Archivio del Tag ‘Confindustria’
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Politici-spazzatura e catastrofe, qualcuno lo spieghi ai media
Una delle cause strutturali per cui la crisi europea ha colpito l’Italia più di altri paesi sono le sue antiche carenze quanto a istruzione e ricerca e sviluppo (R&S). In vista di una transizione a un diverso modello produttivo e occupazionale sarebbe essenziale aumentare in misura considerevole la spesa pubblica per la scuola secondaria e l’università. Con il 22% dei diplomati contro una media del 36 per l’intera Ue, l’Italia occupa l’ultimo posto in tale classifica. È una percentuale scandalosamente bassa; e ancora più scandaloso è il fatto che dinanzi all’obbiettivo proposto dalla Commissione Europea di raggiungere il 40% entro il 2020 come media Ue, uno dei nostri recenti governi abbia risposto che l’Italia punta nientemeno che al 27%. Dati analoghi valgono per i laureati. L’obiezione per cui diplomare o laureare un maggior numero di giovani non serve allo sviluppo, o è addirittura un danno, perché tanto non trovano lavoro, è priva di senso. I giovani non trovano lavoro perché non esistono politiche economiche capaci di creare nuovo lavoro nel momento in cui il lavoro tradizionale scompare.Anche in tema di R&S siamo messi male. Tra i 32 paesi Ocse l’Italia occupa il penultimo posto quanto a spesa in R&S, con un misero 1,25% tra pubblico e privato. Le statistiche delle richieste di brevetto depositate presso l’Ufficio Brevetti europeo, che vedono l’Italia in coda ai maggiori paesi Ue sia quanto a numero sia quanto a contenuto tecnologico, riflettono tale povertà di spesa. Come minimo occorrerebbe raddoppiare quest’ultima nel più breve tempo possibile. Di fronte ai problemi sopra richiamati, alla pericolosità della crisi Ue, ed alla addizionale gravità di quella italiana, il governo Renzi non esiste. Non che, per ora, le opposizioni offrano gran che di meglio. Moltiplicare invettive contro il dominio della finanza, oggi ben rappresentato dall’euro, non serve: anche il “Mein Kampf” ne era pieno (dieci anni dopo, non a caso, il suo autore giunto al potere impiegò poche settimane per accordarsi con la grande finanza).Il dominio bisogna prima seriamente studiarlo, per poi smontarlo pezzo per pezzo con strumenti politici e legislativi appropriati. Né serve a molto inveire contro la casta. Una volta stabilito che si tratta di una intera classe politica che ha fatto da decenni il suo tempo, nonché di buona parte della classe imprenditoriale, si tratta di sostituirla con una classe avente una concezione del mondo diversa e opposta, che sappia amministrare il paese e ogni sua parte in nome dei diritti al lavoro e del lavoro; dell’uguaglianza (in una economia dove gli amministratori delegati guadagnino magari 50 volte i loro dipendenti e facciano bene il loro mestiere invece di guadagnare 500 volte e farlo male); dei beni comuni da sottrarre alle privatizzazioni; di una economia che non distrugga l’ambiente nel quale dovrebbero vivere e prosperare i nostri discendenti.Allo scopo di far emergere dal paese, che da più di un segno appare in grado di farlo, una nuova classe dirigente all’altezza del compito, occorrono i voti. Per moltiplicare i voti necessari occorre che il maggior numero possibile di elettori comprenda qual è l’enormità della posta in gioco, in Italia come nella Ue, e la relativa urgenza. E se è vero che l’opinione politica si forma per la massima parte sotto l’irradiazione dei media, è di lì che bisogna partire. Supponendo che la traccia proposta sopra sia qualcosa di assimilabile a uno schema di programma politico a largo raggio, bisognerebbe quindi avviare una campagna di comunicazione estesa, incessante, capillare, volta a mostrare che la rappresentazione che il governo e i media fanno di quanto avviene è una deformazione della realtà, e poco importa se non è intenzionale. Insistendo su pochi punti essenziali, siano essi quelli qui indicati o altri – purché siano pochi e di peso analogo. Lo scopo è semplice: ottenere che alle prossime elezioni parecchi milioni di cittadini votino per una società migliore di quella verso cui stiamo rotolando, a causa dei nostri governi passati e presenti, non meno che della deriva programmata della Ue verso una oligarchia ottusa quanto brutale.(Luciano Gallino, estratto da “Europa: la crisi è strutturale, la soluzione è politica”, intervento pubblicato sul sito della Fiom-Cgil il 21 luglio 2015).Una delle cause strutturali per cui la crisi europea ha colpito l’Italia più di altri paesi sono le sue antiche carenze quanto a istruzione e ricerca e sviluppo (R&S). In vista di una transizione a un diverso modello produttivo e occupazionale sarebbe essenziale aumentare in misura considerevole la spesa pubblica per la scuola secondaria e l’università. Con il 22% dei diplomati contro una media del 36 per l’intera Ue, l’Italia occupa l’ultimo posto in tale classifica. È una percentuale scandalosamente bassa; e ancora più scandaloso è il fatto che dinanzi all’obbiettivo proposto dalla Commissione Europea di raggiungere il 40% entro il 2020 come media Ue, uno dei nostri recenti governi abbia risposto che l’Italia punta nientemeno che al 27%. Dati analoghi valgono per i laureati. L’obiezione per cui diplomare o laureare un maggior numero di giovani non serve allo sviluppo, o è addirittura un danno, perché tanto non trovano lavoro, è priva di senso. I giovani non trovano lavoro perché non esistono politiche economiche capaci di creare nuovo lavoro nel momento in cui il lavoro tradizionale scompare.
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Mazziati e contenti, come vuole l’industria della felicità
I padroni non vogliono dai loro subalterni solo quello che riescono a estorcere con il lavoro, ne pretendono anche l’anima. Poco importa se le condizioni lavorative stanno ormai retrocedendo a forme ottocentesche. Le scienze sociali, arruolate alle esigenze dell’impresa, da tempo rilevano come in tempi di crisi sia necessario che i lavoratori e i consumatori vendano la propria anima – e non solo la forza lavoro e i loro redditi – al mercato. Si chiama Happyness Industry, l’industria della felicità. Diffondere ottimismo nella società e sentimenti positivi dentro le imprese sta diventando uno strumento indispensabile per far ripartire l’economia in quei paesi a capitalismo avanzato che hanno subìto più duramente le torsioni dell’ultima fase della crisi capitalistica. E’ interessante quanto riporta su questo tema un ampio servizio de “La Repubblica”, che pure è un giornale di prima linea dentro questo meccanismo. Il saggio del sociologo britannico William Davis descrive come «le aziende oggi stanno investendo così tante risorse nel renderci felici che chi non si mostra entusiasta di tutto ciò viene visto come un sabotatore da tenere d’occhio».In alcune selezioni aziendali, ad esempio, se ne colpisce uno per educarne nove a mostrarsi felici del lavoro chiamati a svolgere. Chi fa il musone viene licenziato o non assunto. Non solo. E’ stata istituita la figura dirigenziale dell’addetto alla felicità dei dipendenti – lo Chief Happyness Officer – uno che deve saper fare squadra, mettere il naso nella loro vita privata e assicurare che il clima aziendale non accumuli in modo pericoloso focolai di malumore che possono diventare altro. Questa ennesima diavoleria di derivazione anglosassone è stata importata anche in Italia. Prima come forma della pubblicità e adesso come modello di governance da parte di Renzi e del suo stuolo di ladylike e goldenboys. A fare dell’ottimismo un veicolo pubblicitario, non a caso, è uno dei “prenditori amici” più ascoltati da Renzi: Oscar Farinetti. Suo era stato l’uso dello scrittore romagnolo Tonino Guerra per la pubblicità della sua Unieuro all’insegna dell’ottimismo. Ereditata dal padre Paolo Farinetti, la catena di elettrodomestici Unieuro è stata gestita dal figlio, Oscar appunto, dal 1978 al 2003. Poi fu venduta ad una società britannica. Gli slogan e gli spot sull’ottimismo iniziano nel 2001.Una volta che Renzi “è stato messo lì”, come ebbe a dire Marchionne, Farinetti è diventato quasi una musa ispiratrice del premier, il quale infatti se la prende con i gufi, i piagnoni, i pessimisti mentre lui ostenta con fare da piazzista risultati positivi smentiti dai fatti. In compenso realizza la tabella di marcia voluta da Confindustria e banche su ogni aspetto: dall’abolizione dell’articolo18 alla aziendalizzazione della scuola, dal decreto “Sblocca Italia” alla destrutturazione dell’amministrazione pubblica. Declinare in ogni conferenza stampa, Twitter o dichiarazione che «le cose stanno andando bene, cieco è solo chi non le vede» – potendo contare su un servilismo dei mass media che fa rimpiangere Berlusconi – è un modo di “fare produttività”. O almeno di comunicare che la produttività c’è anche se non si può vedere. Ma se poi la gente non ci crede perchè non vede? Scatta allora la demonizzazione e la malevolenza pubblica che addita chi osa dire le cose come stanno: disfattista, gufo, antitaliano. Un linguaggio che somiglia sempre più a quello del regime fascista. La felicità e l’ottimismo non devono più essere categoria dell’anima, ma comportamenti da omologare. Il bicchiere deve essere sempre visto come mezzo pieno, anche quando è quasi completamente vuoto.Vengono in mente le parole di una canzone resa nota da Dario Fo ed Enzo Jannacci: “E sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re; fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam!”. Oggi, purtroppo, molte lavoratrici e molti lavoratori resistono a questa arroganza padronale e governativa che non ha precedenti nel dopoguerra solo con lo “sciopero del cuore”. Accettano la situazione e, nella migliore delle ipotesi ricorrono alla “egreferenza”, cioè alla negazione della deferenza verso il padrone e i suoi pagliacci. Questi ultimi se ne sono accorti e sanno bene che quando si accumulano sentimenti ostili, anche se non manifesti, prima o poi possono ridiventare odio di classe e allora finisce la (loro) festa. Per questo hanno messo in moto gli scienziati sociali per imprigionare anche l’anima e non solo le condizioni di vita delle classi subalterne. La felicità, quando diventa fenomeno genuino e collettivo, non può essere messa in vendita come una merce, neanche nei divertimentifici artificiali o nelle politiche aziendali. Il rumore di fondo che ancora non diventa rabbia organizzata tra la nostra gente va coltivato e ben orientato. Dilatare questa contraddizione, trasformare lo sciopero del cuore in conflitto sociale, connetterlo e coordinarlo, rimane la convinta ragione di esistenza di questo giornale.(Sergio Cararo, “L’industria della felicità”, da “Contropiano” del 5 agosto 2015).I padroni non vogliono dai loro subalterni solo quello che riescono a estorcere con il lavoro, ne pretendono anche l’anima. Poco importa se le condizioni lavorative stanno ormai retrocedendo a forme ottocentesche. Le scienze sociali, arruolate alle esigenze dell’impresa, da tempo rilevano come in tempi di crisi sia necessario che i lavoratori e i consumatori vendano la propria anima – e non solo la forza lavoro e i loro redditi – al mercato. Si chiama Happyness Industry, l’industria della felicità. Diffondere ottimismo nella società e sentimenti positivi dentro le imprese sta diventando uno strumento indispensabile per far ripartire l’economia in quei paesi a capitalismo avanzato che hanno subìto più duramente le torsioni dell’ultima fase della crisi capitalistica. E’ interessante quanto riporta su questo tema un ampio servizio de “La Repubblica”, che pure è un giornale di prima linea dentro questo meccanismo. Il saggio del sociologo britannico William Davis descrive come «le aziende oggi stanno investendo così tante risorse nel renderci felici che chi non si mostra entusiasta di tutto ciò viene visto come un sabotatore da tenere d’occhio».
