Archivio del Tag ‘colpa’
-
L’Estonia non tollera la verità e arresta Giulietto Chiesa
Nella nuova Europa senza politica estera e interamente dominata dalla Nato non ci si fa scrupolo di espellere da uno dei paesi membri un giornalista di fama internazionale come Giulietto Chiesa, il primo ad affrontare – in mondovisione – i golpisti di Mosca che nel ‘91 avevano tentato di rovesciare Mikhail Gorbaciov, padre della “perestrojka” e Premio Nobel per la Pace. Sconcerto, sulla stampa italiana, per il fermo subito da Chiesa il 15 dicembre a Tallinn, capitale dell’Estonia, dove era invitato a un dibattito internazionale sul tema “la Russia è nemica dell’Europa?”. Evidente l’irritazione delle autorità estoni per l’attività del giornalista, già corrispondente da Mosca per i principali media italiani. Martellante la campagna d’informazione condotta da Chiesa su “Pandora Tv”, per denunciare il “golpe” con il quale l’Occidente ha rovesciato il governo Yanukovich per insediare un governo filo-Usa, dominato dall’estrema destra neonazista, responsabile di atrocità contro la popolazione ucraina di etnia russa, fino alla carneficina della “casa dei sindacati” di Odessa.Giulietto Chiesa è stato arrestato dalla polizia di Tallinn per essere poi espulso come “persona non gradita”: «Un fatto molto grave», per il suo avvocato, Francesco Paola: «Una violazione dei diritti politici». Già europarlamentare, eletto nel 2004 con la lista “Di Pietro – Occhetto” e poi passato come indipendente al gruppo socialista europeo, Chiesa si è ricandidato al Parlamento Europeo nel 2009 in Lettonia, rappresentando la minoranza russa del paese baltico. Uomo di vaste relazioni internazionali, promotore del “World Political Forum” presiduto dallo stesso Gorbaciov, Giulietto Chiesa ha anche insegnato negli Stati Uniti, al Woodrow Wilson International Center di Washington ed è stato inserito nel “panel” internazionale di New York per la verità sull’11 Settembre, dopo il bestseller “La guerra infinita” (Feltrinelli, 2002) e il documentario “Zero”, opere che contestano la verità ufficiale sui drammatici attentati alle Torri Gemelle.Un uomo scomodo, Giulietto Chiesa: al punto da essere impunemente espulso da un paese membro dell’Ue, solo per aver espresso le sue idee? Forte la sua denuncia sulle mistificazioni attorno alla crisi ucraina, completamente manipolata dai media mainstream a partire dal suo sanguinoso esordio, la strage di civili in piazza Maidan a Kiev. A “tradirsi”, rivelando la vera identità degli stragisti, fu proprio un politico estone, il ministro degli esteri Urmas Paet, al telefono con l’allora responsabile europea della politica estera, Catherine Ashton. Paet le disse di aver scoperto che a sparare sulla folla non erano stati gli agenti del regime di Yanukovich, ma cecchini addestrati dall’Occidente. Obiettivo: massacrare innocenti, per poi incolpare la polizia ucraina e scatenare una campagna di odio contro il regime di Yanukovich, non ostile a Mosca. Brutalità e cinismo denunciati con la massima fermezza da Giulietto Chiesa, chiarissimo anche nel rimarcare l’emergere di gruppi neonazisti e la pericolosa intolleranza, in Est Europa, verso chiunque si opponga al “pensiero unico” imposto dagli Usa. Al punto da finire arrestato, dopo aver messo piede in un paese che certo guarda con simpatia ai “golpisti” di Kiev?Nella nuova Europa senza politica estera e interamente dominata dalla Nato non ci si fa scrupolo di espellere da uno dei paesi membri un giornalista di fama internazionale come Giulietto Chiesa, il primo ad affrontare – in mondovisione – i golpisti di Mosca che nel ‘91 avevano tentato di rovesciare Mikhail Gorbaciov, padre della “perestrojka” e Premio Nobel per la Pace. Sconcerto, sulla stampa italiana, per il fermo subito da Chiesa il 15 dicembre a Tallinn, capitale dell’Estonia, dove era invitato a un dibattito internazionale sul tema “la Russia è nemica dell’Europa?”. Evidente l’irritazione delle autorità estoni per l’attività del giornalista, già corrispondente da Mosca per i principali media italiani. Martellante la campagna d’informazione condotta da Chiesa su “Pandora Tv”, per denunciare il “golpe” con il quale l’Occidente ha rovesciato il governo Yanukovich per insediare un governo filo-Usa, dominato dall’estrema destra neonazista, responsabile di atrocità contro la popolazione ucraina di etnia russa, fino alla carneficina della “casa dei sindacati” di Odessa.
-
Gawronski: in politica entra solo chi non ostacola le ruberie
Fai politica seriamente? Potresti perdere poltrona e prebende. Dunque, prudenza: mai disturbare chi comanda. Inutile stupirsi, quindi, se il sistema politico è marcio: entrarvi è difficile e, una volta dentro, l’unica regola che conta è non dare fastidio a nessuno, altrimenti si verrebbe esplusi. Lo sostiene Piergiorgio Gawronski, riflettendo sull’ultimo scandalo – quello romano di “Mafia Capitale” – che sta travolgendo destra e sinistra. «I delinquenti ci sono in tutti i paesi del mondo: non sono loro a fare la differenza», premette Gaweonski. «La salute di una società dipende piuttosto dalla qualità degli onesti». Per esempio, i politici che si presentano come moralizzatori, rinnovatori, alfieri della trasparenza. Da Matteo Orfini, incaricato di bonificare il Pd romano, al “rottamatore” Renzi, dall’ex sindaco Alemanno, “faccia pulita” della destra, al suo predecessore Veltroni, «che guidava personalmente le scolaresche ad Auschwitz». Tutti ora si dichiarano sorpresi, sconcertati. «Ho sbagliato squadra», ammette Alemanno. E Veltroni, su “Repubblica”, si dichiara folgorato dallo stupore: mai avuto sentore di malversazioni sul business dell’assistenza ai migranti.«La politica italiana è un business ad altissimo rendimento», replica Gawronski su “Micromega”. «Perciò come si fa a cadere dalle nuvole quando si scopre che attira frotte di arraffoni? I politici italiani sono i più pagati d’Europa, eppure «Veltroni per primo deviò l’attenzione dagli emolumenti al numero dei parlamentari. E ora Renzi, suo epigono, smantella istituzioni invece di moralizzarle». Fa gola il lucroso “indotto” della politica: spesa pubblica opaca, appalti, carriere politicizzate nella pubblica amministrazione. «Né i privilegi sono transitori: si perpetuano nel tempo, perché non sono contendibili». Spiega Gawronski: «La politica ha altissime “barriere all’ingresso”: le candidature a qualsiasi assemblea elettiva sono strettamente controllate, è ammesso solo chi non dà seriamente fastidio. E le selezioni dal basso – primarie, preferenze – per come sono organizzate si vincono solo investendo molti soldi. Per gli interessi privati è razionale farlo, per gli altri no, perciò semplicemente gli altri non sono competitivi».Veltroni divenne il primo segretario del Pd vincendo le primarie nel 2007 contro Rosy Bindi, alfiere dei cattolici democratici, che ha fatto dell’onestà un punto fermo nella sua vita: «Noi non siamo responsabili della crisi del paese!», si auto-assolse la Bindi nel 2013. «Siamo stati inadeguati? Questo sì! Forse… Ma colpevoli, no!». Eppure, ricorda Gaweonski, alle primarie del 2007 la Bindi aderì alla proposta degli outsider – taglio netto della “paga” dei parlamentari, da 15.000 a soli 5.000 euro – ma «parlava solo dello stipendio, che è il 44% della busta paga», e in ogni caso «a tale richiesta non diede mai seguito». Nel “club” ci si divide su tutto, aggiunge Gawronski, «ma non sui privilegi oligarchici del sistema, altrimenti il sistema ti espelle». Nel 2008, Veltroni finse si accogliere le richieste di rinnovamento: «Basta con i capibastone! Voglio un partito di gente perbene, un partito sano, gli altri fuori». Ma non prese alcun provvedimento: «Alle elezioni candidò tutti i capibastone, coperti da una manciata di candidati scelti dall’alto a fini mediatici: un “giovane”, una “donna”, un “operaio della Thyssen”». E nessuna elevata competenza.In passato, ricorda Gawronski, i politici come Fanfani, Amendola e De Gasperi «venivano a Roma a fare i parlamentari in cambio di emolumenti un decimo degli attuali». Oggi, politici e sindacalisti si sono “imborghesiti”: «Non vogliono rinunciare al loro elevato benessere, e neppure ai loro esorbitanti poteri discrezionali sulla pubblica amministrazione, sulla spesa pubblica, sulle candidature». Tutto questo, «a costo di mantenere nel sistema politico incentivi perversi, che lo distorcono profondamente». Tutto diventab torbido, i sospetti si incrociano insieme ai ricatti virtuali, ai veti che portano alla paralisi e all’impossibilità di adottare soluzioni utili, radicali, decisive. Ecco perché questi politici «sono responsabili per l’ipertrofia della corruzione». Il problema di fondo? «I politici “buoni” – scrive Gawronski – ci hanno convinto che noi italiani siamo irrecuperabili, perciò quel che accade non è colpa loro». In più, ci hanno anche convinto che «quel che conta è “fare presto”». E quindi, «trasparenza, controlli e democrazia sono lussi inutili». Poi, a tempo scaduto, va in scena ovviamente il festival dello stupore.Fai politica seriamente? Potresti perdere poltrona e prebende. Dunque, prudenza: mai disturbare chi comanda. Inutile stupirsi, quindi, se il sistema politico è marcio: entrarvi è difficile e, una volta dentro, l’unica regola che conta è non dare fastidio a nessuno, altrimenti si verrebbe esplusi. Lo sostiene Piergiorgio Gawronski, riflettendo sull’ultimo scandalo – quello romano di “Mafia Capitale” – che sta travolgendo destra e sinistra. «I delinquenti ci sono in tutti i paesi del mondo: non sono loro a fare la differenza», premette Gaweonski. «La salute di una società dipende piuttosto dalla qualità degli onesti». Per esempio, i politici che si presentano come moralizzatori, rinnovatori, alfieri della trasparenza. Da Matteo Orfini, incaricato di bonificare il Pd romano, al “rottamatore” Renzi, dall’ex sindaco Alemanno, “faccia pulita” della destra, al suo predecessore Veltroni, «che guidava personalmente le scolaresche ad Auschwitz». Tutti ora si dichiarano sorpresi, sconcertati. «Ho sbagliato squadra», ammette Alemanno. E Veltroni, su “Repubblica”, si dichiara folgorato dallo stupore: mai avuto sentore di malversazioni sul business dell’assistenza ai migranti.
