Archivio del Tag ‘Commissione Europea’
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Che bel regalo, Draghi senatore a vita e poi al Quirinale
Che bel regalo, se Mario Draghi venisse nominato senatore a vita. Regalo per chi? Ovvio: per quelli che, come Gioele Magaldi, sono impegnati a smascherare l’ineffabile inventore del “pilota automatico”, la tragica farsa dell’algoritmo finanziario che di fatto confisca la sovranità democratica e rende inutili le elezioni. «Una volta al potere in Italia, Draghi sarebbe costretto a mostrare il suo vero volto: e dovrebbe andare in giro non con una, ma con cinque scorte». Il draghetto Mario? «Più che a Palazzo Chigi o meglio ancora al Quirinale, lo vedrei bene in tribunale: dovrebbe rispondere, finalmente, di tutti i danni che ha causato al nostro paese», dice Magaldi, che nel saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014) traccia un profilo inedito del “venerabile” super-banchiere. Allievo dell’economista keynesiano Federico Caffè, si laureò con una tesi che oggi può sembrare sconcertante. Ovvero: imporre all’Europa una moneta unica sarebbe un suicidio economico. Poi, accadde qualcosa. Il 2 giugno 1992, anche Draghi – allora direttore generale del Tesoro – salì a bordo del panfilo Britannia ormeggiato a Civitavecchia, dove il gotha della finanza atlantica progettava la grande privatizzazione del Belpaese. Da allora, anche grazie a Super-Mario, s’è scritta tutta un’altra storia: crisi e disoccupazione, erosione dei risparmi, iper-tassazione. Fino al “golpe bianco” del 2011 innescato dalla letterina della Bce – firmata insieme a Trichet – per la “deposizione” di Berlusconi e l’avvento di Mario Monti, con la regia di Napolitano.Folgorante, l’ascesa di Draghi nell’élite finanziaria mondiale: dal vertice di Bankitalia a quello della Bce, la mega-banca che emette l’euro, cioè la moneta che sarebbe stata “impossibile” e letteralmente insostenibile, per il giovane studente Mario. Determinante, si dice, il transito negli Usa: Draghi è stato uno stratega della Goldman Sachs, la banca speculativa più temuta al mondo: quella che, tra l’altro, truccò i bilanci della Grecia, creando le premesse per il crollo di Atene. A disastro avvenuto, Draghi si occupò dei greci anche nelle vesti di inflessibile censore della Troika europea, in rappresentanza della Bce. Una conversione, la sua – da Keynes al neoliberismo – che lascia stupefatti: il geniale economista inglese aveva ispirato le politiche espansive che hanno arricchito l’Europa, mentre i suoi avversari (da Von Hayek a Friedman) hanno impoverito i nostri popoli, espropriandoli del potere statale di spesa a beneficio dell’oligarchia finanziaria, divenuta l’unica padrona del denaro. Come si spiega, un simile voltafaccia, da parte di quello che, ai tempi di Caffè, si presentava come un promettente economista post-keynesiano? L’immenso potere del denaro, certo: il dominio di Wall Street è divenuto assoluto, specie dopo che Clinton abolì il Glass-Stegall Act, la norma con la quale Roosevelt aveva tagliato le unghie alla speculazione (separazione netta tra banche d’affari e credito alle imprese). Franata la diga, la finanza predatoria è diventata una lotteria perversa, capace di piegare gli Stati. E oggi infatti eccoci qui, a elemosinare decimali di deficit, implorando una tecnocrazia di non-eletti.Ma non è tutto. Nel suo saggio, Magaldi svela un retroscena illuminante: il massone Draghi milita in ben 5 Ur-Lodges. Le superlogge sovranazionali sono in tutto 36 organismi occulti e molto trasversali, in grado di controllare il pianeta, ben al di sopra dei governi. Per la cronaca, il presidente della Bce sarebbe affiliato alla “Edmund Burke”, alla “Pan-Europa” e alla “Der Ring”, nonché alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum” e alla “Three Eyes”, veri e propri santuari della supermassoneria “neoaristocratica”, protagonista dell’attuale globalizzazione finanziaria e post-democratica imposta a mano armata anche con la guerra e, all’occorrenza, persino il terrorismo e la strategia della tensione, oltre che con l’arma dell’austerity che ha precarizzato il lavoro e impoverito le popolazioni occidentali. Tutto merito loro: a imporre le durezze della crisi sono i signori del “back office” supermassonico. Sono questi, dice Magaldi, i veri “azionisti” di Mario Draghi, comicamente celebrato – dai media – come una specie di salvatore della patria. E’ vero l’esatto contrario: l’Italia ha patito le conseguenze dell’azione di Draghi, che appartiene a un’oligarchia apolide, senz’altra patria che il denaro. «Viene presentato come il santo protettore dell’Italia? Mettetelo a Palazzo Chigi, e poi vedrete di che pasta è fatto», dice Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”.Certo, visto dall’Italia oggi sembra remotissimo, Super-Mario, impegnato a vegliare sull’Europa dall’alto dell’Eurotower di Francoforte. Per questo, gli italiani riescono a bersi la versione del mainstream, che poi è questa: se non ha potuto fare abbastanza, per l’Italia, è perché il povero Draghi «aveva le mani legate dalle presunte regole della Banca Centrale Europea», e magari «era costretto a mediare con Jens Weidmann della Bundesbank». Tutte storie: «Fatelo governare, e vedrete di cosa sarà capace». Quanto sono fondate, le voci secondo cui Mattarella lo promuoverebbe senatore a vita, come già fece Napolitano con Monti, per poi proiettarlo a Palazzo Chigi? L’incarico alla Bce scadrà in autunno, e si sa che Draghi ambirebbe a prendere il posto di Christine Lagarde al vertice del Fmi. Secondo Magaldi, potrebbe anche concedersi un periodo sabbatico. Certo è che qualsiasi decisione sarà come sempre concertata con il super-potere finanziario, di cui Draghi resta una pedina di prima grandezza a livello mondiale. Senatore a vita, dunque? Non è dato saperlo. Probabilmente, dice Magaldi, la nomina potrebbe gradirla non tanto come “ascensore” verso la guida del governo, ma come viatico per un obiettivo più ambizioso: la presidenza della Repubblica. In ogni caso, aggiunge Magaldi, se mai dovesse fare il premier «sarebbe un regalo, per noi che combattiamo contro ciò che Mario Draghi rappresenta».Un simile esito sarebbe perfettamente speculare rispetto all’esperienza di Monti, che nel 2011 era osannato dai media, quando dalle pagine del “Corriere della Sera” «dispensava saggi consigli, ma non aveva mostrato come li avrebbe messi in pratica». Duro l’impatto con la realtà: «Averlo visto governare ci ha liberato per sempre dall’idea che Monti sia un uomo saggio e soprattutto preoccupato del bene collettivo degli italiani». Non pensate che con Draghi sarebbe diverso, chiarisce Magaldi, dal 2015 presidente del Movimento Roosevelt e ora promotore del “Partito che serve all’Italia”, per recuperare la perduta sovranità democratica. Draghi? Tuttora, viene proposto dal mainstream come il paladino degli interessi italiani, «l’uomo che ha risolto la crisi economica e che dalla Bce ha assicurato il “quantitative easing”, salvando le banche». Tutto falso: «Come banchiere centrale, è intervenuto quando i buoi erano già scappati dalla stalla, cioè quando l’economia europea era in picchiata e parecchi paesi erano ormai stati commissariati con l’avvento dei tecnocrati al governo». A quel punto, «Draghi ha fatto in modo che i denari arrivassero alle banche e non all’economia reale, per aiutare la quale non ha mosso un dito».Severo il giudizio di Magaldi sul super-banchiere europeo: «Mario Draghi è fra i registi di questa pessima governance post-democratica europea. E’ colui che ha detto che il “pilota automatico” è inserito nel sistema di gestione dell’economia dei vari paesi europei, e quindi non importa chi viene eletto: o aderisce alle indicazioni di questo “pilota automatico”, o viene delegittimato». In più c’è l’ombra, imbarazzante, della crisi Mps: «Insieme ad Anna Maria Tarantola, che all’epoca guidava la vigilanza di Bankitalia – continua Magaldi – Draghi è anche responsabile, per l’Italia, di quello che è accaduto nella pessima gestione del Monte dei Paschi di Siena». Quindi, non dovrebbe essere gratificato di un posto di senatore a vita: «Semmai – dice Magaldi – dovrebbe essere messo sotto processo, anche per i danni che ha fatto, nella gestione delle privatizzazioni all’italiana, come direttore generale del ministero del Tesoro, carica rivestita ininterrottamente dal 1992 al 2001». Purtroppo viviamo in un mondo orwelliano, che ribalta la verità: e così Mario Draghi, «che è stato tra i personaggi più funesti, per il destino d’Europa e d’Italia», oggi «viene santificato dai media mainstream».“Mister Euro” direttamente al comando dell’Italia, una volta rottamata la deludente esperienza gialloverde? Niente paura, dice Magaldi: «Questa situazione ci deve mettere di buon umore». E perché mai? «Perché è tipica dei momenti pre-rivoluzionari: alla vigilia di ogni rivoluzione, da chi occupa poltrone che stanno per franare miseramente proviene sempre un sussulto di arroganza, di disprezzo della verità, di imbroglio della comunicazione». Draghi a Palazzo Chigi? «Sarebbe un ottimo modo per vedere il suo vero volto, perché in questo mondo così veloce ormai le menzogne e i bluff durano poco. Dategli anche la presidenza della Repubblica, e poi ci divertiremo: perché ormai siamo arrivati alla frutta». Sulla crisi in corso, Magaldi è nettissimo: «L’Italia è stanca di essere malata, e ormai vede che non c’è stata nessuna cura». Pie illusioni, quelle alimentate dai gialloverdi: «Ignominiosa la rinuncia a lottare per il deficit, e vergognosa le genuflessione di Di Maio davanti alla Merkel». Tradotto: l’Italia ha perso un anno di tempo, dando credito a Lega e 5 Stelle. Domani il super-potere oserà schierare addirittura Draghi per spegnere gli ultimi focolai di ribellione, disinnescando la speranza che dall’Italia possa partire il riscatto democratico europeo? Quello, scommette Magaldi, sarà il segnale: di fronte a tanta arroganza, gli elettori finalmente insorgeranno. Primo passo: licenziare i finti rivoluzionari gialloverdi, che si sono fatti prendere a sberle dai signori di Bruxelles e dal loro nume tutelare, il potentissimo Mario Draghi.Che bel regalo, se Mario Draghi venisse nominato senatore a vita. Regalo per chi? Ovvio: per quelli che, come Gioele Magaldi, sono impegnati a smascherare l’ineffabile inventore del “pilota automatico”, la tragica farsa dell’algoritmo finanziario che di fatto confisca la sovranità democratica e rende inutili le elezioni. «Una volta al potere in Italia, Draghi sarebbe costretto a mostrare il suo vero volto: e dovrebbe andare in giro non con una, ma con cinque scorte». Il draghetto Mario? «Più che a Palazzo Chigi o meglio ancora al Quirinale, lo vedrei bene in tribunale: dovrebbe rispondere, finalmente, di tutti i danni che ha causato al nostro paese», dice Magaldi, che nel saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014) traccia un profilo inedito del “venerabile” super-banchiere. Allievo dell’economista keynesiano Federico Caffè, si laureò con una tesi che oggi può sembrare sconcertante. Ovvero: imporre all’Europa una moneta unica sarebbe un suicidio economico. Poi, accadde qualcosa. Il 2 giugno 1992, anche Draghi – allora direttore generale del Tesoro – salì a bordo del panfilo Britannia ormeggiato a Civitavecchia, dove il gotha della finanza atlantica progettava la grande privatizzazione del Belpaese. Da allora, anche grazie a Super-Mario, s’è scritta tutta un’altra storia: crisi e disoccupazione, erosione dei risparmi, iper-tassazione. Fino al “golpe bianco” del 2011 innescato dalla letterina della Bce – firmata insieme a Trichet – per la “deposizione” di Berlusconi e l’avvento di Mario Monti, con la regia di Napolitano.