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Lavoratori sotto minaccia, eccoci nel fascismo aziendale
Il quotidiano “Il Sole 24 Ore” anticipa i contenuti del decreto sul demansionamento, che il governo si prepara a varare. «Non è una notizia – afferma Giorgio Cremaschi – perché è oramai scontato che gli esperti ministeriali di Renzi e Poletti operino sotto la dettatura dei tecnici della Confindustria», il cui quotidiano «ci comunica la gioia delle imprese e dei loro uffici legali per il fatto di poter finalmente fare tutto ciò che era proibito dall’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori, senza dover incorrere in costose e spesso perdenti azioni legali». Un regalo ai profitti d’impresa, ai danni dei diritti e del salario dei lavoratori. Di fatto, «una sanatoria per tutti gli abusi ai danni della professionalità delle persone», e cioè «la licenza di mobbizzare e ricattare». Questa, per Cremaschi, «l’infamia di un provvedimento che realizza un altro sogno della Confindustria e produrrà incubi per chi deve subire il potere dell’impresa», amche perché ora «si potrà degradare il lavoratore per ragioni tecniche e organizzative, cioè quando al padrone serve».In teoria, scrive Cremaschi su “Micromega”, il salario dovrebbe rimanere lo stesso, ma senza le indennità. E un operaio montatore che fa i turni o va in trasferta potrà essere degradato a facchino nei magazzini e si vedrà ridotta la paga del 30%. I lavoratori licenziati per ragioni economiche? Potranno conciliare con l’azienda se accettano di riprendere a lavorare a mansione inferiore. «Questo è proprio il corollario che mancava al contratto senza articolo 18. Una misura che farà risparmiare alle imprese sull’indennità di licenziamento, rispondendo chiaramente ad un calcolo preciso degli uffici studi confindustriali». Come si sa, aggiunge Cremaschi, gli incentivi di 8.000 euro all’anno – che sono alla base delle assunzioni, secondo il Jobs Act – presto finiranno. «A quel punto le imprese si troveranno lavoratori licenziabili sì, ma pagando una indennità. Se però quei lavoratori verranno licenziati e poi riassunti con il demansionamento, l’indennità la pagherà il lavoratore con la qualifica più bassa, e per l’impresa sarà come se gli incentivi continuassero».Infine, conclude Cremaschi, se il padrone può degradare quando vuole, il lavoratore non può rivendicare la promozione. Con l’articolo 13 dello Statuto, se si operava per 3 mesi in mansioni superiori si aveva diritto alla qualifica corrispondente. Con il demansionamento, invece, bisognerà aspettare il doppio del tempo, salvo accordi peggiorativi nei contratti. «Insomma, dopo il diritto alla tutela contro il licenziamento ingiusto salta anche quello alla qualifica, e in ogni azienda le direzioni potranno fare di tutto ai propri sottoposti. E questo è il risultato più importante per i padroni: la licenza di mobbing. Le minacce di licenziamento o degradazione in molti caso saranno sufficienti per imporre di lavorare di più e peggio senza chiedere nulla. Il sadismo di certi capi e capetti avrà piena possibilità di dispiegarsi». Inutile girarci attorno: «Quando si dice che quello di Renzi e del suo sponsor Marchionne è fascismo, per ora aziendale, non si esagera: si descrive semplicemente quello che si sta giuridicamente realizzando misura dopo misura con il Jobs Act».Il quotidiano “Il Sole 24 Ore” anticipa i contenuti del decreto sul demansionamento, che il governo si prepara a varare. «Non è una notizia – afferma Giorgio Cremaschi – perché è oramai scontato che gli esperti ministeriali di Renzi e Poletti operino sotto la dettatura dei tecnici della Confindustria», il cui quotidiano «ci comunica la gioia delle imprese e dei loro uffici legali per il fatto di poter finalmente fare tutto ciò che era proibito dall’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori, senza dover incorrere in costose e spesso perdenti azioni legali». Un regalo ai profitti d’impresa, ai danni dei diritti e del salario dei lavoratori. Di fatto, «una sanatoria per tutti gli abusi ai danni della professionalità delle persone», e cioè «la licenza di mobbizzare e ricattare». Questa, per Cremaschi, «l’infamia di un provvedimento che realizza un altro sogno della Confindustria e produrrà incubi per chi deve subire il potere dell’impresa», amche perché ora «si potrà degradare il lavoratore per ragioni tecniche e organizzative, cioè quando al padrone serve».
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Kultura italiana in Italia, benvenuti nel chiasso del nulla
Kultura italiana in Italia = ultimo modello di smartphpone; ultimo modello di tablet; ultimo modello di app; ultimo modello di televisore; ultimo modello di auto; lavare l’auto col detersivo nel cortile di casa; squadra di calcio, comprensiva di allenatore, presidente e bilancio; Tg1; Tg5; la cronaca nera; Renzusconi; il Bunga Bunga; l’evasione fiscale; le escort; le veline; la moglie trofeo; la fidanzata trofeo; l’accompagnatrice trofeo; la segretaria trofeo; la presentatrice trofeo; le ministre trofeo; Maria De Filippi; Antonella Clerici; Carlo Conti; il film di Natale; il Papa santo; il presidente della Repubblica santo; tutti i santi metropolitani e regionali; la messa della domenica mattina; le bestemmie; il presidente del Consiglio cantastorie; Matteo Salvini; le brave persone che seguono Matteo Salvini; il famoso presentatore televisivo scrittore; il famoso politico scrittore; il famoso attore scrittore; il famoso calciatore scrittore; il famoso cuoco scrittore; il famoso giornalista scrittore; il famoso scrittore scrittore;Dolce & Gabbana; la parrucchiera; l’estetista; fare footing parlando al alta voce; i Tq; il festival di Sanremo; Sky; i giochi on-line; i telequiz; Luciano Ligabue; Laura Pausini; Andrea Bocelli; Giovanni Allevi; Fabio Volo; Il Volo; l’aperitivo; tutto ciò che è mangereccio, preferibilmente a base di salumi, vino bianco e fritti; Carlo Cracco; il nouveau ragu à l’italienne: col cioccolato, il cotechino fritto nell’Amaretto di Saronno, la marmellata fritta nello strutto, la salsiccia fritta nel miele, l’aglio fritto nel patchouli; la Confindustria; la Confcommercio; la Confagricoltura; l’Asppi; l’Uppi; l’Abi; la Confapi; gli affitti in nero; il lavoro nero; il commercio in nero; la Mafia; i tatuaggi; i telefilm americani; i film americani; gli attori americani; i cantanti americani; gli atleti americani; i poliziotti americani; i soldati americani; i serial killer americani; gli adolescenti americani; i wasp americani; i negri americani;i bambini canterini in televisione; i bambini in pubblicità; i bambini nei telefilm; i bambini nella fame nel mondo; i pianti in televisione; gli abbandoni in televisione; le confessioni in televisione; gli amori in televisione; i giuramenti in televisione; i contratti in televisione; gli insulti in televisione; gli insulti alle donne; gli insulti; i gesti osceni mentre si guida l’auto; la polizia; i carabinieri; i due marò; parcheggiare sulle strisce pedonali; parcheggiare sul marciapiede; parcheggiare sulla pista ciclabile; andare con la moto sulla pista ciclabile; andare con la moto nel parco pubblico; gli abusi edilizi; gli abusi finanziari; le discariche abusive di rifiuti; i condoni; le deroghe; l’emergenza; la crisi; la crescita; che cazzo menefregaammé; la Spending Review.Kultura italiana in Italia 2 = gli annunci patacca. E’ costume consolidato da parte dei centri di potere lanciare annunci forti, spettacolari, e reiterarli per un tempo sufficiente a farli entrare a forza nell’Archetipo dell’inconscio collettivo. In questo, il “Presidente del Consiglio” attuale è un maestro assoluto, e ha fatto scuola. Gli annunci vanno ripetuti, con scansioni variabili a seconda delle dinamiche (variabili) a cui si riferiscono. Se sono diretti, cioè recitati dal “ministro” di turno, o addirittura dal “Presidente del Consiglio” in persona, vanno accompagnati da una mimica al contempo rassicurante e autorevole, di chi non è sfiorato dal dubbio, e deve sottendere un agire positivo, “giovane”, energico, e soprattutto liberista, che è una delle grandi passioni della kultura italiana in Italia.Uno