timber Sycamore” e, secondo il giornalista Thierry Meyssan, è stato il più grosso traffico di armi della storia, grazie alla complicità di ben 17 paesi. E’ stato organizzato dalla Cia, sotto Obama, insieme al Pentagono, a servizi Nato e agli alleati mediorientali. Obiettivo: armare l’Isis contro il governo siriano di Bashar Assad. Traffico scoperto e svelato, a suo rischio e pericolo, da una coraggiosa giornalista bulgara, Dilyana Gaytandzhieva, autrice di un clamoroso scoop sul suo giornale di Sofia, “Trud”. Tutto comincia a fine 2016, quando la reporter – durante la liberazione di Aleppo da parte dell’esercito siriano appoggiato dall’aviazione russa – scopre armi di origine bulgara in 9 diversi arsenali abbandonati dai jihadisti. La Bulgaria, ricorda Meyssan, è governata da Boyko Borisov, da tempo identificato come “capomafia” dai servizi internazionali di polizia, che lo ritengono espressione diretta della Sic, uno dei maggiori cartelli criminali europei. Ma né la Nato né l’Ue, organizzazioni in cui la Bulgaria milita, hanno mai contestato l’ascesa al potere da parte di Borisov.
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Spiare gli americani dal cielo, coi droni: i segreti della Nga
Spiare i cittadini a casa loro, attraverso droni. Potrebbe essere la vera missione della misteriosa Nga, struttura-ombra di intelligence creata da Obama per effettuare sanguinosi bombardamenti aggirando il controllo democratico del Congresso. «E’ facile credere che questa potente agenzia di spionaggio possa ottenere carta bianca per fare ciò che vuole, qualora Trump si accorgesse di averne il potere. Dopotutto, chi farà pressione sul Congresso per fermarlo?». In un’analisi su “TheAntiMedia” ripresa da “Come Don Chisciotte”, Alice Salles sostiene che la nuovissima National Geospatial-Intelligence Agency, definita «un’oscura agenzia di spionagggio su cui l’ex presidente Barack Obama si è arrovellato sin dal 2009», faccia impallidire le rivelazioni-bomba di Edward Snowden sullo spionaggio “domestico” di massa allestito dalla Nsa. La Nga, che coordina l’attività dei droni Usa in tutto il mondo, è diventata sempre più importante, data «la passione di Obama» per i bombadamenti-fantasma, dal cielo, non autorizzati dal Parlamento ma direttamente dalla Casa Bianca. E ora «ci si aspetta che il presidente Trump esplori ulteriormente le opportunità offerte da questa rete di sorveglianza da miliardi di dollari», inserita – come la stessa Cia – sotto il comando del Dod, il dipartimento della difesa.Il quartier generale dell’Nga è più imponente di quello della Cia, aggiunge la Selles: nel 2011, al completamento dell’opera, è costato 1,4 miliardi di dollari, cui si aggiunge un’altra mega-somma (1,7 miliardi) per strutture supplementari, a St. Louis. «Nel godersi il budget aggiuntivo che Obama le ha fornito, la Nga è diventato uno dei servizi segreti più oscuri proprio perché si basa sull’operatività dei droni», scrive Selles. «In quanto organo di governo che ha un solo compito – analizzare le immagini e i video catturati dai droni in Medio Oriente – la Nga è molto potente». Ma allora, «perché non ne abbiamo sentito parlare prima?». Semplice: perché il “compito” non è mai stato limitato al solo Medio Oriente. Se finora non è stata al centro di scandali, aggiunge l’analista, è solo perché – finora, per quanto se ne sa – ha evitato di puntare le telecamere sul suolo americano. Ma la tendenza non è rassicurante: di recente, la Nga «ha dato alla Cia il potere di condurre una guerra segreta tramite droni, nascondendo importanti informazioni su tali operazioni». Come? «Semplicemente, permettendo all’agenzia di svolgere missioni senza prima chiederne l’autorizzazione al Pentagono». Se ora Trump volesse far spiare gli americani, sarebbe pronto l’alibi della “sicurezza nazionale”, minacciata dai “terroristi”.La Casa Bianca, aggiunge Selles, ha espresso il desiderio di rinnovare i poteri di spionaggio dell’era Obama «anche per controbattere i critici che negano la veridicità delle dichiarazioni del presidente sulle intercettazioni delle sue conversazioni assieme a quelle di cittadini stranieri sotto sorveglianza nel 2016». Ma intanto, un rapporto del Pentagono (marzo 2016) rivela che i droni «sono già stati utilizzati a livello nazionale in circa una ventina di occasioni, tra il 2006 e il 2015». Anche se alcune di queste operazioni riguardavano calamità naturali, operazioni della Guardia Nazionale e missioni di soccorso e recupero, «c’è anche il riferimento alla revisione di un articolo di legge sull’Air Force». Secondo il colonnello Dawn Zoldi, la tecnologia progettata per spiare obiettivi all’estero potrebbe presto essere utilizzata anche contro i cittadini americani. «Man mano che questo guerre si esauriranno – spiega il report – quelle risorse diverranno disponibili come supporto ad altri comandi combattenti (Cocom) o altre agenzie degli Stati Uniti, e la voglia di usarle anche in ambiente domestico per raccogliere immagini in volo continuerà a crescere».Fino al 2015, la sorveglianza era talmente blanda che le funzionalità offerte dai sistemi con aerei senza pilota del Dod non venivano prese in considerazione da nessuna agenzia. «Senza leggi che specifichino le regole che queste agenzie del governo federale dovrebbero seguire, per chi controlla sarebbe difficile seguire il loro comportamento», osserva Selles. «Ma sarebbe meglio se ci fosse un’agenzia o un ramo dello stesso governo che supervisionasse ciò che il governo stesso sta facendo? La risposta in breve è no». Con il crescente timore che Trump voglia a riorganizzare la Nga, «vengono alla luce storie di dipartimenti nazionali di polizia che utilizzano i droni per spiare la gente del posto». Alcuni casi molto pubblicizzati, scrive Selles, hanno già coinvolto Baltimora e Compton, «dove la polizia locale ha usufruito della tecnologia di sorveglianza aerea senza che sia stato emesso un mandato d’arresto o la richiesta di una autorizzazione alle autorità locali o statali». Grazie a questi predecenti, si teme che Trump possa «innescare una nuova lotta nel suo continuo sforzo di combattere una guerra contro un immaginario, inesistente nemico. Dopotutto non è estraneo agli scandali e probabilmente non verrebbe preso neanche un po’ da rimorsi qualora decidesse di installare le telecamere ad alta definizione verso i suoi cittadini».Spiare i cittadini a casa loro, attraverso droni. Potrebbe essere la vera missione della misteriosa Nga, struttura-ombra di intelligence creata da Obama per effettuare sanguinosi bombardamenti aggirando il controllo democratico del Congresso. «E’ facile credere che questa potente agenzia di spionaggio possa ottenere carta bianca per fare ciò che vuole, qualora Trump si accorgesse di averne il potere. Dopotutto, chi farà pressione sul Congresso per fermarlo?». In un’analisi su “TheAntiMedia” ripresa da “Come Don Chisciotte”, Alice Salles sostiene che la nuovissima National Geospatial-Intelligence Agency, definita «un’oscura agenzia di spionagggio su cui l’ex presidente Barack Obama si è arrovellato sin dal 2009», faccia impallidire le rivelazioni-bomba di Edward Snowden sullo spionaggio “domestico” di massa allestito dalla Nsa. La Nga, che coordina l’attività dei droni Usa in tutto il mondo, è diventata sempre più importante, data «la passione di Obama» per i bombadamenti-fantasma, dal cielo, non autorizzati dal Parlamento ma direttamente dalla Casa Bianca. E ora «ci si aspetta che il presidente Trump esplori ulteriormente le opportunità offerte da questa rete di sorveglianza da miliardi di dollari», inserita – come la stessa Cia – sotto il comando del Dod, il dipartimento della difesa.