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Magaldi: Di Maio omaggia la Merkel e “suicida” i gialloverdi
Magari ce l’avessimo noi, un politico come Angela Merkel. Giù il cappello: inchino firmato da Luigi Di Maio, intervistato da “Die Welt”. Ma come, il terribile leader “populista” italiano ora cinguetta parole d’amore per la cancelliera tedesca, donna-simbolo dell’eurocrazia teutonica che ha disastrato il nostro paese? Così, gli elettori 5 Stelle sono serviti: ecco fin dove s’è abbassato, il campione del “cambiamento” all’italiana, solo per tentare di differenziarsi dall’alleato-concorrente Salvini, che ha scelto di prendere il treno per Strasburgo in compagnia dei “sovranisti” Orban e Le Pen. «Viltà inaudita e imperdonabile, consegnare il Movimento 5 Stelle a questo esito: l’incredibile “genuflessione” alla Merkel fa di Luigi Di Maio un cialtroncello», sentenzia Gioele Magaldi: «Da ex “monello”, ora Di Maio è diventato “allievo modello”: spero venga defenestrato dal movimento, che non merita di avere questa classe dirigente». Durissimo, il presidente del Movimento Roosevelt, sul vicepremier grillino: dove sarebbe il coraggio che il valente Pino Cabras attribuisce a Di Maio, nel fronteggiare l’insidioso Deep State ramificato da Bruxelles al Quirinale? Eccolo, il vero Di Maio: «Un personaggio opportunista, preoccupato di salvarsi la poltrona avendo compreso che il cambiamento promesso è fallito». Per chi non l’avesse ancora capito, «il governo gialloverde non fa paura a nessuno». E se persino Di Maio tifa per la Merkel, tanto vale rinunciare alle urne delle europee: voto inutile.Salvini? Più bravo, se non altro, a salvare la faccia: «Almeno a parole, la Lega mantiene ancora un atteggiamento meno arrendevole verso Bruxelles», ammette Magaldi, in web-streaming su YouTube. «Però – aggiunge – ha anch’essa ceduto rovinosamente sul deficit, rinunciando alla linea di Paolo Savona». In più, la Lega «insiste nel baloccarsi con i sovranismi farlocchi come quello di Orban, che strizza l’occhio ai Popolari Europei». Quanto alla Le Pen, è «condannata a consegnare la Francia a qualsiasi avversario, da Hollande a Macron». Certo, Matteo Salvini «parla bene», ma nel momento della verità «se la fa sotto, anche lui, di fronte alle letterine di Juncker». Rispetto a Di Maio, almeno, «nel leader della Lega c’è un barlume di dignità, ma purtroppo senza consistenza: non ci sono parole per commentare la resa italiana di fronte al veto di Bruxelles sull’espansione del deficit». Attenzione: per Magaldi, le «frasi infelici» di Di Maio dimostrano la grande preoccupazione che agita il governo gialloverde: «Il Pil peggiora, l’Italia è malata e non c’è stata nessuna cura. Cosa si inventeranno, adesso? Quanto a lungo può reggere ancora, il bluff? Avanti così saranno spazzati via dalla storia: non è più tempo di piccoli uomini».E se frana l’esperienza gialloverde, aggiunge Magaldi, certo non rinasce il centrodestra berlusconiano: «Il popolo è stanco di chi propone le stesse solfe da 25 anni». Non sta meglio il Pd che attacca l’esecutivo Conte: «In passato, al governo, ha fatto anche di peggio». Nessuno infatti può rimpiangere Letta, Renzi e Gentiloni. La franosità della situazione italiana, per Magaldi, rivela una triste verità: «Il sistema non ha nessuna paura del “governo del cambiamento”, che infatti non ha cambiato niente. E oggi in Italia non c’è nessuna novità politica, né al governo né all’opposizione». Secondo il presidente del Movimento Roosevelt, promotore del “Partito che serve all’Italia” (prossima assemblea il 25 aprile a Roma), queste elezioni europee non cambieranno niente: un voto perfettamente sterile. «Non usciranno nuovi assetti di potere. Del resto, perché mai votare Di Maio se loda la Merkel? Tanto vale votare esponenti del Ppe». Per Magaldi occorre creare «un fronte democratico reale, che in Europa sconfigga gli equilibri attuali, basati sulla globalizzazione post-democratica». Persino il terrorismo targato Isis, aggiunge, «è alimentato dai gestori del sistema, per aumentare il potere di controllo sui cittadini».Di fronte a questo, aggiunge Magaldi, «non bastano più le sole analisi, offerte sporadicamente da voci alternative invitate in televisione solo come “sparring partner” degli esponenti dell’establihment». Insiste, il presidente del Movimento Roosevelt: «Non c’è più tempo per le riforme: serve una rivoluzione, che abbatta il paradigma dell’ideologia neoliberista». Come agire? «In modo nonviolento, ma risoluto: a muso duro, come Gandhi». Gli italiani, insiste Magaldi, capiranno ben presto che la missione del governo Conte è fallita, e che il sistema ordoliberista di Bruxelles «non può essere riformato dall’interno, ma solo rovesciato con una rivoluzione democratica su scala europea». Una rivoluzione, annuncia, «a cui il Movimento Roosevelt e il “Partito che serve all’Italia” daranno un decisivo contributo», partendo da una mobilitazione generale, porta a porta. Funzionerà? E’ inevitabile, sostiene sempre Magaldi, perché la situazione sociale è insostenibile, è l’inconsistenza dell’offerta politica è ormai palese. In campagna elettorale, Lega e 5 Stelle avevano denunciato chiaramente il problema. Poi però si sono fatti ingabbiare dal potere eurocratico: e ora – con il Pil in frenata – non potranno più gestire in modo indolore nemmeno il modestissimo deficit ottenuto per gentile concessione di Bruxelles. Un finale che sembra già scritto: “game over”, per i gialloverdi.Dettaglio ulteriormente increscioso, la smaccata giravolta di Di Maio in favore della Merkel, emblema vivente dell’austerity che i gialloverdi avevano promesso di contrastare: il Movimento 5 Stelle, con questa dirigenza, dimostra di non avere alcuna utilità per l’Italia, sostiene Magaldi. «A che serve fare la piattaforma Rousseu se poi è opaca, con i profili taroccati?», attacca ancora il presidente del Movimento Roosevelt, citando il filosofo illuminista Jean-Jacques Rousseau, l’inventore del “contratto sociale”, a cui deve il nome la piattaforma di Casaleggio. «Quale contratto sociale è possibile – aggiunge Magaldi – se Di Maio ora bacia la pantofola della Merkel, esattamente come tutti i suoi predecessori?». Era stato tra i pochi osservatori esterni, Magaldi, a difendere l’esordio gialloverde, meno di un anno fa, al punto da chiedere le dimissioni del Mattarella che aveva sbarrato a Savona le porte del dicastero dell’economia. Persino Di Maio aveva evocato l’impeachment, per attentato alla Costituzione. Ora – ammainate tutte le bandiere – eccolo prostrarsi ai piedi della Cancelliera. Non è nuovo, il Movimento 5 Stelle, a clamorosi voltafaccia (con relative figuracce, come il “no” rimediato dagli ultra-euristi dell’Alde quando Grillo chiese a Guy Verhofstadt di “traslocare” sotto le sue bandiere, in compagnia di Mario Monti, il gruppo europarlamentare pentastellato). Ora ci risiamo: gli ex “rivoluzionari” italiani tornano a bussare umilmente alle porte dei padroni d’Europa.Da posizioni oltranziste, un giornalista come Paolo Barnard l’aveva detto fin dall’inizio: è una follia, fidarsi della Lega e dei 5 Stelle come ipotetici paladini dell’Italia. Altri, invece – come Magaldi – all’esperimento gialloverde avevano concesso un’apertura di credito, sia pure condizionata, se non altro perché non c’erano alternative, in Parlamento, a leghisti e grillini: da una parte gli zombie del Pd renziano, dall’altra le salme (politiche) di Berlusconi e Tajani. Contro il governo gialloverde anche tutti i grandi media, a reti unificate. Di Maio pasticcione, Toninelli gaffeur. E soprattutto, Salvini “fascista”. Non ha avuto vita facile, il governo Conte: è stato continuamente sabotato dallo “Stato profondo”, avverte lo stesso Cabras, neo-parlamentare pentastellato. A maggior ragione: quale tipo di demenza autolesionistica ha spinto Di Maio a omaggiare la Merkel? Così si accelera soltanto la rottamazione dei gialloverdi, e in particolare dei 5 Stelle. Senza che l’Italia – stando così le cose – abbia una sola speranza di veder cambiare la situazione. Tanto vale stare a casa, il 26 maggio: ora – chiosa Magaldi – sappiamo definitivamente che votare per Di Maio e Salvini non servirà proprio a niente.Magari ce l’avessimo noi, un politico come Angela Merkel. Giù il cappello: inchino firmato da Luigi Di Maio, intervistato da “Die Welt”. Ma come, il terribile leader “populista” italiano ora cinguetta parole d’amore per la cancelliera tedesca, donna-simbolo dell’eurocrazia teutonica che ha disastrato il nostro paese? Così, gli elettori 5 Stelle sono serviti: ecco fin dove s’è abbassato, il campione del “cambiamento” all’italiana, solo per tentare di differenziarsi dall’alleato-concorrente Salvini, che ha scelto di prendere il treno per Strasburgo in compagnia dei “sovranisti” Orban e Le Pen. «Viltà inaudita e imperdonabile, consegnare il Movimento 5 Stelle a questo esito: l’incredibile “genuflessione” alla Merkel fa di Luigi Di Maio un cialtroncello», sentenzia Gioele Magaldi: «Da ex “monello”, ora Di Maio è diventato “allievo modello”: spero venga defenestrato dal movimento, che non merita di avere questa classe dirigente». Durissimo, il presidente del Movimento Roosevelt, sul vicepremier grillino: dove sarebbe il coraggio che il valente Pino Cabras attribuisce a Di Maio, nel fronteggiare l’insidioso Deep State ramificato da Bruxelles al Quirinale? Eccolo, il vero Di Maio: «Un personaggio opportunista, preoccupato di salvarsi la poltrona avendo compreso che il cambiamento promesso è fallito». Per chi non l’avesse ancora capito, «il governo gialloverde non fa paura a nessuno». E se persino Di Maio tifa per la Merkel, tanto vale rinunciare alle urne delle europee: voto inutile.
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Rampini: la notte della sinistra, che ha tradito gli italiani
«Debuttai come giornalista (in nero e senza un contratto di lavoro, proprio come si usa oggi) nel 1977 alla “Città Futura”. Era il giornale della Federazione giovanile comunista italiana». Così impietosamente Federico Rampini – oggi firma di punta di “Repubblica” – ricorda il suo esordio professionale nel suo ultimo libro, “La notte della sinistra”, dove affonda il coltello nelle contraddizioni, nelle ipocrisie e negli errori della sua parte politica, che elenca: «Dall’immigrazione alla vecchia retorica europeista ed esterofila, dal globalismo ingenuo alla collusione con le élite del denaro e della tecnologia». Il libro di Rampini in pratica demolisce la sinistra. L’autore invita anzitutto a smetterla di «raccontarci che siamo moralmente superiori e che là fuori ci assedia un’orda fascista». Invita anche a smetterla «di infliggere ai più giovani delle lezioni di superficialità, malafede, ignoranza della storia. Si parla ormai a vanvera di fascismo, lo si descrive in agguato dietro ogni angolo di strada, studiando pochissimo quel che fu davvero… Si spande la retorica di una nuova Resistenza, insultando la memoria di quella vera (o ignorandone le contraddizioni, gli errori, le tragedie)».Poi l’autore ricorda le orribili assemblee studentesche degli anni Settanta, dove «gli estremisti decidevano chi aveva diritto di parola e chi no. “Fascisti”, urlavano a chiunque non la pensasse come loro. L’élite di quel momento (giovani borghesi, figli di papà, più i loro ispiratori e cattivi maestri tra gli intellettuali di moda) era una Santa Inquisizione che sottoponeva gli altri a severi esami di purezza morale, di intransigenza sui valori». Attualmente sembra si sia disinvoltamente cambiato tutto, ma «nel politically correct di oggi sono cambiate solo le apparenze, il linguaggio, le mode. Tra i guru progressisti ora vengono cooptate le star di Hollywood e gli influencer dei social, purché pronuncino le filastrocche giuste sul cambiamento climatico o sugli immigrati. Non importa che abbiano conti in banca milionari, i media di sinistra venerano queste celebrity. Mentre si trattano con disgusto quei bifolchi delle periferie che osano dubitare dei benefici promessi dal globalismo». Le parole d’ ordine e gli slogan dell’attuale sinistra vengono demoliti con chirurgica precisione. I sovran-populisti sono accusati di alimentare la paura? «Da quando in qua», si chiede Rampini, «la paura è una cosa di destra, anticamera del fascismo? Deve vergognarsi chi teme di diventare più povero? Chi patisce l’insicurezza di un quartiere abbandonato dallo Stato?».E le parole identità, patria, interesse nazionale? Rampini, sconsolato, scrive: «Dobbiamo smetterla di regalare il valore-nazione ai sovranisti». A loro, dice, «abbiamo lasciato» la parola Italia: «Certi progressisti» si commuovono per le grandi cause come «Europa, Mediterraneo, Umanità», mentre ritengono la nazione «un eufemismo per non dire fascismo». Solo che la liberal-democrazia è nata proprio «dentro lo Stato-nazione», e Mazzini e Garibaldi «erano padri nobili della sinistra», la quale peraltro ha «venerato tanti leader del Terzo Mondo – da Gandhi a Ho Chi Minh a Fidel Castro – che erano prima di tutto dei patrioti». La sinistra nostrana si entusiasma solo per il sovranismo altrui. Rampini osserva: «Non si conquistano voti presentandosi come “il partito dello straniero”. Negli ultimi tempi in Italia il mondo progressista ha sistematicamente simpatizzato con Macron quando attaccava Salvini e con Juncker quando criticava il governo Conte». Così si conferma «il sospetto che la sinistra sia establishment, e pronta a svendere gli interessi nazionali. Ed è un’illusione anche scambiare Macron per un europeista: è un tradizionale nazionalista francese, che dell’Europa si serve finché gli è utile, ma per piegarla ai propri interessi».Su Juncker poi Rampini è durissimo, ricordando che faceva parte del governo del Lussemburgo quando adottava certe politiche fiscali, cioè offriva «privilegi fiscali alle multinazionali di tutto il mondo: uno dei principali meccanismi di impoverimento del ceto medio e delle classi lavoratrici di tutto l’Occidente». Secondo Rampini «uno che ha governato il Lussemburgo» non dovrebbe essere «promosso» a dirigere la Commissione Europea. L’autore trova incredibile che «opinionisti di sinistra abbiano tifato per Juncker». E poi si chiede: «Perché solo gli italiani dovrebbero vergognarsi di avere cara la propria nazione? Definirsi europeisti in chiave antinazionale, il vezzo attuale della nostra sinistra, è un errore grave: a Bruxelles né i tedeschi né i francesi dimenticano mai per un solo attimo di difendere con determinazione gli interessi del proprio paese».Il primo capitolo del libro s’intitola “Dalla parte dei deboli solo se stranieri”. La fissazione delle élite progressiste per gli immigrati (che sono utilissimi a un certo capitalismo per abbattere retribuzioni e protezioni sociali) va di pari passo con la dimenticanza della stessa sinistra per i nostri poveri e il nostro ceto medio impoverito. Qui l’analisi di Rampini si fa spietata per moltissime pagine. E fa capire perché il popolo e i lavoratori hanno divorziato dalla sinistra e questa è diventata il partito delle élite e dei quartieri-bene: «L’Uomo di Davos ha plagiato la sinistra, i cui governanti si sono alleati proprio con quelle élite». La conclusione di Rampini è questa: «Non vedo un futuro per la sinistra italiana se si ostinerà a essere il partito dei mercati finanziari e dei governi stranieri, in nome di un europeismo beffato proprio da tedeschi e francesi».(Antonio Socci, “La confessione di Federico Rampini sulla sinistra: i veri fascisti siamo noi”, dal quotidiano “Libero” del 2 aprile 2019).«Debuttai come giornalista (in nero e senza un contratto di lavoro, proprio come si usa oggi) nel 1977 alla “Città Futura”. Era il giornale della Federazione giovanile comunista italiana». Così impietosamente Federico Rampini – oggi firma di punta di “Repubblica” – ricorda il suo esordio professionale nel suo ultimo libro, “La notte della sinistra”, dove affonda il coltello nelle contraddizioni, nelle ipocrisie e negli errori della sua parte politica, che elenca: «Dall’immigrazione alla vecchia retorica europeista ed esterofila, dal globalismo ingenuo alla collusione con le élite del denaro e della tecnologia». Il libro di Rampini in pratica demolisce la sinistra. L’autore invita anzitutto a smetterla di «raccontarci che siamo moralmente superiori e che là fuori ci assedia un’orda fascista». Invita anche a smetterla «di infliggere ai più giovani delle lezioni di superficialità, malafede, ignoranza della storia. Si parla ormai a vanvera di fascismo, lo si descrive in agguato dietro ogni angolo di strada, studiando pochissimo quel che fu davvero… Si spande la retorica di una nuova Resistenza, insultando la memoria di quella vera (o ignorandone le contraddizioni, gli errori, le tragedie)».