degli ultimi, e uno dei più patacca di tutti i pataccari, è stato quello secondo il quale le variazioni catastali conseguenti a interventi edilizi di unità immobiliari siano “tempestivamente inoltrate” direttamente dai comuni all’Agenzia del Territorio (cioè il Catasto), con la fine lavori della pratica edilizia. E’ uno degli articoli del cosiddetto Decreto Sblocca Italia (133/2014), sul quale il “governo” ha puntato molte carte mediatiche: “semplificazione”, lotta alla burocrazia, il fare, il non pagare ecc. Così, i Comuni sono stati inondati da tecnici e da cittadini che chiedevano l’applicazione di questa norma. L’avevano sentito e visto in Tv e in radio, santo cielo! Non si paga, ed è tutto più semplice! “Ci pensa il Comune”. E’ stata una bufala, una norma inapplicabile e inapplicata. A parte problemi molto seri di personale, che i Comuni scontano in seguito ai tagli delle risorse, tra i due enti non esiste un linguaggio informatico condivisibile: l’Agenzia del Territorio usa una piattaforma e una banca dati indisponibili ai comuni. E’ un linguaggio che va costruito, con un grande investimento di tempo e di denaro. Ma cosa interessa ai professionisti degli annunci?Nulla! L’importante è sostituire la realtà con l’annuncio, nutrire certi rancori della popolazione, reiterarlo fino a che è possibile, poi abbandonarlo e sostituirlo con un altro, altrettanto “forte”, enfatico, “giovane” e positivo. Funziona. Il cittadino si accorge che quello precedente si è rivelato una patacca, ma c’è già quello nuovo a riempire gli spazi, a stimolare aspettative. Così lo dimentica presto, mentre resta quel brivido liberista, come traccia, come “segno mondano”, come l’avrebbe definito Deleuze, il segno del vuoto, del nulla, dell’ingannevole, dell’effimero, il segno che passa e va, mentre quello nuovo si fa strada e genera altro vuoto, altri inganni. Così si tira avanti con questa straordinaria complicità tra ingannatori e ingannati, che si basa sul complesso e al tempo stesso primordiale sistema dei segni mondani, il codice non tanto segreto che costituisce il vero, solido e palpitante organo vitale della kultura italiana in Italia.(Mauro Baldrati, “Kultura italian in Italia”, da “Carmilla online” del 21 maggio 2015).Kultura italiana in Italia = ultimo modello di smartphpone; ultimo modello di tablet; ultimo modello di app; ultimo modello di televisore; ultimo modello di auto; lavare l’auto col detersivo nel cortile di casa; squadra di calcio, comprensiva di allenatore, presidente e bilancio; Tg1; Tg5; la cronaca nera; Renzusconi; il Bunga Bunga; l’evasione fiscale; le escort; le veline; la moglie trofeo; la fidanzata trofeo; l’accompagnatrice trofeo; la segretaria trofeo; la presentatrice trofeo; le ministre trofeo; Maria De Filippi; Antonella Clerici; Carlo Conti; il film di Natale; il Papa santo; il presidente della Repubblica santo; tutti i santi metropolitani e regionali; la messa della domenica mattina; le bestemmie; il presidente del Consiglio cantastorie; Matteo Salvini; le brave persone che seguono Matteo Salvini; il famoso presentatore televisivo scrittore; il famoso politico scrittore; il famoso attore scrittore; il famoso calciatore scrittore; il famoso cuoco scrittore; il famoso giornalista scrittore; il famoso scrittore scrittore;
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Il Fmi: precarizzare il lavoro (Jobs Act) affonda l’economia
Renzi bocciato anche dal Fmi: il Jobs Act che penalizza i lavoratori trasformandoli in precari a vita non migliora in alcun modo l’economia. Anche se la Commissione Europea e la Bce di Draghi continuano a raccomandare le “riforme strutturali” e in particolare la deregulation del mercato del lavoro, dopo gli orrori della “austerità espansiva” incarnata da proconsoli come Mario Monti, nel suo “Word Economic Outlook” (aprile 2015) è il Fondo Monetario Internazionale a smentire gli eurocrati: non vi è alcuna evidenza circa un effetto positivo della flessibilità sul potenziale produttivo. «Un’ammissione piuttosto sbalorditiva, se si pensa che la deregolamentazione del mercato del lavoro è sempre stata tra le condizioni dello stesso Fmi per l’assistenza finanziaria, compresa quella ai paesi in crisi dell’Unione Europea», annotano Guido Iodice e Daniela Palma. Secondo il Fmi, gli effetti delle riforme strutturali sulla produttività sono importanti solo se si parla di deregolamentazione del mercato dei beni e dei servizi, di utilizzo di nuove tecnologie e di forza lavoro più qualificata, di maggiore spesa per le attività di ricerca e sviluppo. Al contrario, la deregolamentazione del mercato del lavoro non funziona.Per questo, scrivono Iodice e Palma su “Left”, il Fmi suggerisce alle economie avanzate un costante sostegno alla domanda per «incoraggiare investimenti e crescita del capitale», nonché «l’adozione di politiche e di riforme che possano aumentare in modo permanente il livello del prodotto potenziale». Politiche di segno diametralmente opposte rispetto a quelle attualmente adottate dai vari governi, di centrodestra e centrosinistra, tutti allineati ai diktat austeritari dei grandi padroni del mercato, l’élite finanziaria che impiega i suoi tecnocratici e i suoi politici per condurre la grande privatizzazione colpendo l’economia reale, lavoratori e imprese. Il Fondo Monetario raccomanda politiche diverse, per «coinvolgere le riforme del mercato dei prodotti, dare maggiore sostegno alla ricerca e allo sviluppo e garantire un uso più intensivo di manodopera altamente qualificata», oltre che «di beni capitali derivanti dalle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni». Si richiedono inoltre «più investimenti in infrastrutture per aumentare il capitale fisico» e, infine, «politiche fiscali e di spesa progettate per aumentare la partecipazione della forza lavoro».Secondo Iodice e Palma, «il Fmi arriva buon ultimo, dopo che in moltissimi – anche tra gli economisti mainstream – hanno sottolineato che la “via bassa” alla flessibilità, vale a dire ridurre le garanzie e le tutele e agevolare i contratti precari, è nei fatti un incentivo per le imprese a non innovare, sostituendo il capitale e le tecnologie con più lavoro mal retribuito». In altri termini, «con la flessibilità si indebolisce quel “vincolo interno” che costringe le imprese a trovare modi migliori per produrre, invece che vivacchiare grazie all’abbattimento dei costi della manodopera», come sembra suggerire l’italico Jobs Act creato da Renzi per accontentare la Confindustria. «Nonostante ciò – aggiungono i due analisti di “Left” – l’incrollabile convinzione che una maggiore flessibilità porti ad accrescere la produttività la fa da padrona nel dibattito pubblico. Ma l’idea che la deregolamentazione del mercato del lavoro abbia effetti espansivi nel lungo periodo non è meglio fondata dell’ipotesi – dimostratasi ampiamente fallimentare – che il consolidamento fiscale produca maggiore crescita del Pil».Renzi bocciato anche dal Fmi: il Jobs Act che penalizza i lavoratori trasformandoli in precari a vita non migliora in alcun modo l’economia. Anche se la Commissione Europea e la Bce di Draghi continuano a raccomandare le “riforme strutturali” e in particolare la deregulation del mercato del lavoro, dopo gli orrori della “austerità espansiva” incarnata da proconsoli come Monti e Fornero, nel suo “Word Economic Outlook” (aprile 2015) è il Fondo Monetario Internazionale a smentire gli eurocrati: non vi è alcuna evidenza circa un effetto positivo della flessibilità sul potenziale produttivo. «Un’ammissione piuttosto sbalorditiva, se si pensa che la deregolamentazione del mercato del lavoro è sempre stata tra le condizioni dello stesso Fmi per l’assistenza finanziaria, compresa quella ai paesi in crisi dell’Unione Europea», annotano Guido Iodice e Daniela Palma. Secondo il Fmi, gli effetti delle riforme strutturali sulla produttività sono importanti solo se si parla di deregolamentazione del mercato dei beni e dei servizi, di utilizzo di nuove tecnologie e di forza lavoro più qualificata, di maggiore spesa per le attività di ricerca e sviluppo. Al contrario, la deregolamentazione del mercato del lavoro non funziona.