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Foa: c’era una volta Trump, si è arreso ai padroni di Obama
Verrebbe da dire: c’era una volta Trump. C’era, fino a poche settimane fa, un presidente che prometteva un’America diversa da quella di Obama ma anche di Bush, di Clinton, di Bush padre. Un’America intenzionata a rompere nettamente con la dottrina neoconservatrice, che in nome della lotta al terrorismo e di un mondo migliore ha ottenuto, dal 2001 ad oggi, esattamente l’opposto: più instabilità in tutto il Medio Oriente, più fondamentalismo islamico, la nascita dell’Isis e una serie di attentati nelle capitali europee. Quell’America si proponeva di non essere più il poliziotto del mondo e pareva ansiosa di fare la pace con Putin. Non fatevi ingannare dal rumore mediatico degli ultimi mesi: a disturbare l’establishment americano e quello Stato Profondo (Deep State) che in realtà governa l’America e che accomuna repubblicani e democratici, non era solo la persona di Donald Trump, quanto, soprattutto le sue idee, quel progetto di America. Quanto avvenuto la notte scorsa in Siria segna un cambiamento radicale nello spirito e nelle intenzioni di Trump. Cinque mesi di campagna martellante contro il presidente eletto hanno prodotto, evidentemente, gli effetti auspicati.E non mi riferisco solo alle manifestazioni di piazza, all’opposizione isterica della stampa, alle sentenze dei giudici (a proposito: ricordate l’articolo di Kupchan? Era profetico). Trump non è stato capace di resistere al boicottaggio che proveniva dall’interno delle istituzioni e dall’apparato dell’intelligence e della difesa. E chissà a quali altre pressioni e minacce. Si è lasciato avvinghiare, inghiottire da quel mondo che prometteva di combattere. Tutto in appena due mesi e mezzo dal giorno del suo insediamento. L’errore più grande lo ha commesso quando ha accettato che uno dei suoi consiglieri più fidati, Flynn, si dimettesse. Un commentatore acuto e davvero indipendente quale Paul Craig Roberts lo aveva capito subito: quel cedimento era devastante, perché spaccava il fronte dei fedelissimi ma soprattutto perché rompeva la posizione di Trump sul “caso Russia”, che poteva diventare così un caso nazionale. Della serie: se Flynn si dimetteva c’era qualcosa da nascondere. E allora via con le pressioni. Ancora oggi mancano prove concrete sulle ipotetiche collusioni con Mosca per condizionare il voto, ma il “Deep State” lo ha fatto diventare il Caso Nazionale con toni maccartisti, paventando persino un impeachment nell’arco di qualche mese. Un impeachment sul nulla, ma questo era secondario.Flynn era la mente della nuova politica estera e di sicurezza dell’amministrazione Trump. Un’amministrazione che si è via via riempita di ministri, consiglieri ed esperti appartenenti alla vecchia guardia. All’inizio quelle nomine, poco coerenti, parevano una concessione obbligata al partito repubblicano che controlla il Congresso, nella supposizione che le redini sarebbero rimaste nelle mani del presidente. Ma si è rivelata una falsa speranza. E quando, l’altro ieri, l’altro suo più fedele collaboratore, lo stratega politico Bannon è stato estromesso dal Consiglio di sicurezza nazionale, l’accerchiamento si è concluso. Il segretario di Stato Tillermann si è rapidamente allineato all’establishment e ora a guidare la politica estera e di difesa, a consigliare il presidente, sono gli esperti della Washington di sempre. E si vede: la distensione con il Cremlino appare sempre più lontana; anzi, proprio i ministri della nuova amministrazione alimentano la retorica antirussa con le stesse argomentazioni e lo stesso tono di Obama.Il Trump di qualche mese fa avrebbe preteso la verità sull’uso del gas in Siria, quello di oggi, invece, ha proclamato – senza ombra di dubbio – che molte linee rosse erano state superate. Proprio come Obama nel 2013. Peccato che allora, in seguito, si scoprì che a usare il Sarin erano stati i “ribelli” moderati per far cadere la colpa su Assad e provocare l’intervento della Nato. Sarin la cui consegna sarebbe stata autorizzata da Hillary Clinton. Ed è molto verosimile che anche la strage dell’altro giorno sia stata provocata dai “ribelli” per fornire agli Stati Uniti un pretesto per intervenire. Solo che nel 2013 Obama si fermò all’ultimo minuto, il Trump di oggi no. Ha fatto tutto in fretta, senza riscontri oggettivi sulle responsabilità di Assad, evidentemente mal consigliato (o consigliato benissimo, dipende dai punti di vista). Intanto l’Isis e i fondamentalisti islamici che combattono Assad ringraziano: la distruzione della base siriana avrà un solo effetto concreto, quello di indebolire l’esercito siriano e dunque di rimettere in discussione una vittoria che sembra certa. E’ così che si combatte lo Stato Islamico?Non ci prendano in giro: così lo si favorisce, perché l’obiettivo di Washington è il cambio di regime a Damasco anche a costo di vedere trionfare in Siria il peggior integralismo islamico. Non è un caso che a salutare l’interventismo della Casa Bianca siano stati proprio Hillary Clinton e John McCain. L’impressione è che l’agenda Trump sia già stata sconfessata a beneficio di quella irresponsabile e interventista portata avanti negli ultimi 15 anni dai neoconservatori. Se ciò fosse vero, significherebbe che Trump è stato “normalizzato”. E per la pace nel mondo sarebbe una pessima notizia. Resta una sola flebile speranza: che si tratti di un riposizionamento transitorio e non di una resa. Che l’uomo sia capace di riscattarsi. Ma probabilmente, a questo punto, più che una speranza è un’illusione.(Marcello Foa, “Attenti, hanno normalizzato Trump”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 7 aprile 2017).Verrebbe da dire: c’era una volta Trump. C’era, fino a poche settimane fa, un presidente che prometteva un’America diversa da quella di Obama ma anche di Bush, di Clinton, di Bush padre. Un’America intenzionata a rompere nettamente con la dottrina neoconservatrice, che in nome della lotta al terrorismo e di un mondo migliore ha ottenuto, dal 2001 ad oggi, esattamente l’opposto: più instabilità in tutto il Medio Oriente, più fondamentalismo islamico, la nascita dell’Isis e una serie di attentati nelle capitali europee. Quell’America si proponeva di non essere più il poliziotto del mondo e pareva ansiosa di fare la pace con Putin. Non fatevi ingannare dal rumore mediatico degli ultimi mesi: a disturbare l’establishment americano e quello Stato Profondo (Deep State) che in realtà governa l’America e che accomuna repubblicani e democratici, non era solo la persona di Donald Trump, quanto, soprattutto le sue idee, quel progetto di America. Quanto avvenuto la notte scorsa in Siria segna un cambiamento radicale nello spirito e nelle intenzioni di Trump. Cinque mesi di campagna martellante contro il presidente eletto hanno prodotto, evidentemente, gli effetti auspicati.
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Proteste e bombe: Putin va abbattuto, con ogni mezzo
Se il regno di Nicola II era senescente, fragile e malvoluto, quello di Putin appare oggi ancora vitale e ricco di consensi. Zar Vladimir incomincia, però, a pagare il prezzo delle proprie ambizioni. Aver arrestato lo scivolamento dell’Ucraina verso Nato e Unione Europea, aver rimesso piede in un Medio Oriente dove l’influenza degli Usa di Obama era al lumicino, aver gettato le basi per la rinascita della potenza russa e aver ipotizzato un’intesa con Donald Trump ha sicuramente un costo. In quest’ottica il sangue di Pietroburgo e le dimostrazioni di Mosca sono i corrispettivi, da una parte, dell’intervento in Siria e dall’altra della battaglia mediatico-propagandistica condotta per inchiodare Putin allo stereotipo di leader autoritario e antidemocratico. Un leader pericoloso per l’ordine mondiale, per la stabilità del suo paese e persino per quella di un’America dove retroguardie obamiane, intelligence e grande stampa lo dipingono come il burattinaio di Donald Trump. Immaginare un grande complotto anti-russo capace di riunire gruppi jihadisti, potenze wahabite, vecchia intelligence obamiana e multinazionali globalizzate sarebbe una follia. Esiste però un’evidente e manifesta politica di potenza del Cremlino. Una politica di potenza sviluppata all’indomani della vittoria di Putin alle presidenziali del 2012. Una politica che fa della Russia il principale ostacolo alle ambizioni di entità diverse ed eterogenee.Prendiamo gli Stati Uniti del dopo Obama. Qui la grande macchina d’intelligence e media si muove ancora lungo le linee guida definite negli ultimi due quadrienni presidenziali. In quelle “linee guida” vanno contestualizzate le dimostrazioni “anticorruzione” di Mosca guidate da Alexander Navalny. Quelle dimostrazioni sono, probabilmente, la punta d’iceberg degli investimenti messi in campo dalla passata amministrazione per rinverdire il mito delle “rivoluzioni colorate” utilizzate a suo tempo per allentare il controllo russo sulle periferie dell’ex impero sovietico. Non a caso l’oppositore Navalny è stato per anni il referente del “National Endowment for Democracy”, l’organizzazione finanziata dal Congresso Usa accusata di aver progettato sia le “rivoluzioni colorate” sia la “rivolta anti-russa” in Ucraina. Accuse costate all’organizzazione la messa al bando dalla Russia fin dal luglio 2015. L’intervento in Siria, di cui le bombe di Pietroburgo sembrano il riflesso, non va visto semplicemente nel contesto della guerra al terrorismo condotta da Putin in Siria, ma in quello ben più ampio dello scontro con Turchia, Qatar e Arabia Saudita per il controllo del Medio Oriente.Nel momento in cui Mosca si garantisce Damasco, tessera fondamentale del grande risiko, i jihadisti russi, forze d’elite della legione straniera islamista, vengono rimandati a casa per colpire Pietroburgo, ovvero la città natale del nemico Putin. Ma se Pietroburgo e Mosca sono in questo inizio 2017 i contraccolpi più evidenti della guerra condotta in Siria e sull’instabile linea di faglia tra zone d’influenza russe e americane, ancor più preoccupanti rischiano d’essere i contraccolpi delle battaglie condotte sul fronte economico. Su quel fronte zar Putin non ha soltanto disinnescato l’arma del prezzo del petrolio, usata per ridimensionare la potenza russa, ma si è addirittura imposto, come mediatore tra Iran e sauditi, garantendo l’accordo per il rialzo dei prezzi del greggio. E sul fronte asiatico, dove aveva già moltiplicato gli scambi con Pechino, è persino riuscito a metter la sordina al conflitto sulle isole Kurili siglando accordi per due miliardi e mezzo di dollari con un Giappone rimasto per oltre 70 anni partner ed alleato esclusivo degli Stati Uniti. Colpe venute al pettine in questo 2017, dove sono in molti a sognare l’arrivo di un vagone piombato con un novello Lenin pronto a far cadere lo sfrontato zar.(Gian Micalessin, “Le colpe dello zar? Non aver fallito un colpo. E in tanti sognano un Lenin che lo spodesti”, da “Il Giornale” del 4 aprile 2017).Se il regno di Nicola II era senescente, fragile e malvoluto, quello di Putin appare oggi ancora vitale e ricco di consensi. Zar Vladimir incomincia, però, a pagare il prezzo delle proprie ambizioni. Aver arrestato lo scivolamento dell’Ucraina verso Nato e Unione Europea, aver rimesso piede in un Medio Oriente dove l’influenza degli Usa di Obama era al lumicino, aver gettato le basi per la rinascita della potenza russa e aver ipotizzato un’intesa con Donald Trump ha sicuramente un costo. In quest’ottica il sangue di Pietroburgo e le dimostrazioni di Mosca sono i corrispettivi, da una parte, dell’intervento in Siria e dall’altra della battaglia mediatico-propagandistica condotta per inchiodare Putin allo stereotipo di leader autoritario e antidemocratico. Un leader pericoloso per l’ordine mondiale, per la stabilità del suo paese e persino per quella di un’America dove retroguardie obamiane, intelligence e grande stampa lo dipingono come il burattinaio di Donald Trump. Immaginare un grande complotto anti-russo capace di riunire gruppi jihadisti, potenze wahabite, vecchia intelligence obamiana e multinazionali globalizzate sarebbe una follia. Esiste però un’evidente e manifesta politica di potenza del Cremlino. Una politica di potenza sviluppata all’indomani della vittoria di Putin alle presidenziali del 2012. Una politica che fa della Russia il principale ostacolo alle ambizioni di entità diverse ed eterogenee.