-
Da soldati del capitale a uomini liberi, malgrado la Boldrini
L’immigrazione è uno dei temi più caldi del dibattito pubblico attuale. Del resto, in un mondo sempre più globale e insicuro, non potrebbe essere altrimenti. Come spesso capita, però, la discussione si è distanziata precocemente dalla ricerca della verità e di soluzioni concrete, fossilizzandosi in due macro-schieramenti: da un lato, c’è chi vede nell’immigrato un invasore, colpevole di rubare il posto di lavoro altrui; dall’altro, la difesa spasmodica di tale fenomeno ha portato ad affermazioni che farebbero rabbrividire qualsiasi appassionato di distopie. È questo il caso, relativamente recente, del presidente della Camera Laura Boldrini, la quale ha esplicitamente dichiarato in diretta nazionale che «il migrante è l’avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi». Considerata da alcuni come massimo esempio di tolleranza e libertà, quest’idea se fosse del tutto realizzata sancirebbe la vittoria assoluta del sistema liberal-capitalista, già oggi dominante.Come una veggente di stampo neoliberista, infatti, la Boldrini fa riferimento ad un futuro dove si «dovranno muovere i capitali, le merci, gli esseri umani», vale a dire un mondo senza coesione sociale, valori condivisi e stabilità, in cui a comandare, sempre di più, saranno i marchi multinazionali e gli investitori privati. Non un futuro roseo, insomma, per chi è portatore di tradizioni millenarie e combatte contro i disagi della post-modernità da tutta la propria vita. La posizione “boldriniana”, inoltre, ha la presunzione di considerare la vita dell’immigrato come positiva e fiorente, senza interrogarsi su quanto l’esistenza di una persona, costretta ad abbandonare il proprio paese, la propria famiglia e le proprie consuetudini possa essere considerata un bene e dirsi veramente felice. Quest’atteggiamento denota un forte etnocentrismo che forse sarebbe ora di considerare come il razzismo del XXI secolo. Se è vero, infatti, che gran parte della storia coloniale ha visto nella presunta superiorità di una razza sull’altra la giustificazione del dominio e delle ingiustizie, oggi è l’imposizione di modelli propri di una determinata cultura, liberale e occidentale, ad altre, a svolgere la stessa funzione soggiogatrice.È così che le diverse popolazioni perdono la propria identità e il rispetto di se stesse, nella falsa speranza di divenire altro. Del resto, come osserva Jean Baudrillard, «la cultura occidentale si mantiene soltanto sul desiderio del resto del mondo di accedervi». In quanto tristemente reale, questo concetto si collega direttamente all’altra posizione accennata in precedenza, spesso popolare, che vede nell’immigrato il nemico numero uno, l’artefice del male. Questa visione confonde il vero problema in questione, individuandolo non nel fenomeno sistemico e manipolato dai poteri forti, ma nei suoi attori individuali e disperati. Erroneamente, sposta il bersaglio della critica dall’immigrazione agli immigrati. Questi ultimi, più che ad un esercito invasore, assomigliano a quello che Karl Marx, nel primo libro del “Capitale”, definisce «l’esercito industriale di riserva», ovvero quella massa di disoccupati particolarmente comoda ai capitalisti perché, a seguito della grande concorrenza, determina bassi salari e scarse rivendicazioni sociali.Ecco allora come l’immigrazione, difesa non a caso dai liberisti più accaniti, assomiglia più che ad un’invasione, ad una tratta di schiavi. L’immigrato è, allo stesso tempo, agente inconsapevole e vittima reale di un sistema planetario capace di minare la sicurezza e la dignità di tutti. Continuare a sostenere questo tipo di immigrazione, che di scambio tra culture non ha veramente nulla, significa semplicemente legittimare le logiche neoliberiste. Le stesse logiche che hanno ridotto i paesi del “Nord” alla crisi (culturale, sociale, economica) e, più o meno indirettamente, quelli del “Sud” alla miseria. Questo significherebbe volersi chiudere su se stessi ignorando i problemi, tra l’altro da noi creati, nelle parti più povere del mondo? Niente affatto. In realtà, questa presa di coscienza rappresenterebbe il primo passo concreto per agire veramente a difesa delle popolazioni ridotte oggi alla fame, perché intaccherebbe la struttura stessa del sistema liberal-capitalista, prendendo le distanze sia da slogan distanti dalla realtà di cose, sia da un moralismo molto politically correct che non ha davvero ragione di esistere.Questa critica, costruttiva e non distruttiva, dovrà partire dalla rivalutazione dei paesi, delle culture e della dignità stessa degli abitanti del “Sud” del mondo. Nel suo “Breve trattato sulla decrescita serena”, Serge Latouche parla di una «sfida della decrescita per il Sud», sostenendo come la sua popolazione è ancora in tempo per non ficcarsi in quel vicolo cieco, che è la società progressista, in cui l’altra parte del mondo è condannata da tempo. Oggi la società occidentale attira migliaia di persone con l’illusione della tecnica e di un marcio benessere, costruito proprio sulle spalle altrui; per questo, come osserva Latouche, «finché l’Etiopia e la Somalia saranno costrette, mentre infuria la carestia, a esportare alimenti per i nostri animali domestici, finché noi ingrasseremo il nostro bestiame con la pasta di soia prodotta sulle cenere delle foreste amazzoniche, noi soffocheremo qualsiasi tentativo di reale autonomia nel Sud». La “reale autonomia” di tutti i popoli, alimentata dal confronto e dalla scambio tra le diverse realtà presenti nel mondo, rappresenta l’obiettivo per cui lottare oggi. Una presa di posizione netta sul tema dell’immigrazione, al di là di posizioni stereotipate, è necessaria per far finire il circolo vizioso e conseguire questo fine.(Lorenzo Pennacchi, “Da soldati del capitale a uomini liberi”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 24 ottobre 2014).L’immigrazione è uno dei temi più caldi del dibattito pubblico attuale. Del resto, in un mondo sempre più globale e insicuro, non potrebbe essere altrimenti. Come spesso capita, però, la discussione si è distanziata precocemente dalla ricerca della verità e di soluzioni concrete, fossilizzandosi in due macro-schieramenti: da un lato, c’è chi vede nell’immigrato un invasore, colpevole di rubare il posto di lavoro altrui; dall’altro, la difesa spasmodica di tale fenomeno ha portato ad affermazioni che farebbero rabbrividire qualsiasi appassionato di distopie. È questo il caso, relativamente recente, del presidente della Camera Laura Boldrini, la quale ha esplicitamente dichiarato in diretta nazionale che «il migrante è l’avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi». Considerata da alcuni come massimo esempio di tolleranza e libertà, quest’idea se fosse del tutto realizzata sancirebbe la vittoria assoluta del sistema liberal-capitalista, già oggi dominante.
-
La rivoluzione e il Muro della Vergogna tra ricchi e poveri
«Il pensare che la speranza della rivoluzione sia spenta, e sia finita soltanto perché l’utopia comunista è fallita, significa chiudersi gli occhi per non vedere». Così scriveva Norberto Bobbio nel 1989, prima ancora della caduta del Muro di Berlino, davanti alla repressione cinese di piazza Tienanmen. «E’ da stolti rallegrarsi della sconfitta», scriveva il filosofo, criticando il trionfalismo dell’Occidente di fronte alla grande ritirata dell’Urss di Gorbaciov. «Credete proprio che la fine del comunismo storico (insisto sullo “storico”) abbia posto fine al bisogno e alla sete di giustizia?». Parole ricordate oggi da Angelo d’Orsi, all’indomani delle fastose celebrazioni berlinesi, in cui lo stesso Gorbaciov – che aveva sperato nell’avvento di un mondo multipolare e pacificato – ha ammonito gli Usa: voler stravincere è irresponsabile, significa trascinare il pianeta verso la guerra senza risolvere nessuno dei grandi problemi dell’umanità, devastata dalle diseguaglianze con l’avvento destabilizzante della globalizzazione neoliberista.Tra le pagine del settimanale tedesco “Die Welt”, scrive d’Orsi su “Micromega”, sopravvive la coscienza problematica del presente, lontano dallo spirito della celebrazione, «quella beota» di chi non ha perso l’occasione per inneggiare al “liberalismus triumphans”, «magari tirando in ballo la situazione geopolitica attuale, con cenni al ritorno alla guerra fredda per colpa dell’aggressività dell’“Orso russo”». La televisione ha riproposto «luoghi comuni, stucchevoli e spesso fuorvianti», anche se con «un minimo di pudore in più rispetto al passato», forse per effetto «della crisi che si sta impietosamente prolungando, lasciando una scia sempre più scura di dolore, tra rassegnazione inerte e rivolta incipiente». Eppure, «l’apologetica dell’Occidente domina, e prevale, di gran lunga, incurante di quel che le vicende internazionali ci hanno regalato come prodotto della fine del bipolarismo, e ingresso nell’era unipolare, con lo strapotere militare, economico, finanziario, culturale, degli Stati Uniti d’America, il vero Big Brother della famiglia umana».Il biennio 1989-1991, si interroga d’Orsi, fu davvero una rivoluzione? Produsse cambiamenti repentini di regimi politici e portò al potere classi sociali nuove? Sì e no: intanto, perché gli ex satelliti dell’Urss sono stati gestiti a lungo dalla vecchia nomenklatura, «semplicemente con un cambio di casacca politica». E poi perché «il sistema di garanzie sociali, di diritti sostanziali, di welfare, fu spazzato via». Cambiò il clima umano di quei paesi: «Pochi giorni fa ero in Polonia – racconta d’Orsi – e ho conversato con un ingegnere, che lucidamente ha ammesso i benefici del post-’89, ma altrettanto lucidamente ha elencato i danni, il primo dei quali per lui era proprio sul piano antropologico. Era emerso, diceva, parlando accoratamente, un individualismo prima sconosciuto; furono spezzati i legami sociali, cessarono tutte quelle attività collettive – dalle ferie al dopolavoro, dalle sezioni di partito agli eventi sportivi, dalle biblioteche al teatro – che facevano sentire le persone garantite da reti di protezione: oltre alle istituzioni, v’era “la gente”, a costituire la rete. Ora ciascuno finito il lavoro corre a casa, sbarra l’uscio e si fa gli affari suoi».Secondo fonti occidentali, aggiunge d’Orsi, «in molti paesi dell’Est Europa le aspettative di vita si sono ridotte, le disuguaglianze economiche sono diventate macroscopiche». E, per gli ultimi in fondo alla scala sociale, «la vita è più dura che in passato, anche se hanno i supermercati traboccanti di merci, e possono espatriare liberamente». Ma le conseguenze più gravi, per d’Orsi, sono sul piano internazionale, «nella terrificante definizione del “nuovo ordine mondiale”», col dominio economico-militare degli Usa, senza alcun bilanciamento, e senza più l’Onu, «ridotto al rango di notaio della superpotenza». Questo ha generato nella classe dirigente americana «una perversa volontà sopraffattoria», al punto che «il mondo è parso per un momento alla sua mercé: il bombardamento della sede dell’ambasciata cinese a Belgrado, nel corso della più infame delle “nuove guerre”, nel 1999, fu la prova di quella volontà». Poi però è cominciato un riassetto internazionale, «con fenomeni di resistenza diffusi, allo strapotere statunitense», e oggi l’unipolarismo si sta trasformando progressivamente in multipolarismo. «Oggi gli Usa non si potrebbero permettere di bombardare l’ambasciata cinese. E la Russia è ritornata al rango di grande potenza, piaccia o non piaccia, malgrado la corona di ferro che Nato e Ue cercano di disporre intorno al suo territorio che, benché ridotto dalla frammentazione dell’Urss post 1991, rimane il più esteso del mondo».Nello stesso tempo, proprio la riscossa di altre nazioni e la crescita economica e militare dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), hanno eccitato «l’eterna cupidigia degli Usa», i quali «nella situazione di crisi sistemica del capitalismo», oggi «cercano nuovi sbocchi commerciali e hanno bisogno di far girare a pieno ritmo la propria macchina militare, smaltendo armi e investendo, di conseguenza, in nuovi, sempre più sofisticati sistemi di distruzione e di morte». E’ un fatto: «L’esportazione della democrazia, la grottesca formula che ha giustificato tutte le guerre recenti, è la conseguenza evidente del “crollo del Muro”. Ossia, la dissoluzione del blocco sovietico, con “l’arrivo della democrazia” in quei paesi, ha avviato il gioco del domino, con il cosiddetto “contagio democratico”, che è consistito, in definitiva, in una serie di piccoli e grandi colpi di Stato, il cui fine era la eliminazione di leader (dittatori o capi eletti in libere elezioni) sgraditi a Washington, o in moti di piazza più o meno spontanei, che quando sfociavano in regimi politicamente accettabili all’Occidente venivano tollerati, ma quando producevano, magari, anche, con democraticissime elezioni, assetti politici non graditi (vedi l’Egitto), si provvedeva senza tanti complimenti a cassare con un tratto di penna, secondo il modello cileno».Non di rado, aggiunge d’Orsi, il pretesto è stato un ostentato sentimento di umanità verso popolazioni in difficoltà, nel vasto mondo: «E furono le “guerre umanitarie”, le più ipocrite, realizzate con una sfacciata cancellazione delle convenzioni internazionali, una destrutturazione del “diritto dei popoli” e un ritorno alla forme più estreme della umana ferocia». E così «il mondo, pacificato sotto il segno del “libero mercato”, ha palesato il suo volto orribile di una conflittualità permanente: Afghanistan, Iraq, Kosovo, Libia, Siria, Ucraina, per tacere di Israele che impunemente procede nella sua politica genocidaria verso i palestinesi». Proprio il “muro della vergogna” costruito dagli israeliani all’interno dei Territori Occupati, «una struttura rispetto alla quale il Muro di Berlino appare una specie di giocattolo», per d’Orsi è la prova della grande menzogna: «Lo slogan “mai più muri” è risuonato anche in questi giorni di celebrazione del 9 novembre 1989: ma evidentemente vale soltanto per i muri costruiti dagli “altri”; noi i “nostri” muri ce li teniamo e li rafforziamo e li moltiplichiamo: alla frontiera tra Usa e Messico, nei possedimenti spagnoli in Marocco, persino a Padova, per isolare gli extracomunitari».Ma il peggiore dei muri, conclude d’Orsi, è quello che ormai separa e contrappone, irrimediabilmente, quei quattro quinti di umanità, che giacciono nella miseria, dal rimanente quinto che invece vive nell’agiatezza. «E più noi, i cittadini del “Nord” del mondo, alziamo barriere protettive, più intorno a noi cresce la minaccia di chi nulla possiede. Se non ci apriremo all’accoglienza e alla solidarietà, queste enormi maree umane ci sommergeranno, e allora non varrà dire: noi eravamo dalla vostra parte. Saremo tutti colpevoli, ai loro occhi, e la nostra indifferenza odierna giustificherà la loro vendetta». Per questo vale la pena, oggi, ricordare Bobbio: la speranza della rivoluzione non si è spenta solo perché è fallita l’utopia comunista. «Personalmente non so se il comunismo fosse soltanto una utopia», dice d’Orsi, «ma certo era e rimane una speranza, per gli “schiacciati dai grandi potentati economici” (ancora Bobbio), per i “dannati della terra” (per dirla con Frantz Fanon). E questa speranza non verrà meno sino a quando ve ne saranno».«Il pensare che la speranza della rivoluzione sia spenta, e sia finita soltanto perché l’utopia comunista è fallita, significa chiudersi gli occhi per non vedere». Così scriveva Norberto Bobbio nel 1989, prima ancora della caduta del Muro di Berlino, davanti alla repressione cinese di piazza Tienanmen. «E’ da stolti rallegrarsi della sconfitta», scriveva il filosofo, criticando il trionfalismo dell’Occidente di fronte alla grande ritirata dell’Urss di Gorbaciov. «Credete proprio che la fine del comunismo storico (insisto sullo “storico”) abbia posto fine al bisogno e alla sete di giustizia?». Parole ricordate oggi da Angelo d’Orsi, all’indomani delle fastose celebrazioni berlinesi, in cui lo stesso Gorbaciov – che aveva sperato nell’avvento di un mondo multipolare e pacificato – ha ammonito gli Usa: voler stravincere è irresponsabile, significa trascinare il pianeta verso la guerra senza risolvere nessuno dei grandi problemi dell’umanità, devastata dalle diseguaglianze con l’avvento destabilizzante della globalizzazione neoliberista.