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Cremaschi: chi spacca vetrine e chi sta sfasciando l’Italia
Le reazioni delle istituzioni, dei mass media e dell’opinione pubblica agli incidenti innescati dai black bloc a Milano per l’inaugurazione dell’Expo «hanno mostrato quanto sia oramai devastato lo spirito democratico in questo paese», nonostante la comprensibile indignazione per le 50 auto incendiate e le 15 vetrine devastate. Quanto accaduto, comunque, non è minimamente paragonabile ad altri disordini in città europee: molto peggiore il bilancio a Francoforte all’apertura della nuova sede della Bce, per non parlare di quello che ormai accade normalmente negli Usa, o della rivolta nelle strade di Rio alla vigilia dei mondiali di calcio. Compassionevoli e comprensivi coi problemi lontani, ma «appena questo disagio è comparso in casa nostra, i più moderati tra i commentatori di palazzo hanno chiesto la legge marziale», osserva Giorgio Cremaschi. «Il peggiore mi è apparso il sindaco di Milano. Il grido di sapore biblico da lui lanciato, “nessuno tocchi Milano”, che cosa vuol dire, che altrove si può? E quando la città è stata devastata da ruberie, tangenti, mafie, disoccupazione, devastazioni ambientali, vetrine a migliaia chiuse in periferia per lo strangolamento della crisi e delle banche, non è stata toccata allora Milano?».Certo, continua Cremaschi su “Micromega”, scendere in piazza in quei frangenti «era più duro e rischioso, magari si sarebbero pestati i piedi a qualche potere forte». Ma la vera indignazione, aggiunge l’ex dirigente sindacale della Fiom, è stata in realtà per l’immagine dell’Expo offuscata dai disordini. “L’Expo dà lavoro”, ha detto rabbioso uno dei pulitori volontari, rivolto a una ragazza coraggiosa che provava a discutere con i cittadini indignati. “Modello Expo” si disse da destra e da sinistra quando Confindustria e istituzioni insieme a Cgil, Cisl e Uil firmarono l’accordo che autorizzava poco lavoro sottopagato e tanto gratuito. “Modello Expo” si aggiunge ora, «quando gli ipocriti della sinistra benpensante e ancora meglio retribuita hanno presentato la fiera come una specie di Social Forum di sei mesi, impegnato a trovare e ricette contro la fame nel mondo». “Modello Expo” ha chiarito Renzi, «celebrando la fiera come occasione di grandi affari, proprio per questo appaltata a quelle multinazionali che, dice Vandana Shiva, affamano il pianeta».L’Expo è una fiera che serve a mostrare quanto è vendibile il nostro paese, il suo ambiente, il suo lavoro: l’Italia è sul mercato, e Expo ne è la vetrina. «Questa è la vera risposta alla crisi che Renzi propone e sulla quale, assieme a tutto il potere economico che lo sostiene, gioca la partita del consenso». Ovvero: «Basta con i vecchi scrupoli, i lacci e lacciuoli che frenano lo sviluppo. Basta con l’articolo 18 e con i vincoli ambientali, ha promesso Renzi alla Borsa. Basta con i diritti, rimbocchiamoci le maniche e mettiamoci al lavoro. E chi pone ostacoli è contro la nazione». Un «messaggio reazionario di massa», che di fatto «ha conquistato un Pd sconfitto e rassegnato nei suoi valori, sottomesso al capitalismo globalizzato e alla ricchezza, ma abbarbicato al potere». Renzi? «E’ la sintesi perfetta di questa storia politica e per questo ridicolizza ogni opposizione interna, così come rende oramai inutile la vecchia destra berlusconiana». Con il Jobs Act, la “buona scuola” e l’Italicum, «il governo ha devastato ciò che restava dei principi e delle regole fondanti la nostra Costituzione: resta solo da cambiare l’articolo uno, sostituendo “lavoro” con “mercato” e “popolo” con “leader”, e poi tutto è fatto».Questa Italia sul mercato è quella che ha assunto l’Expo come bandiera, continua Cremaschi. La maggioranza del paese è d’accordo? «Può essere, ma essa non è tutto e chi è contro non è piccola cosa. Solo che chi non accetta questo modello sociale e politico non ha diritto a veder riconosciute le proprie posizioni. La controriforma costituzionale di Renzi afferma la dittatura della maggioranza, anzi della più grossa minoranza. E sopra questo governo neoautoritario sta il potere delle Troika finanziaria e burocratica che comanda in Europa». La Grecia? «Non può decidere liberamente di non far morire di fame i disoccupati, perché, come si diceva una volta, è un paese a sovranità limitata». Nei fatti, «un potere sempre più chiuso e autoritario è poi sostenuto da un sistema mediatico embedded, come la stampa che seguiva sui carri armati le guerre di Bush». Che gli incidenti abbiano oscurato le ragioni dei manifestanti della Mayday di Milano non è vero, obietta Cremaschi: «Il 28 febbraio in diecimila abbiamo manifestato a Milano contro il Jobs Act e il lavoro gratuito per Expo. Eravamo in gran parte militanti del sindacalismo di base e della corrente di opposizione in Cgil, moltissimi erano i migranti. È stata una manifestazione serena e viva che si è conclusa con una assemblea popolare in piazza S.Babila. Non abbiamo lasciato per terra neppure le carte delle caramelle e siamo stati semplicemente ignorati dal circuito dei mass media». D’altra parte, dove mai ci sono stati pubblici confronti sulle ragioni dei NoExpo? Dove si sono potute liberamente confrontare le due diverse posizioni?«Non facciamo gli ipocriti, chi è contro il dominio di imprese e mercato nell’Italia di oggi è sostanzialmente clandestino, e se prova a metter fuori la testa c’è chi minaccia di tagliargliela». I tranvieri di Milano hanno scioperato il 28 aprile contro i turni gravosi e pericolosi imposti per Expo. Apriti cielo, ministri della Repubblica han chiesto di liquidare il diritto di sciopero e i più moderati hanno aggiunto: solo durante le fiere. In questi giorni, aggiunge Cremaschi, in Germania i macchinisti dei treni scioperano per sei giorni di seguito bloccando il paese, ma nessun governante chiede leggi speciali. «Da noi avremmo talkshaw ove tra gli applausi si invocherebbe la galera». Subito dopo i fatti di Milano, Renzi è stato contestato pacificamente a Bologna, «ma non uno dei telegiornali ha fatto vedere gli insegnanti precari bastonati duramente dalla polizia». Per Cremaschi, «c’è una sordità e una prepotenza del potere che porta naturalmente alla ribellione di chi non ci sta. E chi si ribella lo fa nei modi che questa società stessa offre». Quindi, «non si può distruggere la Costituzione nata dalla Resistenza, ridurre tutto a merce e mercato e poi usare il linguaggio della Prima Repubblica quando si spaccano le vetrine». La fine dei partiti di massa, dei diritti sindacali, del welfare? Una catastrofe. Per loro, invece, è “il progresso”. «Di questo progresso i fatti di Milano sono inevitabile conseguenza».Le reazioni delle istituzioni, dei mass media e dell’opinione pubblica agli incidenti innescati dai black bloc a Milano per l’inaugurazione dell’Expo «hanno mostrato quanto sia oramai devastato lo spirito democratico in questo paese», nonostante la comprensibile indignazione per le 50 auto incendiate e le 15 vetrine devastate. Quanto accaduto, comunque, non è minimamente paragonabile ad altri disordini in città europee: molto peggiore il bilancio a Francoforte all’apertura della nuova sede della Bce, per non parlare di quello che ormai accade normalmente negli Usa, o della rivolta nelle strade di Rio alla vigilia dei mondiali di calcio. Compassionevoli e comprensivi coi problemi lontani, ma «appena questo disagio è comparso in casa nostra, i più moderati tra i commentatori di palazzo hanno chiesto la legge marziale», osserva Giorgio Cremaschi. «Il peggiore mi è apparso il sindaco di Milano. Il grido di sapore biblico da lui lanciato, “nessuno tocchi Milano”, che cosa vuol dire, che altrove si può? E quando la città è stata devastata da ruberie, tangenti, mafie, disoccupazione, devastazioni ambientali, vetrine a migliaia chiuse in periferia per lo strangolamento della crisi e delle banche, non è stata toccata allora Milano?».