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Magaldi: gialloverdi al 70% se osano sfidare il Deep State
Primo round: il governo gialloverde fa qualcosa di veramente eretico, straordinario e rivoluzionario. Ovvero: annuncia un deficit del 7-8%, o anche del 10%. Secondo round: l’eurocrazia insorge, massacrando l’Italia con ogni mezzo. E quindi minacce, ritorsioni, spread a mille, bocciatura del bilancio (e assedio dei media pro-Ue, a reti unificate). Terza mossa: il governo si dimette, clamorosamente, appellandosi agli elettori. Magari indice un referendum, come quello voluto in Grecia da Tsipras. Poi affronta nuove elezioni, e incassa un plebiscito: gialloverdi al 70% dei consensi. A quel punto, finalmente, la resa dei conti: epurazione di tutti i burocrati infiltrati dal potere-ombra negli uffici che contano, cominciando dai ministeri. Un sogno? Per ora, sì. Ma se non si agisce in questo modo, sostiene il sognatore Gioele Magaldi, la rivoluzione non l’avremo mai. E attenzione: per come siamo ridotti, proprio una rivoluzione – pacifica, democratica – è l’unica soluzione possibile, l’unica via d’uscita dignitosa dall’euro-stagnazione inflitta a tutta l’Europa, e in particolare all’Italia, dai signori del neoliberismo. Sono i super-oligarchi che impongono regole di ferro agli altri, ma campano alla grande facendosi fare leggi su misura per il loro business, anche truccando i conti pubblici come fa la Germania (che dichiara un debito all’80% del Pil mentre quello reale è il triplo).Non se ne esce mai, dal trappolone europeo? Certo, e non se ne uscirà fino a quando il cosiddetto Deep State sarà saldamente radicato in tutti i gangli vitali dello Stato. Burocrati e tecnocrati, servizi segreti pubblici e privati, banca centrale, uffici ministeriali, Quirinale. Ne ha parlato apertamente un parlamentare pentastellato, Pino Cabras, il 30 marzo a Londra. Eletto alla Camera in Sardegna lo scorso anno, Cabras – storico collaboratore di Giulietto Chiesa – ha partecipato al convegno “Un New Deal per l’Italia e per l’Europa”, promosso dal Movimento Roosevelt, soggetto meta-partitico fondato da Magaldi per rigenerare in senso democratico la politica italiana, stimolando i partiti a fare di più per recuperare la perduta sovranità popolare. Decisamente fuori programma l’esplicita ammissione di Cabras: a unire Lega e 5 Stelle, alleati ma sostanzialmente divisi su tutto, è l’impegno a resistere insieme alle “mostruose” pressioni del Deep State, che si è attivato per frenare il cambiamento promesso: dare più soldi agli italiani, ampliando il welfare e tagliando le tasse. Ed è intervenuto sin dal primo giorno, lo “Stato profondo”, inserendo le sue pedine nell’esecutivo Conte. Postilla: senza i “controllori di volo” (esempio, Tria al posto di Savona), il governo non sarebbe mai nato.Di Maio e Salvini hanno accettato la sfida: meglio di niente, si sono detti, perché solo il governo gialloverde (benché azzoppato in partenza) avrebbe potuto almeno tentare di cambiare qualcosa, liberando l’Italia dall’incubo dell’austerity. Ce l’ha fatta? No, purtroppo. Si è visto bocciare persino la timida richiesta di portare il deficit al 2,4%, cioè ben al di sotto del famigerato tetto del 3% imposto da Maastricht (e che la Francia di Macron violerà, con l’alibi della protesta dei Gilet Gialli). Proprio i Gilet Jaunes, sostiene Magaldi, erano un regalo della massoneria progressista internazionale. Il piano: destabilizzare la Francia, sentinella dell’euro-rigore, proprio mentre l’Italia friggeva, per quel misero 2,4%, sulla graticola della Commissione Europea. Ma il governo Conte non ne ha saputo approfittare: raro caso di insipienza politica e di mancanza di coraggio, di assenza di visione. Ora i pericoli sono dietro l’angolo: senza la necessaria benzina finanziaria per mantenere le promesse, i 5 Stelle sono già in picchiata nei sondaggi. Regge la Lega, ma solo per ora, grazie alla muscolarità (verbale) di Salvini. Però il tempo vola: in soli due anni, Matteo Renzi è passato dal 40% all’estinzione politica.Si spera nelle europee, per erodere il potere dello “Stato profondo” neoliberista che utilizza come clava l’asse franco-tedesco? Pie illusioni: secondo Magaldi non cambierà proprio niente, fino a quando la bandiera della protesta sarà agitata dai sedicenti sovranisti, velleitari demagoghi delle piccole patrie. Per chi non se ne fosse accorto, impera la globalizzazione: tutto è fatalmente interconnesso. Nessun paese, da solo, può sperare di uscire indenne da una fiera diserzione. Parla per tutti la Grecia, che disse “no” all’euro-tagliola. Risultato: Tsipras fu intimidito e costretto a piegarsi, tradendo la volontà del popolo. Alla Grecia arrivarono aiuti finanziari, ma solo per soccorrere le banche tedesche e francesi esposte con Atene. Il paese è stato sventrato, svenduto e distrutto, riducendo i greci in povertà. E nessuno Stato europeo è intervenuto in suo soccorso. In Francia, era stato François Hollande a candidarsi come anti-Merkel, promettendo di allentare il rigore di bilancio imposto da Bruxelles. Esito inglorioso: blandizie e minacce, compresi gli attentati terroristici targati Isis. In pochi mesi, Hollande ha ceduto su tutta la linea, rassegnandosi al ruolo di docile esecutore dell’ordoliberismo Ue.Anni fa, proprio Magaldi sosteneva che solo l’Italia avrebbe potuto accendere la miccia del cambiamento. «L’Italia traccia le strade», diceva Rudolf Steiner, attribuendo al Belpaese un ruolo storico di battistrada. Una specie di destino: prima il “format” dell’Impero Romano, poi il Rinascimento e la democrazia comunale, le prime università, le prime banche. Italia caput mundi, nel bene e nel male: in fondo, Hitler si considerava allievo del maestro Mussolini. Proprio l’Italia primeggiò ancora una volta nel dopoguerra: fece il record mondiale di crescita, con il boom economico, anche se non tutti applaudivano. L’uomo-simbolo di quegli anni ruggenti, Enrico Mattei, fu disintegrato a bordo del suo aereo. Oggi, dopo mezzo secolo, l’Europa è ancora una volta alle prese con il “problema” Italia, grazie a un governo teoricamente non-allineato a Bruxelles. Esecutivo capace di firmare un memorandum d’intesa commerciale con la Cina, che irrita pericolosamente gli Usa e manda su tutte le furie Parigi e Berlino, ovvero i due maggiori nazionalismi anti-europeisti su cui si regge l’infame Disunione Europea, quella che ha lasciato morire impunemente i bambini greci, negli ospedali rimasti senza medicine.Non bastano più, dice Magaldi, le sole analisi degli economisti democratici che in questi anni hanno smascherato tutte le bugie del neoliberismo. La prima: tagliare il debito pubblico risana l’economia. Falso: lo dimostra la scienza economica, da Keynes in poi, e lo confermano Premi Nobel come Krugman e Stiglitz. Ovvero: il deficit strategico – a patto che sia massiccio, e investito con oculatezza – può valere anche il 400%, in termini di Pil. Tradotto: oggi spendo dieci, e domani incasserò quattro volte tanto (lavoro, salari, consumi, e infine anche tasse). Beninteso: lo sanno tutti, a cominciare da quelli che fingono di non saperlo. Come Mario Draghi, che fu allievo del maggior economista keynesiano europeo – italiano, tanto per cambiare: il professor Federico Caffè. Tesi di laurea del giovane Draghi: l’insostenibilità di una moneta unica europea. Farebbe ridere, se non ci fosse da piangere. Specie se si calcola che Draghi fu accolto a bordo del Britannia, all’epoca della grande spartizione della Penisola, alla vigilia delle privatizzazioni degli anni ‘90 che hanno sabotato la nostra florida economia. Lo stesso Draghi ha lasciato il segno anche in Grecia: prima come manager della Goldman Sachs, la banca-killer che gonfiava i bilanci di Atene, e poi – a disastro compiuto – come inflessibile censore della Bce, in seno alla spietata Troika europea.Ancora lui, Mario Draghi, è l’uomo a cui risponde, di fatto, il governatore di Bankitalia. E proprio da Ignazio Visco, il presidente Mattarella – con una mossa senza precedenti – spedì l’allora premier incaricato, Conte, a prendere appunti su come non attuarlo affatto, il cambiamento appena promesso agli elettori. Pino Cabras lo chiama “Stato profondo”, e difende la strategia di Di Maio e Salvini: accettare la logica di una guerra di logoramento, dice Cabras, è l’unica soluzione praticabile. Non la pensa così Gioele Magaldi: a suo parere, è una tattica perdente. Nel libro “Massoni”, uscito nel 2014 per Chiarelettere, ridisegna la mappa del Deep State, presentandolo come interamente massonico. Un potere a due facce: quella progressista (da Roosevelt ai Kennedy, fino allo svedese Olof Palme) spinse avanti la modernità dei diritti sociali in senso democratico, nei decenni del grande benessere diffuso. L’altra faccia, oligarchica – Merkel e Macron, Prodi e D’Alema, lo stesso Draghi – ha chiuso i rubinetti della finanza pubblica, inaugurando la globalizzazione del rigore e quindi l’impoverimento generale della popolazione occidentale, fino alla quasi-sparizione della classe media (che infatti oggi in Italia vota Salvini e Di Maio).Contro questo regime, insiste Magaldi, non valgono più né le pregevoli rivelazioni dei tanti economisti onesti, né i recenti tatticismi dei gialloverdi. Serve una rivoluzione, a viso aperto. Un paese che dica: “Adesso sforiamo il tetto di Maastricht. E se non vi va bene, sospendiamo la vigenza dei trattati europei”. Addirittura? Certo, altra via non esiste. Se ci si piega al racket, l’estorsione continua all’infinito. Anche in politica: la molla su cui fa leva il prevaricatore è sempre la stessa, la paura. Se si smette di avere paura, tutto il castello crolla. Perché quel ricatto è basato su un sortilegio psicologico, come quello che rende misteriosamente tenebroso l’invisibile Mago di Oz, in apparenza invincibile: in realtà è soltanto una bolla, che può dissolversi in un attimo. E’ già successo, nella storia. Sotto la sferza della Grande Depressione, la destra economica consigliò a Roosevelt di tagliare il debito – pena, l’apocalisse. Ma il presidente, ispirato da Keynes, fece l’esatto contrario: espansione smisurata del deficit. Risultato: l’America, che era alle prese con l’incubo quotidiano della fame, divenne una superpotenza. Non è che siano cambiate, le regole: il sistema è sempre quello capitalista. Non solo: è diventato universale, incorporando anche Russia e Cina (che infatti, così come gli Usa e il Giappone, non hanno nessuna paura di fare super-deficit, sapendo che è il solo modo per alimentare il mercato interno dei consumi, e quindi l’occupazione).Il Mago di Oz ora si chiama Unione Europea, si chiama Eurozona. Una vergogna mondiale, senza più democrazia: comanda la Bce, insieme alla Commissione formata da tecnocrati non-eletti. Non c’è una vera Costituzione, e il Parlamento Europeo non può eleggere il governo europeo. Siamo precipitati nella barbarie di un neo-feudalesimo, una specie di Sacro Romano Impero. D’accordo, ma per volere di chi? Magaldi non ha esitazioni nell’indicare i responsabili: massoni reazionari. Militano nelle Ur-Lodges neoaristocratiche. Sono strutture segrete e trasversali, spregiudicate e apolidi, senz’altra patria che il denaro. Hanno deformato la stessa geopolitica: quando parliamo di Russia, Europa, Cina e Stati Uniti, dovremmo invece saper distinguere tra élite oligarchiche ed élite a vocazione democratica. Esistono anche quelle, infatti: sono di segno progressista. Negli ultimi decenni sono state costrette a cedere il passo alla plutocrazia neoliberista, ma adesso stanno rialzando la testa. Lo stesso Magaldi ammette di agire d’intelligenza con alcune di queste strutture, come la superloggia Thomas Paine. Problema pratico, innanzitutto: se è stata la supermassoneria a creare il problema, non può che essere la stessa supermassoneria (lato B, progressista) a contribuire a risolverlo.Magaldi non demonizza le Ur-Lodges, non ne fa una speculazione complottistica. Se la massoneria sa di aver fondato la modernità – Stato di diritto, laicità delle leggi, suffragio universale democratico – è umano che pensi (sbagliando) di poter fare quello che vuole, della sua “creatura”. La distorsione è cominciata negli anni ‘70, con il saggio sulla “Crisi della democrazia” commissionato dalla Trilaterale, potente entità paramassonica. La tesi: troppa democrazia fa male. Dove siamo arrivati, oggi? Lo si è visto: un certo signor Pierre Moscovici, non votato da nessuno, ha il potere di bocciare il bilancio del governo italiano regolarmente eletto. Lo si può subire in silenzio, un affronto simile? Nossignore: la verità va gridata. Lo stesso Moscovici sa benissimo che un deficit robusto farebbe volare l’economia. Una volta, lo sapeva anche la sinistra (che oggi tace). Lega e 5 Stelle? Si limitano a brontolare, ma poi ingoiano il rospo. Peggio: sparano a vanvera contro la massoneria, fingendo di non sapere che sono proprio i supermassoni oligarchici a ostacolare il loro governo. Cosa aspettano a vuotare il sacco?Magaldi è esplicito: le Ur-Lodges progressiste sono pronte ad aiutarli, se smetteranno di essere ipocriti sulla massoneria, come se non sapessero che persino il governo gialloverde pullula di massoni occulti, non dichiarati. Sperano nelle europee, leghisti e grillini? Errore grave: nessuno verrà in aiuto dell’Italia, se non sarà il nostro paese – per primo – ad alzare la testa. Come? Nell’unico modo possibile: una rivoluzione gandhiana, basata sull’obiezione ideologica. Può svanire in attimo, la grande paura del Mago di Oz, se solo qualcuno avrà l’elementare coraggio democratico che oggi ancora manca, ai gialloverdi. Una rivoluzione potrebbe spazzarli via in un amen, i mammasantissima del peggior Deep State. Restano invece al loro posto, i boiardi dello “Stato profondo”, proprio perché a proteggerli – prima di ogni altra cosa – è proprio la nostra stessa paura. Per Magaldi, scontiamo anche un vuoto culturale: da riempire, per la precisione, ricorrendo al socialismo liberale teorizzato da Carlo Rosselli. Una corrente di pensiero illuminante ma rimasta in ombra, schiacciata dal fascismo e dallo stesso socialismo massimalista, prima ancora che dal comunismo. Poi venne l’atroce neoliberismo, nelle due versioni: quella sfrontata, della destra economica reaganiana, e quella – più ambigua nella forma ma identica della sostanza – del “terzismo” di Anthony Giddens adottato dall’ex-sinistra occidentale, da Blair fino a D’Alema, grandi protagonisti dell’attuale post-democrazia.Il succo non cambia: Stato minimo. Il privato ha sempre ragione. Nei fatti, il neoliberismo è un imbroglio: santifica l’impresa, ma a spese dello Stato. E quando scoppia Wall Street, è il bilancio pubblico a tenere in piedi le banche-canaglia. Turbo-globablizzazione mercantile, e addio diritti. Delocalizzazioni, privatizzazioni. Parola d’ordine, per i non privilegiati: arrangiarsi. Dogma assoluto: demolire l’impresa pubblica, che era il cemento armato del boom italiano. In Svezia, Olof Palme impegnò lo Stato a salvare le aziende traballanti, a due condizioni: management statale, e lavoratori coinvolti come azionisti (con tanto di dividendi, a fine anno). Fu ucciso a Stoccolma nel 1986, all’uscita di un cinema. Tuttora sconosciuto il killer, ma non il mandante: possiamo chiamarlo Deep State. Con Palme, questa Europa cialtrona non sarebbe mai potuta nascere. Al leader svedese, il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno a Milano il 3 maggio. Sul podio altri due giganti, lo stesso Rosselli e l’africano Thomas Sankara, anch’essi assassinati. Non difettavano di coraggio: sapevano di dover combattere, sfidando il potere ostile a viso aperto. E’ quello che dovrebbe fare anche l’Italia, ribadisce Magaldi. Sapendo che, da sole, le élite possono fare poco. Se però si sveglia il popolo, allora non c’è Deep State che tenga. E’ così che funzionano, le rivoluzioni che mandano avanti, da sempre, la storia dell’umanità.(Le riflessioni di Gioele Magaldi sono tratte dalla diretta web-streaming su YouTube “Gioele Magaldi Racconta” del 1° aprile 2019, condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”).Primo round: il governo gialloverde fa qualcosa di veramente eretico, straordinario e rivoluzionario. Ovvero: annuncia un deficit del 7-8%, o anche del 10%. Secondo round: l’eurocrazia insorge, massacrando l’Italia con ogni mezzo. E quindi minacce, ritorsioni, spread a mille, bocciatura del bilancio (e assedio dei media pro-Ue, a reti unificate). Terza mossa: il governo si dimette, clamorosamente, appellandosi agli elettori. Magari indice un referendum, come quello voluto in Grecia da Tsipras. Poi affronta nuove elezioni, e incassa un plebiscito: gialloverdi al 70% dei consensi. A quel punto, finalmente, la resa dei conti: epurazione di tutti i burocrati infiltrati dal potere-ombra negli uffici che contano, cominciando dai ministeri. Un sogno? Per ora, sì. Ma se non si agisce in questo modo, sostiene il sognatore Gioele Magaldi, la rivoluzione non l’avremo mai. E attenzione: per come siamo ridotti, proprio una rivoluzione – pacifica, democratica – è l’unica soluzione possibile, l’unica via d’uscita dignitosa dall’euro-stagnazione inflitta a tutta l’Europa, e in particolare all’Italia, dai signori del neoliberismo. Sono i super-oligarchi che impongono regole di ferro agli altri, ma campano alla grande facendosi fare leggi su misura per il loro business, anche truccando i conti pubblici come fa la Germania (che dichiara un debito all’80% del Pil mentre quello reale è il triplo).