-
Berlino ci divora barando, come ha fatto con la Germania Est
Verso la fine della II Guerra Mondiale gli Usa avevano un piano, il Piano Morgenthau (poi non eseguito per ovvie ragioni connesse alla guerra fredda), per eliminare dopo la guerra tutte le industrie tedesche, facendo della Germania un paese puramente agricolo. Il mezzo per ottenere ciò era semplice: imporre alla Germania l’unione monetaria con gli Usa, la cui moneta era allora molto forte: il prezzo delle merci tedesche si sarebbe moltiplicato e le aziende avrebbero chiuso, non potendo più esportare, e l’industria yankee avrebbe preso i suoi mercati e i suoi assets migliori gratis o quasi. Gli Stati Uniti non fecero questo alla Germania dopo la sua resa, però la Germania Ovest lo fece poi alla Germania Est negli anni ’90. E ora lo fa all’Italia. Oramai è stato acquisito: essendosi inchiodata a un cambio elevato e fisso – elevato sia rispetto agli altri paesi dell’Eurozona, che rispetto agli altri – e non potendo più svalutare la moneta per mantenersi competitiva sui mercati internazionali, l’Italia, per restare competitiva e limitare la sua deindustrializzazione, ha dovuto svalutare i lavoratori, riducendo i salari/redditi, tassandoli di più, tagliando e differendo le pensioni.Ma la riduzione dei redditi ha automaticamente causato il crollo della domanda interna e della capacità della gente di pagare i debiti già contratti, quindi un crollo degli incassi di chi produce per il mercato interno e un’impennata delle insolvenze e dei fallimenti. La riduzione dei salari viene in parte compensata con ammortizzatori sociali finanziati con più tasse e contributi, in parte scaricando i disoccupati e i sottoccupati sui risparmi della famiglia e sulle pensioni dei genitori o dei nonni. Tutto ciò sta consentendo una parziale conservazione dell’industria e dei mercati esteri, ma, abbisognando di drenare risparmi e andando a colpire il settore immobiliare (quello che innesca le fasi di espansione e di contrazione), non può tirare avanti ancora a lungo. Inoltre, i vincoli di bilancio, il limite del 3% al deficit sul Pil, la botta dei trasferimenti al Meccanismo Europeo di Stabilità (57 miliardi), la connessa ascesa della pressione fiscale, fa chiudere o emigrare le aziende. Emigrano anche tecnici, professionisti, capitali. Questi sono i risultati dei “compiti a casa”.Sostanzialmente, la recessione è guidata da una costante sottrazione di liquidità voluta politicamente da Berlino via Draghi, che garantisce di fare tutto ciò che serve per sostenere i debiti pubblici, ma a condizione che si facciano quei compiti a casa, ossia che si demolisca l’economia e la si doni a un capitalismo di conquista, apolide e antisociale. Tutti questi meccanismi operano costantemente, appunto come meccanismi, e giorno dopo giorno demoliscono l’Italia e la rendono dipendente, sottomessa, povera rispetto alla Germania. Un po’ più di flessibilità e un po’ meno di spread o un po’ più di spesa e inflazione in Germania non risolverebbero quanto sopra, non fermerebbero la macchina della deindustrializzazione, anche se Renzi cerca di distogliere da ciò l’attenzione attirandola su di sé con la sua azione frenetica e inconcludente (se non nel male). Non la fermerebbe nemmeno un aumento della domanda interna, perché questo si dirigerebbe verso beni di importazione, avvantaggiati dalla forza dell’euro.E poi ci sono gli utili tromboni dell’europeismo idealista, che evocano le favole moralistiche di Spinelli e soci per coprire una realtà di scontro di interessi oggettivamente contrapposti, di sopraffazioni spietate, di colonizzazione. Sarebbe molto utile, a coloro che cercano di tutelare gli interessi italiani in relazione alle politiche europee e monetarie della Germania attuale, a coloro che trattano questi temi nelle sedi europee e nazionali, conoscere come il grande capitale privato tedesco occidentale, durante il processo di riunificazione della Germania iniziato nel 1989, usò una serie di mezzi, alcuni dei quali terroristici, altri formalmente criminali, per impadronirsi delle aziende, dei beni immobili, delle risorse naturali, dei mercati della Germania Orientale senza pagare o quasi, espropriandone la popolazione che era giuridicamente proprietaria di questi assets, e trasferendo i costi dell’operazione a carico dei conti pubblici, ossia dei contribuenti della Germania Occidentale nonché a carico dei lavoratori della Germania Orientale, di cui persero il posto di lavoro circa 2 milioni e mezzo, su circa 16 milioni di abitanti.E’ tutto descritto nel recentissimo saggio di Vladimiro Giacché “Anschluss”. Queste cose vanno sapute per poterle sbattere sul muso a Merkel, Schäuble, Katainen, smascherando i loro veri fini, quando si mettono a predicare i compiti da fare a casa, mentre dovrebbero finire davanti a una Norimberga finanziaria assieme ai loro mandanti. I metodi usati per depredare la Germania Orientale furono molteplici, iniziando con la creazione di allarme default della Germania Est, nella prima fase, in tutto analogo a quello che i banchieri tedeschi scatenarono nel 2011 contro il Btp per sostituire Berlusconi con un premier che li servisse bene. E anche: l’imposizione di un’unione monetaria con cambio uno a uno tra marco orientale e marco tedesco per le partite correnti, che determinò di punto in bianco la quadruplicazione dei prezzi delle merci della Germania Orientale, con la conseguente perdita dei mercati in favore di aziende concorrenti della Germania Occidentale, e naturalmente la chiusura delle imprese orientali con massicci licenziamenti.Poi il sistematico ricorso al falso in bilancio per far apparire irrecuperabili molte aziende sane della Germania orientale, onde poterle comperare a costo nullo o quasi; quindi la rimozione dei pochi funzionari onesti, che rifiutavano di dichiarare il falso; l’imposizione delle “regole di mercato” – in realtà, della potenza economica e politica – onde occupare i mercati della Germania Orientale con merci di produzione occidentale e così favorire le aziende che producevano queste merci a danno della produzione locale; la costante collaborazione del governo federale (Kohl) con gli avidi criminali del grande capitale – e l’autorevole appoggio di… Jean Claude Juncker! Eh sì, le “integrazioni” sono sempre, nella realtà, business sfrenato e disumano, ora come allora. La Germania fa le integrazioni col disintegratore. L’agenzia fiduciaria incaricata della vendita dei beni del popolo della Germania Orientale, la Treuhandanstalt, un veicolo per realizzare questi fini e, in luogo di concludere la suggestione con un utile netto derivato dalla vendita-privatizzazione dei beni pubblici orientali, produsse un buco di oltre 1 miliardo di marchi, sicché i cittadini orientali, ciascuno dei quali aveva ricevuto l’assegnazione di una quota azionaria nell’agenzia fiduciaria del valore teorico di 40.000 marchi, alla fine dei conti non ricevettero nemmeno un pfennig per l’espropriazione dei beni popolari che avevano subito.Dopo il saccheggio, furono intentati processi penali e civili, indagini formali sull’operato dell’agenzia fiduciaria e su altre vicende relative all’annessione della Germania Orientale, ma, grazie all’opposizione del governo, all’inerzia del Parlamento, agli insabbiamenti giudiziari, al fatto che tutta la gestione della missione era stata impostata e imperniata su tecnocrati a bassa o nulla responsabilità e ad alta opacità, come gli attuali eurocrati, i processi e le indagini finirono nel nulla. Il profitto compera tutti i poteri dello Stato. Per contro, mentre il Pil della Germania Orientale crollava (-40,8% nei primi 2 anni, export -60%), quello della Germania Occidentale, grazie alle acquisizioni sottocosto di cui sopra, fece un balzo all’insù di circa il 7%. A dispetto della vulgata ufficiale, ancora oggi la Germania Orientale rimane un paese, un pezzo di paese, arretrato, che non ha agganciato la parte occidentale, che vive di trasferimenti posti a carico del contribuente occidentale, in quanto il deficit commerciale dell’Est è del 45% mentre quello del Meridione è solo il 12,5%: quindi la Germania orientale è messa molto peggio della cosiddetta Terronia. Ma, ovviamente, non è colpa sua, bensì effetto di una rapina assistita dal governo di Bonn, nell’interesse del capitalismo tedesco occidentale, e con la giustificazione pseudo-scientifica dell’ideologia del mercato e delle sue regole, in cui si nasconde il fatto che il mercato non è libero ma è l’arena di scontri e rapporti di forza e sopraffazione.Qualcosa del genere dell’unificazione tedesca del 1990 era già avvenuto in Italia, con la annessione del Sud, un’area complessivamente meno produttiva del Nord – annessione che aveva portato non a una convergenza delle due parti d’Italia, ma a una maggiore divergenza in termini di efficienza e produttività e competitività, in quanto il Nord attraeva e distoglieva capitali e competenze dal Sud, che quindi si deindustrializzava e si votava a diventare o restare un’area agricola e marginale. Analoga operazione sta avvenendo oggi sotto il pretesto della unificazione europea e della unione monetaria, ossia dell’euro. La Germania entrò nell’euro a condizione che vi entrasse d’Italia, l’altro paese ad alta capacità manifatturiera. Perché? Perché se l’Italia fosse rimasta fuori avrebbe fatto una forte concorrenza alla Germania, mentre per contro l’euro avrebbe alzato il corso della valuta italiana e abbassato il corso della valuta tedesca, in tal modo favorendo le esportazioni tedesche soprattutto entro l’unione monetaria europea e limitando quelle italiane, che diventavano meno competitive.Così è avvenuto: contrariamente alla quasi totalità dei paesi dell’Eurozona, in cui la quota manifatturiera del Pil è calata fortemente, la Germania, con l’euro, ha avuto un aumento di circa il 25% di questa quota, dovuto soprattutto ad esportazioni nei mercati dei paesi partners dell’Eurozona, ossia dovuta a quote di mercato sottratte ad essi. Esportazioni che i banchieri tedeschi hanno sostenuto facendo prestiti e investimenti verso i paesi euro-deboli, Grecia e Spagna in testa, ben sapendo che prima o poi quei paesi non sarebbero riusciti a sostenere le scadenze di pagamento – anche poiché i loro conti erano stati truccati ad hoc – e che, a qual punto, sarebbe scoppiata quella crisi che ha poi in effetti consentito alla Germania di imporre le sue regole, i suoi interessi e i suoi uomini al potere, grazie al suo controllo sulla Bce, e a costringere altri paesi, Italia in testa, a svenarsi per prestare a Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda i soldi necessari a realizzare i loro lucri usurari e fraudolenti.Anche se a molti può venire il pensiero che il vero compitino da fare a casa sia liberarsi della Germania una volta per sempre, quanto sopra descritto non va letto e presentato in chiave nazionalistica, ossia come una colpa della popolazione tedesca – sostanzialmente inconsapevole – bensì in chiave di guerra di classe, perché, sotto mentite spoglie ideologiche, è una campagna di conquista del capitalismo finanziario a spese della popolazione generale. L’Italia ha un’arma negoziale molto potente nei confronti della Germania: minacciare di uscire dall’Eurosistema (cosa che farebbe saltare l’euro e condannerebbe la Germania a una rivalutazione monetaria fortissima, che metterebbe fuori mercato le sue produzioni e in ginocchio la sua economia). Non usare quest’arma e lasciare che il paese sia fatto a pezzi giorno dopo giorno, è un delitto capitale. Ai governanti italiani che, facendo finta di non vedere la realtà, hanno collaborato e collaborano a questo disegno a danno di tutti noi, vorrei chiedere: lo fate perché minacciati, perché ricattati, o perché pagati? Quanto?(Marco Della Luna, “Euro-Anschluss, il fantasma di Morgenthau”, dal blog di Della Luna del 17 ottobre 2014).Verso la fine della II Guerra Mondiale gli Usa avevano un piano, il Piano Morgenthau (poi non eseguito per ovvie ragioni connesse alla guerra fredda), per eliminare dopo la guerra tutte le industrie tedesche, facendo della Germania un paese puramente agricolo. Il mezzo per ottenere ciò era semplice: imporre alla Germania l’unione monetaria con gli Usa, la cui moneta era allora molto forte: il prezzo delle merci tedesche si sarebbe moltiplicato e le aziende avrebbero chiuso, non potendo più esportare, e l’industria yankee avrebbe preso i suoi mercati e i suoi assets migliori gratis o quasi. Gli Stati Uniti non fecero questo alla Germania dopo la sua resa, però la Germania Ovest lo fece poi alla Germania Est negli anni ’90. E ora lo fa all’Italia. Oramai è stato acquisito: essendosi inchiodata a un cambio elevato e fisso – elevato sia rispetto agli altri paesi dell’Eurozona, che rispetto agli altri – e non potendo più svalutare la moneta per mantenersi competitiva sui mercati internazionali, l’Italia, per restare competitiva e limitare la sua deindustrializzazione, ha dovuto svalutare i lavoratori, riducendo i salari/redditi, tassandoli di più, tagliando e differendo le pensioni.