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Lavoratori spacciati, grazie alla Cgil che si è arresa a Renzi
Prima il grande corteo di Torino, con decine di migliaia di persone che hanno sfidato un tempo inclemente per ribadire il proprio sostegno al movimento No-Tav. Poi la dimostrazione a Roma contro Salvini, «il lepenismo in salsa leghista e Casapound». E infine la prima manifestazione sindacale, a Milano, contro il Jobs Act dal varo dei decreti attuativi, «fatta apposta nella città ove si sperimenta quella schiavitù a tempo determinato che è il lavoro gratis per l’Expo». In tutti questi appuntamenti, ricorda Giorgio Cremaschi, già dirigente Fiom, la Cgil era assente. «È un dato costante di tanti momenti di lotta di questi mesi: la Cgil non vi partecipa». Dopo lo sciopero generale del 12 dicembre, che aveva suscitato una mobilitazione persino inaspettata nel mondo del lavoro, il gruppo dirigente del principale sindacato italiano «è ripiombato nella passività neghittosa che ne aveva caratterizzato tutti i comportamenti precedenti». Così, il mondo del lavoro «continua a precipitare di gradino in gradino, in una caduta che sembra inarrestabile e che ci ha fatto diventare il paese portato ad esempio nella distruzione dei diritti».In poco tempo, continua Cremaschi su “Micromega”, abbiamo avuto il sistema pensionistico più feroce del continente, con l’età pensionabile più elevata: «La nostra si avvicina sempre più ai 70 anni, mentre l’austera Germania la fa scendere a 63 e la Francia la mantiene a 60». Mentre consolidiamo 6 milioni di disoccupati, «l’orario di chi un lavoro ancora ce l’ha cresce inesorabilmente: lavoriamo quasi 200 ore all’anno più dei tedeschi e 100 in più dei francesi». Idem i salari: quelli italiani «hanno avuto la dinamica peggiore del continente, cioè son calati di più come reale potere d’acquisto e a volte anche in valori assoluti». Unica eccezione, non certo consolante, la Grecia: «Che, per altro, se dovesse davvero definire per legge il salario minimo a 750 euro mensili, sopravanzerebbe molte regioni del nostro Mezzogiorno». Infine, con il Jobs Act abbiamo raggiunto la meta di avere il mercato del lavoro più flessibile del continente: «La libertà di licenziamento, la precarizzazione diffusa e incentivata, il potere di degradare il lavoratore e di controllarlo a distanza, l’appalto selvaggio e le cooperative di sfruttamento, l’elenco degli atti di ferocia contro il lavoro autorizzati qui da noi è interminabile».I provvedimenti di Renzi «chiudono un percorso durato decenni, che alla fine ha portato il dipendente alla completa mercé dell’impresa», prosegue Cremaschi. «Come ha detto Crozza in Tv, i padroni non erano così felici dall’epoca di Kunta Kinte. La nostra caduta è stata la più rovinosa del continente, siamo diventati un esempio negativo per i diritti e le lotte sociali, siamo diventati il paese crumiro d’Europa». La Cgil? «Non pare intenzionata ad interrogarsi sulle ragioni di questa disfatta, ma soprattutto neppure a riconoscerla e a reagire ad essa». Il sindacato considerato più forte d’Europa «vive in una ritirata permanente che non può che condurre alla resa». Eppure non ha alcun feeling con Renzi, come invece la Cisl. «Neppure con il primo ispiratore delle politiche del lavoro del presidente del consiglio, neppure con Sergio Marchionne, a differenza della Cisl che invece lo applaude, la Cgil va d’accordo. Tuttavia il dissenso Cgil appare sempre più impotente». Per Renzi, secondo Cremaschi, una simile opposizione è la migliore augurabile: «La Cgil dice no ai suoi provvedimenti, ne lamenta tutto il male possibile, ma poi non li contrasta davvero. È il modo migliore per dimostrare che il sindacato non conta nulla e fa solo proteste di facciata per ragioni d’immagine». Così, «Renzi ci va a nozze».La questione non è solo quella della quantità e continuità delle lotte, che pure esiste. Il problema di fondo, aggiunge Cremaschi, è che il linguaggio e i comportamenti concreti dei dirigenti della Cgil non sono di opposizione. «Pensiamo allo sciopero di soli cinque lavoratori tra i comandati per lo straordinario a Pomigliano. Succedeva anche negli anni ‘50 che gli scioperi in Fiat fallissero clamorosamente. Ma la Cgil di allora non aveva difficoltà a dire che quei lavoratori non erano liberi di decidere perché in Fiat c’era il fascismo». Pochi giorni fa un servizio del Tg7, evidentemente sfuggito alle maglie della censura di regime, presentava una immagine agghiacciante della condizione dei lavoratori di Pomigliano: alle sei del mattino, le telecamere inseguivano operai a cui l’intervistatore chiedeva un parere sugli straordinari. «Domanda cautissima, non si chiedeva né un giudizio su Marchionne, né altro di compromettente. Eppure fuggivano tutti, come sudditi in uno Stato di polizia». Per Cremaschi, ormai, «nei luoghi di lavoro, non solo in Fiat, dilaga il fascismo aziendale, che con il Jobs Act viene istituzionalizzato. Questo la Cgil dovrebbe denunciare con tutta la forza che ha. E invece non lo fa».Il gruppo dirigente del sindacato sostiene che il governo agisca sotto dettatura della Confindustria: è vero, «ma poi non si scontra per niente con gli autori di quel dettato». Anzi: con gli industriali, insieme a Cisl e Uil, la Cgil «continua a voler applicare l’accordo incostituzionale del 10 gennaio 2014, che sancisce che chi non firma accordi non può neppure partecipare alle elezioni delle rappresentanze aziendali». Alla Telecom, i tre sindacati maggiori «hanno firmato un accordo che applicava il Jobs Act prima ancora dei decreti attuativi e per fortuna i dipendenti hanno espresso un clamoroso no». Poi c’è «l’accordo scandaloso che autorizza il lavoro gratis per quella notoria impresa di beneficenza che è Expo», accordo che «ha la firma di Cgil, Cisl e Uil». E di fronte a un presidente del Consiglio che «minaccia i lavoratori della Scala perché vogliono festeggiare il Primo Maggio», le flebili parole dei dirigenti della Cgil «son state più rivolte ad auspicare una sottomissione dei lavoratori che un rifiuto della prepotenza reazionaria del capo del governo».Proclami roboanti, ma poi un atteggiamento mite: troppe contraddizioni. Le ragioni? «Una è la complicità con il sistema delle imprese, che non a caso ha fatto sì che quando la Fiom si mise di traverso in Fiat, apparisse come qualcosa di diverso dalla organizzazione di cui fa parte». La seconda, anche più forte, «è che questa Cgil non può rompere con il Pd neppure se il suo segretario presidente la prende ogni giorno a pesci in faccia». Il corpo della struttura e degli apparati della Cgil «soffre e persino odia Renzi», ma lo fa «nella condizione di spirito e di sostanziale impotenza della minoranza Pd». E così, anche «nelle amministrazioni locali, negli enti pubblici, nelle cooperative, ovunque», la Cgil potrebbe, volendo, «far vedere i sorci verdi al renzismo», e invece «continua a collaborare come sempre». Per Cremaschi, «rompere davvero con la Confindustria che festeggia il Jobs Act, fare la stessa cosa con il Pd renziano e il suo sistema di potere, sono le due condizioni indispensabili per costruire una opposizione efficace alla politica che sta distruggendo i diritti del lavoro. Ma sono anche le uniche condizioni a cui l’attuale struttura della Cgil non vuole e non può sottostare». Dilaniata tra il voler contrastare Renzi e l’incapacità di farlo davvero, conclude Cremaschi, «la Cgil archivia lo sciopero generale e torna all’abulia confusa che oramai la possiede». Per il mondo del lavoro italiano, «questo stato passivo dei grandi sindacati è parte del disastro, è un vuoto che non si riempie con altro».Prima il grande corteo di Torino, con decine di migliaia di persone che hanno sfidato un tempo inclemente per ribadire il proprio sostegno al movimento No-Tav. Poi la dimostrazione a Roma contro Salvini, «il lepenismo in salsa leghista e Casapound». E infine la prima manifestazione sindacale, a Milano, contro il Jobs Act dal varo dei decreti attuativi, «fatta apposta nella città ove si sperimenta quella schiavitù a tempo determinato che è il lavoro gratis per l’Expo». In tutti questi appuntamenti, ricorda Giorgio Cremaschi, già dirigente Fiom, la Cgil era assente. «È un dato costante di tanti momenti di lotta di questi mesi: la Cgil non vi partecipa». Dopo lo sciopero generale del 12 dicembre, che aveva suscitato una mobilitazione persino inaspettata nel mondo del lavoro, il gruppo dirigente del principale sindacato italiano «è ripiombato nella passività neghittosa che ne aveva caratterizzato tutti i comportamenti precedenti». Così, il mondo del lavoro «continua a precipitare di gradino in gradino, in una caduta che sembra inarrestabile e che ci ha fatto diventare il paese portato ad esempio nella distruzione dei diritti».