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E’ finita: addio Flynn, Trump ridotto a zerbino dai neocon
Meno di un mese fa avevo messo in guardia sul fatto che negli Stati Uniti era in corso una rivoluzione colorata. Il mio primo elemento probatorio era stata la cosiddetta “indagine” che Cia, Fbi, Nsa ed altri stavano conducendo sul candidato che avrebbe dovuto diventare il Consigliere alla Sicurezza Nazionale del presidente Trump, il generale Flynn. Questa notte, il complotto per liberarsi di Flynn ha finalmente avuto successo e il generale Flynn ha offerto le sue dimissioni. Trump le ha accettate. Mettiamo subito in chiaro una cosa: Flynn non era certo un santo o un uomo di tale saggezza da salvare il mondo con una mano sola. Non lo era. Però la figura di Flynn era la pietra angolare della politica di Trump sulla sicurezza nazionale. Per prima cosa, Flynn aveva osato l’impensabile: aveva osato dichiarare che l’ipertrofica comunità dell’intelligence americana doveva essere riformata. Aveva tentato anche di subordinare la Cia e gli stati maggiori riuniti al presidente attraverso il Consiglio per la Sicurezza Nazionale. In altre parole, Flynn aveva cercato di strappare l’autorità e il potere assoluto alla Cia e al Pentagono, per riportarlo sotto il controllo della Casa Bianca.Flynn voleva anche collaborare con la Russia. Non perché fosse un amante della Russia, il solo pensiero che il direttore della Dia sia un fan di Putin è ridicolo, ma Flynn era razionale e aveva capito che la Russia non costituisce nessuna minaccia per gli Stati Uniti o per l’Europa e che la Russia e l’Occidente hanno interessi in comune. Questo è un altro psicoreato assolutamente imperdonabile a Washington Dc. Lo “Stato Profondo” neoconservatore ha ora costretto Flynn alle dimissioni, con lo stupido pretesto di una sua conversazione telefonica, su una linea aperta, non sicura e sicuramente monitorata, con l’ambasciatore russo. E Trump ha accettato queste dimissioni. Fin da quando Trump ha fatto il suo ingresso alla Casa Bianca, non ha fatto altro che ricevere colpi su colpi dai media dei neoconservatori sionisti, dal Congresso, dalle superbenpensanti “stelle” di Hollywood e anche dai politici europei. E Trump ha incassato tutti i colpi senza reagire. Non si è visto neanche una volta il suo famoso «sei licenziato!». Ma avevo ancora qualche speranza. Volevo avere qualche speranza. Credo che fosse mio dovere sperare. Ma ora Trump ci ha traditi tutti quanti.Ricordate che Obama aveva mostrato il suo vero volto quando aveva ipocritamente denunciato il suo amico e pastore reverendo Jeremiah Wright Jr.? Oggi Trump ha mostrato la sua vera faccia. Invece di respingere le dimissioni di Flynn e invece di licenziare quelli che avevano osato fabbricare queste ridicole accuse contro Flynn, Trump ha accettato le dimissioni. Questo non solo è un atto di vile codardia, ma è anche un tradimento, controproducente ed incredibilmente stupido, perché ora Trump rimarrà solo, completamente solo ad affrontare tipi come Mattis e Pence, i duri della guerra fredda, ideologici fino al midollo, gente che vuole la guerra e a cui, semplicemente, non importa nulla della realtà. Ripeto, Flynn non era il mio eroe. Ma, a tutti gli effetti, era l’eroe di Trump. E Trump lo ha tradito. Le conseguenze di una cosa del genere saranno immense. Per prima cosa, Trump è ora chiaramente a terra. Allo “Stato Profondo” ci sono volute solo alcune settimane per castrare Trump e costringerlo ad inchinarsi al vero potere. Quelli che si sarebbero schierati dalla parte di Trump ora sanno che non potranno contare sul suo appoggio e si allontaneranno tutti da lui.I neoconservatori saranno euforici per l’eliminazione del loro peggior nemico, e saranno così ringalluzziti da questa vittoria che continueranno a fare pressione, raddoppiando ogni volta la posta in gioco. E’ finita, gente, lo “Stato Profondo” ha vinto. D’ora in poi Trump sarà uno shabbos-goy, il fattorino per le consegne della lobby israeliana. Hassan Nasrallah aveva ragione a chiamarlo “un idiota”. I cinesi e gli iraniani rideranno apertamente. I russi no, saranno cortesi, sorrideranno e cercheranno di vedere se da questo disastro si potrà salvare un po’ di politica che abbia del buon senso. Qualcosa si potrà fare, ma tutti i sogni di partnership fra Russia e Stati Uniti sono morti stanotte. I leader europei, naturalmente, faranno festa. Trump non era affatto lo spauracchio terrificante che temevano. Viene fuori che è uno zerbino: ottimo per l’Unione Europea. Che cosa ne sarà di noi, dei milioni di anonimi “deplorabili” che cercano, meglio che possono, di resistere all’imperialismo, alla guerra, alla violenza e all’ingiustizia? Penso che avessimo fatto bene ad avere delle speranze, perché le speranze sono tutto quello che abbiamo. Nessuna prospettiva, solo speranze. Ma adesso, obbiettivamente, ci restano ben pochi motivi per sperare. Per prima cosa, la “palude di Washington” non verrà prosciugata. Semmai, la palude ha vinto.Possiamo solo trovare un po’ di consolazione in due fatti innegabili: 1. Hillary sarebbe stata molto peggio di qualunque versione della presidenza Trump; 2. Per sconfiggere Trump, lo “Stato Profondo” americano ha dovuto indebolire moltissimo gli Stati Uniti e l’Impero Anglo-Sionista. Proprio come le purghe di Erdogan hanno portato il caos nell’esercito turco, così la “rivoluzione colorata” anti-Trump ha inferto un enorme danno alla reputazione, all’autorità ed anche alla credibilità degli Stati Uniti. Il primo punto è ovvio, lasciatemi perciò chiarire il secondo. Nella loro rabbia piena di odio contro Trump e contro il popolo americano (il famoso “cesto di deplorabili”), i neoconservatori hanno dovuto mostrare la loro vera faccia. Con il loro rigetto del risultato elettorale, con i loro disordini, con la loro demonizzazione di Trump, i neoconservatori hanno fatto vedere due cose importanti: primo, che la democrazia americana è una barzelletta che non fa ridere, e che loro, i neoconservatori, sono un regime di occupazione, che governa contro la volontà del popolo americano.In altre parole, proprio come ad Israele, agli Stati Uniti non è rimasta nessuna legittimità. E, dal momento che gli Stati Uniti, proprio come Israele, sono incapaci di spaventare i loro nemici, a loro non rimane praticamente più nulla, nessuna legittimità, nessuna capacità di coercizione. Perciò sì, i neoconservatori hanno vinto. Ma la loro vittoria sottrae agli Stati Uniti l’unica possibilità di evitare il collasso. Trump, nonostante tutti i suoi difetti, metteva al primo posto gli Stati Uniti, come nazione, invece dell’Impero Globale. Trump era anche ben conscio che “ancora lo stesso” non era un’opzione praticabile. Voleva una politica tagliata sulle attuali capacità degli Stati Uniti. Senza Flynn e con i neoconservatori saldamente al comando, è tutto finito. Ritorneremo ad avere l’ideologia che ha il sopravvento sulla realtà. Trump avrebbe probabilmente potuto rendere l’America, beh, magari non “nuovamente grande”, ma almeno più forte, una grande potenza mondiale che avrebbe potuto negoziare e usare la sua influenza per ottenere dagli altri le migliori condizioni possibili. Ora è tutto finito.Con Trump al tappeto, Russia e Cina ritorneranno sulle loro posizioni ante-Trump: una resistenza ferma, sostenuta dalla volontà e dalla capacità di confrontarsi con gli Stati Uniti e di batterli a tutti i livelli. Sono abbastanza sicuro che oggi al Cremlino non ci sia nessuno che festeggia. Putin, Lavrov e gli altri si rendono sicuramente conto di che cosa è successo. E’ come se Khodorkovsy fosse riuscito a stroncare Putin nel 2003. Devo infatti dar credito agli analisti russi che, già da diverse settimane, paragonavano Trump a Yanukovich, anche lui eletto dalla maggioranza della popolazione, ma che non aveva mostrato la tempra necessaria per fermare la “rivoluzione colorata” scatenata contro di lui. Ma se Trump è il novello Yanukovich, gli Stati Uniti saranno la nuova Ucraina?Flynn era proprio la pietra angolare della così tanto sperata politica estera di Trump. C’era veramente la fondata possibilità che potesse riportare all’ordine le enormi, ipertrofiche e potentissime agenzie dalle tre lettere, e che focalizzasse la forza degli Stati Uniti contro i veri nemici dell’Occidente: i Wahabiti. Senza Flynn, l’intero edificio concettuale ora crolla. A noi rimarranno quelli come Mattis, con le sue dichiarazioni anti-iraniane. Pagliacci che fanno colpo solo su altri pagliacci. Oggi, la vittoria dei neoconservatori è un evento di enorme importanza, e probabilmente verrà completamente travisata dai media ufficiali. Ironicamente, anche i sostenitori di Trump cercheranno assolutamente di minimizzarla. Ma la realtà è che, salvo un miracolo dell’ultimo minuto, è finita per Trump e per le speranze dei milioni di persone che negli Stati Uniti e nel resto del mondo, avevano sperato di poter cacciare i Neoconservatori dal potere per mezzo di pacifiche elezioni. Questo, chiaramente, non succederà. Vedo nubi oscure all’orizzonte.(The Saker, “I neocon e lo Stato Profondo castrano la presidenza Trump, è finita gente!”, da “Saker Italia” del 14 febbraio 2017).Meno di un mese fa avevo messo in guardia sul fatto che negli Stati Uniti era in corso una rivoluzione colorata. Il mio primo elemento probatorio era stata la cosiddetta “indagine” che Cia, Fbi, Nsa ed altri stavano conducendo sul candidato che avrebbe dovuto diventare il Consigliere alla Sicurezza Nazionale del presidente Trump, il generale Flynn. Questa notte, il complotto per liberarsi di Flynn ha finalmente avuto successo e il generale Flynn ha offerto le sue dimissioni. Trump le ha accettate. Mettiamo subito in chiaro una cosa: Flynn non era certo un santo o un uomo di tale saggezza da salvare il mondo con una mano sola. Non lo era. Però la figura di Flynn era la pietra angolare della politica di Trump sulla sicurezza nazionale. Per prima cosa, Flynn aveva osato l’impensabile: aveva osato dichiarare che l’ipertrofica comunità dell’intelligence americana doveva essere riformata. Aveva tentato anche di subordinare la Cia e gli stati maggiori riuniti al presidente attraverso il Consiglio per la Sicurezza Nazionale. In altre parole, Flynn aveva cercato di strappare l’autorità e il potere assoluto alla Cia e al Pentagono, per riportarlo sotto il controllo della Casa Bianca.