-
Cucchi incarcerato solo perché classificato come straniero
La sentenza di assoluzione è il nuovo anello della catena di eventi relativi alla morte di Stefano Cucchi, non ancora l’ultimo. Altri se ne aggiungeranno, con il ricorso in Cassazione e i nuovi sviluppi giudiziari. Per adesso la Corte d’assise d’appello ha ritenuto insufficienti le prove raccolte contro tre guardie carcerarie e tre infermieri (per la seconda volta) e sei medici (ribaltando il giudizio di primo grado), dopo un’indagine che forse poteva essere condotta diversamente e di un’impostazione dell’accusa cambiata più volte in corsa. Tuttavia le cause della drammatica fine di quel giovane entrato vivo e uscito cadavere dalla prigione in cui era stato rinchiuso risalgono a comportamenti precedenti a quelli finiti sotto processo, responsabilità di strutture statali che non sono mai state giudicate. Fin dalla sera dell’arresto di Cucchi, 15 ottobre 2009. Lo sorpresero con qualche dose di erba e cocaina, lo accompagnarono in una caserma dei carabinieri e Stefano ha cominciato a morire lì, prima stazione di una via crucis dalla quale non s’è salvato.Nel verbale d’arresto i militari dell’Arma scrissero che Cucchi era «nato in Albania il 24.10.1975, in Italia senza fissa dimora»; peccato che fosse nato a Roma in tutt’altra data, e che l’abitazione in cui risultava ufficialmente residente fosse appena stata perquisita, senza esito, alla presenza sua e dei genitori. Evidentemente il verbalizzante aveva utilizzato, sul computer, il modello riempito in precedenza con i dati di un albanese, senza preoccuparsi di modificarli: una sciatteria che ebbe conseguenze fin dalla mattina successiva, visto che il giudice che convalidò l’arresto negò i domiciliari per la «mancanza di una fissa dimora risultante con certezza dagli atti». Fosse tornato a casa, sia pure da detenuto, probabilmente Stefano sarebbe ancora vivo. Incredibile, ma vero.Nello stesso provvedimento venne anche scritto che «il prevenuto, interpellato, dichiara di non voler dare notizia del suo avvenuto arresto ai propri familiari»; in realtà i genitori l’avevano visto quasi in diretta, perché dopo il fermo e la perquisizione i carabinieri gliel’avevano comunicato. E al papà che chiedeva se dovesse avvisare l’avvocato, risposero che non c’era bisogno, avevano già provveduto loro. La mattina dopo, però, Stefano non trovò in aula il difensore di fiducia che voleva, ma uno d’ufficio. Quel giorno, nei sotterranei del tribunale, Cucchi è stato picchiato come risulta dalle stessa sentenza che, in primo grado, non era riuscita a individuare le prove per condannare i responsabili (in quella d’appello si vedrà, ma è verosimile che sia avvenuta la stessa cosa).La morte del trentenne però – che certamente aveva un fisico gracile ma sano, tanto che poche ore prima di finire in gattabuia era stato nella palestra che frequentava regolarmente – non dipende solo dalle botte. È dovuta al viavai tra il carcere di Regina Coeli (dove a un medico che aveva constatato i segni delle percosse disse che era caduto dalle scale, tipica giustificazione dei detenuti che non si fidano di denunciare gli aggressori) e l’ospedale dove si decise di non farlo restare per evitare i piantonamenti, fino al ricovero nel reparto penitenziario delPertini: un pezzo di carcere trasferito dentro un policlinico.Anche qui si sono susseguiti eventi che hanno contribuito alla tragica fine di Stefano: l’assurdo divieto per i genitori che non solo non poterono incontrarlo prima di ottenere il permesso del giudice – e siccome c’era di mezzo il fine settimana, il via libera arrivò solo il giorno della morte – ma per loro era vietato anche ricevere informazioni sul suo stato di salute. Avevano avuto la comunicazione del ricovero, ma era impossibile conoscerne il motivo: una regola talmente incredibile che dopo la morte di Stefano fu cancellata dalla burocrazia penitenziaria. In quei giorni di isolamento – con papà e mamma lasciati dietro una porta blindata, ai quali fu concesso solo di lasciare un cambio per il figlio, rimasto però integro perché nessuno si preoccupò di aiutarlo a cambiarsi visto che non si poteva muovere dal letto – Cucchi chiese inutilmente di parlare col suo avvocato o con un assistente del centro per tossicodipendenti che frequentava in passato.Richiesta che non è mai uscita dal chiuso dell’ospedale Pertini, nonostante fosse annotata sul diario clinico, visto che per quel motivo Stefano rifiutava il cibo e le cure. Con la calligrafia ormai malferma per lo stato di sofferenza in cui versava, aveva perfino scritto una lettera all’operatore sociale, per chiedergli aiuto: qualcuno la spedì dopo che era morto. Per tutta questa incredibile catena di fatti e misfatti, e altri ancora, Stefano Cucchi «ha concluso la sua vita in modo disumano e degradante», come scrisse il magistrato Sebastiano Ardita, all’epoca funzionario dell’amministrazione carceraria, nella relazione ispettiva del dicembre 2009. Cinque anni dopo quella fine è rimasta senza colpevoli, ma il problema non è certo – o non solo – l’ultima sentenza.(Giovanni Bianconi, “Cucchi, tutti gli incredibili errori”, dal “Corriere della Sera” del 2 novembre 2014).La sentenza di assoluzione è il nuovo anello della catena di eventi relativi alla morte di Stefano Cucchi, non ancora l’ultimo. Altri se ne aggiungeranno, con il ricorso in Cassazione e i nuovi sviluppi giudiziari. Per adesso la Corte d’assise d’appello ha ritenuto insufficienti le prove raccolte contro tre guardie carcerarie e tre infermieri (per la seconda volta) e sei medici (ribaltando il giudizio di primo grado), dopo un’indagine che forse poteva essere condotta diversamente e di un’impostazione dell’accusa cambiata più volte in corsa. Tuttavia le cause della drammatica fine di quel giovane entrato vivo e uscito cadavere dalla prigione in cui era stato rinchiuso risalgono a comportamenti precedenti a quelli finiti sotto processo, responsabilità di strutture statali che non sono mai state giudicate. Fin dalla sera dell’arresto di Cucchi, 15 ottobre 2009. Lo sorpresero con qualche dose di erba e cocaina, lo accompagnarono in una caserma dei carabinieri e Stefano ha cominciato a morire lì, prima stazione di una via crucis dalla quale non s’è salvato.
-
Massacro sociale europeo: i nazisti erano meno subdoli
Quattro milioni e 68.250 persone, in Italia, costrette a chiedere aiuto per mangiare nel 2013, con un aumento del 10% cento sull’anno precedente. Lo ha calcolato la Coldiretti, sulla base della relazione che riguarda il “Piano di distribuzione degli alimenti agli indigenti” realizzato dall’Agea, l’agenzia per le erogazioni in agricoltura, in riferimento ai dati Istat sulle famiglie senza redditi da lavoro. Numero approssimato per difetto: tiene conto soltanto di chi ha chiesto aiuto attraverso canali più o meno ufficiali, trascurando chi si è rivolto a famiglie, genitori e amici. «Se mettessimo in fila quelle persone, dando a ciascuna soltanto mezzo metro di spazio, si formerebbe una fila che parte da Reggio Calabria e finisce a Bruxelles», scrive “Come Don Chisciotte”. Bruxelles, cioè la città «in cui ha sede il meccanismo di dominazione tirannica basato sullo smantellamento delle istituzioni democratiche e sull’impoverimento generalizzato che si definisce Unione Europea».«Facciamo ora uno sforzo più grande, e immaginiamo di prendere non solo gli italiani che grazie ai destini magnifici e progressivi dell’Europa reale hanno dovuto calpestare la propria dignità per avere un piatto di minestra, ma quelli di tutti i paesi che aderiscono all’Ue, ridotti in miseria dalla moneta unica. A quel punto – continua il blog – il continente che un tempo possedeva il più avanzato e inclusivo sistema di welfare, e per questo era universalmente stimato e rispettato come quello in cui la sua civiltà millenaria si esprimeva al livello più alto, si vedrebbe attraversato in ogni direzione da file di diseredati, lunghe migliaia e migliaia di chilometri». Se i progetti grandiosi della Ue, come i cosiddetti corridoi ferroviari trans-europei ad alta velocità che avrebbero dovuto attraversare il continente sono rimasti in gran parte sulla sulla carta, in compenso «l’Europa reale ha realizzato file ancora più lunghe di poveri, disoccupati e affamati». Statistica: «Solo la più sanguinosa delle guerre, quella combattuta dal 1939 al 1945, è stata capace di produrre qualcosa di simile. Malgrado le armi convenzionali non siano finora entrate in gioco, le conseguenze della moneta unica sono di entità simile a quelle proprie di un evento bellico di tale portata».Come ormai sostengono diverse fonti autorevoli, negli Stati che dovrebbero essere affratellati dai trattati di unione si sta effettivamente combattendo una guerra, anche se non con i mezzi corazzati, ma con gli strumenti della finanza. «Che sono forse più micidiali, essendo capaci di produrre danni ancora maggiori». Tutto questo per che cosa? «Per dare soddisfazione alla patologia di accumulazione compulsiva di un branco di oligarchi, e il doveroso compenso ai politici non eletti da nessuno al loro servizio», e anche «per il prestigio politico da essi speso nella realizzazione del più micidiale strumento di devastazione sociale e istituzionale oggi conosciuto, quello che risponde al nome di Euro». Di fronte a un disastro simile, «causato deliberatamente», il capo del terzo “governo fantoccio” che si succede in Italia in poco più di due anni, Matteo Renzi, «non trova di meglio che rispondere con l’elemosina degli 80 euro», che dovranno essere ripagati «mediante misure più costose e permanenti, come al solito a spese dei redditi medio-bassi».“L’elemosina” va comunque a chi ha già una busta paga, per quanto misera: viceversa, «chi non ha niente, ovvero il milione e più di famiglie che non percepiscono reddito da lavoro alcuno, sempre certificato dall’Istat, niente avrà». Questo, «in base alla logica consolidata negli anni che prevede di abbandonare al proprio destino la fascia dei più bisognosi, di giorno in giorno più ampia: se non si ha nulla, nulla si ha da pretendere e tantomeno da offrire». E’ la politica sociale «dei partiti di falsa sinistra, da decenni intenta alla spoliazione e all’impoverimento generalizzato dei ceti subalterni». Quei partiti, secondo “Come Don Chisciotte”, «hanno definitivamente sancito l’assenza di qualunque volontà di porre un benché minimo rimedio alle conseguenze delle loro politiche scellerate», ossia «l’essersi messi al servizio delle élite per eseguire le politiche più oltranziste della destra finanziaria», il capitalismo assoluto. «Si perviene così a una forma di dissociazione dalla realtà in base a ordini superiori, quelli provenienti dai vertici del partito, che a prima vista potrebbe apparire patetica ma in realtà è ignobile e vergognosa», perché «se si agisce in modo tale da favorire l’aggravarsi delle condizioni generali, oltretutto su mandato di poteri esterni al proprio paese», allora «ci si assumono responsabilità enormi». .