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Licenziare il precariato? Lavoro a minuti e nero di gruppo
La nuova disciplina del lavoro (job) varata pochi giorni fa dal governo (government) e ottusamente osteggiata dai sindacati (trade unions), rappresenta per i lavoratori italiani una grande occasione di riscatto, crescita e progresso (anal intruder). Ce lo confermano, tra l’altro, i festeggiamenti di numerosi lavoratori precari sottopagati, italiani fin qui ignobilmente sfruttati che finalmente vedono una luce in fondo al tunnel, gente come Sergio Marchionne, Angelino Alfano, Maurizio Lupi e Giorgio Squinzi, titolare di un’associazione che li riunisce da anni. Naturalmente ci vorrà qualche tempo perché la grande riforma si affermi nel paese, un periodo di assestamento necessario a migliaia di imprenditori per accorgersi che un lavoratore venticinquenne affamato e disposto a tutto è preferibile a un lavoratore cinquantenne cresciuto dando un certo valore alla parola “diritti” (rights).Molto bene anche la legalizzazione della pratica del demansionamento (mobbing) per cui un impiegato potrà essere spostato al reparto pulizie cessi senza possibilità di ricorso, e se deciderà di licenziarsi per questo non potrà contare sul reintegro ma soltanto su un risarcimento economico (two onions and one tomato). Ma la più entusiasmante novità riguarda la scomparsa dei lavoratori precari, che da oggi non esistono più e sono un ricordo del passato, anche se alcune categorie di privilegiati ancora resistono ed altre se ne creeranno. Eccole:I Lavoratori a Progetto del Settimo Giorno – Chiamati il giovedì per un progetto che terminerà il venerdì mattina, potranno puntare tutto su un malore del capo del personale che li proroghi fino a domenica sera (il famoso settimo giorno). Compiuti i settant’anni, avranno una pensione commisurata al loro impegno, pari al decimo della somma algebrica tra giorni lavorati e settimane passate a curarsi l’ulcera, per un somma non eccedente i sei euro al mese.I Lavoratori Intermittenti – Ispirati alle allegre lucine dell’albero di Natale, potranno mangiare solo in alcuni giorni e digiunare invece a intervalli regolari. La riforma prevede per loro un’indennità di disoccupazione, quantificata in sette undicesimi della quarta parte del salario dell’ultimo giorno lavorato, solo se precedente al giugno del 1924. In più, alcuni benefits, come la pensione sociale – dopo i settant’anni – di euro 4,75. Lordi.I Lavoratori Licenziati Collettivi – Nonostante i volenterosi sforzi del governo, non si è trovata parola più gentile di “licenziati” (nemmeno in inglese, straordinario!) per definire questi (ex) lavoratori. Il fatto di essere licenziati in compagnia (collettivamente) addolcisce un po’ il loro triste destino: non saranno soli, insomma, ma in compagnia dei loro (ex) colleghi. Questo potrà garantire qualche forma di socialità, come per esempio il digiuno collettivo, il lavoro nero collettivo, lo sfratto collettivo (per quelli in affitto).I Lavoratori a Partita Iva – Sicuro rifugio dalla crisi, molti lavoratori ex-precari cederanno alla tentazione di diventare imprenditori, aprendo una Partita Iva e avviando così una revisione della loro collocazione sociale che avrà come primo passo l’aperto disprezzo per i lavoratori dipendenti, considerati privilegiati con troppi diritti.Come si vede, ogni sostanziale riforma richiede tempo. Ma tutti questi piccoli problemi aperti non possono fare ombra alla grande novità, quella accolta con fragorosi applausi di approvazione delle parti più deboli della società, come Giorgio Squinzi e Sergio Marchionne.(Alessandro Robecchi, “Lavoro a minuti e nero di gruppo, così si licenzia il precariato”, da “Micromega” del 25 febbraio 2015).La nuova disciplina del lavoro (job) varata pochi giorni fa dal governo (government) e ottusamente osteggiata dai sindacati (trade unions), rappresenta per i lavoratori italiani una grande occasione di riscatto, crescita e progresso (anal intruder). Ce lo confermano, tra l’altro, i festeggiamenti di numerosi lavoratori precari sottopagati, italiani fin qui ignobilmente sfruttati che finalmente vedono una luce in fondo al tunnel, gente come Sergio Marchionne, Angelino Alfano, Maurizio Lupi e Giorgio Squinzi, titolare di un’associazione che li riunisce da anni. Naturalmente ci vorrà qualche tempo perché la grande riforma si affermi nel paese, un periodo di assestamento necessario a migliaia di imprenditori per accorgersi che un lavoratore venticinquenne affamato e disposto a tutto è preferibile a un lavoratore cinquantenne cresciuto dando un certo valore alla parola “diritti” (rights).
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Giovani al lavoro gratis per l’Expo dei ladri e degli ipocriti
Per quale ragione in una Expo appaltata alle grandi multinazionali del cibo, nella quale affari edilizi, speculazione e corruzione hanno prosperato e che viene ancora presentata come un possibile volano per l’economia del paese, perché in un evento ove tutto è misurato in termini di profitti a breve o differiti, gli unici gratis devono essere i lavoratori? Con un accordo del luglio 2013, un mese che dovrebbe essere abolito dal calendario sindacale visti i disastri che in esso si son concepiti, l’ente Expo, le imprese e tutte le istituzioni hanno concordato con Cigil, Cisl e Uil che gran parte di coloro che faranno funzionare la fiera lo faranno gratuitamente. Per l’esattezza circa 800 persone lavoreranno con contratti a termine, di apprendistato, da stagista, che garantiranno una lauta retribuzione dai 400 ai 500 euro mensili. Siccome i contratti e la stessa legge Fornero sul mercato del lavoro avrebbero previsto condizioni più favorevoli per i lavoratori, si è applicato quel principio della deroga normativa, contro il quale la Cgil si era spesso pronunciata.Ma questi 800 lavoratori sottopagati sono comunque una élite rispetto a tutti gli altri. Che avranno un orario giornaliero obbligatorio e turni, pare bisettimanali, di lavoro, ma che lo faranno senza alcuna retribuzione. Essi saranno considerati volontari e come tali riceveranno solamente dei buoni pasto quotidiani, per non smentire il significato alimentare dell’evento. Nelle previsioni iniziali questi fortunati avrebbero dovuto essere 18.500, da qui il peana subito scattato sui 20.000 posti di lavoro creati dalla magia dell’Expo. Ora invece pare che siano meno della metà, per la semplice ragione che lavorare all’Expo non solo non paga, ma costa. Immaginiamo un pendolare che debba accollarsi i costosissimi costi quotidiani del sistema ferroviario lombardo. O addirittura un giovane di un’altra regione che volesse fare questa esperienza a Milano. Per lavorare gratis bisogna godere di un buon reddito e non tutti ce l’hanno.Eppure a tutto questo ci sarebbe stata una alternativa semplice semplice. Visto che l’Expo per sua natura è un evento a termine, coloro che lo faranno funzionare avrebbero potuto essere assunti con il tradizionale contratto a termine. Lavori sei mesi? Sei pagato per quelli. Sono solo due settimane? Riceverai la tua quindicina. Perché non si è fatto così? Semplice. Perché in questo modo si sarebbe dovuto spendere molto di più in salari e questo non era compatibile con gli alti costi della fiera. C’era da pagare una montagna di mazzette, non si potevano retribuire anche gli addetti agli stand. Capisco che questo modo di ragionare possa essere considerato troppo rigido e ancorato a vecchi tabù. C’è un lavoro e si pretende anche un salario, allora si vogliono difendere vecchi privilegi, direbbero gli araldi del lavoro flessibile. Quando l’accordo sul lavoro gratis è stato sottoscritto, l’allora presidente del Consiglio Enrico Letta disse, facendo eco al presidente della Confindustria Squinzi, che esso era un modello per il paese. La rottamazione renziana sempre rivolta alle nuove generazioni ha lasciato quella intesa intatta, così come hanno fatto Cgil, Cisl e Uil, nonostante le critiche a quel “#jobsact” che l’accordo Expo già anticipava.Tutte le forze politiche rappresentate in parlamento, escluso il Movimento 5 Stelle, sono consenzienti. Così l’Expo finirà per essere una vetrina di tutto ciò che non dovrebbe, ma che invece continua a dominare le scelte economiche e sociali del paese. L’Expo sarà la migliore rappresentazione dell’ipocrisia e del gattopardismo che governano la nostra crisi. Sotto lo slogan “Nutrire il pianeta” si lascerà alla Nestlè il compito di spiegare che l’acqua va gestita in ragione di mercato. Si farà l’apologia delle grandi opere senza riuscire neppure a nascondere la speculazione – e non solo quella illegale, ma quella ancor più scandalosa sulle aree, che è perfettamente consentita. Si lanceranno proclami sui giovani capaci di operare nella globalizzazione, rimuovendo il fatto che lo faranno solo in cambio di una medaglietta che non varrà nemmeno come accreditamento per altri lavori precari. E ancora una volta tutto, ma proprio tutto, sarà a carico del lavoro. In una fiera che si presenta come l’ultimo Ballo Excelsior di una globalizzazione in piena crisi, l’Italia che guarda al passato cianciando di futuro troverà la sua vetrina. Che dovrebbe essere accesa proprio il Primo Maggio, trasformando così la festa dell’emancipazione del lavoro nella celebrazione del suo ritorno allo stato servile. Ci sono movimenti e forze sindacali che dicono no a tutto questo e che già dalle prossime settimane si faranno sentire, per poi provare a restituire alla Festa del Lavoro il suo antico valore. Fanno benissimo.(Giorgio Cremaschi, “L’Expo della precarierà”, da “Micromega” del 5 febbraio 2015).Per quale ragione in una Expo appaltata alle grandi multinazionali del cibo, nella quale affari edilizi, speculazione e corruzione hanno prosperato e che viene ancora presentata come un possibile volano per l’economia del paese, perché in un evento ove tutto è misurato in termini di profitti a breve o differiti, gli unici gratis devono essere i lavoratori? Con un accordo del luglio 2013, un mese che dovrebbe essere abolito dal calendario sindacale visti i disastri che in esso si son concepiti, l’ente Expo, le imprese e tutte le istituzioni hanno concordato con Cigil, Cisl e Uil che gran parte di coloro che faranno funzionare la fiera lo faranno gratuitamente. Per l’esattezza circa 800 persone lavoreranno con contratti a termine, di apprendistato, da stagista, che garantiranno una lauta retribuzione dai 400 ai 500 euro mensili. Siccome i contratti e la stessa legge Fornero sul mercato del lavoro avrebbero previsto condizioni più favorevoli per i lavoratori, si è applicato quel principio della deroga normativa, contro il quale la Cgil si era spesso pronunciata.