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Cavalli spara sull’orco Salvini? Così la sinistra si estinguerà
«E se Salvini fosse niente?». O meglio: «Niente mischiato con niente», nemmeno con la malta incolore del post-ideologico? Forse è solo «il formidabile intercettatore di ciò che la gente si vuol far sentire dire, disponibile ad abbracciare qualsiasi ideologia e poi contraddirla seguendo l’algoritmo della pancia degli italiani, come ha appena fatto per la cittadinanza di Ramy», che in poche ore – da “parente di pregiudicati” è diventato addirittura “un figlio”, avendo capito, il leader leghista, «che la maggioranza degli italiani non voleva sentir parlare di burocrazia per il ragazzino eroe». A sparare su Salvini, dalle pagine web de “Linkiesta”, stavolta è l’attore e scrittore Giulio Cavalli, già minacciato dalla mafia e impegnato in Lombardia prima col rozzo giustizialista Antonio Di Pietro (Italia dei Valori) e poi con il post-comunista Nichi Vendola (Sinistra Ecologia e Libertà). La furia iconoclastica di Cavalli si abbatte sul vicepremier gialloverde, dipinto come un mostro di cinismo e spregiudicatezza, capace di essere «tutto e il contrario di tutto». Ovvero: «Da anti-napoletano a patriota amico del Sud». Voltafaccia? Sbagliando, Cavalli imputa a Salvini anche una retromarcia sulla Torino-Lione, dimenticando che la Lega non è stata mai NoTav, ma sempre favorevole alla “grande opera inutile” della valle di Susa.Per Cavalli, Salvini ha cambiato casacca anche in politica estera: da anti-Usa sarebbe diventato pro-Trump, «facendo anche arrabbiare l’amichetto Putin». Anche qui: ai tempi di Bossi, la Lega Nord si schierò con Milosevic e contro i bombardamenti su Belgrado ordinati da Clinton, ma restò alleata del Berlusconi “amico” di Bush, il più che ambiguo presidente del G8 di Genova e poi soprattutto dell’11 Settembre. Quando Salvini ereditò un partito ridotto al 4%, alla Casa Bianca c’era Obama: è per frenare il neo-imperialismo bellicista dei “democrat” che Salvini si avvicinò a Putin, tifando però apertamente per Trump, prima ancora che venisse eletto. Secondo Cavalli, invece, il demone Salvini rivela «la spregiudicatezza di chi è pronto a vivere una contraddizione» pur di «racimolare più voti, accontentare più stomaci, infiammare la claque». Debolezza ideologica: «Salvini non ha un’ideologia perché non ha un’idea sua», sostiene Cavalli. Il capo della Lega, di cui evidentemente non si tollera il successo elettorale, «vive ascoltando il pensiero comune e lo trasforma in promessa politica». Come per «una digestione veloce che non si preoccupa del sapore dei cibi», il boss leghista sarebbe addirittura «pronto a infornare merda», testualmente, per poi «rivenderla come cioccolata, se è il popolo a chiederlo».Visto così, l’orco Salvini sembra un’inammissibile anomalia dentro uno zoo che, senza di lui, sarebbe perfetto. Fuori di polemica: come “voltafaccista” Salvini è un dilettante, rispetto ai 5 Stelle (vaccini, F-35, Tap). E quale nobile impianto idologico rileva, Cavalli, nell’encefalogramma politicamente piatto di Berlusconi e Tajani? Quale segno di vita rintraccia nell’altro zombie, il Pd, che ancora non sa trovare il coraggio autocritico di denunciare l’impostura tecnocratica dell’austerity, che poi è esattamente la fonte della crisi che ha gonfiato le vele degli insopportabili gialloverdi? Vola basso, Cavalli: «Qui siamo oltre la fluidità di Renzi, che riusciva a dire impunemente cose di destra fingendo una posa di sinistra». Lessico da età della pietra: dov’era, la “sinistra”, quando l’Italia veniva immolata sull’altare della falsa Europa? Fischiava il perfido Berlusconi, senza accorgersi che proprio agli eredi della tradizione social-comunista – D’Alema, Prodi e compagnia – il vero potere oligarchico, finanziario e plutocratico affidava il compito strategico di smantellare l’Italia, deindustrializzarla e privatizzarla, senza che nessuno – elettorato, sindacati – muovesse un dito per denunciare lo smottamento anti-nazionale che avrebbe provocato il disastro (di cui oggi raccolgono i cocci, in termini elettorali, proprio la Lega e i 5 Stelle).Per Cavalli, invece, Salvini è «perfino oltre la post-ideologia di Di Maio, che altro non è che un vuoto rimbombante». Ma vogliamo parlare della post-ideologia di Veltroni? O di quella di Carlo Calenda, secondo cui «potremmo pure fare più deficit, ma poi nessuno ci comprerebbe il nostro debito?». Post-ideologia, appunto: ai tempi della “sinistra”, il debito era ancora pubblico. A “privatizzarlo” di fatto fu l’eroe Ciampi, che costrinse l’Italia a rivolgersi al mercato finanziario dei cosiddetti investitori, quelli che per Calenda sono e restano l’unico interlocutore possibile. Non c’è alternativa: lo diceva la Thatcher, e da allora “la sinistra” (anche italiana) si è semplicemente adeguata. Anche perché a dare gli Stati in pasto a Wall Street era stata un’altra “sinistra”, quella statunitense: fu proprio Clinton ad abolire il Glass-Stegall Act, la separazione tra banche d’affari e credito alle imprese, scatenando gli appetiti smisurati della speculazione. Per i fondi d’investimento, da allora, divenne un vero business acquisire titoli del debito, da Stati costretti a mettersi all’asta. E in tutto questo “che c’azzecca”, come avrebbe detto Di Pietro, il Salvini che aveva 8 anni al tempo dello sciagurato divorzio fra Tesoro e Bankitalia, e poco più di 20 quando Clinton regalò il mondo ai finanzieri?Connessioni elementari, che però Giulio Cavalli sembra non voler cogliere, nella sua invettiva semplicistica contro l’estetica discutibile e spesso indigesta del salvinismo. L’eco della storia affiora solo a fette grosse, scomodando paroloni, nel classico ricorso all’armamentario dell’antifascismo convenzionale: Salvini, scrive Cavalli, «fa il fascista quando l’anima fascista del paese spinge per chiedere un gesto», ma poi riesce a irritare “Primato Nazionale”, cioè CasaPound, «per il suo diventare improvvisamente europeista». Europeista Salvini? Socio di Macron, Merkel e Juncker? Urgono spiegazioni, ma Cavalli sorvola. Preferisce scrivere che Salvini «lecca Bannon, lecca Trump, lecca Putin, lecca tutto ciò che i suoi algoritmi gli chiedono di leccare». Sta anche “ingoiando” gli elettori grillini, «affascinati dalla sua capacità di intercettare gli umori». Il che è «il massimo, per un elettorato che intende la politica come filiale di un fast food». Bei tempi, invece, quando un principe della politica come il post-comunista D’Alema si vantava di aver trasformato Palazzo Chigi in una merchant bank, realizzando il record europeo delle privatizzazioni. Cavalli – bontà sua – sa già che Salvini è «tutto e il contrario di tutto: fondamentalmente, niente». E sa già che «alla fine, si inchinerà ai poteri e ai potenti». Quando odiava Berlusconi, la sinistra di potere aveva appena svenduto l’Italia. Ora che odia Salvini, si candida a scomparire anche dal Parlamento. A meno che non sorga qualcosa che finalmente assomigli a un pensiero politico, che sostituisca le facili pernacchie con cui denunciare il presunto non-pensiero dell’avversario, squalificato – come sempre – innnanzitutto per la sua pretesa inferiorità morale.«E se Salvini fosse niente?». O meglio: «Niente mischiato con niente», nemmeno con la malta incolore del post-ideologico? Forse è solo «il formidabile intercettatore di ciò che la gente si vuol far sentire dire, disponibile ad abbracciare qualsiasi ideologia e poi contraddirla seguendo l’algoritmo della pancia degli italiani, come ha appena fatto per la cittadinanza di Ramy», che in poche ore – da “parente di pregiudicati” è diventato addirittura “un figlio”, avendo capito, il leader leghista, «che la maggioranza degli italiani non voleva sentir parlare di burocrazia per il ragazzino eroe». A sparare su Salvini, dalle pagine web de “Linkiesta”, stavolta è l’attore e scrittore Giulio Cavalli, già minacciato dalla mafia e impegnato in Lombardia prima col rozzo giustizialista Antonio Di Pietro (Italia dei Valori) e poi con il post-comunista Nichi Vendola (Sinistra Ecologia e Libertà). La furia iconoclastica di Cavalli si abbatte sul vicepremier gialloverde, dipinto come un mostro di cinismo e spregiudicatezza, capace di essere «tutto e il contrario di tutto». Ovvero: «Da anti-napoletano a patriota amico del Sud». Voltafaccia? Sbagliando, Cavalli imputa a Salvini anche una retromarcia sulla Torino-Lione, dimenticando che la Lega non è stata mai NoTav, ma sempre favorevole alla “grande opera inutile” della valle di Susa.
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L’imbroglio delle europee: il Parlamento conta meno di zero
Votare per un Parlamento i cui legislatori non possono fare le leggi e in più devono lottare come matti se vogliono opporsi a potentissime leggi fatte da tecnocrati che nessuno ha mai eletto – cioè votare alle elezioni per il Parlamento Europeo – significa «rendersi complici intenzionali di una dittatura». Lo sostiene Paolo Barnard, nella sua “Guida alla vergogna delle elezioni europee”: un riassunto spietato dell’euro-farsa di maggio. «La gran massa di quelli che oggi vi stanno dicendo che una rimonta populista euroscettica alle prossime europee sarà esplosiva contro la bieca autocratica Ue di Bruxelles, è così ripartita: il 2% sono consapevoli falsari, il 98% sono inconsapevoli cretini», premette Barnard. «Se la mattina del 27 maggio 2019 il più potente burocrate d’Europa, Martin Selmayr, vedrà su “Sky News” il faccione raggiante di Salvini “che non lo tiene più nessuno”, scrollerà le spalle e penserà: “Vabbè, una rogna in più”. Mica altro, perché la sua Europa verrà solo di un poco infastidita». Il Parlamento Europeo, infatti, conta niente: è il più demenziale, tragicomico baraccone mai concepito nella storia politica umana. Credere che, dall’interno di un carrozzone impantanato come questo, un’eventuale fronte anti-Bruxelles possa iniziare a sparare cannonate micidiali fin dalla mattina del 27 maggio, «è da fessi», dice Barbard, «o da falsari come Salvini, Bannon, il 5 Stelle e i loro soci in Ue».Per Barnard, è come «votare per dei vigliacchi», disposti a farsi mandare a Strasburgo pur essendo pienamente consapevoli della loro impotenza. I parlamentari europei? «Delegano la stesura di leggi sovranazionali – cioè più potenti di quelle scritte dai singoli paesi e sovente anticostituzionali, per loro – ai burocrati non-eletti della Commissione Europea». Ipocriti e codardi: «Il “principio di comodità” è ciò che li guida: è comodo sedersi a Strasburgo, intascare un grasso salario e poi, al limite, dara la colpa a Bruxelles per i danni micidiali che certe sue leggi ci fa». Lo chiarisce uno studio della Cambridge University del 1999: «I legislatori hanno noti incentivi a delegare tutto il potere ai burocrati, fra cui il fatto di evitare di essere poi chiamati a rispondere ai cittadini per scelte dure e impopolari». Tradotto: le infami “riforme” di lavoro e pensioni, e i tagli di spesa alla Juncker. Poi si è passati dal non poter fare nulla al poter fare quasi nulla, aggiunge Barnard: l’impotenza degli europarlamentari «divenne talmente oscena e grottesca, che alla fine i super-burocrati di Bruxelles decisero, dal 2006 e poi l’anno dopo col Trattato di Lisbona, d’infilare dei ritocchini cosmetici che dessero l’impressione che il Parlamento potesse bloccargli le leggi».Con nomi attraenti (Regulatory Procedure With Scrutiny e articolo 290 Tfeu) fu dato al Parlamento Europeo il potere teorico di opporsi alle leggi della Commissione, così come poteva fare il Consiglio dei ministri. Ma era solo l’ennesima farsa: «I parlamentari contestano? Costa una fortuna, e i tempi gli sono nemici». Il Trattato di Lisbona, spiega Barnard, ha reso pressoché inaffrontabile il costo di una contestazione del Parlamento contro la Commissione. Le direttive della Commissione «sono di proposito scritte da oltre 300 tecnocrati con intrichi legali asfissianti». Per cui, l’europarlamentare che volesse capirci qualcosa «dovrebbe pagare uno staff di tecnici a costi altissimi», ma non solo: «Deve poi avere ulteriori mezzi per “istruire” un’intera commissione parlamentare sul tema che vuole criticare, e tutto questo solo per iniziare ad agire». Infine, deve trovare altri mezzi «per formare una coalizione che sia d’accordo con lui, e non basta: deve anche convincere la Conferenza dei presidenti delle commissioni».E tutto questo, senza contare i tempi: solo 4 mesi, per organizzare il tutto, creare una lobby trasversale fra i vari partiti reclutando colleghi a favore della contestazione e quindi rifare tutto, daccapo, in seno al Consiglio dei ministri, che per legge deve essere poi d’accordo. «Scaduti i 4 mesi, il parlamentare Ue s’attacca al tram». Conferma l’“Economist”: «Il peso, i costi e gli ostacoli di una contestazione contro una legge della Commissione sono quasi sempre maggiori dei benefici. Meglio, per il parlamentare, una forma di baratto in privato con Bruxelles». Lo scriveva nel 2017 il College of Europe, Bruges. In altre parole: meglio darla vinta alla Commissione, in partenza. Un meccanismo «demenziale e democraticamente osceno», sottolinea Barnard: «Un parlamentare eletto deve svenarsi, per contestare burocrati non-eletti». Dal 2009 al 2017, su 545 leggi proposte dalla Commissione, il Parlamento Europeo di fatto ne ha contestate l’1,1%. «Il resto, e sono tutte leggi più potenti di quelle italiane, è passato liscio come l’olio».Mettiamo pure che i populisti euroscettici prendano buoni numeri a maggio: nel qual caso, «è stra-ovvio che avranno una vita infernale, anche solo per mantenere una frazione di ciò che oggi sbraitano agli elettori». In sostanza, un europarlamentare che volesse bloccare una super-legge della Commissione dovrebbe disporre di una barca di soldi e di supr-tecnici, per provare a convincere un mare di altri parlamentari, tra partiti e commissioni, solo per iniziare ad agire. Ma per arrivare a una conclusione di successo, continua Barnard, l’ipotetico parlamentare-eroe dovrebbe poi anche superare diversi veti. Il primo, salla commissione parlamentare interessata. Poi potrebbero contestargli un conflitto di giurisdizione fra commissioni, cioè dirgli: il tema non è di tua competenza. Se poi il parlamentare non ottiene la maggioranza assoluta di tutto il Parlamento Europeo, insieme all’ok del 55% del Consiglio dei ministri (cioè di tutti gli Stati Ue) la partita non può nemmeno cominciare. «Non è teatro pirandelliano: è come funziona ’sto delirio chiamato Parlamento Ue».Terza farsa, continua Barnard: questi europarlamentari “evirati” sono costretti a fare i lobbysti, e spesso di nascosto. Michael Kaeding, economista neoliberista dell’università Duisburg-Essen, ricoprire una decina d’incarichi nelle maggiori think-tanks d’Europa. Un super-tecnocrate, l’opposto di un euroscettico. Con Barnard, ha intrattenuto uno scambio chiarificatore. Kaeding è esplicito: la Commissione Europea, che emana tutte le leggi, è consapevole di avere scarsa legittimità democratica. Per questo, cerca sempre di non arrivare allo scontro coi parlamentari, coi quali tenta specifici accordi. Nientemeno: «Esiste un potere di fatto, dove il singolo parlamentare baratta con la Commissione su certe leggi, piuttosto che tentare uno scontro. Il problema – aggiunge Kaeding – è che questi negoziati non sempre sono trasparenti, o addirittura sono difficili da scoprire». Capito? Ridotto all’impotenza, l’europarlamentare si trasforma in lobbysta-ombra. Persino Kaeding arriva a domandarsi che senso abbiano queste trattative “riservate”, e quanto siano lecite.Che altro? Questo: il Parlamento Europeo può teoricamente