“Come Don Chisciotte” traccia un parallelo tra «l’attività ademocratica e antisociale della politica attuale» e il comportamento dei magnate degli inizi del secolo scorso, come Rockefeller: «Per il loro arricchimento personale, e migliorare la competitività della propria impresa, non hanno esitato a ordinare che donne e bambini fossero trucidati: erano le famiglie dei lavoratori impiegati nelle miniere del Colorado che chiedevano condizioni di vita meno disumane». Gli autori della restaurazione iper-capitalistica e della conseguente macelleria sociale oggi in atto sono «come nazisti e moderni Mengele». “Nazista” è parola assurta a sinonimo universale della crudeltà peggiore e della negazione per il valore e l’intangibilità della vita umana: nel mondo occidentale, si viene ammaestrati fin dalla più tenera età a riconoscere il nazismo come il male assoluto per definizione. Ma i “nazisti” di oggi si riparano dietro al “frame” della persuasione occulta: il sangue non si vede, la strage non viene percepita subito. Perfino gli esiti quotidiani del disastro-Europa «diventano controversi e di interpretazione incerta, malgrado ciascuno si ritrovi con meno soldi in tasca e un potere d’acquisto ridotto ai minimi termini», la prole disoccupata o precaria.La potente manipolazione mediatica rende gli individui incapaci di stabilire «persino il più elementare legame di causa ed effetto». Eppure, il «massacro sociale odierno» va oltre il nazismo, secondo “Come Don Chisciotte”: «Infatti il nazismo, come tutte le altre dittature dello scorso secolo, in primo luogo agiva in nome e per conto del proprio Stato o parte di esso, sia pure con metodi condannevoli. La classe politica di oggi, invece, opera su mandato di poteri esterni, dei quali si è fatta collaborazionista, o meglio fantoccio». Soprattutto, «il nazismo riconosceva la propria natura e non aveva problemi a palesarla». Viceversa, «i moderni sgherri dell’assolutismo iper-capitalista si mascherano vilmente dietro le loro teorie deliranti», palesemente insostenibili ma «ripetute fino a renderle i dogmi su cui si basa il lavaggio del cervello di massa». E questo avviene «dietro la facciata delle istituzioni democratiche che nel frattempo hanno provveduto a sovvertire, svuotandole del loro contenuto originario, con lo scopo di trasformarle negli strumenti atti a giungere agli obiettivi di dominazione assoluta che si sono prefissi».Si adotta questo modello, oggi, grazie alla consapevolezza «che proprio l’essersi palesate in quanto tali è stato il primo punto debole di quelle dittature», all’epoca «finanziate molto generosamente dalle banche controllate da chi oggi persegue il disegno di dominazione globale». Proprio «la necessità di tenere nascosto quel disegno, per non renderlo riconoscibile fino al suo compimento definitivo, sta a testimoniare il valore che chi lo ha attuato è il primo ad attribuirgli: il che equivale a una piena e inappellabile confessione di colpevolezza». In più, le guerre di allora erano dichiarate e combatture alla luce del sole. «I tiranni di oggi invece muovono guerre invisibili ma ancora più micidiali, che sovente hanno per vittima il loro stesso Stato». Se e quando il popolo se ne accorge, «è troppo tardi per rimediare». Per di più, «la tirannide attuale ritiene di poter fare a meno di una qualsiasi base di consenso che non sia quella dell’1%, cosa che le permette di colpire indiscriminatamente qualunque ceto sociale e di porsi come obiettivo la distruzione totale di tutto ciò che possa essere assimilato a una qualche forma di welfare». Al contrario, «le dittature storiche ricercavano comunque un consenso, il che le portava a realizzare opere di valore sociale, sia pure per motivi demagogici e inserite nel contesto delle loro politiche totalitarie».Per “Come Come Don Chisciotte”, dunque, «definire nazisti gli autori dell’odierno massacro sociale è fuorviante, ma soprattutto riduttivo». Il perché ce lo spiega George Orwell, nel suo capolavoro “1984”, in cui denuncia i problemi di percezione indotti dalla manipolazione linguistica, un deficit cognitivo che porta al blackout mentale e all’incapacità di articolare un’autodifesa fondata sul pensiero critico. «Assieme alla negazione sistematica della realtà e alla riscrittura altrettanto sistematica del passato, proprio questo va a costituire l’architrave dell’ordinamento tirannico descritto dallo scrittore inglese, cui non a caso la realtà di oggi rassomiglia in maniera sempre più evidente». E’ urgente che «qualche intellettuale di buona volontà si sforzi per coniare un neologismo», un termine «che condensi in sé tutta l’enorme e inedita carica di vile malvagità insita nel disegno restaurativo dell’assolutismo capitalista e dei suoi esecutori», in modo da incidere nell’immaginario comune. «Fino ad allora non sarà possibile far sì che l’opinione pubblica si renda conto fino in fondo di quanto sta avvenendo».Quattro milioni e 68.250 persone, in Italia, costrette a chiedere aiuto per mangiare nel 2013, con un aumento del 10% cento sull’anno precedente. Lo ha calcolato la Coldiretti, sulla base della relazione che riguarda il “Piano di distribuzione degli alimenti agli indigenti” realizzato dall’Agea, l’agenzia per le erogazioni in agricoltura, in riferimento ai dati Istat sulle famiglie senza redditi da lavoro. Numero approssimato per difetto: tiene conto soltanto di chi ha chiesto aiuto attraverso canali più o meno ufficiali, trascurando chi si è rivolto a famiglie, genitori e amici. «Se mettessimo in fila quelle persone, dando a ciascuna soltanto mezzo metro di spazio, si formerebbe una fila che parte da Reggio Calabria e finisce a Bruxelles», scrive “Come Don Chisciotte”. Bruxelles, cioè la città «in cui ha sede il meccanismo di dominazione tirannica basato sullo smantellamento delle istituzioni democratiche e sull’impoverimento generalizzato che si definisce Unione Europea».
-
Tutti precari? Sembra un affare, invece uccide le imprese
Jobs Act per rilanciare economia e occupazione? Errore: «La definitiva abolizione dell’articolo 18 è destinata a intensificare la recessione», secondo Guglielmo Forges Davanzati. «L’ulteriore indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori, riducendo i salari, accentua il circolo vizioso: dalla compressione della domanda interna alla caduta dell’occupazione e del tasso di crescita della produttività del lavoro». Lo dimostra l’evidenza empirica, che «smentisce la convinzione secondo la quale la moderazione salariale favorisce l’aumento delle esportazioni e, per questa via, l’aumento dell’occupazione». Avvertiva Achille Loria nel lontanissimo 1899: «Quanto più la depressione procede e con essa si accentua il disagio dei capitalisti, tanto più veemente si fa la reazione di questi contro gli operai, la resistenza alle loro pretese, la riduzione violenta dei salari». Come volevasi dimostrare: «Non è l’articolo18 dello Statuto dei Lavoratori a frenare la crescita economica in Italia e a tenere alto il tasso di disoccupazione».Non lo è, scrive Davanzati su “Micromega”, perché la sua applicazione interessa una platea ristretta di lavoratori. E perché è già stato, di fatto, superato con la cosiddetta riforma Fornero. Inoltre, «le scelte di assunzione delle imprese non sono motivate da presunte “rigidità” della normativa a tutela dei lavoratori, ma semmai dalle aspettative di profitto», dunque, dalla mancanza di domanda: consumi a picco. Non è “colpa” dell’articolo 18, «soprattutto perché è ormai ampiamente provato che non è la deregolamentazione del mercato del lavoro ad accrescere l’occupazione». Prova del nove, ampiamente dimostrata dalle statistiche: «All’aumentare della flessibilità del lavoro – misurata dall’Epl (Employment protection legislation) – l’occupazione non aumenta». Fatto «ancora più certo», sul piano empirico, è che «la flessibilità riduce i salari».In una fase di intensa e prolungata recessione, scrive Forges Davanzati, è davvero ardua impresa provare ad uscirne sottraendo diritti ai lavoratori. Indebolire ulteriormente il lavoro servirà solo a far crollare, ancora, la domanda interna di consumi. «La sola ratio economica che può motivare questa misura risiede nella convinzione – propria della Commissione Europea – in base alla quale la fuoruscita della crisi si rende possibile solo accrescendo la competitività sui mercati internazionali». Solo export, dunque. E quindi: taglio dei salari, riduzione dei prezzi, aumento delle esportazioni, incremento dei profitti delle imprese esportatrici. In teoria, poi: reinvestimento dei profitti e aumento finale dell’occupazione interna. Peccato che alla teoria non corrisponda la realtà: secondo un recente studio della stessa Commissione Ue, nei paesi come l’Italia «le politiche di deflazione salariale hanno generato il solo effetto di accrescere i margini di profitto, con risultati pressoché insignificanti sull’andamento delle partite correnti». In sostanza, «non vi è alcun automatismo che garantisce che un incremento di esportazioni si traduca in un aumento dell’occupazione interna».Il punto è se la riduzione dei salari implichi la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto (il rapporto fra salario e produttività del lavoro), dal momento che la competitività può aumentare solo a condizione che, a fronte di una riduzione dei salari, la produttività cresca o almeno rimanga costante, a parità di tasso di cambio. Ma, quantomeno nel caso italiano, le cose non stanno così. «Da almeno un decennio – scrive Davanzati – l’economia italiana sperimenta, contestualmente, una rilevante contrazione della quota dei salari sul Pil e un’altrettanto rilevante riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro». L’ultimo rapporto Eurostat certifica che, nell’ultimo trimestre del 2013, il costo del lavoro in Italia è ulteriormente aumentato (1,1%), a fronte del fatto che la dinamica delle retribuzioni si è mantenuta al di sotto della media europea (+1,4% in Italia, +1,6% nell’Ue). La dinamica dei salari e quella della produttività sono strettamente connesse, sia per ragioni che attengono all’assetto tecnico con il quale le imprese operano, sia per ragioni che riguardano le reazioni dei lavoratori alla variazione dei salari.La riduzione dei salari «pone le imprese nella condizione di competere comprimendo i costi e, per questa via, disincentiva l’introduzione di innovazioni, con effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività». Se calano i salari crollano i consumi, a danno delle imprese che operano sul mercato interno. Inoltre, la contrazione dei profitti monetari riduce le fonti di autofinanziamento delle imprese e, soprattutto in un contesto di restrizione del credito, le pone nelle condizioni di non poter investire, dunque crescere. Infine, le imprese italiane presenti sui mercati internazionali sono quasi esclusivamente aziende di grandi dimensioni: «Il che evidenzia il fatto che politiche che non favoriscono la crescita dimensionale delle imprese sono destinate a controbilanciare il possibile (e incerto) effetto di aumento delle esportazioni derivante dalla moderazione salariale».Inoltre, «la riduzione dei salari e la compressione dei diritti dei lavoratori tende ad associarsi a una bassa dinamica della produttività del lavoro». L’esperienza italiana «mostra che quanto più si è reso flessibile il mercato del lavoro, tanto più si è registrato un rallentamento del tasso di crescita della produttività», che ha cominciato a calare in modo rilevante con l’approvazione del “pacchetto Treu” e della “legge Biagi”. Le cause: scarsi investimenti e assenza di innovazioni, ma anche «un effetto di ‘scoraggiamento’», a sua volta generato «dalla bassa gratificazione derivante dal lavorare in condizioni precarie e con sottoutilizzazione del capitale umano, e dalla bassa probabilità di trovare impiego in caso di licenziamento». In questo senso, «le politiche di deregolamentazione del contratto di lavoro (e la connessa maggiore libertà di licenziamento), combinate con il peggioramento delle condizioni di lavoro e la scarsa valorizzazione delle competenze, hanno contribuito a ridurre l’impegno lavorativo e, per conseguenza, la produttività».E attenzione: il fenomeno ha carattere irreversibile, «dal momento che la riduzione dei salari deteriora la qualità della forza lavoro in un orizzonte di lungo periodo». Se si manomette il sistema-lavoro puntando al ribasso, è carto che si avranno risultati negativi per molto tempo, perché saltano gli equilibri consolidati attraverso decenni di sviluppo. «Più bassi salari oggi implicano, infatti, minori possibilità di spese per istruzione, sanità, riduzione del tasso di natalità (e conseguente invecchiamento della popolazione), con effetti di segno negativo sulla produttività futura». In altri termini, conclude Davanzati, «l’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori, mentre può risultare conveniente per la singola impresa e nel breve periodo, risulta controproducente per la collettività delle imprese, e controproducente nel lungo periodo: non solo per le imprese, ma anche e soprattutto per le prospettive di crescita dell’economia italiana».Jobs Act per rilanciare economia e occupazione? Errore: «La definitiva abolizione dell’articolo 18 è destinata a intensificare la recessione», secondo Guglielmo Forges Davanzati. «L’ulteriore indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori, riducendo i salari, accentua il circolo vizioso: dalla compressione della domanda interna alla caduta dell’occupazione e del tasso di crescita della produttività del lavoro». Lo dimostra l’evidenza empirica, che «smentisce la convinzione secondo la quale la moderazione salariale favorisce l’aumento delle esportazioni e, per questa via, l’aumento dell’occupazione». Avvertiva Achille Loria nel lontanissimo 1899: «Quanto più la depressione procede e con essa si accentua il disagio dei capitalisti, tanto più veemente si fa la reazione di questi contro gli operai, la resistenza alle loro pretese, la riduzione violenta dei salari». Come volevasi dimostrare: «Non è l’articolo18 dello Statuto dei Lavoratori a frenare la crescita economica in Italia e a tenere alto il tasso di disoccupazione».