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Jobs Act, fine del lavoro e di cent’anni di progresso in Italia
Era lecito domandarsi a che servisse togliere la tutela dell’articolo 18 a tutti i nuovi assunti, quando non si creano nuovi posti di lavoro e la disoccupazione aumenta. Il decreto natalizio del governo Renzi supera questa contraddizione. Senza che se ne fosse minimamente accennato nella discussione parlamentare sulla legge delega, il testo sfrutta al massimo l’incostituzionale mandato in bianco imposto col voto di fiducia e estende la franchigia anche al mancato rispetto delle regole sui licenziamenti collettivi. La legge 223 infatti, recependo principi e regole in vigore in tutti i paesi industriali più avanzati e sostenute con forza da tutte le organizzazioni internazionali, Onu in testa, da oltre venti anni disciplina i licenziamenti collettivi per crisi, stabilendo criteri e regole nel loro esercizio. Ad esempio essa applica un concetto principe del diritto del lavoro degli Usa, la “seniority list”. Se proprio si deve licenziare si parte dagli ultimi arrivati, dai più giovani, da coloro che non hanno carichi familiari e si risale verso le madri e gli anziani capi di famiglia. In vetta a quella lista, nelle aziende Usa sindacalizzate, stanno addirittura i rappresentanti dei lavoratori.In Italia non siamo così rigidi, ma il senso della regola è lo stesso. La 223 stabilisce che solo con un accordo sindacale controfirmato da una pubblica autorità si possa derogare ai criteri dell’anzianità e dei carichi familiari. Così son state definite con le aziende, da ultimo con Meridiana, le uscite dei più anziani, in grado di raggiungere la pensione con la indennità di mobilità. Se un’azienda prima del decreto Renzi avesse voluto fare licenziamenti indiscriminati di massa, avrebbe subìto un doppio danno. Avrebbe dovuto pagare consistenti penali e avrebbe rischiato la reintegra da parte di un giudice di tutti i dipendenti licenziati senza il rispetto di regole e procedure. Questo vincolo ha frenato i licenziamenti di massa, anche in una crisi senza precedenti come quella attuale. Ora viene tolto e le aziende potranno liberamente sbarazzarsi, per crisi e ragioni economiche, di lavoratrici e lavoratori che hanno l’articolo 18 e sostituirli con dipendenti precari a vita, pagati molto meno e per la cui assunzione riceveranno anche un consistente finanziamento pubblico.La portata reazionaria di questo decreto mostra tutta la malafede di un governo che sa perfettamente che la liberalizzazione dei licenziamenti non ha mai prodotto né mai produrrà un solo posto di lavoro aggiuntivo a quelli esistenti. Nessuno assume in più se non ha lavoro in più da far fare. Ma se viene offerta la possibilità di realizzare, a condizioni più che favorevoli, quello che le imprese chiamano il ricambio organico del personale, perché rifiutarla? Questo è lo scopo vero del Jobact: un gigantesco scambio di manodopera tra chi ha più e chi ha meno diritti e salario. Come più di cento anni fa, quando i braccianti venivano cacciati dalla terra che avevano coltivato, perché agrari e baroni reclutavano gente più povera disposta a subire condizioni peggiori. Non solo il Jobact non fa nulla contro la disoccupazione, ma anzi proprio per funzionare ha bisogno di una massa ricattabile di senza lavoro, senza i quali le sue norme resterebbero lettera morta.Alla fine l’occupazione complessiva sarà ancora minore, come già sapientemente prevede la Confindustria, ma quella rimasta somiglierà molto di più a quella che lavora oggi in Cina rispetto a quella che aveva conquistato diritti e dignità in Italia. Le imprese rimaste festeggeranno per i maggiori profitti, mentre il lavoro sarà sottoposto alla schiavitù di un Medio Evo tecnologico. A questo punto non serve aggiungere altre parole. Ogni atto del governo Renzi rappresenta una coerente azione di restaurazione sociale. Non si colpisce solo il lavoro, ma la scuola, la sanità, i servizi pubblici, mentre si rafforzano le spese militari. Quando si interviene, come all’Ilva, lo si fa per permettere alle multinazionali cui verrà ceduta di risparmiare i costi del risanamento e degli investimenti. Tutte le riforme politiche proposte stravolgono principi e libertà costituzionali.Ma a questo punto continuare a rimproverare a Renzi e a Giorgio Napolitano, che ne è il primo sostegno, di fare quello che dichiarano di voler fare non serve a niente. Il governo Renzi è la personalizzazione della distruzione della Costituzione Repubblicana, è nato e opera per questo. Rappresenta una classe dirigente italiana che ha deciso che il sistema sociale e democratico del dopoguerra non possa più essere mantenuto, di fronte ai vincoli della Troika e della finanza globale. O si contestano quei vincoli, euro compreso, o si insegue il modello del capitalismo selvaggio senza vincoli. Renzi e Napolitano hanno scelto di essere fino in fondo fedeli esecutori di quei vincoli, per questo oggi son avversari di tutto ciò che nella storia italiana ha significato progresso sociale e democratico. Renzi e Napolitano hanno scelto e chi si oppone a questa loro scelta deve essere altrettanto intransigente e rigoroso. Altrimenti la coerenza reazionaria del governo sarà la sola devastante forza in campo.(Giorgio Cremaschi, “Il Jobs Act e la coerenza reazionaria del governo Renzi”, da “Micromega” del 30 dicembre 2014).Era lecito domandarsi a che servisse togliere la tutela dell’articolo 18 a tutti i nuovi assunti, quando non si creano nuovi posti di lavoro e la disoccupazione aumenta. Il decreto natalizio del governo Renzi supera questa contraddizione. Senza che se ne fosse minimamente accennato nella discussione parlamentare sulla legge delega, il testo sfrutta al massimo l’incostituzionale mandato in bianco imposto col voto di fiducia e estende la franchigia anche al mancato rispetto delle regole sui licenziamenti collettivi. La legge 223 infatti, recependo principi e regole in vigore in tutti i paesi industriali più avanzati e sostenute con forza da tutte le organizzazioni internazionali, Onu in testa, da oltre venti anni disciplina i licenziamenti collettivi per crisi, stabilendo criteri e regole nel loro esercizio. Ad esempio essa applica un concetto principe del diritto del lavoro degli Usa, la “seniority list”. Se proprio si deve licenziare si parte dagli ultimi arrivati, dai più giovani, da coloro che non hanno carichi familiari e si risale verso le madri e gli anziani capi di famiglia. In vetta a quella lista, nelle aziende Usa sindacalizzate, stanno addirittura i rappresentanti dei lavoratori.
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Matteo, le elezioni e quella scocciatura chiamata democrazia
«Perché andare a votare governatori che non governano più niente, visto che le decisioni più importanti ormai si prendono altrove, neppure a Roma ma in Europa o alla Borsa di Wall Street?». Per Mauro Barberis, il deserto dell’astensionismo che ha reso «risibile, se non ridicola» la legittimazione dei nuovi presidenti regionali dell’Emilia e della Calabria, è l’ennesimo sintomo della rottura, minacciosa e inquietante, tra cittadini ormai ridotti all’impotenza e istituzioni a loro volta confinate nel limbo dell’irrilevanza, costrette a imporre tasse e tagliare servizi. «Siamo ormai alla disaffezione, non semplicemente per il voto o per la politica, ma per la democrazia». Il problema, scrive Barberis, non è solo che «con queste percentuali di votanti, può vincere chiunque». Il guaio è che, chiunque vinca, non sarà mai pienamente legittimato. Né potrà governare davvero, perché costretto a subire decisioni imposte dall’alto, a livello di Unione Europea. E tutto questo, «nell’indifferenza dei cittadini, naturalmente».Su “Micromega”, Barberis punta il dito anche contro «il fallimento delle Regioni, che da cardine del federalismo all’italiana si sono trasformate in carrozzoni costosi e inefficienti», un fardello ben più gravoso di quello delle Province, da poco “rottamate a metà” (eliminate le elezioni, non gli enti). Oggi, secondo Barberis, le Regioni volute con forza dal Pci di Berlinguer per distribire territorialmente e democratizzare il governo dello Stato «non le difende più nessuno, neppure la Lega di Matteo Salvini, ormai convertita in un partito nazionalista alla Le Pen». Le Regioni sono state travolte dagli scandali? «Ma lo sono state ancor più dalla crisi finanziaria», sottolinea l’analista di “Micromega”: gli enti locali, da cui dipende la delicatissima gestione di un servizio-chiave come quello sanitario, sono state letteralmente prese al laccio dalla politica di austerity, che impone un drammatico ridimensionamento della protezione sociale, a scapito in primo luogo dei cittadini più bisognosi, quelli che non possono permettersi cliniche private.L’altra grande ragione del dilagante astensionismo, secondo Barberis, è «la liquefazione dei grandi partiti radicati sul territorio, ormai sostituiti da comitati elettorali all’americana che però non mobilitano gli elettori». Quale che sia il risultato del voto, il discorso riguarda soprattutto l’ultimo partito rimasto, il Pd renziano, che «nonostante gli infuocati comizi del leader in Emilia, porta al voto percentuali di elettori minori che in Calabria». Al di là dell’analisi dei flussi elettorali contingenti, compreso il “boicottaggio” ispirato dalla Cgil presa a schiaffi dal premier, «l’impressione è che quanto Renzi perde a sinistra, attaccando i sindacati, non lo riguadagna a destra, abbracciando la Confindustria». Triste risultato della politica-spettacolo, che Bernard Manin chiama “democrazia del pubblico”: «Proporre slogan cool, o smart, o trendy, al solo fine di mantenere il potere o di conquistarlo, senza uno straccio di progetto per il futuro». Strada segnata? Declino elettorale per tutte le democrazie occidentali? Non proprio: «C’è un abisso di cultura e di lungimiranza politica fra Renzi che attacca l’articolo 18 per racimolare qualche voto di destra e Obama che, imparando da una sconfitta, regolarizza cinque milioni di immigrati pensando al futuro del proprio paese».«Perché andare a votare governatori che non governano più niente, visto che le decisioni più importanti ormai si prendono altrove, neppure a Roma ma in Europa o alla Borsa di Wall Street?». Per Mauro Barberis, il deserto dell’astensionismo che ha reso «risibile, se non ridicola» la legittimazione dei nuovi presidenti regionali dell’Emilia e della Calabria, è l’ennesimo sintomo della rottura, minacciosa e inquietante, tra cittadini ormai ridotti all’impotenza e istituzioni a loro volta confinate nel limbo dell’irrilevanza, costrette a imporre tasse e tagliare servizi. «Siamo ormai alla disaffezione, non semplicemente per il voto o per la politica, ma per la democrazia». Il problema, scrive Barberis, non è solo che «con queste percentuali di votanti, può vincere chiunque». Il guaio è che, chiunque vinca, non sarà mai pienamente legittimato. Né potrà governare davvero, perché costretto a subire decisioni imposte dall’alto, a livello di Unione Europea. E tutto questo, «nell’indifferenza dei cittadini, naturalmente».