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Bravi, odiate Trump. Per la Cia sarà più facile assassinarlo
Il breve discorso inaugurale del presidente Trump è stato una dichiarazione di guerra contro tutto l’establishment americano al potere. Tutto. Trump ha reso abbondantemente chiaro che i nemici degli americani sono proprio qui in casa: globalisti, economisti neoliberisti, neoconservatori e altri unilateralisti abituati ad imporre gli Stati Uniti nel mondo, che ci coinvolgono in costose guerre senza fine, e politici che servono l’establishment al potere piuttosto che gli americani; a dirla tutta, l’intera cupola di interessi privati che ha portato l’America allo sfinimento mentre gli interessati si arricchivano. Se si può dire la verità, il presidente Trump ha dichiarato guerra a se stesso, una guerra per lui molto più pericolosa che se avesse dichiarato guerra alla Russia o alla Cina. I gruppi di interesse designati da Trump come “Il Nemico” sono ben radicati e abituati a stare al potere. Le loro potenti reti di relazioni sono ancora al loro posto. Anche se ci sono maggioranze repubblicane sia alla Camera che al Senato, la maggior parte dei rappresentati del Congresso è tenuta a rispondere ai gruppi di interesse al potere che finanziano le loro campagne, e non al popolo americano e al presidente.Il complesso militare/della sicurezza, le multinazionali che delocalizzano, Wall Street e le banche, non cederanno a Trump. Né lo faranno i media prezzolati, che sono di proprietà dei gruppi di interesse il cui potere viene sfidato da Trump. Trump ha chiarito che sta dalla parte di ogni americano, nero, marrone e bianco. Pochi dubbi sul fatto che la sua dichiarazione di inclusività e apertura verrà ignorata dagli odiatori della sinistra, che continueranno a chiamarlo razzista, come già stanno facendo, mentre scrivo, i manifestanti pagati 50 dollari all’ora. In effetti, la leadership nera, per esempio, è educata al ruolo della vittima, ruolo al quale le sarebbe difficile sfuggire. Come si fa a mettere insieme persone alle quali per tutta la vita è stato insegnato che i bianchi sono razzisti e che loro sono vittime dei razzisti? Lo si può fare? Ho partecipato ad un breve programma su “Press Tv”, nel quale avremmo dovuto commentare il discorso inaugurale di Trump. L’altro commentatore era un nero americano, da Washington Dc. Il carattere inclusivo del discorso di Trump non gli ha fatto nessuna impressione, e l’ospite della trasmissione era interessato solo a mostrare le proteste dei manifestanti al fine di screditare l’America. Così tante persone hanno un interesse economico a parlare in nome delle vittime e a dire che l’apertura di Trump toglie loro lavoro.Quindi insieme ai globalisti, alla Cia, alle multinazionali che delocalizzano, alle industrie degli armamenti, all’establishment Nato in Europa, e ai politici stranieri abituati a essere pagati profumatamente per sostenere la politica estera interventista di Washington, si schiereranno contro Trump anche i leader dei gruppi vittimizzati, i neri, gli ispanici, le femministe, i clandestini, gli omosessuali e i transgender. Questa lunga lista ovviamente include anche i bianchi liberal, convinti che l’America da una costa all’altra sia abitata da bianchi razzisti , misogini, omofobi, e svitati amanti delle armi. Per quanto li riguarda, questo 84% della geografia degli Stati Uniti dovrebbe essere messo in quarantena o seppellito. In altre parole, rimane abbastanza buona volontà nella popolazione per consentire a un presidente di riunire il 16% che odia l’America con l’84% che la ama? Considerate le forze che Trump si trova contro. I leader neri e ispanici hanno bisogno del vittimismo, perché è quello che conferisce loro reddito e potere. Guarderanno con sospetto all’apertura di Trump. La sua inclusività è un bene per i neri e gli ispanici, ma non per i loro leader.I dirigenti e gli azionisti delle multinazionali sono arricchiti dalla delocalizzazione del lavoro che Trump dice che riporterà a casa. Se tornano i posti di lavoro, se ne andranno i loro profitti, i bonus e le plusvalenze. Ma tornerà la sicurezza economica della popolazione americana. Il complesso militare e della sicurezza ha un bilancio annuale di 1.000 miliardi che dipende dalla “minaccia russa”, minaccia che Trump dice di voler sostituire con una normalizzazione dei rapporti. L’assassinio di Trump non può essere escluso. Molti europei devono il proprio prestigio, il proprio potere, e i propri redditi alla Nato, che Trump ha messo in discussione. I profitti del settore finanziario derivano quasi interamente dalla schiavitù del debito cui sono sottoposti gli americani e dal saccheggio delle loro pensioni private e pubbliche. Il settore finanziario con il suo agente, la Federal Reserve, può distruggere Trump con una crisi finanziaria. La Federal Reserve di New York ha una sala operativa completa. Può mandare nel caos qualsiasi mercato. O sostenere qualsiasi mercato, perché non vi è alcun limite alla sua capacità di creare dollari.L’intero edificio politico degli Stati Uniti si è completamente isolato dal volere, dai desideri e dalle esigenze del popolo. Ora Trump dice che i politici risponderanno al popolo. Questo, naturalmente, significherebbe un forte colpo alla continuità dei loro incarichi, al loro reddito e alla loro ricchezza. C’è un gran numero di gruppi, finanziati da non-sappiamo-chi. Ad esempio, oggi RootsAction ha risposto al forte impegno di Trump di stare al fianco di tutto il popolo contro l’Establishment al Potere, con la richiesta al Congresso “di incaricare la Commissione Giustizia della Camera per un’iniziativa di impeachment” e di inviare denaro per l’impeachment di Trump. Un altro gruppo di odio, Human Rights First, attacca la difesa di Trump dei nostri confini in quanto chiude “un rifugio di speranza per coloro che fuggono dalle persecuzioni“. Pensateci per un minuto. Secondo le organizzazioni liberal-progressiste di sinistra e i gruppi di interesse razziali, gli Stati Uniti sono una società razzista e il presidente Trump è un razzista. Eppure, le persone soggette al razzismo americano fuggono dalle persecuzioni verso l’America, dove subiranno persecuzioni razziali? Non ha senso. I clandestini vengono qui per lavoro. Chiedete alle imprese di costruzione. Chiedete ai mattatoi. Chiedete ai servizi di pulizia nelle aree turistiche.La lista di quelli a cui Trump ha dichiarato guerra è abbastanza lunga, anche se se ne potrebbero aggiungere degli altri. Dovremmo chiederci perché un miliardario di 70 anni con imprese fiorenti, una bella moglie, e dei figli intelligenti, sia disposto a sottoporre i suoi ultimi anni alla straordinaria pressione di fare il presidente con il difficile programma di riportare il governo nelle mani del popolo americano. Non c’è dubbio che Trump ha fatto di sé stesso un bersaglio. La Cia non ha intenzione di mollare il colpo e andare via. Perché una persona dovrebbe farsi carico dell’imponente ricostruzione dell’America che Trump ha dichiarato di voler fare, quando poteva invece trascorrere i suoi ultimi anni godendosela immensamente? Qualunque sia la ragione, dovremmo essergli grati per questo, e se è sincero lo dobbiamo sostenere. Se viene assassinato, dobbiamo prendere le armi, radere al suolo Langley [sede centrale della Cia] e ucciderli tutti. Se avrà successo, merita il titolo: Trump il Grande! La Russia, la Cina, l’Iran, il Venezuela, l’Ecuador, la Bolivia, e qualsiasi altro paese sulla lista nera della Cia dovrebbe capire che l’ascesa di Trump non basta a proteggerlo. La Cia è una organizzazione a livello mondiale. I suoi redditizi affari forniscono delle entrate indipendenti dal bilancio degli Stati Uniti. L’organizzazione è in grado di intraprendere azioni indipendentemente dal presidente o anche dal proprio direttore. La Cia ha avuto circa 70 anni per consolidarsi. Ed esiste ancora.(Paul Craig Roberts, “La dichiarazione di guerra di Trump”, dal sito di Craig Roberts del 20 gennaio 2017, post tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).Il breve discorso inaugurale del presidente Trump è stato una dichiarazione di guerra contro tutto l’establishment americano al potere. Tutto. Trump ha reso abbondantemente chiaro che i nemici degli americani sono proprio qui in casa: globalisti, economisti neoliberisti, neoconservatori e altri unilateralisti abituati ad imporre gli Stati Uniti nel mondo, che ci coinvolgono in costose guerre senza fine, e politici che servono l’establishment al potere piuttosto che gli americani; a dirla tutta, l’intera cupola di interessi privati che ha portato l’America allo sfinimento mentre gli interessati si arricchivano. Se si può dire la verità, il presidente Trump ha dichiarato guerra a se stesso, una guerra per lui molto più pericolosa che se avesse dichiarato guerra alla Russia o alla Cina. I gruppi di interesse designati da Trump come “Il Nemico” sono ben radicati e abituati a stare al potere. Le loro potenti reti di relazioni sono ancora al loro posto. Anche se ci sono maggioranze repubblicane sia alla Camera che al Senato, la maggior parte dei rappresentati del Congresso è tenuta a rispondere ai gruppi di interesse al potere che finanziano le loro campagne, e non al popolo americano e al presidente.