-
Oggi teorie cospirative, domani verità: lo dice la storia
Forse, la prima vera operazione “false flag” dell’epoca moderna fu “l’incidente di Gleiwitz”, provocato dai nazisti nel 1939 vicino alla frontiera orientale: indossate le uniformi dell’esercito polacco, unità delle SS attaccarono una stazione radio tedesca per poi dare la colpa alla Polonia. Durante il blitz, le SS trasmisero un breve messaggio di propaganda in polacco. Poi uccisero dei prigionieri di un campo di concentramento vestiti con uniformi polacche e li lasciarono sulla scena, per far apparire l’incidente come un atto di aggressione progettato da Varsavia. Il giorno successivo, quando la Germania invase il paese confinante dando inizio alla Seconda Guerra Mondiale, Hitler citò l’episodio come uno dei pretesti. Nove giorni prima dell’incidente, Hitler aveva detto ai suoi generali: «Provvederò a un casus belli per la propaganda. La sua credibilità non ha importanza. Al vincitore non verrà chiesto se ha detto la verità». Anche se il termine “teoria del complotto” è diventato un dispregiativo usato contro chiunque metta in discussione la versione ufficiale degli eventi, innumerevoli esempi in tutta la storia delle cospirazioni hanno confermato i peggiori sospetti.«L’idea che i governi e le agenzie di intelligence svolgano atti di terrorismo sotto falsa bandiera è stata a lungo derisa dai media del sistema come una teoria della cospirazione, nonostante ci sia una pletora di casi storicamente documentati». Paul Joseph Watson e Alex Jones ne citano almeno dieci, famosi o famosissimi. Come l’Operarazione Ajax, che nel 1953 rovesciò il governo di Mohammed Mossadeq in Iran. La Cia ha ammesso il proprio ruolo nel golpe solo dopo mezzo secolo, nel 2013. Bilancio dell’attività terroristica: almeno 300 civili uccisi. Altra clamorosa “false flag”, lo scontro navale dell’estate del 1964 nel Golfo del Tonchino, che fornì il pretesto per la guerra del Vietnam. Peccato che nessuno sparò mai un solo colpo di cannone contro la flotta statunitense. Eppure, il 4 agosto 1964, il presidente Lyndon Johnson andò in televisione e disse al paese che il Vietnam del Nord aveva attaccato delle navi americane: «I ripetuti atti di violenza contro le forze armate degli Stati Uniti devono ricevere una risposta», dichiarò.Il Congresso approvò subito la Risoluzione del Golfo del Tonchino, che fornì a Johnson l’autorità per condurre operazioni militari contro il Vietnam del Nord. Nel 1969, oltre 500.000 soldati stavano già combattendo nel sud-est asiatico. «Johnson e il suo segretario alla difesa, Robert McNamara, avevano ingannato il Congresso e il popolo americano», scrivono Watson e Jones in un post su “Infowars”, tradotto da “Come Don Chisciotte”. «In realtà, il Vietnam del Nord non aveva attaccato la Uss Maddox, come il Pentagono aveva sostenuto, e la “prova inequivocabile” di un “non provocato” secondo attacco contro la nave da guerra degli Stati Uniti era uno stratagemma». Interamente all’insegna della “false flag” fu l’Operazione Gladio, cioè «il terrore sponsorizzato dallo Stato e imputato alla sinistra». In piena guerra fredda, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Cia e la britannica Mi6 collaborarono assieme alla Nato nell’Operazione Gladio per creare un esercito clandestino, o “stay behind”, al fine di combattere il comunismo nel caso di una invasione sovietica dell’Europa occidentale. Ben presto, però, la rete difensiva anti-Urss si trasformò in un esercito terrorista incaricato di intimidire l’opinione pubblica dell’Europa occidentale.«Gladio – precisano Watson e Jones – trascese rapidamente la sua missione originaria e divenne una rete terroristica segreta composta da milizie di destra, elementi della criminalità organizzata, agenti provocatori e unità militari segrete». Le forze armate “stay behind” erano attive in Francia, Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Norvegia, Germania, e Svizzera. La “strategia della tensione”, quella che straziò l’Italia per due decenni, «venne progettata per far figurare i gruppi politici di sinistra europei come terroristici e per spaventare la popolazione, inducendola così a votare per governi autoritari». Dalla bomba di piazza Fontana a quella dell’Italicus, dai misteri del sequestro Moro (eseguito dalle Brigate Rosse ma “assistito” da una rete invisibile di protezione, anche all’insaputa degli stessi brigatisti), fino alla strage della stazione di Bologna: un retroterra torbido, popolato da servizi segreti molto opachi, infiltrati da organismi come la P2 di Licio Gelli, potente loggia massonica “deviata”, in collaborazione con gruppi neofascisti (Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale), impiegati come manovalanza per le stragi. In ultima analisi, rilevano Watson e Jones, l’Operazione Gladio «ha causato la morte di centinaia di persone in tutta Europa». Secondo Vincenzo Vinciguerra, ex terrorista di Gladio all’ergastolo per l’assassinio di un poliziotto, la ragione di “stay behind” era semplice: l’organizzazione era stata progettata «per costringere la gente, i cittadini italiani, a pretendere dallo Stato maggiore sicurezza. Questa è la logica politica che sta dietro tutte le stragi e gli attentati che restano impuniti, perché lo Stato non può condannare se stesso o dichiararsi responsabile di quanto è accaduto».Alla guerra segreta contro il regime comunista di Fidel Castro a Cuba appartiene invece l’Operazione Northwood: nell’ambito dell’Operazione Mangusta della Cia, «lo stato maggiore Usa propose all’unanimità di realizzare azioni terroristiche sponsorizzate dallo Stato all’interno degli Stati Uniti». Il piano, aggiungono Watson e Jones, «prevedeva l’abbattimento di aerei americani dirottati, l’affondamento di navi americane e l’uccisione di cittadini americani, a colpi di arma da fuoco, per le strade di Washington». Lo scandaloso piano «includeva anche lo scenario di un disastro alla Nasa, che prevedeva la morte dell’astronauta John Glenn». Il presidente John Fitzgerald Kennedy, ancora vacillante dopo l’imbarazzante fallimento della Cia per l’invasione di Cuba alla Baia dei Porci, «respinse il piano nel marzo del 1962». E pochi mesi dopo, lo stesso Kennedy «negò all’autore del piano, il generale Lyman Lemnitzer, un secondo mandato come militare di rango più alto della nazione». Poco dopo, nel novembre del 1963, Kennedy fu assassinato a Dallas, in Texas.Si chiama invece “Fast and Furious” l’operazione in cui «il governo Obama ha fornito armi ai signori messicani della droga con l’apparente scopo di seguirne le tracce al fine di distruggere le gang». Secondo Watson e Jones, «era in realtà parte di un piano cospirativo per demonizzare il secondo emendamento», cioè il diritto del cittadino americano di portare armi. I documenti ottenuti da “Cbs News” nel dicembre 2011 dimostrano che gli agenti speciali dell’Atf avevano discusso su come avrebbero potuto collegare le armi coinvolte nelle violenze in Messico ai negozianti di armi degli Stati Uniti, al fine di far approvare normative più restrittive sul controllo delle armi. Una fonte della polizia ha detto a “Cbs News” che le email indicano che l’Atf ha “montato” il caso, come parte di una manovra politica: «È come se l’Atf avesse creato o incrementato il problema, in modo da poter essere proprio lei a fornire la soluzione». Quanto alla droga, i narcos non sono solo messicani o colombiani: la stessa Cia «è stata implicata in operazioni di traffico di droga in tutto il mondo, anche a livello nazionale, in particolare durante l’affare Iran-Contras».«Con la benedizione della Cia», i miliziani che dall’Honduras contrastavano i guerriglieri di dinistra del Salvador e del Nicaragua «contrabbandarono negli Stati Uniti cocaina che venne poi distribuita come droga di prima qualità a Los Angeles, e i cui profitti furono poi versati ai Contras». Michael Ruppert, allora agente della polizia di Los Angeles, ha anche testimoniato di aveva assistito al traffico di droga della Cia. «I boss della droga messicani, come Jesus Vicente Zambada Niebla, hanno perfino dichiarato pubblicamente di esser stati ingaggiati dal governo Usa per operazioni di traffico di droga». Per Watson e Jones, «c’è un voluminoso corpo di prove che conferma che la Cia e i giganti bancari degli Stati Uniti sono i maggiori players in un commercio mondiale di droga del valore di centinaia di miliardi di dollari l’anno», come confermano anche le informazioni pubblicate da svariati osservatori, tra cui Gary Webb, su autorevoli blog d’inchiesta come “Prison Planet”. Banchieri e droga? Sì, e anche sigarette: secondo la Bbc, le aziende americane del tabacco sono state “prese con le mani nel sacco” nell’ingegnerizzare deliberatamente le “bionde”, additivandole con prodotti chimici che ne incrementano artificialmente la dipendenza. Per Clive Bates, direttore di “Ash” (Action on Smoking and Health), la scoperta ha messo alla luce «uno scandalo in cui le aziende del tabacco deliberatamente utilizzano additivi per rendere i loro dannosi prodotti ancora peggiori».Poi c’è lo sterminato capitolo dello spionaggio, fino alla sorveglianza di massa dell’National Security Agency. «Negli anni ‘90, quando gli attivisti anti-sorveglianza e i personaggi dei media stavano mettendo in guardia sulla vasta operazione di spionaggio della Nsa, vennero trattati come teorici paranoici della cospirazione», riordano Watson e Jones. «Ben più di un decennio prima delle rivelazioni di Snowden», l’agenzia di intelligence «era impegnata a intercettare e registrare tutte le comunicazioni elettroniche di tutto il mondo nel quadro del programma “Echelon”». Sorveglianza globale: “Echelon” era in grado di intercettare «ogni chiamata internazionale via telefono, fa, e-mail o trasmissione radio del pianeta». Nel 1999, il governo australiano ha ammesso di farvi parte, assieme a Stati Uniti e Gran Bretagna. In cabina di regia, già allora, c’era la Nsa. Un dossier del Parlamento Europeo risalente al 2001 afferma: «In Europa, tutte le comunicazioni e-mail, telefono e fax sono regolarmente intercettate», dall’agenzia smascherata da Snowden.Vastissimo, infine, il capitolo delle morti in apparenza accidentali. Non è solo cinema: nell’arsenale degli 007, anche il “dardo invisibile” che provoca l’infarto cardiaco. Ne parlò il Senato degli Usa già nel 1975, durante una testimonianza sulle attività illegali della Cia: «Fu rivelato che l’agenzia aveva sviluppato un’arma a dardi che causa un attacco di cuore». Nella prima udienza televisiva, svolta nella sala Caucus del Senato, intervenne Frank Church, senatore dell’Idaho e presidente della commissione d’inchiesta sul caso Watergate. «Church mostrò una pistola a dardi velenosi della Cia, rivelando così che la commissione era venuta a conoscenza del fatto che l’agenzia aveva violato un ordine presidenziale diretto, conservando uno stock di tossine di molluschi che sarebbe stato sufficiente a uccidere migliaia di persone», come conferma ancora oggi una pagina web del sito ufficiale del Senato statunitense. Il veleno penetra nel sangue e provoca l’arresto cardiaco. Al massimo, la vittima percepisce il fastidio di una puntura di zanzara. Veleno micidiale e invisibile: tutto ciò che resta è un puntino rosso sulla pelle. «Una volta che il danno è fatto, il veleno denatura rapidamente, in modo che nell’autopsia è molto improbabile rilevare che l’infarto è stato provocato da qualcosa di diverso da cause naturali».Forse, la prima vera operazione “false flag” dell’epoca moderna fu “l’incidente di Gleiwitz”, provocato dai nazisti nel 1939 vicino alla frontiera orientale: indossate le uniformi dell’esercito polacco, unità delle SS attaccarono una stazione radio tedesca per poi dare la colpa alla Polonia. Durante il blitz, le SS trasmisero un breve messaggio di propaganda in polacco. Poi uccisero dei prigionieri di un campo di concentramento vestiti con uniformi polacche e li lasciarono sulla scena, per far apparire l’incidente come un atto di aggressione progettato da Varsavia. Il giorno successivo, quando la Germania invase il paese confinante dando inizio alla Seconda Guerra Mondiale, Hitler citò l’episodio come uno dei pretesti. Nove giorni prima dell’incidente, Hitler aveva detto ai suoi generali: «Provvederò a un casus belli per la propaganda. La sua credibilità non ha importanza. Al vincitore non verrà chiesto se ha detto la verità». Anche se il termine “teoria del complotto” è diventato un dispregiativo usato contro chiunque metta in discussione la versione ufficiale degli eventi, innumerevoli esempi in tutta la storia delle cospirazioni hanno confermato i peggiori sospetti.