bocciare sia la Commissione che il suo presidente. Una prospettiva che Barnard classifica «surreale», e spiega: «Il Parlamento Ue può in effetti bocciare sia la nomina del presidente della Commissione, sia la lista dei commissari». Ma poi cosa succede? «Presidente e commissari vengono ripresentati quasi identici, o al meglio con cosmetiche correzioni per salvare la faccia ai parlamentari contestatari». Ora, se un ipotetico Europarlamento “salviniano” non accettasse il salva-faccia, si riboccerebbe il tutto. A quel punto, si entrerebbe «nel labirinto chiamato “crisi costituzionale” secondo il Trattato di Lisbona», cioè la Costituzione Ue «introdotta di nascosto nel 2007, dopo la bocciatura francese e olandese della prima Costituzione proposta, bocciata perché “socialmente frigida”». E chi la risolverebbe, una crisi costituzionale di quel tipo? Il Parlamento Europeo? «Ma non facciamo ridere», taglia corto Barnard.Certo, resterenne il Consiglio Europeo. Ma idem: il Consiglio «ha consegnato dispute di ’sto genere a oltre 2.800 pagine di codicilli indecifrabili, scritti da tecnocrati nel 2007 (Trattato di Lisbona), da cui si desume – secondo studiosi come Jens Peter Bonde – che la crisi verrebbe a quel punto messa nelle mani della Corte Europea di Giustizia, che è ancor meno eletta della Commissione Ue». Risultato: una bocciatura del Parlamento Europeo varrebbe zero. Lo conferma l’inconsistenza assoluta, fisiologica, dell’assemblea elettiva di Strasburgo. Le leggi Ue, prodotte dalla Commissione, «ficcano il naso dappertutto, dagli omogeneizzati alle regole d’accesso alle comunicazioni satellitari». Spiegano «come devono essere fatte le lampade al neon, definiscono «cos’è la cioccolata», delimitano la privacy e stabiliscono come irrigare un campo. «Ma ciò che questa Europa ha portato di più devastante sulla più bella e democratica Costituzione del mondo, la nostra, sono i trattati», scrive Barnard. Già, perché le leggi teoricamente impugnabili dai parlamentari sono soltanto quelle secondarie, mentre quelle primarie sono proprio i trattati: da Maastricht a Lisbona, fino al devastante Fiscal Compact che ha sfigurato la Costituzione italiana imponendovi il pareggio di bilancio, cioè la distruzione del potere sovrano di spesa (e quindi dell’equità sociale).Ecco perché, secondo Barnard, chiedere voti per alzare la voce all’Europarlamento «è una colossale presa per il culo». L’europarlamentare è neutralizzato persino sulle leggine, e quindi conta zero sui trattati che regolano «la spesa di Stato per le nostre vite, malattie, lavoro, pensioni o giovani». Ecco come stanno le cose: il Trattato di Lisbona, con l’articolo 48 Tfeu, sancisce che per modificare un trattato europeo ci sono quattro procedure. In tutte e quattro, sottolinea Barnard, il ruolo del Parlamento Europeo è limitatissimo. Tre sono le vie fondamentali: procedura ordinaria, procedura semplificata e “passerelle” (in francese). «Vi garantisco che non esiste un premier in tutt’Europa che sappia cosa siano», dice Barnard, «perché sono procedure più complesse della fisica teorica: vi basti sapere quanti attori, a livello Ue, devono essere tutti insieme coinvolti, pluri-consultati, coordinati, informati e infine convinti, per cambiare un Trattato». L’elenco è sconfortante: attraverso un iter ultra-bizantino, praticamente folle, vanno convinti tutti i 28 governi nazionali (e anche solo uno di loro può porre il veto, bloccando tutto). Poi occorre avere con sé la Commissione Ue, il Consiglio Europeo, il Consiglio dei ministri, la cosiddetta Convenzione Europea. Ancora: la Conferenza Intergovernativa, la Bce e, in ultimo, il Parlamento Ue.«E qualcuno crede ancora che i futuri “salvinici” o “orbanici” eroi, a Strasburgo, potranno dire be’ sui trattati?». Ma poi, è vero che a maggio i populisti euroscettici vinceranno? «Non diciamo cretinate», scrive Barnard: «Basta guardare i numeri dei 9 gruppi parlamentari europei per capire che i populisti euroscettici dovrebbero centuplicare i loro consensi per dominare il Parlamento, e gli altri perderne il 90% di botto. Una cosa sembra certa dai sondaggi: su 12 partiti cosiddetti populisti in Europa, oggi solo la Lega otterrà un certo successo, gli altri aumenteranno di 2 o 3 o forse 4 seggi». Tutto qui. Insiste Barnard: «Vi hanno mentito su tutto». Chi? Di Maio, cioè Casaleggio, e naturalmente Salvini, «coi suoi due economisti con 10 chiili di Vinavil fra culo e poltrona politica» (Borghi e Bagnai, ormai silenti di fronte alla retromarcia gialloverde dopo le minacce Ue sul deficit). «Hanno calato le braghe di fronte a Bruxelles in 5 minuti, con una spesa pubblica che è un insulto alla storia italiana», conclude Barnard. «I padani si sono rimangiati la Eurexit perché “eh, abbiamo beccato solo il 17% e quindi sticazzi le promesse elettorali, ma la poltrona ce la teniamo”, mentre Salvini mandava emissari anonimi da “Bloomberg” a dirgli “rassicurate i mercati! Staremo nei ranghi”». Barnard li chiama “cialtroni”: «Oggi vi dicono che a maggio sbaraccheranno tutta l’Europa? Una balla, da vomitare».Votare per un Parlamento i cui legislatori non possono fare le leggi e in più devono lottare come matti se vogliono opporsi a potentissime leggi fatte da tecnocrati che nessuno ha mai eletto – cioè votare alle elezioni per il Parlamento Europeo – significa «rendersi complici intenzionali di una dittatura». Lo sostiene Paolo Barnard, nella sua “Guida alla vergogna delle elezioni europee”: un riassunto spietato dell’euro-farsa di maggio. «La gran massa di quelli che oggi vi stanno dicendo che una rimonta populista euroscettica alle prossime europee sarà esplosiva contro la bieca autocratica Ue di Bruxelles, è così ripartita: il 2% sono consapevoli falsari, il 98% sono inconsapevoli cretini», premette Barnard. «Se la mattina del 27 maggio 2019 il più potente burocrate d’Europa, Martin Selmayr, vedrà su “Sky News” il faccione raggiante di Salvini “che non lo tiene più nessuno”, scrollerà le spalle e penserà: “Vabbè, una rogna in più”. Mica altro, perché la sua Europa verrà solo di un poco infastidita». Il Parlamento Europeo, infatti, conta niente: è il più demenziale, tragicomico baraccone mai concepito nella storia politica umana. Credere che, dall’interno di un carrozzone impantanato come questo, un’eventuale fronte anti-Bruxelles possa iniziare a sparare cannonate micidiali fin dalla mattina del 27 maggio, «è da fessi», dice Barnard, «o da falsari come Salvini, Bannon, il 5 Stelle e i loro soci in Ue».
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Costretta a coprire Selmayr: così è morta Laura Pignataro
Bruxelles, 17 dicembre 2018, ore 7.30: Laura Pignataro chiede a Lorenza, la ragazza di cui era ospite da alcuni giorni, di accompagnarle la figlia quattordicenne alla fermata dell’autobus. Non si sente bene, si giustifica. Appena le due donne se ne sono andate, Laura sale all’ultimo piano dell’edificio e si getta nel vuoto: morirà all’istante. Per la polizia belga è suicidio: l’ennesimo (sono tra i 140 e i 200 all’anno, i suicidi a Bruxelles). Perché questa donna italiana di 50 anni si sarebbe suicidata? Nessuno lo saprà mai per certo, scrive Jean Quatremer su “Libération”, visto che non avrebbe lasciato nessun messaggio d’addio. «Fine della storia? Non proprio. Perché Laura Pignataro era una persona che contava», nel club europeo. Il quotidiano francese la definisce «geniale giurista, figlia di un alto magistrato, formatasi in Italia, Stati Uniti, Francia e Spagna». Faceva parte del gotha degli alti funzionari della Commissione Ue. Dal 1995 era in forza al prestigioso Servizio giuridico (Sj), dove nel 2016 era stata promossa a capo del Dipartimento risorse umane. È questa la funzione che l’ha portata a svolgere un ruolo-chiave nella gestione del caso Martin Selmayr, l’ex capo dello staff tedesco di Jean-Claude Juncker, promosso segretario generale della Commissione il 21 febbraio 2018, «in violazione delle norme dello statuto della funzione pubblica europea».Uno scandalo che non cessa di provocare ondate, scrive “Libération”: dopo aver denunciato un vero e proprio “colpo di Stato” nell’aprile 2018, il Parlamento Europeo il 13 dicembre ha chiesto le dimissioni di Selmayr a stragrande maggioranza (71% dei voti). Per Laura Pignataro, i guai sono cominciati il 28 febbraio 2018, quando la commissione per il controllo dei bilanci del Parlamento Europeo, di fronte alla portata mediatica dello scandalo, ha aperto un’indagine sul “Selmayrgate”, inviando una lista di 134 domande alla Commissione. «È stato il panico», confessa un eurocrate, che chiede di restare anonomo: il problema, aggiunge, è che il servizio legale (quello della Pignataro) è stato bypassato, «perché sapevano che si sarebbe opposto a questo inganno». E non sarebbe l’unico. Per esempio: com’è che Juncker e Selmayr hanno taciuto per più di due anni sul prepensionamento anticipato dal segretario generale uscente, l’olandese Alexander Italianer? E perché la sua pensione è stata annunciata solo il 21 febbraio 2018, durante il plenum dei 28 commissari, solo dopo la nomina di Martin Selmayr come vicesegretario generale?Un incontro per tentare di redigere le risposte è stato convocato il 24 marzo 2018, ricorda “Libération”. Problemi: lo spagnolo Luis Romero, direttore generale del servizio legale, lasciò la stanza non appena vi entrò Selmayr. Laura Pignataro, presente, avrebbe voluto seguirlo (ma non osò farlo). Anche perché, spiega Jean Quatremer, ad andarsene avrebbe dovuto essere Selmayr, in flagrante conflitto d’interessi (si parlava di lui, dopotutto). E così, continua il giornalista di “Libération”, non sorprende che i deputati non si fossero assolutamente convinti della validità degli argomenti della Commissione. Così hanno preparato una seconda lista di questiti, 61 domande. Le risposte? Sono state preparate il 2 aprile 2018 dalla stessa squadra e, come la prima volta, alla presenza (inopportuna) di Selmayr. «Laura, uscendo da questi incontri, era in preda alla rabbia», rivela uno dei suoi amici: «Sapeva di esser stata coinvolta in un uso illegale di interessi. Da avvocato fedele all’istituzione, si era resa conto che la nomina di Selmayr non era stata legale». Fu quindi costretta a tentare di giustificare la violazione della legge?A maggio, la mediatrice irlandese Emily O’Reilly iniziò la sua indagine in un’atmosfera di tensione. Chiese l’accesso al server della Commissione: permesso respinto. Richiese quindi la trasmissione di tutte le e-mail relative alla nomina di Selmayr: nuovo rifiuto. E qui, Laura Pignataro si sentì in dovere di collaborare. «Non ho potuto mentirle», ha detto Laura a un parente: «Ho dato tutti i file alla mediatrice». Dal canto suo, racconta “Libération”, Selmayr non ha saputo subito del “tradimento” della Pignataro, che considerava il suo scudo legale. Pubblicato il 4 settembre, il rapporto del mediatore europeo è stato travolgente: sembra che la nomina di Selmayr sia stata preparata già a gennaio 2018, e pare che il pupillo di Juncker non abbia mai dubitato dell’omertà dei funzionari, consapevoli fin dall’inizio della frode. A quel punto, Selmayr ha intuito che il suo “problema” si chiamava Laura Pignataro: non pteva che essere lei, la “gola profonda”. Al che, l’italiana dovette ricevere nuove istruzioni: la chiamarono nel cuore della notte per spiegarle come dovesse mentire alla O’Reilly. A dicembre, dopo quest’ultimo atto, Laura Pignataro confidò al suo entourage che la sua carriera a Bruxelles era praticamente finita. «Non puoi immaginare cosa sono stata costretta a fare nelle ultime settimane», disse a un amico, secondo il quale «sembrava terrorizzata dall’ostilità di Selmayr». Quattro giorni dopo, il tragico tuffo nel vuoto.Luis Romero, il direttore del servizio legale in cui lavorava Laura, venne a conoscenza del presunto suicidio l’indomani mattina: non disse nulla e lasciò la riunione che aveva appena cominciato. Poi, affidò un messagio riservato al colleghi, sulla rete Intranet: «Luis Romero si rammarica di dover darvi la triste notizia della morte di Laura Pignataro». Aggiunge “Libération”: «Né Martin Selmayr né Günther Oettinger, commissario per l’amministrazione, né lo stesso Juncker ritennero opportuno inviare le loro condoglianze alla famiglia, né di partecipare o di essere rappresentati alla cremazione, tenutasi il 21 dicembre a Bruxelles». Quello stesso giorno, d’altra parte, «tutti i funzionari avevano ricevuto un messaggio di “buone feste” da parte di Selmayr». Cinismo teutonico? «Siamo rimasti tutti scioccati», dice a “Libération” uno degli amici di Laura Pignataro. Selmay era assente anche alla cerimonia del 31 gennaio, per commemorare Laura. Eppure la conosceva bene, ci aveva collaborato direttamente per dieci mesi. «Umanamente, la Commissione è un posto orribile», dice al giornale francese un funzionario dell’istituzione. «La brutalità è parte integrante di questa casa», dichiarò lo stesso Selmayr nel 2017 sempre a “Libération”.Uno dei suoi portavoce, Alexander Winterstein, fu tranciante: la morte della Pignataro? «Una questione interamente privata». Certo, Laura Pignataro «è stata un’eccellente e brillante giurista, una collega e molto apprezzata». Perché allora si sarebbe uccisa? «È difficile capire il suo gesto: era allegra, forte ed energica», la ricorda uno dei suoi ex capi, Giulano Marenco, vicedirettore generale del dipartimento legale, ora in pensione. «La sua situazione personale era complicata», ammette: «Suo marito, Michel Nolin, funzionario civile francese nel servizio legale, aveva combattuto per anni contro la Commissione perché sentiva di non avere avuto la carriera che meritava». Si era persino lamentato con la Corte di giustizia, perdendo però la vertenza. E c’è chi sospetta che la nomina di Laura in quella posizione – così delicata e scomoda – potrebbe aver a che fare con il caso del marito. «La relazione della coppia si era deteriorata così gravemente – scrive “Libération” – che Laura Pignataro si era rifugiata a casa della sua amica, con sua figlia», alcuni giorni prima del fatale volo dal tetto. Il bando per sostituire Laura Pignataro è stato pubblicata il 4 marzo, quasi tre mesi dopo la sua morte. Conclude Jean Quatremer: «Sappiamo già che Selmayr chiamerà un suo fedele, tedesco come lui».Bruxelles, 17 dicembre 2018, ore 7.30: Laura Pignataro chiede a Lorenza, la ragazza di cui era ospite da alcuni giorni, di accompagnarle la figlia quattordicenne alla fermata dell’autobus. Non si sente bene, si giustifica. Appena le due donne se ne sono andate, Laura sale all’ultimo piano dell’edificio e si getta nel vuoto: morirà all’istante. Per la polizia belga è suicidio: l’ennesimo (sono tra i 140 e i 200 all’anno, i suicidi a Bruxelles). Perché questa donna italiana di 50 anni si sarebbe suicidata? Nessuno lo saprà mai per certo, scrive Jean Quatremer su “Libération”, visto che non avrebbe lasciato nessun messaggio d’addio. «Fine della storia? Non proprio. Perché Laura Pignataro era una persona che contava», nel club europeo. Il quotidiano francese la definisce «geniale giurista, figlia di un alto magistrato, formatasi in Italia, Stati Uniti, Francia e Spagna». Faceva parte del gotha degli alti funzionari della Commissione Ue. Dal 1995 era in forza al prestigioso Servizio giuridico (Sj), dove nel 2016 era stata promossa a capo del Dipartimento risorse umane. È questa la funzione che l’ha portata a svolgere un ruolo-chiave nella gestione del caso Martin Selmayr, l’ex capo dello staff tedesco di Jean-Claude Juncker, promosso segretario generale della Commissione il 21 febbraio 2018, «in violazione delle norme dello statuto della funzione pubblica europea».