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Levin: gli Usa hanno interferito nelle elezioni in 45 paesi
Mentre infuriano le polemiche per le (del tutto presunte) interferenze russe nelle elezioni presidenziali americane, “Vocativ” commenta una recente ricerca in cui si contano almeno 81 casi di interventi americani in 45 paesi, dal dopoguerra ad oggi, volti a condizionare l’esito delle elezioni politiche. E questo, senza contare i colpi di Stato militari promossi e organizzati dalla Casa Bianca. Scrive “Voci dall’Estero”: «Il motivo per cui – fingiamo pure che il fatto sussista – un certo establishment americano sta gridando allo scandalo e rialzando una cortina di ferro, non è altro che quello che lo stesso establishment americano ha sempre fatto verso il resto del mondo». Lo conferma un recentissimo studio, che mostra che l’America ha una lunga storia di ingerenze nelle elezioni in paesi stranieri, sintetizza Shane Dixon Kavanaugh su “Vocative”, prendendo spunto dalla clamorosa propaganda di Obama contro la Russia: 35 diplomatici espulsi e la richiesta di nuove sanzioni, in risposta a ciò che gli Usa ritengono essere una serie di cyber-attacchi condotti da Mosca durante la campagna presidenziale. Peccato che questa specialità – il pilotaggio delle elezioni altrui – sia un talento squisitamente statunitense.Per la Cia, il Cremlino avrebbe tentato di aiutare Donald Trump a conquistare la presidenza? «Eppure, nessuno dei due paesi può dirsi estraneo a tentativi di ingerenza nelle elezioni di altri paesi». Gli Stati Uniti, per di più, vantano record ineguagliati in questo campo: «Hanno una storia lunga e impressionante di tentativi di influenzare le elezioni presidenziali in altri paesi», scrive Shane Dixon Kavanaugh, in un post ripreso da “Voci dall’Estero” in cui si documentano i risultati del recente studio condotto da Dov Levin, ricercatore in scienze politiche dell’Università Carnegie-Mellon di Pittsburgh, Pennsylvania. E’ un fatto: gli Usa hanno «cercato di influenzare le elezioni in altri paesi per ben 81 volte tra il 1946 e il 2000». Spesso lo hanno fatto «agendo sotto copertura», con tentativi che «includono di tutto: da agenti operativi della Cia che hanno portato a termine con successo campagne presidenziali nelle Filippine negli anni ’50, al rilascio di informazioni riservate per danneggiare i marxisti sandinisti e capovolgere le elezioni in Nicaragua nel 1990». Facendo la somma, calcola Levin, gli Usa avrebbero condizionato le elezioni in non meno di 45 paesi in tutto il mondo, durante il periodo considerato. E nel caso di alcuni paesi, come l’Italia e il Giappone, gli Stati Uniti hanno cercato di intervenire «in almeno quattro distinte elezioni».I dati di Levin, aggiunge Shane Dixon Kavanaugh, non includono i golpe militari o i rovesciamenti di regime che hanno seguito l’elezione di candidati contrari agli Stati Uniti, come ad esempio quando la Cia ha contribuito a rovesciare Mohammad Mosaddeq, il primo ministro democraticamente eletto in Iran nel 1953. Il ricercatore definisce l’interferenza elettorale come «un atto che comporta un certo costo ed è volto a stabilire il risultato delle elezioni a favore di una delle due parti». Secondo la sua ricerca, questo includerebbe: diffondere informazioni fuorvianti o propaganda, creare materiale utile alla campagna del partito o del candidato favorito, fornire o ritirare aiuti esteri e fare annunci pubblici per minacciare o favorire un certo candidato. «Spesso questo prevede dei finanziamenti segreti da parte degli Usa, come è avvenuto in alcune elezioni in Giappone, Libano, Italia e altri paesi».Per costruire il suo database, Levin si è basato su documenti declassificati della stessa intelligence americana, come anche su una quantità di report del Congresso sull’attività della Cia. Ha poi esaminato ciò che considera resoconti affidabili della Cia e delle attività americane sotto copertura, nonché ricerche accademiche sull’intelligence statunitense, resoconti di diplomatici della guerra fredda e di ex funzionari sempre della Cia. «Gran parte delle ingerenze americane nei processi elettorali di altri paesi sono ben documentate, come quelle in Cile negli anni ’60 o ad Haiti negli anni ’90», senza contare il caso di Malta nel 1971: secondo lo studio di Levin, gli Usa avrebbero cercato di condizionare la piccola isola mediterranea strozzandone l’economia nei mesi precedenti all’elezione di quell’anno. «I risultati della ricerca suggeriscono che molte delle interferenze elettorali americane sarebbero avvenute durante gli anni della guerra fredda, in risposta all’influenza sovietica che andava espandendosi in altri paesi», sottolinea Shane Dixon Kavanaugh.«Per essere chiari, gli Usa non sarebbero stati gli unici a cercare di determinare le elezioni all’estero. Secondo quanto riportato da Levin lo avrebbe fatto anche la Russia per 36 volte dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla fine del ventesimo secolo. Il numero totale degli interventi da parte di entrambi i paesi sarebbe stato dunque, in quel periodo, pari a 117». Eppure, anche dopo il crollo dell’Unione Sovietica, avvenuto nel 1991, nonostante venisse a mancare l’alibi della guerra fredda, il grande nemico a Est, gli Stati Uniti «hanno continuato i propri interventi all’estero, prendendo di mira elezioni in Israele, nella ex Cecoslovacchia e nella stessa Russia nel 1996». In altre parole: se la Russia di Putin ha archiviato le attività “imperiali” dell’Urss, l’America ha invece raddoppiato la posta: secondo Levin, dal 2000 a oggi gli Usa hanno pesantemente interferito con le elezioni in Ucraina, Kenya, Libano e Afghanistan, per citarne solo alcuni dei paesi sottoposti alle “attenzioni elettorali” di Washington.Mentre infuriano le polemiche per le (del tutto presunte) interferenze russe nelle elezioni presidenziali americane, “Vocativ” commenta una recente ricerca in cui si contano almeno 81 casi di interventi americani in 45 paesi, dal dopoguerra ad oggi, volti a condizionare l’esito delle elezioni politiche. E questo, senza contare i colpi di Stato militari promossi e organizzati dalla Casa Bianca. Scrive “Voci dall’Estero”: «Il motivo per cui – fingiamo pure che il fatto sussista – un certo establishment americano sta gridando allo scandalo e rialzando una cortina di ferro, non è altro che quello che lo stesso establishment americano ha sempre fatto verso il resto del mondo». Lo conferma un recentissimo studio, che mostra che l’America ha una lunga storia di ingerenze nelle elezioni in paesi stranieri, sintetizza Shane Dixon Kavanaugh su “Vocative”, prendendo spunto dalla clamorosa propaganda di Obama contro la Russia: 35 diplomatici espulsi e la richiesta di nuove sanzioni, in risposta a ciò che gli Usa ritengono essere una serie di cyber-attacchi condotti da Mosca durante la campagna presidenziale. Peccato che questa specialità – il pilotaggio delle elezioni altrui – sia un talento squisitamente statunitense.
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Craig Roberts: gli uomini di Trump già si piegano al potere
«Uno dei motivi per cui la Russia ha salvato la Siria dai rovesci che voleva Washington è stato che la Russia ha compreso che il prossimo obiettivo di Washington sarebbe stato l’Iran; e che un terrorismo, sconfitto in Iran, si sarebbe spostato nella vicina Federazione Russa». Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan, lancia un allarme sulla demenziale propaganda anti-russa alla quale gli uomini di Trump si stanno piegando, forse anche solo in chiave tattica, per tranquilizzare la Cia e il Congresso, rassicurando l’establihsment sulla immutata vocazione “imperiale” della Casa Bianca. E’ comunque un errore grave, per Craig Roberts, quello commesso da Rex Tillerson e James Mattis: «Se il presidente della Exxon e un generale non sono in grado di tener testa a un Congresso imbecille, vuol dire che non sono adatti al compito che gli hanno assegnato». L’America non può scherzare col fuoco, perché «c’è un asse tra i paesi minacciati dagli Stati Uniti con il sostegno dato al terrorismo: Siria, Iran, Russia, Cina». Trump dice che vuole normalizzare le relazioni con la Russia, aprendo opportunità di business anziché conflitti? «Ma per normalizzare le relazioni con la Russia si devono anche normalizzazione i rapporti con l’Iran e con la Cina».A giudicare dalle dichiarazioni pubbliche, scrive Craig Roberts in un intervento su “Information Clearing House” che Bosque Primario ha tradotto per “Come Don Chisciotte”, il governo annunciato di Trump ha preso di mira l’Iran come paese da destabilizzare. «Tutti gli uomini nominati da Trump – il consigliere per la sicurezza nazionale, il segretario della difesa e il direttore della Cia – considerano l’Iran, in modo non corretto, uno Stato terrorista che deve essere rovesciato». Ma la Russia, aggiunge Craig Roberts, «non può permettere a Washington di rovesciare il governo di un Iran stabile, e non lo permetterà». E gli investimenti della Cina sul petrolio iraniano «portano alla conclusione che nemmeno la Cina permetterà un rovesciamento dell’Iran da parte di Washington». La Cina, ricorda Craig Roberts, ha già sofferto per i suoi investimenti persi nel petrolio libico, «come risultato del rovesciamento del governo libico fatto dal regime di Obama». Realisticamente parlando, quindi, «sembra che la presidenza Trump risulti già sconfitta dai suoi stessi uomini, indipendentemente dalla ridicola e incredibile propaganda mandata in giro dalla Cia e ritrasmessa da tutti i media negli Usa, nel Regno Unito e nel resto d’Europa».La “Reuters” riferisce che truppe americane composte da 2.700 soldati e da carri armati si stanno muovendo dalla Polonia verso il confine con la Russia. Il colonnello Christopher Norrie, comandante del 3° Armoured Brigade Combat Team, ha dichiarato: «L’obiettivo principale della nostra missione è deterrenza e prevenzione delle minacce». Una grossolana e pericolosa provocazione: l’Urss di Stalin fu colta di sorpresa ma seppe respingere il più grande esercito d’Europa, quello di Hitler, mentre «la Russia di Putin è pronta». Aggiunge Craig Roberts: «E’ incredibile che l’esercito americano stia portando avanti una esercitazione tanto provocatoria e tanto in contraddizione con la futura politica del presidente entrante. I militari americani, la Cia, e le loro puttane dei media Usa stanno anti-democraticamente seguendo una propria agenda, indipendente della politica che vorrà fare il presidente eletto». Secondo il quotidiano israeliano “Haaretz”, agenti dell’intelligence Usa hanno chiesto al governo israeliano di non condividere nessuna informazione di intelligence con l’amministrazione Trump, perché Putin avrebbe mezzi per far “pressione” su Trump e Trump dovrebbe svelare informazioni sensibili a Russia e Iran.«Possiamo vedere come tutto il complesso si muova per sabotare tutta la politica militare e della security di Trump», aggiunge Craig Roberts. «Accuse continue hanno costretto Trump a dire che forse i russi sarebbero stati coinvolti in un attacco che non c’è mai stato, né da parte della Russia né da parte di nessun altro». Il segretario di Stato designato, Tillerson, «ha dovuto dichiarare che la Russia è una minaccia nel corso della sua udienza di conferma per poter essere confermato». Idem il candidato di Trump al ruolo di segretario della difesa, Mattis: «Ha dovuto dire nella sua udienza di conferma che gli Stati Uniti devono essere pronti a confrontarsi militarmente con la Russia». Solo “un osso” gettato alla Cia? «E’ chiaro che il Congresso degli Stati Uniti è in balia dei soldi che vengono dalle donazioni del complesso militare e della security», da qui “l’obbligo” di decretare Russia “una minaccia”. Male: «L’establishment che domina gli Usa sta facendo perdere la speranza e sta mettendo dei dubbi nello stesso governo russo». Ma, si domanda Craig Roberts, dov’è finita la coscienza morale della sinistra “liberal”? «Per quale motivo questa sinistra liberale sta aiutando il complesso militare e la security pur di delegittimare Trump e di incastrarlo in modo che la sua agenda sia già morta in partenza e che la guerra termonucleare rimanga comunque una possibilità?».In altre parole: Trump è già finito? «Stiamo già perdendo fiducia, se non (ancora) in lui, in quelli che ha scelto per comporre il suo governo, ancora prima che si insedi ufficialmente». Gravissime, per Craig Roberts, le dichiarazioni di Tillerson, futuro ministro degli esteri, sulla Cina, identiche a quelle rese, a suo tempo, da Hillary Clinton, quando dichiarava che il Mar Cinese Meridionale è una zona di dominio degli Stati Uniti. Nella sua audizione di conferma, Rex Tillerson ha detto che l’accesso della Cina al proprio Mar Cinese Meridionale non sarà permesso: «Dobbiamo mandare alla Cina un chiaro segnale che, per prima cosa, devono fermare le loro costruzioni sulle isole e poi che nemmeno l’accesso a quelle isole sarà tollerato», ha detto. La risposta della Cina? Immediata, e a tono: «Tillerson – ha replicato il governo cinese – non dovrebbe essere indotto a pensare che Pechino avrà paura delle sue minacce. Se la diplomazia di Trump continuerà a mantenere i futuri rapporti tra gli Stati Uniti e la Cina a livello attuale, sarà meglio che le due parti si preparino a uno scontro militare». Nel qual caso, «Tillerson farebbe meglio a cercare di capire cosa significhi strategia nucleare, se vuol provare a far ritirare una grande potenza nucleare dai propri territori».Così, scrive Craig Roberts, Trump non è nemmeno arrivato al suo insediamento che «un idiota che ha nominato segretario di Stato ha già creato un rapporto di animosità con due potenze nucleari capaci di distruggere completamente tutto l’Occidente per l’eternità». Forse, conclude l’analista statunitense, queste dichiarazioni non sono altro che fumo negli occhi: enunciano azioni che non saranno messe in atto. Ma perché piegarsi al Congresso, rinunciando completamente alle proprie idee, se diverse da quelle esposte? «Il fatto che non sappiano stare in piedi da soli – dice Craig Roberts degli uomini scelti dal neopresidente – è una chiara indicazione che non hanno quella forza di cui Trump ha bisogno, se vuole imporre un cambiamento dall’alto». E il pericolo è reale: «Se Trump non sarà in grado di cambiare la politica estera americana, una guerra termonucleare e la distruzione della Terra sono inevitabili».«Uno dei motivi per cui la Russia ha salvato la Siria dai rovesci che voleva Washington è stato che la Russia ha compreso che il prossimo obiettivo di Washington sarebbe stato l’Iran; e che un terrorismo, sconfitto in Iran, si sarebbe spostato nella vicina Federazione Russa». Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan, lancia un allarme sulla demenziale propaganda anti-russa alla quale gli uomini di Trump si stanno piegando, forse anche solo in chiave tattica, per tranquillizzare la Cia e il Congresso, rassicurando l’establihsment sulla immutata vocazione “imperiale” della Casa Bianca. E’ comunque un errore grave, per Craig Roberts, quello commesso da Rex Tillerson e James Mattis: «Se il presidente della Exxon e un generale non sono in grado di tener testa a un Congresso imbecille, vuol dire che non sono adatti al compito che gli hanno assegnato». L’America non può scherzare col fuoco, perché «c’è un asse tra i paesi minacciati dagli Stati Uniti con il sostegno dato al terrorismo: Siria, Iran, Russia, Cina». Trump dice che vuole normalizzare le relazioni con la Russia, aprendo opportunità di business anziché conflitti? «Ma per normalizzare le relazioni con la Russia si devono anche normalizzazione i rapporti con l’Iran e con la Cina».