-
Ieri Silvio e oggi Matteo, stesso film: colpire i lavoratori
Vale la pena di riguardare il video nel quale Matteo Renzi aggredisce il sindacato italiano. Il vero talento del nostro premier è riuscire a tradurre, in maniera brillante, in pseudo-linguaggio televisivo e pubblicitario lo pseudo-pensiero neoliberista e padronale sui diritti dei lavoratori. Lo spartito è sempre il medesimo: se “Marta, 28 anni” (ecco lo pseudo-linguaggio) non trova tutele per la sua maternità, è per colpa delle sue amiche dipendenti pubbliche (ed ecco lo pseudo-pensiero). Chi non ha garanzie e diritti può prendersela con chi ancora ne ha qualcuno, la disoccupazione è responsabilità del sindacato, e così via. È un messaggio volto a rinfocolare l’odio di tutti contro tutti, e che trova terreno fertile nelle menti devastate del grande pubblico televisivo. Sbaglia chi vede qualcosa di nuovo o repentino nell’atteggiamento di Renzi: egli ripete queste cose da quando è salito sul palcoscenico, qualche anno fa. La sua è una aggressività coerente, e per nulla inaspettata.Il sindacato, dopo anni di compromessi, moderazione, ritirate strategiche (cioè fatte di corsa), inchini e salamalecchi, si trova sotto il fuoco del capo del suo partito di riferimento. La tattica della limitazione del danno ha fatto sì che il danno si ingigantisse. Se non ci fossero di mezzo anche i nostri diritti verrebbe da dire “ben vi sta!”. Fioriscono le analogie tra Renzi e Berlusconi, di cui avevamo discusso poco tempo fa. La loro missione era ed è giungere alla totale sottomissione del lavoro italiano alle ragioni della crescita e del capitale. Nel 2011, con il pieno accordo delle istituzioni europee, Berlusconi tentò un attacco in grande stile nei confronti del lavoro italiano (vedi “Lettera della Bce”). Fallì, e fu sostituito (non che lui non fosse d’accordo). Al suo posto venne Monti, e riuscì a sferrare colpi durissimi a quanto rimaneva del “welfare state” di questo paese. Fu una specie di Trojka fatta in casa.Se Renzi fallirà, se le residue forze del lavoro riusciranno a opporsi all’azione distruttrice del suo governo, è bene tenere presente il fiorentino “farà la fine” del suo predecessore: verrà semplicemente sostituito. Chi ha ancora intenzione di lottare dovrà dunque tenere fermo questo punto: quello cui assistiamo è solo il primo assalto. Alle spalle del ceto politico e del capitale italiano si staglia l’ombra del ceto politico e del capitale europeo. Esattamente come nel 2011. Naturalmente ci sono delle differenze. Il Renzi di oggi è molto più forte del Berlusconi del 2011; e il pretesto dell’emergenza-spread in questo momento non sussiste. Ma dal punto di vista dei lavoratori la situazione non è poi molto diversa: il primo assalto del 2014 sarà semplicemente più violento di quello del 2011, e sarà accompagnato da una propaganda ancora più fittizia e evanescente. Ciò che conta è non ripetere gli errori del passato, non concentrarsi troppo, non demonizzare la figura di Renzi come si è fatto con quella di Berlusconi. L’uno come l’altro rappresentano solo il primo assalto. È sulla resistenza al secondo che si decide il nostro futuro.(“Matteo Renzi farà la fine di Berlusconi?”, dal blog “Il-main-stream” del 20 settembre 2014).Vale la pena di riguardare il video nel quale Matteo Renzi aggredisce il sindacato italiano. Il vero talento del nostro premier è riuscire a tradurre, in maniera brillante, in pseudo-linguaggio televisivo e pubblicitario lo pseudo-pensiero neoliberista e padronale sui diritti dei lavoratori. Lo spartito è sempre il medesimo: se “Marta, 28 anni” (ecco lo pseudo-linguaggio) non trova tutele per la sua maternità, è per colpa delle sue amiche dipendenti pubbliche (ed ecco lo pseudo-pensiero). Chi non ha garanzie e diritti può prendersela con chi ancora ne ha qualcuno, la disoccupazione è responsabilità del sindacato, e così via. È un messaggio volto a rinfocolare l’odio di tutti contro tutti, e che trova terreno fertile nelle menti devastate del grande pubblico televisivo. Sbaglia chi vede qualcosa di nuovo o repentino nell’atteggiamento di Renzi: egli ripete queste cose da quando è salito sul palcoscenico, qualche anno fa. La sua è una aggressività coerente, e per nulla inaspettata.
-
Pellizzetti: articolo 18, storico alibi per manager cialtroni
Se è possibile virare un post a grido di indignazione, voglio provare a farlo. L’indignazione per l’imbroglio continuato che da anni stravolge il significato reale dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (disciplina del licenziamento illegittimo nelle unità produttive con più di quindici dipendenti), trasformandolo in dogmatismo da guerra di religione. Come sempre, le normative in materia di relazioni industriali attengono direttamente a poste in gioco concrete e non sono mai neutrali. Stabiliscono vincitori e vinti. Nel caso in questione, su chi si intende puntare per uscire dalla crisi di un sistema produttivo ormai in deliquio; al tempo stesso, contro chi puntare il dito in quanto colpevole della situazione disastrosa. La focalizzazione inquisitoria sul famigerato “diciotto” ha un solo significato, “politico”: colpevoli sono i lavoratori, cui sono stati concessi in passato (o meglio, che hanno estorto) troppi diritti e troppi soldi. Portandoci fuori mercato.Difatti sono ormai decenni che si è scatenata questa caccia alle presunte stregonerie malefiche annidate nel mondo dei prestatori d’opera e delle loro rappresentanze; tanto che nulla serve, per diradare i fumi dei roghi allestiti dai grandi inquisitori (i veri stregoni all’opera in materia), tentare di ricordare che il costo del lavoro italiano è più basso di quello francese e tedesco. Non serve a niente, perché qui non si parla di politiche industriali ma si attuano veri e propri esorcismi. Ingannevoli come sempre, quanto finalizzati a depistare la furia generale dai veri bersagli. Le responsabilità effettive. Ad esempio, oscurare il fatto che il disastro di cui si parla risale agli anni Settanta, quando è stata avviata una vera e propria serrata degli investimenti; i cui effetti diretti sono il crollo della ricerca applicata. Tanto che il Made in Italy non riesce più a immettere sui mercati prodotti con un minimo di appeal (credo di averlo detto già altre volte: il nostro ultimo prodotto innovativo è quello scarpone con il gancio metallico che risale agli anni Settanta).Ma ora il governo dichiara, baldanzoso e imperterrito, che provvederà a decretare la cancellazione della normativa di garanzia del rapporto di lavoro come una sorta di guerra di liberazione del lavoro da se stesso; così dimostrando di essere totalmente immerso nel cerchio stregato che distorce le questioni e produce visioni mistificatorie. In effetti l’annuncio governativo ha un altro significato: dice chiaramente con chi sta. Ossia, sta con i quei ceti manageriali/imprenditoriali che per tutti questi decenni non hanno saputo indicare – in materia di strategie competitive – altro che la ricetta da Terzo Mondo della mano libera per pagare sempre meno e tenere a bada sempre di più con la minaccia del licenziamento. Nonostante le montagne di chiacchiere da convegno e seminario di organizzazione su “il lavoro competente e motivato quale risorsa primaria dell’impresa” (quindi, detto in anglomanagerialese che fa fino: commitment, empowerment e altri tricchetracche).Sicché continuiamo nell’antico imbroglio. Con buona pace di quelli che si sgolano a spiegare che con queste leadership d’impresa, cui si vorrebbe ulteriormente dare mano libera, non si va da nessuna parte. Questi presunti “cavalieri della valle solitaria” rivelatisi alla prova dei fatti nient’altro che la reincarnazione dei robber barons (i baroni ladri del secolo scorso). In America i sedicenti grandi innovatori che hanno scippato le scoperte della ricerca finanziata dallo Stato (da Arpanet-Internet, creata dal sistema militare/universitario USA e poi tradotta in business miliardario dalle Microsoft, al touch-screen sviluppato dal centro di ricerca dell’Università del Delaware ma commercializzato con extra profitti dalla Apple); in Italia i presunti “capitani coraggiosi” che oligopolizzano la telefonia con le bollette più alte d’Europa e fanno incetta di servizi pubblici in svendita; dalla sanità alla mobilità. Difatti il nostro premier sta dalla loro parte. Difatti anche in questo campo il presunto riformatore è garanzia di esiti controriformistici.(Piefranco Pellizzetti, “Articolo 18, il grande imbroglio”, da “Micromega” del 17 settembre 2014).Se è possibile virare un post a grido di indignazione, voglio provare a farlo. L’indignazione per l’imbroglio continuato che da anni stravolge il significato reale dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (disciplina del licenziamento illegittimo nelle unità produttive con più di quindici dipendenti), trasformandolo in dogmatismo da guerra di religione. Come sempre, le normative in materia di relazioni industriali attengono direttamente a poste in gioco concrete e non sono mai neutrali. Stabiliscono vincitori e vinti. Nel caso in questione, su chi si intende puntare per uscire dalla crisi di un sistema produttivo ormai in deliquio; al tempo stesso, contro chi puntare il dito in quanto colpevole della situazione disastrosa. La focalizzazione inquisitoria sul famigerato “diciotto” ha un solo significato, “politico”: colpevoli sono i lavoratori, cui sono stati concessi in passato (o meglio, che hanno estorto) troppi diritti e troppi soldi. Portandoci fuori mercato.