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Ponti: Tav ridicolo. E ben 133 miliardi di progetti-fantasma
«Un ex amministratore delegato e super-ferroviere (ex da poco tempo) mi disse che, visto che sulla linea Torino-Lione non ci passerà nessuno, l’ipotesi di potenziare la linea che passa per Nizza e Ventimiglia era assolutamente da prendere in considerazione». Parola di Marco Ponti, super-tecnico ingaggiato da Danilo Toninelli per stilare finalmente un rapporto costi-benefici per la contestatissima linea Tav Torino-Lione, completamente inutile. Non solo: se i miliardi per l’alta velocità valsusina so rivelerebbero uno spreco assoluto e insensato, ancor peggio sarebbero i progetti-fantasma lasciati al ministero dal precedecessore di Toninelli, cioè Graziano Delrio. Letteralmente: 133 miliardi di progetti «senza nessuna valutazione», dice il professor Ponti, già consulente della Banca Mondiale e docente al Politecnico di Milano, considerato uno dei massimi esperti al mondo in materia di trasporti. Le infrastrutture progettatte con Delrio? «Non si sa nemmeno quanto costano e quanto ci si ricava: non c’è un’analisi di traffico. Sono state approvate per partito preso. Quindi, se vogliamo, il progetto della Tav è irrilevante rispetto al complesso dei progetti che vanno valutati. Io ne ho sul tavolo per 27 miliardi».Parlando con Maria Teresa Santaguida dell’agenzia di stampa Agi, Marco Ponti definisce testualmente «un’enorme cazzata» il progetto Tav Torino-Lione. I progetti in giacenza al ministero, ereditati dai governi Renzi e Gentiloni? Non si sa quanto traffico ospiterebbero, né si conosce l’eventuale rientro finanziario: «Si sanno solo i costi, perché sono soldi nostri». Attacca Ponti: «Solo perché si tratta di soldi dei contribuenti, non occorre valutare?». Il professor Ponti, economista, è bersaglio di polemiche dopo che la sua analisi ha sonoramente bocciato la Torino-Lione. Si difende contrattaccando: per decenza, si faranno analisi costi-benefici su tutti i progetti-fantasma parcheggiati al ministero da Delrio. Molte opere avrebbero alternative meno costose, tutte da analizzare. «Sulla Tav è più difficile, perché quello è un “tubo”: o si fa o non si fa». Il professore, intanto, critica «l’assioma» per il quale il trasporto su ferro inquinerebbe meno di quello su gomma: «Grazie alla tecnologia abbiamo già risultati strepitosi: un camion di oggi inquina un decimo di uno di vent’anni fa. E questa è la strada che sta seguendo tutto il mondo: si investono decine di miliardi per fare veicoli ibridi o elettrici. Tecnologia che poi pagano gli utenti, mentre la ferrovie le paghiamo noi».Tra le accuse a Ponti, l’aver redatto in passato una pubblicazione che valutava positivamente la Torino-Lione. Il professore si infuria: «Il precedente studio è una balla, è una delle bugie più odiose pronunciate da Enrico Mentana: quello che ha fatto è orrendo». E spiega: «Quello studio non era un’analisi costi-benefici, ma un’analisi di valore aggiunto: il che non ha niente a che vedere con l’analisi costi-benefici». Aggiunge Ponti: «Col valore aggiunto è fattibile qualsiasi cosa, anche un’autostrada di alluminio tra la Sicilia e la Sardegna, perché non misura il rapporto tra costi e benefici: infatti ai politici piace tantissimo». Secondo lo studioso, confrontare la stima del valore aggiunto con l’analisi costi-benefici «è una porcata indegna di un giornalista serio». Tutti, ovviamente, l’hanno usata per dire: ecco, Ponti dice una volta sì e l’altra no, a seconda di chi lo paga. Falso: la consulenza al governo gialloverde è gratis. «Ci tengo a dire che non sono pagato, per mia scelta», sottolinea Ponti: «La libertà ha un prezzo, io sono ricco e non me ne frega niente». Insiste: «Nessuno deve potermi dire che dico sì o no perché sono pagato. Da 10 anni valuto i progetti sulla base dei costi e dei benefici che riesco a calcolare».Il progetto Torino-Lione, aggiunge Ponti, «mi dicevano già che era indifendibile: non sarebbe stato un buon uso delle risorse pubbliche, perché costa troppo caro rispetto al traffico che ci passerebbe su». E come spiegare, allora, tanta insistenza nel proporre una grande opera così disastrosamente sgangherata, improbabile, inutile e oltretutto avversata dall’intera comunità locale della valle di Susa? «La lobby ferroviaria in Europa è intoccabile perché muove voti e soldi», sostiene Ponti: viene dunque da lontano l’ostinazione ventennale sulla ridicola Torino-Lione. Colpa della potente lobby europea, che si mette tranquillamente in tasca Bruxelles. «La Commissione Europea – dice ancora Ponti – decide senza seguire le regole, tra cui quella in base alla quale chi inquina paga, perché anche le ferrovie sono altamente inquinanti». E attenzione: «I ritorni finanziari sull’investimento per infrastrutture ferroviarie sono sempre zero». Chi gliel’ha detto? «La stessa commissaria Ue ai trasporti, la slovena Violeta Bulc».«Un ex amministratore delegato e super-ferroviere (ex da poco tempo) mi disse che, visto che sulla linea Torino-Lione non ci passerà nessuno, l’ipotesi di potenziare la linea che passa per Nizza e Ventimiglia era assolutamente da prendere in considerazione». Parola di Marco Ponti, super-tecnico ingaggiato da Danilo Toninelli per stilare finalmente un rapporto costi-benefici per la contestatissima linea Tav Torino-Lione, completamente inutile. Non solo: se i miliardi per l’alta velocità valsusina so rivelerebbero uno spreco assoluto e insensato, ancor peggio sarebbero i progetti-fantasma lasciati al ministero dal precedecessore di Toninelli, cioè Graziano Delrio. Letteralmente: 133 miliardi di progetti «senza nessuna valutazione», dice il professor Ponti, già consulente della Banca Mondiale e docente al Politecnico di Milano, considerato uno dei massimi esperti al mondo in materia di trasporti. Le infrastrutture progettatte con Delrio? «Non si sa nemmeno quanto costano e quanto ci si ricava: non c’è un’analisi di traffico. Sono state approvate per partito preso. Quindi, se vogliamo, il progetto della Tav è irrilevante rispetto al complesso dei progetti che vanno valutati. Io ne ho sul tavolo per 27 miliardi».
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Fake-Tav, Airola: tutto inventato, dai fondi Ue alle penali
Eccoci a parlare di Tav: finalmente una discussione, visto che quando abbiamo votato la verifica degli accordi con la Francia nel 2017 i tempi degli interventi erano stati contingentati incostituzionalmente – giusto per chiarirlo a chi si lamentava che si parlasse poco di quest’opera, nell’aula. Parliamone. Questa storia del Tav è intrisa di anomalie gravissime e regole calpestate, a cominciare dalla repressione violenta attuata dai governi precedenti a danno dei cittadini della val Susa. C’è da domandarsi come mai un popolo si compatti in questo modo, trasversalmente – giovani e anziani, dal vigile al sindaco – contro un’opera che voi definite fondamentale; un popolo che da vent’anni non si arrende, ma continua a lottare. Avete mai ascoltato le loro ragioni? No, non l’avete mai fatto: forse per paura della loro competenza, o perché sapete bene che le argomentazioni pro-Tav, SìTav, come minimo sono spesso delle “fake news”, sono delle menzogne: primo, perché l’accordo di base tra Italia e Francia nel 2001 prevedeva (all’articolo 1) che i lavori partissero a saturazione della linea esistente, che attualmente è utilizzata per meno del 15% della sua capacità di trasporto.Quindi dove stanno questi enormi flussi di merci tra noi e Lione? Le proiezioni di aumento del traffico (fatte vent’anni fa) sono miseramente crollate, come confermato recentemente dallo stesso Osservatorio della Torino-Lione. Inutile, quindi, far andare un treno merci – non passeggeri – in una galleria da 57 chilometri alla velocità di 160 all’ora, guadagnando una manciata di minuti, rispetto all’attuale linea. Secondo: perché non è mai partita, l’opera? Non c’è un centimetro – dico, un centimetro – di tunnel di base realizzato. Quest’opera non ha un centimetro di “buco”: sono state realizzate solo attività di riconoscimento geologico, comprese quelle in Francia. Perché più volte anche la Francia ha fatto un passo indietro: la Corte dei Conti francese, molto chiaramente, ha detto che l’opera è troppo cara, e quindi consiglia di ammodernare la linea esistente. In più ha ricordato che anche altri paesi, come Slovenia e Ungheria, hanno preferito migliorare l’esistente, piuttosto che imbarcarsi in opere costosissime e inutili. Più volte la stessa Europa ha scartato progetti, modificando la destinazione dei fondi. Inoltre, il Portogallo ha rinunciato all’opera senza pagare un centesimo di penale, pur avendo già ricevuto parte dei finanziamenti.Quindi, per favore, non parlateci più della grande linea Kiev-Lisbona, perché vi fareste ridere dietro: quella è roba da Ottocento, da Michele Strogoff. Oggi il traffico di merci viaggia prevalentemente sulla direttrice nord-sud, non su quella est-ovest. Assodato che non ci sono flussi di merci che giustifichino quest’opera, sappiate che la linea attuale può tranquillamente trasportare Tir e container: ma pochissimi la usano. Anche la storia dell’inquinamento si può risolvere con una tassa sul trasporto su gomma, come fanno gli svizzeri. E allora parliamo dello spauracchio sventolato continuamente: le penali. Vi voglio svelare un segreto: non ci sono penali da pagare. In riferimento agli appalti attribuiti, non sussiste alcun diritto a richiedere penali, come recita l’articolo 2, comma 2 e 3, lettera C, della legge 191 del 2009 (era la finanziaria 2010). La norma stabilisce che il contraente o l’affidatario dei lavori deve assumere l’impegno di rinunciare a qualsiasi pretesa risarcitoria in relazione alle opere individuate: deve rinunciare a qualunque pretesa, anche futura, connessa al mancato o ritardato finanziamento dell’intera opera e di lotti successivi.Viene ribadito, questo, anche all’articolo 3 della legge di ratifica del 5 gennaio 2017, quella precedentemente citata; identica previsione è contenuta nella delibera Cipe numero 67 del 2017, nel combinato disposto degli articoli 1 e 6 del deliberato. Io parlo di cose vere, scritte nero su bianco. Penali nei rapporti internazionali? Si tratta di decisioni rimesse agli Stati sovrani, come ricorda anche l’avvocatura dello Stato nella sua relazione giuridica, che deve essere solidamente ancorata alla sostenibilità socio-economica e finanziaria dell’intera opera secondo le stesse norme europee. Non si vede come possano imputarsi responsabilità gravi in capo agli Stati, quando questi presupposti mancano (cioè quando mancano i soldi). Esiste infine un precedente: quello del Portogallo, che nel 2012 cancellò la propria tratta ad alta velocità da Lisbona a Madrid. E non ci fu alcuna richiesta di indennizzo, o altra compensazione, da parte della Commissione Europea e della Spagna. Quindi nessuna penale, tranne le inutili minacce di Telt e il diktat dell’Unione Europea.Parliamo dei costi. La Torino-Lione è una linea che dovrebbe costare 9,6 miliardi di euro (attualizzati al 31 dicembre 2017) più 1,4 miliardi già spesi tra studi preliminari, indagini e gallerie geognostiche. Arriviamo a oltre 11 miliardi, considerato che per adesso – da parte dell’Unione Europea – c’è un solo impegno verbale per l’incremento del suo contributo dal 40 al 50%. Quindi potremmo anche non riceverlo. Il finanziamento del tunnel è di fatto rinviato all’approvazione del bilancio pluriennale dell’Unione Europea del 2021. I fondi già stanziati nel Grant Agreement non potranno essere utilizzati a causa dei ritardi, ma soprattutto perché l’articolo 16 dell’accordo del 2012 impone a Italia e Francia la disponibilità certa del finanziamento di tutta l’opera, compreso l’importo del 40%: quindi quei soldi non arriveranno. Contributo solo promesso, dunque, ma non ancora approvato dall’Unione Europea, quale requisito indispensabile per avviare la costruzione del tunnel di base: quindi il tunnel non può partire. Questa disponibilità di fondi non esiste: la Francia non ha stanziato un solo euro, per il tunnel di base.Ricapitolando: arriviamo a un costo superiore ai 13 miliardi, di cui più di 11 ancora da spendere. Inoltre, la tratta francese (che costava 7,7 miliardi nel 2011) oggi costerebbe circa 9 miliardi. Voilà: superati i 20 miliardi. Tutto ciò non servirebbe, ripeterlo, perché c’è scritto nero su bianco nell’analisi costi-benefici che l’opera non conviene: non è una fake news, la commissione ha impiegato tanto tempo, proprio per approfondire adeguatamente la materia. Non dimentichiamo che, per di più, c’è una ripartizione asimmetrica dei costi: oggi è indispensabile che la ripartizione sia riiscussa, tra Italia e Francia, alla luce del fatto che i due paesi non vogliono più fare le linee di accesso al tunnel: decisione che modifica questa partizione asimmetrica. Cioè: un chilometro italiano costerebbe 280 milioni, un chilometro francese 60. Quindi, chi insiste su quest’opera non ha a cuore l’interesse del popolo, ma quello di multinazionali ed euro-mafie che non aspettano altro che aggiudicarsi ricchi appalti. Peraltro, essendo giuridicamente territorio francese (anche il cantiere italiano sarebbe in territorio francese) gli appalti se li aggiudicherebbero senza leggi antimafia. Dovranno però aspettare un po’, perché sull’intera fattibilità la Francia deciderà soltanto nel 2038. Capito?Ma come potete pensare di spendere miliardi per un’opera inutile che, se tutto procede come desiderato dei promotori, potrebbe essere terminata fra trent’anni? E oggi mi dovete spiegare come andrete a Matera, “città della cultura” 2019. Questo paese è stanco di veder sprecare i soldi. Questo paese vuole strutture adeguate a muoversi, a viaggiare su strade locali e non andare a lavorare stipati come sardine in carri bestiame; vorrebbe poter farsi una gita senza dover prendere due bus e un taxi. Telt non ha alcun titolo o via libera, ancorché silenzio-assenso, al lancio delle gare Tav. Qualora Telt procedesse in tal senso, questo comporterebbe una grave e diretta violazione degli accordi Italia-Francia, che sono legge vigente dello Stato italiano. Il governo è direttamente responsabile dell’operato di Telt. E i residui fondi dell’Unione Europea attualmente a disposizione sono già persi, anche in presenza di proroga del Grant Agreement al 2020. Le attività finanziate sono in grave ritardo danni a causa di comprovate inefficienze di Telt. La Commissione Europea e l’Inea sono perfettamente a conoscenza di ciò. A prescindere dal lancio delle gare Telt, la Commissione Europea vorrebbe decurtare oltre 300 milioni di sovvenzioni assegnate (ma la stessa Commissione non può imporre un calendario).Tale situazione è l’esatta replica di quanto già visto il 2013 col governo Monti. Il grave ritardo a cui assistiamo è diretta responsabilità chi doveva agire per tempo e non ha agito, a cominciare dai commissari dei governi passati. Ma qui non ci sono in gioco solo miliardi sottratti a scuola, ospedali e ferrovie utili. C’è una questione di ordine etico e morale. Lo Stato ha spianato la volontà popolare con la violenza. Lo Stato non ha ascoltato i cittadini. Lo Stato si è comportato da dittatore, calpestando tutto e tutti per il Tav. Ed è scoccata l’ora di dare giustizia al popolo valsusino, e di riconoscere – dopo quasi 30 anni – che avevano ragione loro, i valsusini. Non solo vogliamo mantenere una promessa fatta tanto tempo fa da Beppe Grillo e da tutti noi, ma li ringrazieremo per quello che hanno fatto per il paese, e soprattutto per l’esempio che ci hanno dato. La sovranità appartiene al popolo. E quando il popolo è unito, nessuno può batterlo.(Alberto Airola, intervento al Senato il 7 marzo 2019. Senatore piemontese del Movimento 5 Stelle, Airola è un severo oppositore del progetto Tav Torino-Lione, fondato essenzialmente su dati gonfiati e proiezioni illusorie).Eccoci a parlare di Tav: finalmente una discussione, visto che quando abbiamo votato la verifica degli accordi con la Francia nel 2017 i tempi degli interventi erano stati contingentati incostituzionalmente – giusto per chiarirlo a chi si lamentava che si parlasse poco di quest’opera, nell’aula. Parliamone. Questa storia del Tav è intrisa di anomalie gravissime e regole calpestate, a cominciare dalla repressione violenta attuata dai governi precedenti a danno dei cittadini della val Susa. C’è da domandarsi come mai un popolo si compatti in questo modo, trasversalmente – giovani e anziani, dal vigile al sindaco – contro un’opera che voi definite fondamentale; un popolo che da vent’anni non si arrende, ma continua a lottare. Avete mai ascoltato le loro ragioni? No, non l’avete mai fatto: forse per paura della loro competenza, o perché sapete bene che le argomentazioni pro-Tav, SìTav, come minimo sono spesso delle “fake news”, sono delle menzogne: primo, perché l’accordo di base tra Italia e Francia nel 2001 prevedeva (all’articolo 1) che i lavori partissero a saturazione della linea esistente, che attualmente è utilizzata per meno del 15% della sua capacità di trasporto.