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Oliver Stone: prego che questa America non attacchi Mosca
«Non avrei mai pensato che mi sarei trovato a pregare per il livello ragionevolezza di un Donald Trump. Ricordate “L’Iliade”? Secondo Omero gli dèi si libravano sopra le battaglie di ogni giorno e ne decidevano il risultato. Chi sarebbe morto e chi sarebbe vissuto. Gli dèi sono ancora in ascolto?». Così il regista Oliver Stone, letteralmente terrorizzato dall’escalation militare in corso contro la Russia, «un paese che crede che in questo momento gli Stati Uniti, con il più grande schieramento della Nato ai suoi confini dalla Seconda Guerra Mondiale di Hitler, siano abbastanza folli da preparare un attacco preventivo». Nessuno ne parla, sui grandi media, ma è così: pur già con le valigie in mano, Obama ha dato il via libera alla colossale operazione “Atlantic Resolve”, con oltre 5.000 mezzi corazzati in azione per 9 mesi sul confine russo-lituano. Silenzio assoluto anche in Italia: se Mentana denuncia Grillo per l’accusa di alimentare “fake news”, Giulietto Chiesa li rimbecca, su “Megachip”: «Questa dovrebbe essere una notizia di apertura anche per il telegiornale di Mentana. E anche per il blog di Grillo. Tacciono invece entrambi».Dagli Usa, Oliver Stone riversa su Facebook la sua angoscia: l’ormai decadente “New York Times” degenera nell’impostazione del “Washington Post” «con la sua ristagnante visione da Guerra Fredda di un mondo degli anni ’50 dove ai russsi viene data la colpa di tutto – la sconfitta di Hillary, la maggior parte delle aggressioni e dei disordini nel mondo, la volontà di destabilizzare l’Europa». In più, il “Times” «ha aggiunto la questione delle “fake news” per riaffermare il suo discutibile ruolo di voce dominante dell’establishment di Washington», cavalcando la polemica sull’ipotetico hackeraggio da parte della Russia nelle elezioni presidenziali vinte da Trump. Nel post, tradotto da “Come Don Chisciotte”, il regista cita la Cia e l’Fbi, la Nsa e il direttore della National Intelligence, James Clapper, un uomo che «come si sa, mentì al Congresso a riguardo dell’affare Snowden». Tutti in coro: Obama e la Dnc, Hillary Clinton e il Parlamento: colpa di Putin. E a fianco di questi «patrioti», aggiunge Stone, spicca in particolare il senatore John McCain, «psicotico, amante della guerra», che definisce Putin come «un delinquente, un bullo e un assassino», finendo sulla prima pagina del “Times”.«Non ricordo che i presidenti Eisenhower, Nixon o Reagan, nei periodi più neri degli anni 50/80, si siano mai riferiti ad un presidente russo in questo modo», scrive Stone. «Le invettive venivano rivolte al regime sovietico ma non erano mai Khrushchev o Brezhnev il bersaglio della loro bile. La mia ipotesi è che questa sia una nuova forma di diplomazia da parte dell’America. Se un giovane nero viene ucciso nelle nostre città od i partecipanti ad un banchetto di nozze in Pakistan vengono sterminati dai nostri droni Obama viene additato come assassino, bullo, delinquente?». I grandi giornali che ora crocifiggono Putin sono gli stessi che hanno taciuto sulle scandalose irregolarità emerse sulla Clinton, grazie all’ex ambasciatore Craig Murray, ora portavoce di Wikileaks. «Se su questo si fosse indagato correttamente si sarebbe benissimo potuti arrivare a scoprire che per Hillary Clinton questo era il “Nixon moment”». Sembra di essere tornati negli anni ‘50, «quando si supponeva che i russi fossero nelle nostre scuole, al Congresso, al Dipartimento di Stato – in sintonia con molti supporter di Eisenower/Nixon – per impadronirsi del nostro paese senza incontrare una seria opposizione». Salvo poi «sostenere la nostra necessità di andare in Vietnam per difendere la nostra libertà contro i comunisti, a 10.000 chilometri di distanza».E dopo che il Terrore Rosso finalmente se ne fu andato una volta per tutte nel 1991, continua Stone, vediamo che non è mai finita: «Il Terrore è diventato Saddam Hussein in Iraq con i suoi missili di distruzione di massa, il “fungo atomico”. E’ diventato il Demone, reale tanto quanto ogni Processo alle Streghe di Salem. E’ stato Gheddafi in Libia e poi è stato Assad in Siria. In altre parole, come in una profezia orwelliana, non è mai finita. E vi posso garantire che non si riderà mai loro in faccia – a meno che noi cittadini, ancora capaci di un pensiero autonomo nelle faccende esistenziali, diciamo “basta” a questo agire demoniaco: “Ne abbiamo abbastanza, fuori dai piedi”». Inutile sperare nel riveglio dei media. «Mio Dio, il fantasma di Izzy Stone è tornato dagli anni ’50! D’altronde lo è anche Tom Clancy dagli anni ’80. Falsi thriller verranno scritti sull’hackeraggio dei russi nelle elezioni americane. Si faranno soldi e serial Tv. Non avevo mai letto simile spazzatura isterica sul “New York Times” (chiamiamola per quello che è, “fake news”) in cui gli editoriali sono diventati diatribe oltraggiose sui presunti crimini da parte della Russia, la maggior parte dei quali presumibilmente scritti da Serge Schmemann, uno di quegli ideologi che ancora la notte guarda se ci sono russi sotto il suo letto; erano chiamati ai vecchi tempi “russi bianchi” e, come i cubani di destra a Miami, non sono capaci di accantonare il passato».Questo tipo di pensiero, agiunge Stone, ha chiaramente influenzato il Pentagono e molte delle affermazioni di generali Usa, e ha pervaso i report di quello che che il regista chiama “Msm”, sistema del mainstream media. «Quando un gruppo di pensiero controlla la nostra comunicazione nazionale, diventa veramente pericoloso. In questo spirito, io sto linkando numerosi saggi cruciali della nuova annata, sottolineando la vergogna che è diventato il Msm». Oliver Stone non ama Trump e vede che è bersaglio numero uno, insieme a Putin, del sistema mainstream. E teme che lo resterà «fino a quando non salterà sul binario anti-Cremlino grazie a qualche tipo di falsa informazione o incomprensione cucinate dalla Cia». A quel punto, «col suo modo impulsivo di fare, inizierà a combattere con i russi, e non passerà molto tempo prima che venga dichiarato lo stato di guerra contro la Russia». Basterebbe leggere Robert Parry, secondo cui i neocon hanno fabbricato il nuovo “nemico” a partire dal 1980, con lo spettro del terrorismo “islamico” attribuito all’Iran. «Come questo abbia portato al nostro disordine attuale è una brillante analisi che è sconosciuta al pubblico americano». A parte gli dèi dell’Olimpo, per trovare appigli, Oliver Stone non ha che il Dalai Lama: «Ognuno di noi, anche attraverso le nostre preghiere, può contribuire al miglioramento di questo mondo». Troppi missili, in giro: non ci resta che pregare?«Non avrei mai pensato che mi sarei trovato a pregare per il livello ragionevolezza di un Donald Trump. Ricordate “L’Iliade”? Secondo Omero gli dèi si libravano sopra le battaglie di ogni giorno e ne decidevano il risultato. Chi sarebbe morto e chi sarebbe vissuto. Gli dèi sono ancora in ascolto?». Così il regista Oliver Stone, letteralmente terrorizzato dall’escalation militare in corso contro la Russia, «un paese che crede che in questo momento gli Stati Uniti, con il più grande schieramento della Nato ai suoi confini dalla Seconda Guerra Mondiale di Hitler, siano abbastanza folli da preparare un attacco preventivo». Nessuno ne parla, sui grandi media, ma è così: pur già con le valigie in mano, Obama ha dato il via libera alla colossale operazione “Atlantic Resolve”, con oltre 5.000 mezzi corazzati in azione per 9 mesi sul confine russo-lituano. Silenzio assoluto anche in Italia: se Mentana denuncia Grillo per l’accusa di alimentare “fake news”, Giulietto Chiesa li rimbecca, su “Megachip”: «Questa dovrebbe essere una notizia di apertura anche per il telegiornale di Mentana. E anche per il blog di Grillo. Tacciono invece entrambi».