-
Wall Street, gli amici nazisti e il solito bersaglio: la Russia
Criminali, bugiardi, complici. Non ci fa una bella figura, l’ipocrita Occidente, nemmeno rileggendo la Seconda Guerra Mondiale: furono americani e inglesi a scommettere su Hitler. Ne finanziarono l’ascesa in modo decisivo, incaricandolo – già allora – di una missione che ossessiona gli anglosassoni: colpire la Russia e affondarla. Lo ricorda Yuriy Rubtsov, alla luce degli attuali drammatici sviluppi in Ucraina: «I denti del drago devono essere conficcati ancora una volta nella carne viva dell’Europa», come già fu in passato. Lo conferma «la storia segreta dei rapporti fra Wall Street e la Germania nazista». Storia che nessuno ha voglia di rievocare, e che fu seppellita dalla solennità del Processo di Norimberga, che inchiodava la Germania sconfitta come unica colpevole, senza alleati atlantici. Se oggi sono in molti a definire “nazista” il golpe di Kiev costruito dagli Usa utilizzando l’estrema destra ucraina, Rubtsov chiarisce: «Per quanto ne sappiamo, l’Ucraina di oggi non può essere paragonata alla Germania di Hitler». Ma attenzione: «Non dimentichiamo che la folle corsa del nazismo ebbe inizio da uno sconosciuto caporale che predicava xenofobia e vendetta».L’altra verità, fondamentale, è che quel caporale non sarebbe andato molto lontano, senza i suoi amici d’oltreoceano. «E’ un “segreto di pulcinella” il fatto che Hitler sia stato sostenuto dagli Stati Uniti», scrive Rubtsov in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «La penetrazione commerciale e finanziaria statunitense, e in particolare la cooperazione con l’industria bellica tedesca, è stata fin dall’inizio molto significativa». Nel 1933, l’anno del boom elettorale nazista, «gli Stati Uniti controllavano alcuni settori-chiave dell’economia tedesca, ma anche diverse grandi banche, come ad esempio la Deutsche Bank e la Dresdner Bank». Le grandi imprese cominciarono a fidarsi di Hitler, continua Rubtsov. E molti fondi esteri presero ad affluire in quel paese. Per esemoio, grazie alle donazioni del gruppo di Fritz Thyssen, che comprendeva la “Vereinigte Stahlwerke Ag” e la “Interessen-Gemeinschaft Farbenindustrie Ag”. E poi i soldi del magnate dell’industria mineraria Emil Kirdorf. Risultato: 6,4 milioni di tedeschi votarono per Hitler. Non sapevano, però, quanto denaro gli angloamericani avessero investito nel futuro del loro capo.L’economista Hjalmar Schacht, banchiere e politico liberale, nonché co-fondatore nel 1918 del “Partito Democratico Tedesco”, diventò il collegamento fra l’industria tedesca e gli investitori stranieri, ricorda Rubtsov. A quel punto, «anche il mondo commerciale e bancario britannico cominciò a canalizzare importanti donazioni verso il partito nazista: il 4 gennaio 1932 Montague Norman, governatore della Banca d’Inghilterra dal 1920 al 1944, incontrò Hitler e il cancelliere tedesco Franz von Papen, per stringere un accordo segreto volto al finanziamento di quel partito». Alla fatidica riunione erano rappresentati anche gli Stati Uniti, coi fratelli Dulles, anche se «gli storici occidentali evitano di menzionare questa circostanza», accusa Rubtsov. John Foster poi segretario di Stato, suo fratello Allen direttore della Cia. «Erano due avvocati politicamente collegati a Wall Street, servi di quelle corporations che hanno gettato gli Stati Uniti nella guerra invisibile che ha forgiato il mondo di oggi. Negli anni ‘50, in piena guerra fredda, proprio i due fratelli Dulles, immensamente potenti, guidarono gli Stati Uniti in una lunga serie di avventure all’estero, i cui effetti stanno ancora scuotendo il mondo».Nel ‘33, continua Rubtsov, il nuovo governo tedesco fu trattato molto favorevolmente dai circoli dominanti degli Usa e del Regno Unito: «Non casualmente le democrazie occidentali tacquero, quando Berlino si rifiutò di pagare le riparazioni di guerra», relative al primo conflitto mondiale. Lo stesso Schacht, divenuto presidente della Reichsbank e ministro dell’economia, il 30 maggio di quell’anno andò negli Stati Uniti per incontrare il presidente Roosevelt e i principali banchieri di Wall Street. Alla Germania fu concesso un credito pari ad 1 miliardo di dollari. Un mese dopo, durante una visita al banchiere centrale di Londra, Montague Norman, Schacht chiese un prestito aggiuntivo pari a 2 miliardi di dollari, nonché la riduzione e l’eventuale cessazione del pagamento dei vecchi prestiti. «I nazisti ottennero, in conclusione, qualcosa che i precedenti governi avevano chiesto invano». E nell’estate del 1934 la Gran Bretagna firmò l’“Anglo-German Transfer Agreement”, che diventò uno dei princìpi fondamentali della politica britannica nei riguardi del Terzo Reich. Negli anni successivi il Regno Unito diventò il primo partner commerciale della Germania: la “Banca Schroeder” divenne l’agente principale per gli affari fra Berlino e Londra, e nel 1936 la sua filiale di New York si fuse nella Holding Rockefeller, per creare la banca d’investimento “Schroeder, Rockfeller e Co.”, che il “New York Times” descrisse come «il perno economico-propagandistico dell’asse Berlino-Roma».Già nell’agosto del ‘36 Hitler aveva redatto un “Memorandum Segreto”, dei cui contenuti solo pochi alti dirigenti nazisti erano a conoscenza. Il memorandum, scrive Rubtsov, stabiliva che entro quattro anni la Germania avrebbe dovuto dotarsi di forze armate pronte al combattimento. Di conseguenza, l’economia tedesca avrebbe dovuto mobilitarsi per supportare l’imminente sforzo bellico. Di qui l’annuncio, a Norimberga, del “Piano Quadriennale” di investimenti strategici. «Il credito estero costituiva la base finanziaria necessaria», quindi «tutto ciò non aveva sollevato il minimo allarme»: il Terzo Reich si stava semplicemente preparando a fare il “lavoro” per il quale era stato profumatamente pagato. «Nel mese di agosto del 1934 il gigante petrolifero americano Standard Oil acquistò 730.000 ettari di terreno in Germania, per costruirci delle grandi raffinerie di petrolio, per rifornire di carburante i nazisti. Allo stesso tempo altre corporations statunitensi rifornirono la Germania delle più moderne attrezzature per la costruzione di aerei civili, che in realtà davano copertura alla produzione di aerei militari».La Germania, aggiunge Rubtsov, fu in grado di utilizzare un gran numero di brevetti provenienti da società americane, tra le quali la Pratt & Whitney, la Douglas e la Bendix Corporation. «Il bombardiere “Junkers-87”, ad esempio, fu costruito utilizzando esclusivamente delle tecnologie americane». Così, quando la guerra scoppiò, «i monopoli americani si attaccarono alla vecchia e buona regola del “niente di personale, si tratta solo di affari”». Nel 1941, quando la Seconda Guerra Mondiale era ormai in pieno svolgimento, «gli investimenti americani nell’economia tedesca furono pari a 475 milioni di dollari dell’epoca: la Standard Oil, da sola, aveva investito 120 milioni di dollari, la General Motors 35 milioni, la Itt 30 milioni, la Ford 17,5 milioni». Quali motivazioni aveva l’Occidente per far crescere la forza della Germania nazista? «L’obiettivo era quello di far dirigere Hitler ad Est, verso l’invasione tedesca della Russia. La conquista dello “spazio vitale” costituiva, per Hitler ed il resto dei nazionalsocialisti, il più importante obiettivo di politica estera».Al suo primo incontro con i principali generali e ammiragli del Reich, il 3 febbraio 1933, Hitler parlò infatti della «conquista dello spazio vitale» a Est e della spietata «germanizzazione» come dei due «obiettivi finali» della sua politica estera. Per Hitler, la terra che avrebbe fornito sufficiente “spazio vitale” alla Germania era costituita dall’Unione Sovietica, che agli occhi di Hitler era un paese dotato di ricchi e vasti terreni agricoli, abitato da «slavi sub-umani» governati da una banda di «rivoluzionari ebrei», assetati di sangue ma grossolanamente incompetenti. Queste persone non erano “germanizzabili”, ma la loro terra sì. «Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che si opponevano con fermezza alla crescita del comunismo sovietico, avevano tacitamente avallato la “conquista dello spazio vitale a Est” da parte di Hitler, che egli stesso aveva preannunciato nel “Mein Kampf”». Lo scrisse, Hitler, nel suo manifesto programmatico: «Vogliamo cominciare da dove abbiamo finito, sei secoli fa. Se fermiamo la perpetua marcia tedesca verso il Sud e l’Ovest dell’Europa, avremo sotto ai nostri occhi i paesi che si trovano ad Est». Quella era «la direzione della politica territoriale del futuro». Per chi non avesse capito: «Sia chiaro, comunque, che quando parliamo di “nuove terre” in Europa, parliamo soprattutto della Russia e dei paesi al confine orientale».A partire dal 1930, ricorda Rubtsov, i paesi occidentali attuarono verso la Germania una politica di “appeasement”, nel contesto generale costituito dalla piena cooperazione economica e finanziaria fra anglo-americani e Germania nazista, anche se Berlino si era appena ritirata dalla Società delle Nazioni e dalla conferenza di Ginevra sul disarmo mondiale. Da lì in poi, una sequenza ininterrotta di provocazioni e aggressioni. Prima la rioccupazione della Renania, smilitarizzata dopo il Trattato di Versailles. Poi l’annessione dell’Austria. «In nessun caso l’Occidente reagì». Nel 1937, il piano per invadere la Cecoslovacchia, pure protetta dal Patto di Monaco: subito dopo aver firmato l’accordo di non aggressione, insieme ad Arthur Neville Chamberlain, Edouard Daladier e Benito Mussolini, nel 1938 Hitler decise di marciare comunque su Praga e poi su Memel, il porto baltico che dal 1923 faceva parte della Lituania. Quindi nel marzo del 1939 l’ultimatum alla Polonia per ottenere il corridoio di Danzica, che divideva la Prussia Orientale dal resto della Germania. «Hitler era consapevole del fatto che nessuno, in Occidente, aveva intenzione di fermarlo: così, nell’aprile del 1939, ordinò segretamente che la Polonia doveva essere attaccata il successivo 1° settembre».Con l’occupazione della Cecoslovacchia, continua Rubtsov, il fine della politica di Hitler diventò il classico “segreto di pulcinella” anche per i politici e i diplomatici meno lungimiranti. Tutti sapevano che l’Unione Sovietica accarezzava la speranza di poter costruire un sistema di sicurezza collettivo in Europa. Mosca «riuscì a dar inizio, in effetti, a dei colloqui con Londra e Parigi, per la creazione di un’efficace alleanza in grado di contrastare l’aggressore. Ma quei colloqui rivelarono che i partner occidentali erano piuttosto riluttanti ad ostacolare la politica espansionistica di Hitler verso l’Oriente». Lo conferma il britannico Sir Alexander Cadogan, sottosegretario agli esteri: «Riferì in seguito che Chamberlain avrebbe preferito dimettersi (dalla premiership), piuttosto che stringere un accordo con i sovietici». Quando Hitler fece esplodere la Seconda Guerra Mondiale invadendo la Polonia, i leader occidentali preferirono puntare il dito contro l’accordo difensivo che Berlino appena firmato con Mosca. «Supportati dal coro della propaganda, dissero che la colpa per aver scatenato la guerra non era da attribuire alla politica di “appeasement” portata avanti dai paesi occidentali, ma piuttosto al “patto di non aggressione” fra l’Urss e la Germania».«Nonostante fossero chiaramente sulla strada che portava alla Seconda Guerra Mondiale – continua Rubtsov – né Londra, né Washington, né Parigi vollero lasciar spazio alla verità, in relazione a quegli eventi storici». Domanda: «Com’è possibile che questi paesi abbiano firmato il verdetto del “Processo di Norimberga”, che ha giudicato la Germania colpevole di crimini molto gravi (aver violato il “diritto internazionale” e le “leggi di guerra”), senza riconoscere chi c’era dietro alla Germania nazista?». In realtà, «le élites politiche e finanziarie degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Francia erano direttamente coinvolte nella promozione del regime nazista: hanno incitato Hitler a muoversi verso Est». Di fatto, «l’Occidente non ha mai riconosciuto la proprie responsabilità per aver dato sostegno al regime di Hitler». E oggi, nel 2014, «sta facendo del suo meglio», ancora una volta, «per impedire il ritorno della Russia sulla scena mondiale». Nessun imbarazzo, nele capitali occidentali, per il nazismo e la xenofobia del regime di Kiev. Si preferisce «far circolare la storia, inventata da Washington e imposta all’Europa, dell’aggressione russa contro l’Ucraina». Un classico: «La Russia viene prima provocata e poi demonizzata, per coinvolgerla direttamente nel conflitto interno ucraino». Attenzione: «L’ulcera del nazismo, combinata con le spinte russofobiche, sta guadagnando slancio». Già in passato, gli apprendisti stregoni dell’Occidente non riuscirono più a controllare il mostro che avevano contribuito a creare. Oggi va forte lo slogan “l’Ucraina innanzitutto”, un sinistro remake del motto nazista “Deutschland über Alles”. «Il motto “Ukraine über Alles” viene costantemente utilizzato per giustificare i crimini commessi dalle forze ucraine in Novorossiya».Criminali, bugiardi, complici. Non ci fa una bella figura, l’ipocrita Occidente, nemmeno rileggendo la Seconda Guerra Mondiale: furono americani e inglesi a scommettere su Hitler. Ne finanziarono l’ascesa in modo decisivo, incaricandolo – già allora – di una missione che ossessiona gli anglosassoni: colpire la Russia e affondarla. Lo ricorda Yuriy Rubtsov, alla luce degli attuali drammatici sviluppi in Ucraina: «I denti del drago devono essere conficcati ancora una volta nella carne viva dell’Europa», come già fu in passato. Lo conferma «la storia segreta dei rapporti fra Wall Street e la Germania nazista». Storia che nessuno ha voglia di rievocare, e che fu seppellita dalla solennità del Processo di Norimberga, che inchiodava la Germania sconfitta come unica colpevole, senza alleati atlantici. Se oggi sono in molti a definire “nazista” il golpe di Kiev costruito dagli Usa utilizzando l’estrema destra ucraina, Rubtsov chiarisce: «Per quanto ne sappiamo, l’Ucraina di oggi non può essere paragonata alla Germania di Hitler». Ma attenzione: «Non dimentichiamo che la folle corsa del nazismo ebbe inizio da uno sconosciuto caporale che predicava xenofobia e vendetta».