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Chi comanda davvero in Italia? Non la politica (non più)
Fa sempre una certa impressione scoprire che la maggior parte delle persone ignora che il potere non è più in mano della politica da almeno 50 anni. Alla televisione mantengono un alto gradimento i talk show dedicati alla politica e sui social rivoluzionari da tastiera i cyberutenti si massacrano a colpi di destra e sinistra, bianchi e neri, guelfi e ghibellini anche se sono categorie ormai svuotate completamente del loro significato e, come tali, inutilizzabili. Eppure le informazioni sul vero potere ci sono. E sono abbondanti. E sono imbarazzanti, persino. Visto che però la cosa passa in modo a quanto pare ancora confuso, proviamo a stilare un elenco dei veri poteri in Italia, senza tirare troppo in ballo Trilaterale e gruppo Bildelberg, che puzzano di complottismo. Allora, com’è noto, Parlamento e governo sono luoghi ove si prendono alcune decisioni importanti, ma si basano quasi esclusivamente su decisioni già prese da organismi sovranazionali e in quanto tali antidemocratici (come la Commissione Europea). Affinchè ciò avvenga sotto il profilo “pratico” i politici nostrani sono circondati da una categoria di personaggi piuttosto nota e che vengono chiamati “i lobbisti”. Ecco, se ne hai già sentito parlare, sappi che comandano loro in Italia e lo fanno sulla scorta delle decisioni e pressioni provenienti da questi gruppi sovranazionali cui facevo cenno prima.Negli ultimi anni la figura del “responsabile delle relazioni istituzionali” (o “public affairs specialist”) è stata ripulita dal linguaggio mainstream e ha cominciato a conoscere una buona reputazione. Anche al di fuori delle aziende, sono tanti quelli che la considerano un’attività dignitosissima, che richiede studio, competenza e passione. Su “Linkiesta!, nel 2013, è comparsa persino un’intervista: chi è il lobbista? E cosa fa di preciso? «È un tecnico – dice Fabio Bistoncini della F&B Associati – che rappresenta un gruppo di interesse e che ha l’obiettivo di comunicare con chi gestisce il processo decisionale per influenzarlo, cercando per esempio di modificare una normativa specifica oppure, ed è ciò che si definisce “advocacy”, tentando di inserire un tema all’ordine del giorno nell’agenda politica». Qualcuno li chiama anche “spin doctor”, qualcuno dice che sono esperti in relazioni e che hanno una cultura umanistica, in prevalenza.A giudicare dai nomi che girano e dal loro curriculum vitae, in verità, i lobbisti sono dei mestatori capaci di raccogliere fondi perché la politica prenda determinate decisioni piuttosto che altre. In America, contrariamente a quello che molti “liberal” possono pensare, la categoria dei lobbisti è ancora più forte che in Italia e determina chi sarà e chi non sarà presidente della Repubblica Usa, sulla scorta dei fondi recuperati in sede di campagna elettorale. In altri termini, ci sono società che mettono soldi in “cultura lobbistica” e gli spin doctor ci mettono la faccia col politico di turno spostandolo di qua o di là a piacimento. Come ci riescono, senza essere dei maghi? Be’, provateci voi a fare una campagna elettorale senza quattrini, senza conoscenze, senza pubblicazioni. Può anche capitare, ma dopo – a certi livelli – per rimanere dentro il circo e salire gradini gerarchici occorre appoggiarsi a questi, che però fanno pagare il prezzo ben presto: vogliono che “tu” politico prenda decisioni che loro stessi hanno approntato a vantaggio di chi li finanzia, soprattutto banche e società industriali.Alcuni esempi: a parte la curiosa presenza sul territorio nazionale di istituti come l’Università Luiss a Roma o il Cuoa a Vicenza o la Bocconi milanese, a voler fare nomi di persona non si possono trascurare i Caltagirone di Roma, imparentati con il segretario dell’Udc Pierferdinando Casini. Il fondatore ed editorialista del giornale “Il Riformista”, Claudio Velardi (già comunista…). La famigerata società Cattaneo Zanetto di Alberto Cattaneo, Claudia Pomposo e Paolo Zanetto. I fratelli Gavio, costruttori che pressano da anni per fare ’sto inutile Ponte di Messina. L’enorme studio legale che faceva capo a Tina Lagostena Bassi (morta nel 2008 e nota anche come conduttrice televisiva di fascia notturna). Ho fatto abbastanza nomi? Ce ne sono molti altri, ma in Italia quelli che ho nominato sopra ci comandano di sicuro. Pensateci, quando andrete alle urne a perdere tempo.(Massimo Bordin, “Chi comanda davvero in Italia?”, dal blog “Micidial” del 19 febbraio 2019).Fa sempre una certa impressione scoprire che la maggior parte delle persone ignora che il potere non è più in mano della politica da almeno 50 anni. Alla televisione mantengono un alto gradimento i talk show dedicati alla politica e sui social rivoluzionari da tastiera i cyberutenti si massacrano a colpi di destra e sinistra, bianchi e neri, guelfi e ghibellini anche se sono categorie ormai svuotate completamente del loro significato e, come tali, inutilizzabili. Eppure le informazioni sul vero potere ci sono. E sono abbondanti. E sono imbarazzanti, persino. Visto che però la cosa passa in modo a quanto pare ancora confuso, proviamo a stilare un elenco dei veri poteri in Italia, senza tirare troppo in ballo Trilaterale e gruppo Bilderberg, che puzzano di complottismo. Allora, com’è noto, Parlamento e governo sono luoghi ove si prendono alcune decisioni importanti, ma si basano quasi esclusivamente su decisioni già prese da organismi sovranazionali e in quanto tali antidemocratici (come la Commissione Europea). Affinché ciò avvenga sotto il profilo “pratico” i politici nostrani sono circondati da una categoria di personaggi piuttosto nota e che vengono chiamati “i lobbisti”. Ecco, se ne hai già sentito parlare, sappi che comandano loro in Italia e lo fanno sulla scorta delle decisioni e pressioni provenienti da questi gruppi sovranazionali cui facevo cenno prima.
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L’oligarchia zootecnica ci sta spegnendo, anche coi vaccini?
Falsi vaccini, progettati per rendere innocua un’intera generazione? Quella che, per inciso, si troverà senza lavoro con l’esplosione – ormai in corso – della robotizzazione della produzione, grazie all’avvento della sconvolgente rivoluzione tecnologica del terzo millennio, affidata all’intelligenza artificiale. Lo sostiene l’avvocato Marco Della Luna, autore di saggi come “Tecnoschiavi” e “Oligarchia per popoli superflui”, che gettano una luce sinistra sulle principali dinamiche della globalizzazione, denunciando un disegno egemonico, da parte dell’élite, fondato su meccanismi ormai “zootecnici” di manipolazione di massa. Per Della Luna, purtroppo, l’attuale democrazia non è una finzione: in realtà, scrive l’analista, «ogni società è gestita da una ristretta oligarchia detentrice di potere, ricchezza, competenza». Quando una classe dominante perde il potere, un’altra la sostituisce. E per ogni oligarchia, «la popolazione è un mezzo, non un fine: uno strumento da controllare e sfruttare, ma anche dimensionare, in base all’evoluzione delle tecniche e delle circostanze». Alle categorie intermedie, l’élite consente anche di violare le leggi: Della Luna ne parlerà nel saggio “Le chiavi del potere”, di cui è in uscita la terza edizione. Il vero problema? Siamo noi: ci lasciamo regolarmente ingannare.«Le masse, educate e incoraggiate a ciò dalla famiglia, dalla scuola e da quasi ogni altra istituzione sociale – scrive Della Luna nel suo blog – tendono a pensare che, all’inverso, la popolazione (il suo benessere, la sua tutela) sia il fine dell’ordinamento sociale, politico, giuridico, fino al punto di convincersi che il popolo sia il contraente attivo del patto sociale e il detentore della sovranità, e che la democrazia esista». Tutt’alpiù le masse «si scandalizzano quando si accorgono di ingiustizie e inefficienze palesi e facilmente rimediabili a danno della collettività, che le istituzioni e la politica però lasciano continuare». Da questo schema di dominio non si esce mai, secondo Della Luna: la lotta di classe «è assolutamente improduttiva, perché non cambia (ma riproduce esattamente) quella struttura oligarchica della società, che professa di voler abbattere». Forse, per le masse “dominate”, è preferibile «restare inconsapevoli, credere nell’illusione della democrazia-legittimità, o pensare che l’ineguaglianza sociale sia nell’ordine naturale delle cose oppure voluta da Dio, oppure ancora conseguenza del karma».Che di “dominio” si tratti, secondo Della Luna, lo si vede da come lo Stato, ad esempio, «autorizzi la produzione e il commercio di alimenti e bevande, soprattutto diretti ai fanciulli, che sono diabetizzanti, obesizzanti, cancerogeni, neurotossici». In molti luoghi pubblici, di fatto, si permette «lo smercio di droga», sotto gli occhi di tutti. Ci sono leggi che «rimettono prontamente in libertà delinquenti pericolosi, che poi tornano a delinquere». E poi «si omettano controlli e manutenzioni di poco costo su opere pubbliche, che poi causano stragi e danni economici enormi». Vengono fatte scelte di politica economica palesemente sbagliate e contrarie agli interessi nazionali? Ovvio: «Gli interessi dei manovrati non coincidono con quelli dei manovratori». Della Luna punta il dito contro l’istruzione, la sanità, la giustizia, la polizia, la difesa, le tasse: «Si tratta di servizi introdotti e gestiti dalla classe dominante, nei vari paesi e nelle varie epoche storiche, allo scopo di aumentare l’efficienza del suo strumento, cioè della popolazione generale, come le stalle e il veterinario sono uno strumento per aumentare la redditività del bestiame».La stessa sanità, aggiunge Della Luna, «è utile ad avere lavoratori e combattenti più numerosi e più sani anche innalzando la natalità – finché non si scelga di ridurre la popolazione o di aumentarne le malattia per vendere più farmaci». La pubblica istruzione? Finisce per formare «sudditi e lavoratori più indottrinati e produttivi». La previdenza sociale? Fidelizza al sistema le classi subalterne. Giustizia e apparati di sicurezza contribuiscono a sostenere «la percezione di legittimità del potere costituito, tutelandone al contempo i privilegi». Quanto al sistema bancario-monetario, va da sé: serve a «concentrare nelle mani della grande finanza il controllo dei redditi, dello sviluppo, del potere politico, permettendo e coprendo (in cooperazione con la giustizia), al contempo, le grandi truffe al risparmio e la pratica dei prestiti usurari e predatori». Così, conclude Della Luna, si comprende come la giustizia «non punisca praticamente mai banchieri per l’usura (che in Italia interessa la grande maggioranza dei prestiti bancari) o per le grandi truffe». E la stessa difesa, presentata come protezione della popolazione da nemici esterni, ha una doppia natura: «Nel corso della storia, le classi dominanti hanno usato le forze armate quasi sempre al contrario, cioè in danno e a spese delle rispettive popolazioni, facendole pagare, combattere e morire per aumentare la ricchezza e il potere loro proprio».La stessa Seconda Guerra Mondiale, sempre secondo Della Luna, non è stata «una guerra ‘spontanea’ tra sistemi politici incompatibili», bensì «un’operazione decisa dalla strategia del capitalismo finanziario: il capitalismo americano finanziò massicciamente il movimento nazionalsocialista, la ricostruzione e l’armamento della Germania hitleriana, la sua stessa guerra di conquista e sterminio fino al 1945». General Motors, General Electric, Standard Oil e Ford «costruirono e gestirono, in alcuni casi anche direttamente, impianti industriali strategici e per produzioni belliche del III Reich». Analogamente, il Giappone «venne rifornito e armato dall’élite capitalistica statunitense affinché potesse iniziare e sostenere la guerra». Soprattutto, «in violazione del fittizio embargo disposto da Washington», al Sol Levante «fu data una grande quantità di petrolio americano, senza il quale non avrebbe potuto iniziare la guerra». A che fine armare e sostenere la Germania e il Giappone? «Al fine immediato di arricchirsi – le commesse belliche dall’una e dall’altra parte moltiplicarono gli utili delle corporations – e a quello di lungo termine di indebitare in modo e misura irreversibile gli Stati (iniziando dagli Usa e dal Regno Unito) verso i banchieri privati, affinché questi potessero arrivare a dettare la politica e a riformare le società, su scala mondiale, a loro vantaggio, scalzando ogni altra forma di potere, verso un villaggio unico globale fatto di cittadini indebitati e di governi pure indebitati».Le guerre, infatti, comportano un moltiplicarsi delle spese pubbliche, quindi del ricorso al credito, da parte dei governi. «Questo fine, grazie all’operazione Seconda Guerra Mondiale e a molte altre, tra cui l’Ue e l’euro, è stato in gran parte raggiunto». E’ così – aggiunge Della Luna – che siamo arrivati all’indipendenza dei banchieri centrali dai Parlamenti e dai governi, e alla subordinazione della sfera pubblica a mercati controllati da cartelli. Il nazismo e la Seconda Guerra Mondiale? «Sono stati strumenti per arrivare a questo obiettivo da parte delle grandi dinastie bancarie che hanno oggi i loro corifei nei vari Juncker, Lagarde, Moskovici, Merkel, Dijsselbloem». Questo piano, continua Della Luna, è stato però recentemente aggiornato, visto che il travolgente progresso scientifico-tecnologico (l’automazione, l’intelligenza artificiale e la finanziarizzazione globale) ha messo a disposizione delle élite strumenti di dominio più potenti dell’indebitamento e della moneta, ossia «strumenti informatici e biofisici di gestione