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Tank sul fronte russo, comincia l’ultima guerra di Obama
La notizia ha dell’incredibile, ma è vera: per la stampa tedesca, stiamo assistendo alla più grande operazione di riposizionamento dell’esercito Usa in Germania dal 1990. «Più di 2.000 carri armati, obici, jeep e automezzi stanno per essere impiegati nelle esercitazioni Nato nell’Europa dell’Est che dureranno nove mesi», scrive Johannes Stern. Lo stato maggiore della Bundeswehr conferma: colossale dislocazione di forse Usa e Nato in Polonia e negli Stati baltici, proprio mentre Obama tenta – anche con la “guerra delle spie” – di incendiare la frontiera orientale, alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump, ostacolato in ogni modo. La situazione starebbe precipitando, dopo l’impegno della Russia per la liberazione di Aleppo, a lungo ostaggio di milizie “Isis” capeggiate da leader del Caucaso e dai combattenti di Al-Nusra, altrimenti detta “Al-Qaeda in Siria”, formazione creata, protetta e armata dall’intelligence occidentale. Persa la Siria, ora si enfatizza l’operazione “Atlantic Resolve”, spettacolare (e pericolosa) provocazione alle frontiere con la Russia, cui Obama non perdona l’aver reagito al golpe americano in Ucraina mantenendo il controllo della Crimea.A scandire le news, nei primissimi giorni del 2017, sono le fonti delle forze armate tedesche, racconta Stern in un articolo su “Wsws” ripreso da “Come Don Chisciotte”: oltre 2.500 mezzi militari Usa hanno appena raggiunto la Germania «per essere trasportati in Polonia ed in altri paesi dell’Europa Centrale e dell’Est». Il materiale deve «arrivare nel periodo compreso fra il 6 e l’8 gennaio a Bremerhaven via mare e quindi essere trasferito in Polonia per via ferroviaria e convogli militari a partire approssimativamente dal 20 gennaio», cioè il giorno in cui dovrebbe finalmente installarsi Trump alla Casa Bianca. Sempre secondo comunicati diffusi dall’esercito statunitense in Europa, continua Stern, altri 4.000 militari e 2.000 carri armati «contribuiranno a rafforzare la forza di dissuasione e difesa dell’alleanza». Il colonnello Todd Bertulis dell’Eucom, il comando Usa in Europa di stanza a Stoccarda, ha affermato che l’operazione assicurerà che «la potenza di fuoco necessaria verrà schierata in Europa nel posto giusto al momento giusto». E il generale Frederick “Ben” Hodges, comandante delle forze americane in Europa, aggiunge: «E’ una risposta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ed alla sua illegale annessione della Crimea».Il che è palesemente falso, ricorda Johannes Stern: «In Ucraina non è la Russia l’aggressore, ma lo sono Usa e Nato», dal momento che «Washington e Berlino, in stretta collaborazione con le forze fasciste, hanno organizzato un colpo di Stato contro il presidente filorusso, Viktor Yanukovych, agli inizi del 2014, insediando a Kiev un regime nazionalista, fanaticamente antirusso». Mossa che «ha fatto esplodere la ribellione separatista da parte delle regioni russofone nella parte orientale del paese». Una rivolta che Mosca ha sostenuto, e che il governo di Kiev, sorretto dalle armi e dai soldi occidentali, ha tentato senza successo di reprimere con la forza. «Quanto successo in Ucraina è stato sfruttato dagli Usa, dall’Unione Europea e dalla Nato per imporre sanzioni economiche e diplomatiche alla Russia ed espandere drammaticamente le forze militari della Nato lungo il suo confine occidentale». E ora, «volendo giocare d’anticipo rispetto al 20 gennaio, inizio del mandato del nuovo presidente eletto Usa Donald Trump», che ha chiesto di abbassare il livello della tensione con la Russia, «forze contrarie all’interno dell’intelligence militare Usa e dell’establishment politico stanno cercando un’escalation nel confronto con Mosca».Ad aprire il fuoco è lo stesso generale Hodges, secondo cui la Russia si starebbe «preparando per la guerra», con «ministeri già mobilitati». Nulla di inevitabile, per ora, «ma Mosca si sta preparando per questa evenienza». Lo spiegamento delle truppe da combattimento Usa, osserva Stern, fa parte della preparazione della Nato per una possibile guerra contro la Russia, «il culmine di una continua espansione della Nato verso est», in aperta violazione degli storici accordi conclusi con Gorbaciov in cambio del ritiro dell’Urss dall’Est Europa. Evidente l’altra guerra, sotterranea, in corso a Washington: mentre Trump scoraggia il futuro della Nato in chiave anti-russa, il senatore John McCain (fotografato tempo fa in Siria con il “Califfo” Abu-Bark Al-Baghdadi) ha appena visitato gli Stati Baltici per rassicurarli sul fatto che il supporto degli Stati Uniti continuerà. In un’intervista alla radio dell’Estonia, McCain ha chiesto un ulteriore rafforzamento delle forze Nato contro la Russia. E ha dichiarato che ogni «membro credibile» del Congresso americano vede il presidente russo Vladimir Putin «per quello che è», ovvero «un delinquente, un prepotente e un agente del Kgb».Nella pericolosa escalation nei confronti della potenza nucleare Russia, che pone le premesse per una Terza Guerra Mondiale, la Bundeswehr ha un ruolo centrale, osserva Stern: «Senza il supporto delle forze armate tedesche non possiamo andare da nessuna parte», ha affermato il generale Hodges. E il generale Peter Bohrer, vicecapo del Joint Support Service, è d’accordo: «In passato la Germania era uno Stato di frontiera, oggi siamo una zona di transito ed uno dei compiti-chiave è fornire un comune supporto». Aggiunge Stern, con un occhio alla storia: «La Germania, che avanzò sull’Europa dell’Est nella sua guerra di sterminio 75 anni fa, si prepara a mandare truppe da combattimento nei paesi baltici». In un’intervista al giornale militare “Bundeswehr Aktuell”, il generale Volker Wieker ha confermato che la Germania ha concordato con Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna al summit della Nato tenutosi a Varsavia di «prendere il comando con chi formasse un gruppo di battaglia». Si conta di «acquisire la cosiddetta “capacità operativa completa” per la metà dell’anno”». Un video riportato dal “Frankfurter Allgemeine Zeitung” mostra le manovre di un battaglione tedesco a Grafenwöhr, contro «un attacco nemico al confine russo-lituano». Ancora pochi giorni, per capire se Trump – qualora riuscisse a insediarsi davvero nello Studio Ovale – spegnerà rapidamente l’incendio.La notizia ha dell’incredibile, ma è vera: per la stampa tedesca, stiamo assistendo alla più grande operazione di riposizionamento dell’esercito Usa in Germania dal 1990. «Più di 2.000 carri armati, obici, jeep e automezzi stanno per essere impiegati nelle esercitazioni Nato nell’Europa dell’Est che dureranno nove mesi», scrive Johannes Stern. Lo stato maggiore della Bundeswehr conferma: colossale dislocazione di forze Usa e Nato in Polonia e negli Stati baltici, proprio mentre Obama tenta – anche con la “guerra delle spie” – di incendiare la frontiera orientale, alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump, ostacolato in ogni modo. La situazione starebbe precipitando, dopo l’impegno della Russia per la liberazione di Aleppo, a lungo ostaggio di milizie “Isis” capeggiate da leader del Caucaso e dai combattenti di Al-Nusra, altrimenti detta “Al-Qaeda in Siria”, formazione creata, protetta e armata dall’intelligence occidentale. Persa la Siria, ora si enfatizza l’operazione “Atlantic Resolve”, spettacolare (e pericolosa) provocazione alle frontiere con la Russia, cui Obama non perdona l’aver reagito al golpe americano in Ucraina mantenendo il controllo della Crimea.
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Lo squallore di Obama, il bugiardo più pericoloso del mondo
Eh sì, ora potete verificare di persona che tipo di persona sia Barack Obama. E soprattutto potete rendervi conto di quanto importante e destabilizzante sia stata la vittoria di Trump, che ha posto fine a un lunghissimo periodo di potere esercitato da un gruppo élitario – neoconservatore ma non solo – che, ha dominato Washington, rovinando sia gli Usa sia il mondo. Circa tre settimane fa in un’intervista al blog di Beppe Grillo affermavo che l’establishment di Obama, che aveva le sue radici strategiche e ideologiche nell’amministrazione Bush, avrebbe fatto di tutto per mettere in difficoltà o addirittura impedire l’elezione di Trump. Avete visto cos’è successo negli Stati Uniti: manifestazioni di piazza, riconteggio dei voti in alcuni Stati, pressioni senza precedenti sui Grandi Elettori affinché rinnegassero il voto popolare. Tutto inutile, per fortuna. Per fermare Trump restano solo due modi: un colpo di stato parlamentare o l’eliminazione fisica. Entrambi non ipotizzabili, al momento.La reazione scomposta di Obama in questi giorni, però, non rivela solo la stizza di un presidente uscente e la scarsa caratura di un uomo ampiamente sopravvalutato, evidenzia soprattutto la frustrazione di un clan che vede svanire il perseguimento dei propri obiettivi strategici. Infatti: gli Usa hanno perso la guerra in Siria, combattuta la fianco dei peggiori gruppi fondamentalisti. Nessun rappresentante dell’establishment uscente è stato eletto nei posti chiave dell’amministrazione Trump. La globalizzazione e il continuo smantellamento delle sovranità nazionali non sono più garantite, anzi rischiano di essere fermate da Trump che crede nei valori e negli interessi nazionali. L’obiettivo di conquistare il controllo dell’Eurasia, facendo cadere Putin, sostituendolo con un presidente filomaericano, è fallito; Putin oggi è più forte che mai. Persino Israele, che si è subito allineata a Trump, è diventata ostile. Il via libera alla Risoluzione Onu rappresenta un’inversione a “U” clamorosa e dai chiari intenti punitivi.Le ultime decisioni dell’amministrazione Obama segnalano il tentativo di far deragliare il nuovo corso di Trump o perlomeno di metterlo in fortissima difficoltà sia con Israele, sia, soprattutto, con la Russia. La speranza segreta della Casa Bianca era che Putin potesse cedere a una reazione impulsiva, tale da mettere davvero in imbarazzo Trump. E invece il presidente russo ha tenuto i nervi a posto. Anzi ha dato a Obama l’ennesima lezione di stile, rifiutandosi di espellere a propria volta 35 diplomatici americani. Le nuove sanzioni e l’espulsione di 35 diplomatici russi sono comunque un colpo basso, tale da provocare tensioni con il Congresso, ma non così gravi da far desistere Trump dall’avviare un nuovo corso con Putin. Quanto alle accuse di ingerenze russe nel voto americano sono risibili, pretestuose. Quel che conta, alla fine di un incredibile 2016, è la sostanza. Ovvero: il clan che ha governato l’America per almeno 16 anni lascia per la prima volta il potere. E chi si è opposto, dentro e fuori gli Usa, a politiche egemoniche autenticamente neoimperiali trova motivi di speranza. Ed è un’ottima notizia per il mondo.(Marcello Foa, “Che squallore Obama! Ora capite che uomo è (e perché Trump fa tanta paura)”, dal blog “Il Cuore del Mondo” su “Il Giornale” del 30 dicembre 2016).Eh sì, ora potete verificare di persona che tipo di persona sia Barack Obama. E soprattutto potete rendervi conto di quanto importante e destabilizzante sia stata la vittoria di Trump, che ha posto fine a un lunghissimo periodo di potere esercitato da un gruppo elitario – neoconservatore ma non solo – che, ha dominato Washington, rovinando sia gli Usa sia il mondo. Circa tre settimane fa in un’intervista al blog di Beppe Grillo affermavo che l’establishment di Obama, che aveva le sue radici strategiche e ideologiche nell’amministrazione Bush, avrebbe fatto di tutto per mettere in difficoltà o addirittura impedire l’elezione di Trump. Avete visto cos’è successo negli Stati Uniti: manifestazioni di piazza, riconteggio dei voti in alcuni Stati, pressioni senza precedenti sui Grandi Elettori affinché rinnegassero il voto popolare. Tutto inutile, per fortuna. Per fermare Trump restano solo due modi: un colpo di stato parlamentare o l’eliminazione fisica. Entrambi non ipotizzabili, al momento.