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Magaldi: super-fratelli d’Italia, élite occulta del vero potere
Esistono i massoni e i supermassoni, le logge e le superlogge. Lo rivela Gioele Magaldi, quarantenne “libero muratore” di matrice progressista, nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”, pubblicato da Chiarelettere, editrice che figura tra gli azionisti del “Fatto Quotidiano”. Proprio sul “Fatto”, Gianni Barbacetto e Fabrizio D’Esposito presentano l’operazione editoriale, soffermandosi sul sottititolo dell’opera di Magaldi, basata su documenti custoditi a Londra, Parigi e New York: “La scoperta delle Ur-Lodges”. Magaldi, che anni fa ha fondato in Italia il Grande Oriente Democratico in polemica con il Goi (Grande Oriente d’Italia, la più grande obbedienza massonica del nostro paese), in 656 pagine apre ai profani un mondo segreto e invisibile: «Tutto quello che accade di importante e decisivo nel potere è da ricondurre a una cupola di superlogge sovranazionali, le Ur-Lodges, appunto, che vantano l’affiliazione di presidenti, banchieri, industriali. Non sfugge nessuno a questi cenacoli. Le Ur-Lodges citate sono 36 e si dividono tra progressiste e conservatrici, e da loro dipendono le associazioni paramassoniche tipo la Trilateral Commission o il Bilderberg Group. Altra cosa infine sono le varie gran logge nazionali, ma queste nel racconto del libro occupano un ruolo marginalissimo. Tranne in un caso, quello della P2 del Venerabile Licio Gelli».Laura Maragnani, giornalista di “Panorama” che ha collaborato con Magaldi e scrivendo anche una lunga prefazione, spiega che il libro è frutto di un lavoro durato quattro anni, nei quali Magaldi ha consultato gli archivi di varie Ur-Lodges. Tuttavia, come scrive l’editore nella nota iniziale, in caso di “contestazioni” Magaldi si impegna a rendere pubblici gli atti segreti, depositati in studi legali in Europa e negli Usa. «Tra le superlogge progressiste – premette il “Fatto” – la più antica e prestigiosa è la Thomas Paine (cui è stato iniziato lo stesso Magaldi) mentre tra le neoaristocratiche e oligarchiche, vero fulcro del volume, si segnalano la Edmund Burke, la Compass Star-Rose, la Leviathan, la Three Eyes, la White Eagle, la Hathor Pentalpha». Tutto il potere del mondo sarebbe contenuto in queste Ur-Lodges. E persino i vertici della fu Unione Sovietica, da Lenin a Breznev, sarebbero stati superfratelli di una loggia conservatrice, la Joseph de Maistre, creata in Svizzera proprio da Lenin. «Può sembrare una contraddizione, un paradosso, ma nella commedia delle apparenze e dei doppi e tripli giochi dei grembiulini può finire che il più grande rivoluzionario comunista della storia fondi un cenacolo in onore di un caposaldo del pensiero reazionario».In questo filone, secondo Magaldi, s’inserisce pure l’iniziazione alla Three Eyes, a lungo la più potente Ur-Lodges conservatrice, di Giorgio Napolitano, attuale presidente della Repubblica e per mezzo secolo esponente di punta della destra del Pci: «Tale affiliazione avvenne nello stesso anno il 1978, nel quale divenne apprendista muratore Silvio Berlusconi», scrive Magaldi. «E mentre Berlusconi venne iniziato a Roma in seno alla P2 guidata da Licio Gelli nel gennaio, Napolitano fu cooptato dalla prestigiosa Ur-Lodge sovranazionale denominata Three Architects o Three Eyes appunto nell’aprile del 1978, nel corso del suo primo viaggio negli Stati Uniti». Più tardi, Berlusconi avrebbe poi creato una sua Ur-Lodge, la Loggia del Drago. Altri affiliati eccellenti, sempre secondo Magaldi, sarebbero Papa Giovanni XXIII, Bin Laden e l’Isis, Martin Luther King e i Kennedy. «C’è da aggiungere, dettaglio fondamentale, che nel libro di Magaldi la P2 gelliana è figlia dei progetti della stessa Three Eyes, quando dopo il ‘68 e il doppio assassinio di Martin Luther King e Robert Kennedy, le superlogge conservatrici vanno all’attacco con una strategia universale di destabilizzazione per favorire svolte autoritarie e un controllo più generale delle democrazie», osservano Barbacetto e D’Esposito.La tesi: il vero potere è massone. E, descritto nelle pagine di Magaldi, «spaventa e fa rizzare i capelli in testa». Dal fascismo al nazismo, dai colonnelli in Grecia alla tecnocrazia dell’Ue, tutto sarebbe venuto fuori dagli esperimenti di questi superlaboratori massonici: persino il “papa buono”, Giovanni XXIII (“il primo papa massone”), Osama Bin Laden e il più recente fenomeno dell’Isis. «In Italia, se abbiamo evitato tre colpi di Stato avallati da Kissinger lo dobbiamo a Schlesinger jr., massone progressista». Nell’elenco di tutti gli italiani attuali spiccano D’Alema, Passera e Padoan. Il capitolo finale è un colloquio tra Magaldi e altri confratelli collaboratori con quattro supermassoni delle Ur-Lodges. Racconta uno di loro, a proposito del patto unitario tra grembiulini per la globalizzazione: «Ma per far inghiottire simili riforme idiote e antipopolari alla cittadinanza, la devi spaventare come si fa con i bambini. Altrimenti gli italiani, se non fossero stati dei bambinoni deficienti, non avrebbero accolto con le fanfare i tre commissari dissimulati che abbiamo inviato loro in successione: il fratello Mario Monti, il parafratello Enrico Letta, l’aspirante fratello Matteo Renzi».Per non parlare del “venerabilissimo” Mario Draghi, governatore della Bce, affiliato a ben cinque superlogge. Secondo Magaldi, Draghi sarebbe peraltro in ottima compagnia. Le Ur-Lodges, infatti, sarebbero gremite di italiani importanti. Come l’ex banchiere centrale e poi ministro Fabrizio Saccomanni, l’industriale Gianfelice Rocca (Techint), l’economista e già ministro Domenico Siniscalco, Giuseppe Recchi (Eni, Exor, Confindustria), Marta Dassù (Aspen Institute, già sottosegretario agli esteri). E poi l’attuale governatore di Bankitalia Ignazio Visco, il banchiere Enrico Tommaso Cucchiani (Intesa Sanpaolo), Alfredo Ambrosetti (patron del summit di Cernobbio), l’ex presidente confindustriale Emma Marcegaglia. E infine il banchiere Matteo Arpe (Lehman Brothers, Capitalia), l’ex ministro Vittorio Grilli (ora Jp Morgan), l’ammiraglio Giampaolo Di Paola (marina militare) e Federica Guidi, ministro dello sviluppo economico del governo Renzi. Ma fino a ieri il dominus della vita italiana non era un certo Berlusconi? In attesa di conferme o smentite, se non altro, il libro di Magaldi contribuisce a dare un volto preciso ai componenti dell’élite: un affollatissimo ritratto di famiglia.(Il libro: Gioele Magaldi, “Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges”, Chiarelettere, 656 pagine, 19 euro).Esistono i massoni e i supermassoni, le logge e le superlogge. Lo rivela Gioele Magaldi, quarantenne “libero muratore” di matrice progressista, nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”, pubblicato da Chiarelettere, editrice che figura tra gli azionisti del “Fatto Quotidiano”. Proprio sul “Fatto”, Gianni Barbacetto e Fabrizio D’Esposito presentano l’operazione editoriale, soffermandosi sul sottititolo dell’opera di Magaldi, basata su documenti custoditi a Londra, Parigi e New York: “La scoperta delle Ur-Lodges”. Magaldi, che anni fa ha fondato in Italia il Grande Oriente Democratico in polemica con il Goi (Grande Oriente d’Italia, la più grande obbedienza massonica del nostro paese), in 656 pagine apre ai profani un mondo segreto e invisibile: «Tutto quello che accade di importante e decisivo nel potere è da ricondurre a una cupola di superlogge sovranazionali, le Ur-Lodges, appunto, che vantano l’affiliazione di presidenti, banchieri, industriali. Non sfugge nessuno a questi cenacoli. Le Ur-Lodges citate sono 36 e si dividono tra progressiste e conservatrici, e da loro dipendono le associazioni paramassoniche tipo la Trilateral Commission o il Bilderberg Group. Altra cosa infine sono le varie gran logge nazionali, ma queste nel racconto del libro occupano un ruolo marginalissimo. Tranne in un caso, quello della P2 del Venerabile Licio Gelli».