diretta delle masse (la capacità di spiare tutti e ciascuno capillarmente e di entrare nei corpi per modificarli)».Ma non è tutto: la tecnologia ha reso le masse stesse «meno utili al mantenimento del potere e della ricchezza», mentre le popolazioni – coi loro consumi e inquinamenti – sono divenute un drammatico problema ecologico. «Per queste ragioni, il piano di dominio per via finanziaria è stato ammodernato a piano di dominio per via tecnologica». Obiettivo, «Arrivare a gestire le masse con metodi zootecnici». Secondo Della Luna, lo scenario descritto nel saggio “Oligarchia per popoli superflui” è ormai quasi superato. Certo, il progresso tecnico-economico congiunto alla globalizzazione «ha reso, appunto, superflue le masse per il potere costituito, sicché i cittadini e i lavoratori, compresi gli industriali produttivi, hanno perso potere di contrattazione, diritti e ampie quote del reddito nazionale in favore dei capitalisti finanziari». Ma ora la situazione è ulteriormente peggiorata, nell’era del dominio “zootecnico”. Lo proverebbe, secondo Della Luna, una denuncia come quella dell’ordine nazionale dei biologi italiani, che ha scoperto vaccini “sporchi” e zeppi di molecole nocive. Al di là della mera logica del profitto, l’imposizione dei “falsi vaccini” sarebbe interpretabile come «un argine che viene eretto per far fronte al gigantesco problema sociale in arrivo: quel 30% dei posti di lavoro che robotizzazione e intelligenza artificiale si prevede che elimineranno da qui al 2037». Si vogliono ottenere giovani «mentalmente e fisicamente incapaci di reazione e di lotta»?Falsi vaccini, progettati per rendere innocua un’intera generazione? Quella che, per inciso, si troverà senza lavoro con l’esplosione – ormai in corso – della robotizzazione della produzione, grazie all’avvento della sconvolgente rivoluzione tecnologica del terzo millennio, affidata all’intelligenza artificiale. Lo sostiene l’avvocato Marco Della Luna, autore di saggi come “Tecnoschiavi” e “Oligarchia per popoli superflui”, che gettano una luce sinistra sulle principali dinamiche della globalizzazione, denunciando un disegno egemonico, da parte dell’élite, fondato su meccanismi ormai “zootecnici” di manipolazione di massa. Per Della Luna, purtroppo, l’attuale democrazia non è una finzione: in realtà, scrive l’analista, «ogni società è gestita da una ristretta oligarchia detentrice di potere, ricchezza, competenza». Quando una classe dominante perde il potere, un’altra la sostituisce. E per ogni oligarchia, «la popolazione è un mezzo, non un fine: uno strumento da controllare e sfruttare, ma anche dimensionare, in base all’evoluzione delle tecniche e delle circostanze». Alle categorie intermedie, l’élite consente anche di violare le leggi: Della Luna ne parlerà nel saggio “Le chiavi del potere”, di cui è in uscita la terza edizione. Il vero problema? Siamo noi: ci lasciamo regolarmente ingannare.
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Aquisgrana, due piccoli avvoltoi sul cadavere dell’Europa
Il Trattato franco-tedesco di Aquisgrana, antica capitale del Sacro Romano Impero (la città-simbolo dove si assegna il Premio Carlo Magno) formalizza quell’idea di Europa «che finora aveva avuto cittadinanza solo a livello finanziario». E gli altri paesi? O vassalli, o colonie da tenere in riga, meglio se più povere di prima. Fantasie? No, basta leggere il testo predisposto da Emmanuel Macron e Angela Merkel, ultra-sovranisti alla bisogna. Secondo Alessandro Mangia, costituzionalista dell’Università Cattolica di Milano, il nuovo trattato «accelera il processo di disgregazione dell’Unione Europea». Fino al 2016, aggiunge, il Regno Unito è stato «il solo contraltare alla coppia franco-tedesca a livello politico e di occupazione degli spazi burocratici». Usciti di scena gli inglesi, «che assieme a Italia, Spagna ed altri paesi potevano fare da contrappeso», gli equilibri di potenza in Europa sono saltati. E l’Europa si è improvvisamente contratta. Intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”, il professor Mangia insiste: «Senza Gran Bretagna, l’Unione non ha capacità di proiezione esterna. E il suo spazio di manovra sullo scenario mondiale, che nemmeno prima era granché, si è ulteriormente ristretto». Il nuovo patto «è una manovra classica da arrocco: la mossa difensiva di due potenze diverse, ma entrambe in grande difficoltà fuori dallo scenario europeo», a cominciare dagli Stati Uniti.Di fronte alle pressioni americane (e alle minacce di disimpegno degli Usa dalla Nato, a meno che i paesi europei non incrementino l’acquisto di forniture militari americane nei prossimi anni), Francia e Germania se ne escono con questo trattato che, almeno sulla carta, «disegna una struttura di tipo quasi confederale, imperniata su organi e meccanismi stabili di collaborazione in tema di difesa, sicurezza interna, operazioni militari all’estero, industria militare, posti in Consiglio di Sicurezza Onu e concertazione sulle politiche europee». Secondo Alessandro Mangia siamo di fronte a una struttura polifunzionale, «destinata a operare come patto di controllo all’interno dell’Unione in attesa che Trump se ne vada». Oppure, se lo sfaldamento dell’Ue accelera dopo le elezioni europee, Francia e Germania hanno già messo in cantiere questo possibile Piano-B: un disegno «che riduca tutto a Germania, con baltici e Olanda al seguito, e Francia, con esercito, nucleare e colonie della zona franco Cfa», tuttora sottoposte a un severo regime di sfruttamento colonialistico. E ora? L’Unione Europea «diventa qualcosa di obsoleto o, nel migliore dei casi, una struttura destinata ad essere funzionale, in chiave subordinata, ad un asse politico che ha pretese di egemonia continentale».Qui si va molto al di là di una classica cooperazione rafforzata, sottolinea il professor Mangia: si tocca la sfera militare, e dunque politica per eccellenza. «La verità è che a fomentare squilibri e conflitti all’interno dei paesi dell’Unione è stata la politica mercantilista tedesca, che non si è limitata ad operare all’interno del continente, ma ha cominciato a infastidire gli stessi Usa. Se si pensa che la sola Germania ha un surplus sull’estero superiore a quello cinese – osserva Mangia – si capisce perché la proposta di Trump di livellare le spese militari al 2% dei paesi aderenti non fosse poi tanto peregrina, almeno dal suo punto di vista». Al di fuori di armi e tecnologia militare, aggiunge Mangia, non è che gli Usa abbiano ormai molto da esportare in Europa. «E infatti questo trattato è un “no” chiaro e tondo alle richieste americane: e si propone, non so con quale efficacia, di sviluppare un’industria militare e una forza di intervento esclusivamente franco-tedesca, che possa prendere il posto del fornitore americano». Scenario realistico? Manca esprime forti dubbi: «Il mercato mondiale delle armi è soprattutto in mano ad americani e russi, che ne hanno fatto un volano economico. Andarlo a sfidare senza avere la capacità economica – e la volontà di spesa – di Usa e Russia è a dir poco velleitario. Eppure, il segnale che si vuole lanciare è esattamente questo».Quanto al testo del trattato, il livello di cooperazione (sulla carta) è molto stretto. Si parla di un Consiglio franco-tedesco di difesa e sicurezza comune, di un Consiglio dei ministri franco-tedesco, di partecipazione su base regolare di membri del governo francese o tedesco ai Consigli dei ministri dell’altro Stato. Ma ci sono anche dei passaggi meno generici, avverte Manca: nell’articolo 6 si parla di “unità comuni per operazioni di stabilizzazione in paesi terzi”. E si prevedono interventi tanto in Europa e in Africa: e cioè nelle zone del franco Cfa. «E’ chiaro che, se queste non restassero solo parole, ci si troverebbe di fronte ad un fatto politico piuttosto rilevante». Tradotto: «Se ci si ferma a riflettere su cosa si intende per “sicurezza interna” si finisce per leggere “ordine pubblico”. E si capisce che qui si va oltre il Trattato di Velsen del 2004 che istituisce Eurogendfor come piattaforma di Gendarmeria Europea. Potenzialmente la base giuridica per interventi diretti delle rispettive polizie oltre confine qui ci sarebbe. Non so se rendo l’idea».Nella sostanza, sottolinea Manca, il trattato si prefigge di formalizzare quell’idea di “Europa core” che finora aveva avuto cittadinanza solo a livello finanziario. «Sullo sfondo c’è l’idea di passare dalla sfera economico-commerciale alla sfera militare, e cioè politica per definizione». Non è casuale, infatti, che sia stata scelta Aquisgrana come sede per la firma: il luogo-simbolo del Sacro Romano Impero. «Appunto. Nella cattedrale è sepolto Carlo Magno che aveva unificato Franchi e Germani; è la città dove viene attribuito quel Premio Carlo Magno che, negli ambienti europeisti, ha un fortissimo valore simbolico. Quando si passa a curare i simboli – aggiunge il professore – ci si muove in una dimensione apertamente politica. Ricordate le piramidi o le stelle a cinque punte di Macron? Siamo sempre lì». E partendo da Aquisgrana dove si può arrivare? La Merkel, «quasi dimissionaria in patria», ha delle mire precise sulla prossima Commissione Europea. Dall’altra parte c’è Macron, «che è riuscito nella non facile impresa di battere i livelli di impopolarità di Hollande», e che da dieci settimane si trova la città messe a ferro e a fuoco, nel weekend, dai Gilet Gialli. La sua unica strategia? «Lanciare le consultazioni con i sindaci e aspettare che i rivoltosi si stufino, nel più puro stile d’Ancien Régime».Merkel e Macron, per Alessandro Manca, «sono due figure deboli in patria, deboli sullo scenario mondiale, che riescono ad imporsi solo nei confronti degli altri paesi dell’Unione». Sul breve periodo, hanno ogni convenienza a sostenersi a vicenda. Ma il professore insiste ancora sul profilo militare: in Germania, oltre che sulle infrastrutture, si è giocato al risparmio anche sulle spese militari per la Bundeswehr, che soffre di sottofinanziamenti cronici. Ma dall’estate scorsa, «dopo lo scontro con Trump, si è iniziato a parlare, sulla stampa tedesca, dell’opportunità di divenire una potenza nucleare, in barba ai trattati di non proliferazione del dopoguerra». E qui, il partner ideale è la Francia. «Sì, perché la Germania è una potenza economica, ma un nano militare». La Francia ha un’industria militare di qualche rilievo, storicamente sovralimentata dallo Stato, e dispone di capacità e tecnologia nucleare sia civile che militare. «Ha qualcosa da vendere, insomma, che i tedeschi non hanno e non possono avere a breve. In cambio – aggiunge Manca – la Francia può ricevere accoglienza al vertice politico dell’Unione come “regina consorte” e vantare un rapporto privilegiato con il paese con il più grande surplus commerciale al mondo. Sembra uno scambio utile ad entrambi».Quanto all’impegno della Francia a favorire il riconoscimento della Germania come membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu, Alessandro Manca sorride: ve le immaginate le risate, al Dipartimento di Stato e al Foreign Office inglese, il giorno che la Francia proverà a tener fede a questo impegno preso con i tedeschi, «con quello che stanno facendo passare al governo britannico sulla Brexit?». Per non parlare di Russia e Cina, «che “non aspettano altro” di avere la Germania seduta a quel tavolo a metter bocca sulle questioni internazionali». Come dire: uno scenario solo virtuale, del tutto irrealistico. Poi però ci siamo noi, l’Italia, insieme agli altri paesi esclusi dall’accordo: che conseguenze avrà, sulla nostra pelle, questo evidente progetto di dominio? «Questa è la nota più dolente, almeno a breve». Un asse franco-tedesco «che costituisca una struttura intrecciata anche militarmente ha poco rilievo fuori dal continente, ma ha molto rilievo al suo interno, soprattutto per il competitor naturale di Francia e Germania, che è poi l’Italia». Siamo «l’unico paese che, nonostante tutto, ha ancora una manifattura e un’industria militare capace di confrontarsi con Francia e Germania». L’Ue ha sgretolato le antiche alleanze. La prima vittima del Trattato di Aquisgrana, secondo Manca, sarà proprio l’industria militare italiana, «che è diretta concorrente dell’industria francese».Il Trattato franco-tedesco di Aquisgrana, antica capitale del Sacro Romano Impero (la città-simbolo dove si assegna il Premio Carlo Magno) formalizza quell’idea di Europa «che finora aveva avuto cittadinanza solo a livello finanziario». E gli altri paesi? O vassalli, o colonie da tenere in riga, meglio se più povere di prima. Fantasie? No, basta leggere il testo predisposto da Emmanuel Macron e Angela Merkel, ultra-sovranisti alla bisogna. Secondo Alessandro Mangia, costituzionalista dell’Università Cattolica di Milano, il nuovo trattato «accelera il processo di disgregazione dell’Unione Europea». Fino al 2016, aggiunge, il Regno Unito è stato «il solo contraltare alla coppia franco-tedesca a livello politico e di occupazione degli spazi burocratici». Usciti di scena gli inglesi, «che assieme a Italia, Spagna ed altri paesi potevano fare da contrappeso», gli equilibri di potenza in Europa sono saltati. E l’Europa si è improvvisamente contratta. Intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”, il professor Mangia insiste: «Senza Gran Bretagna, l’Unione non ha capacità di proiezione esterna. E il suo spazio di manovra sullo scenario mondiale, che nemmeno prima era granché, si è ulteriormente ristretto». Il nuovo patto «è una manovra classica da arrocco: la mossa difensiva di due potenze diverse, ma entrambe in grande difficoltà fuori dallo scenario europeo», a cominciare dagli Stati Uniti.