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Golpe Usa: stanno cercando di rubare la vittoria a Trump
L’arte della menzogna sembra ormai la vera specialità di Barack Obama. E ora è ufficiale: sta tentando di rovesciare Donald Trump, cancellando il verdetto delle urne. Pressioni inaudite sui “grandi elettori”, riuniti il 19 dicembre a Washington per confermare l’elezione del presidente, rischiano di trasformare «una formalità, una tranquilla giornata di democrazia» in una sorta di colpo di Stato, avverte Marcello Foa, citando uno dei più autorevoli commentatori americani, Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan. Craig Roberts denuncia apertamente il tentativo di golpe attraverso la Cia, che nei giorni scorsi ha fabbricato il caso delle presunte infiltrazioni di hacker russi nelle elezioni statunitensi, come documenta Michael Snyder, che denuncia l’assedio a cui lo staff di Obama e Hillary sta sottoponendo i parlamentari chiamati a ratificare il risultato elettorale. Un clima inaudito, dice Foa, confermato anche dal “Washington Post”: «I grandi elettori di ogni Stato, che dovrebbero semplicemente ribadire il risultato delle urne, stanno ricevendo incredibili pressioni al fine di indurli a non votare per Trump», definito un nemico dell’America al soldo dei russi.«Sono letteralmente bombardati di email e di telefonate in cui si evidenzia la pericolosità di Trump e in cui vengono evidenziati i rischi dell’America», scrive Foa sul “Giornale”, «mentre la Cia, l’Fbi e ovviamente Obama continuano a denunciare le interferenze russe nell’elezione nel tentativo, vano, di dimostrare che l’elezione non era regolare». Tentativo vano, insiste Foa, perché fino ad oggi non è stata presentata alcuna prova. Il significato della manovra, senza precedenti, è fin troppo chiaro: «Le élite globaliste che hanno governato l’America e indirettamente il mondo occidentale, stanno per uscire dalla stanza dei bottoni, visto che il magnate non ha piazzato i loro uomini nei dicasteri chiave», sottolinea Foa. «Quell’élite sta tentando di tutto per impedire che Trump entri davvero alla Casa Bianca e ribalti la politica estera e di sicurezza perseguita finora, a cominciare dai rapporti con la Russia e dalla lotta all’Isis, e corregga quella sulla globalizzazione incentivando la riscoperta di un “patriottismo imprenditoriale” sugli investimenti e sui posti di lavoro».Attenzione: quel che sta avvenendo in queste ore «è gravissimo ed è assolutamente incompatibile con i principi democratici», aggiunge Foa. «Speriamo che i “grandi elettori” non si lascino suggestionare», perché «se davvero Trump venisse rovesciato prima ancora di entrare in carica, gli Stati Uniti perderebbero qualunque legittimità di fronte al proprio popolo e al mondo». Alle élite importa poco? «A noi sì, tantissimo». Impressionante il succedersi degli eventi, nella ricostruzione che lo stesso Michael Snyder fornisce su “The Economic Collapse”, in un post ripreso da “Megachip”: «Donald Trump potrebbe ritrovarsi legalmente derubato della sua elezione il 19 dicembre, quando il collegio elettorale esprimerà il proprio voto, oppure il 6 gennaio, quando il Congresso si riunirà in seduta plenaria per contare questi voti». In questo momento, scrive Snyder, «gli apparati di potere sono nel panico completo e sembrano essersi accordati sul fatto che “l’interferenza russa nelle elezioni” sarà il pretesto che si propongono di utilizzare per cercare di sottrarre la presidenza a Trump».Obiettivo dei “golpisti”: «Convincere i membri del collegio elettorale, che dovrebbero essere vincolati al voto per Trump, affinché diano invece la loro preferenza a qualcun altro». E se questo non dovesse funzionare, «si sono già poste le basi affinché i voti del collegio elettorale possano essere potenzialmente invalidati quando il Congresso si riunirà in seduta plenaria per contare questi voti, il 6 gennaio». Un gruppo di 10 grandi elettori, scrive Snyder, ha già inviato una lettera al direttore della National Intelligence, James Clapper, chiedendo di «essere informati sui tentativi russi per interferire nelle elezioni di novembre». Questo gruppo è capeggiato dalla figlia di Nancy Pelosi, Christine. Inoltre, l’entourage della Clinton sta pubblicamente sostenendo la necessità che i membri del collegio elettorale vengano sottoposti ad un “briefing di intelligence” sulle interferenze russe, prima del loro voto. E il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, ha affermato che «Donald Trump ha chiesto alla Russia di hackerare i suoi oppositori», e ha quindi «beneficiato della malevola attività cibernetica dei russi». Come se non bastasse, il leader della maggioranza al Senato, Mitch McConnell, ha annunciato che è favorevole ad una indagine «sull’interferenza elettorale russa», che sarebbe apprezzata dai senatori Chuck Shumer, Jack Reed, John McCain e Lindsey Graham, a detta degli interessati.Stesso improvviso attimismo alla Camera: il deputato David Cicilline ha esortato i “grandi elettori” a prendere in considerazione, prima di esprimere il loro voto, «l’entità delle interferenze straniere nelle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, che potrebbero averne influenzato il risultato finale». E il collega Jim Himes ha definito Donald Trump «un pericolo per la repubblica». La rivista “Time”, aggiunge Snyder, sta apertamente facendo pressioni sui membri del collegio elettorale affinché votino per qualcun altro. E l’ex direttore generale della Cia «ha baldanzosamente dichiarato che i tentativi russi di alterare il risultato delle elezioni presidenziali di novembre sono stati “l’equivalente politico dell’11 Settembre”». Non è tutto: Bob Baer, ex agente della Cia, ha parlato di recente alla “Cnn” dove ha pubblicamente chiesto nuove elezioni se, a causa delle interferenze russe, fosse provata l’illegittimità della prima votazione. Un altro “ex operativo” della Cia e già candidato presidenziale, Evan McMullin, ha affermato che Trump «non è un americano leale», perché i suoi orientamenti non sono abbastanza anti-russi.Nella contesa si schiera anche l’“Huffington Post”, che «sta spacciando una decisione della Corte federale, risalente al 1995, come un precedente che potrebbe essere usato per sottrarre la presidenza a Donald Trump ed offrirla ad Hillary Clinton, se un tribunale scoprisse che le interferenze russe hanno alterato il risultato elettorale». Il responsabile per le comunicazioni di Hillary Clinton, Jennifer Palmieri, ha dichiarato che «uno Stato straniero» ha cercato di penetrare nel suo account Gmail qualche giorno prima delle elezioni. Lo stesso Obama, infine, ha ordinato all’intelligence di raccogliere tutte le prove possibili sulle interferenze elettorali russe e di consegnare a lui le suddette prove prima del termine del suo mandato. «La maggior parte dei sostenitori di Trump non si rende conto di quanto tutto questo sia serio», aggiunge Snyder. «Il potere in carica odia Trump nel modo più assoluto e vuole trovare un modo per impedire il suo insediamento». In altre parole: «Vogliono una giustificazione per poter negare la presidenza a Donald Trump e per questo stanno trasformando questa “interferenza russa sulle elezioni” in un problema, il più grosso possibile». Il che è anche ridicolo, come ha puntualizzato Paul Joseph Watson, che dice: «Noi per primi abbiamo interferito con elezioni straniere per molti, molti anni».«Non è affatto divertente – continua Watson, rivolto ai “golpisti” – che tutti voi democratici, che vi lamentate delle influenze straniere, non abbiate avuto obiezioni di sorta sul fatto che l’Arabia Saudita finanziasse la campagna elettorale della Clinton. Non avevate problemi a prendere tutti quei soldi da George Soros, vero? Non avevate problemi con il Dipartimento di Stato di Obama che rovesciava il governo dell’Ucraina. Non avevate problemi con l’interferenza di Obama nel referendum del Regno Unito sulla permanenza nell’Ue». Una cosa è certa: l’establishment battuto a novembre farà davvero di tutto per scippare la vittoria di Trump. Se fosse possibile convincere 37 “grandi elettori” repubblicani a votare per qualcun altro, piuttosto che per Trump, questo rimanderebbe la questione alla Camera dei Rappresentanti, «e non è chiaro che cosa farebbe questo ramo del Parlamento in un simile scenario», scrive Snyder. «Se Trump non fosse fermato a livello di collegio elettorale, c’è però la possibilità che possa venir sabotato quando il Congresso si riunirà in sessione plenaria, il 6 gennaio, per la conta dei voti elettorali». Di fronte a obiezioni scritte sui voti di singoli Stati, il Parlamento sarà chiamato a pronunciarsi in mondo vincolante. Annullando le elezioni? «Non so se questo succederà», dice Snyder. Ma, «se Donald Trump fosse derubato del risultato elettorale, la cosa getterebbe probabilmente l’intera nazione nel caos». Scenario possibile? Assolutamente sì: «Penso che, a questo punto, le élites preferirebbero rischiare il tutto e per tutto, pur di tenere Donald Trump fuori dalla Casa Bianca».L’arte della menzogna sembra ormai la vera specialità di Barack Obama. E ora è ufficiale: sta tentando di rovesciare Donald Trump, cancellando il verdetto delle urne. Pressioni inaudite sui “grandi elettori”, riuniti il 19 dicembre a Washington per confermare l’elezione del presidente, rischiano di trasformare «una formalità, una tranquilla giornata di democrazia» in una sorta di colpo di Stato, avverte Marcello Foa, citando uno dei più autorevoli commentatori americani, Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan. Craig Roberts denuncia apertamente il tentativo di golpe attraverso la Cia, che nei giorni scorsi ha fabbricato il caso delle presunte infiltrazioni di hacker russi nelle elezioni statunitensi, come documenta Michael Snyder, che denuncia l’assedio a cui lo staff di Obama e Hillary sta sottoponendo i parlamentari chiamati a ratificare il risultato elettorale. Un clima inaudito, dice Foa, confermato anche dal “Washington Post”: «I grandi elettori di ogni Stato, che dovrebbero semplicemente ribadire il risultato delle urne, stanno ricevendo incredibili pressioni al fine di indurli a non votare per Trump», definito un nemico dell’America al soldo dei russi.