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L’enigma Biglino e la rimozione cosciente della vera storia
«Oggi come non mai stiamo vivendo nella caverna platonica, dove gli uomini scambiano per reali le immagini che scorrono loro davanti». Oggi come non mai, infatti – scrive José Saramago – confondiamo la realtà con le ombre. Un blogger originale come Carlo Bertani invita i lettori a osservare il geroglifico scoperto in Egitto nel tempio di Abydos, XIX dinastia (dalle parti del 1300 avanti Cristo). «Che ve ne pare? Ci vedete qualcosa che assomiglia ad un elicottero, una nave (o sommergibile), un oggetto volante?». Invece, segnala Bertani, gli archeologi spiegano il fatto con «ripetute corrosioni, dovute allo scorrere del tempo». Certo, resta valido il paradosso della scimmia che scrive al computer: «Se lasciata picchiare sui tasti per un tempo uguale ad infinito, la scimmia – inesorabilmente – premendo i tasti casualmente, scriverà la Divina Commedia». E’ così che, secondo l’archeologia ufficiale, ad Abydos, «cancellando e riscrivendo» sarebbero saltati fuori l’elicottero, la nave e l’aereo? Tutti nella stessa tavoletta o porzione di muro? Non sarebbe più onesto affermare: non sappiamo cosa vollero dirci, gli egizi, con quel disegno? Bertani la chiama: rimozione cosciente. Ovvero: la scienza di oggi «s’ammanta con la stola della Nuova Religione Mondiale», che le impedisce di ammettere di non avere spiegazioni. Specie di fronte all’enigma dei testi antichi: come la sconcertante Bibbia, proposta – alla lettera – da Mauro Biglino.Di fronte alle esternazioni dell’esegeta torinese, scrive Bertani sul suo blog, si potrebbe liquidare il tutto come un fenomeno editoriale alla Dan Brown, specie se Biglino ponesse al centro dell’attenzione la sua persona. E invece il biblista italiano «non si pone come un “faro” di sapienza, e neppure instaura una sorta di “dissidio” con la Santa Sede, anche se – a dire il vero – Oltretevere non devono aver gradito l’idea che, proprio dalla Bibbia, Biglino abbia sottratto un elemento di una certa importanza, cioè Dio». L’autore, che ha alle spalle 19 traduzioni bibliche per le Edizioni San Paolo, sostiene proprio questa tesi: la Bibbia è un resoconto di “qualcosa” che avvenne fra il Caucaso e il Mediterraneo in epoche lontane, con la Mesopotamia come epicentro: il “qualcosa”, però, secondo Biglino, non ha nulla a che vedere con la creazione del mondo e nemmeno con la figura del Dio rappresentato dalla teologia monoteista. La storia, secondo Biglino, è un’altra: il termine “Elohim”, plurale, rappresenta esseri come Yahvè, «in possesso di una tecnologia superiore, i quali hanno instillato le basi della conoscenza scientifica (agricoltura, costruzioni) nei popoli che vivevano in quelle aree». Di più: «Essendo fatti “a nostra somiglianza”, questi esseri più evoluti si sono incrociati con la nostra razza», magari mediante l’ingegneria genetica, «inserendosi così come “catalizzatori” nell’evoluzione umana».D’altro canto, avverte Bertani, non dimentichiamo che gli antichi usavano translitterare la storia antica nel mito: il pantheon era popolato di dei che stavano sempre “in alto”, che potevano assumere le sembianze più strane fino ad accoppiarsi con gli umani, generando semidei. «Ne hanno avuta, di fantasia: ma era solo fantasia?». Bertani riconosce che l’esegesi di Biglino è «chiara e convincente», anche se a poterla controllare sono soltanto i traduttori dall’ebraico antico, dall’aramaico e dalle altre lingue mesopotamiche del tempo. E’ pur vero, per contro, che la filologia non ha mai contestato in modo sostanziale Biglino, che oltretutto circoscrive saggiamente la sua azione attorno al Codice Masoretico di Leningrado, cioè il “master” della Bibbia attuale, riscritta e vocalizzata solo nel medioevo, all’epoca di Carlomagno. Biglino poi «non asserisce che questi “dei” fossero extraterrestri, oppure appartenenti a precedenti civiltà terrestri: si limita a sottolineare le incongruenze che ci sono nella Bibbia, “sfiorando” anche il Mahabharata e l’Epopea di Gilgamesh, dove ci sono numerosi passi un poco inquietanti». In ogni caso, sottolinea Bertani: perché non assumere queste indicazioni come possibili indizi, molto seri, sulla vera storia dell’evoluzione umana così improvvisamente accelerata?Oggi, continua Bertani, il sapere scientifico è senz’altro più conosciuto e dibattuto rispetto alle lingue antiche: bastano certe scoperte archeologiche a suscitare sgomento. Ipotetico punto di partenza, per rileggere la preistoria, il 74.000 avanto Cristo, data in cui esplose il supervulcano di Toba, a Sumatra. Niente a che vedere col Vesuvio o l’Etna: «L’esplosione di Toba immise nell’atmosfera 3.000 chilometri cubici di materiale e la radiazione solare scomparve: la Terra (all’epoca, si era in piena glaciazione di Wurm) precipitò in un “inverno vulcanico” che durò alcuni anni». E dato che la popolazione terrestre era allora concentrata fra i due tropici, cioè nel raggio d’azione del supervulcano, fu duramente colpita. «I paleobiologi hanno stimato – dalla varianza del Dna umano – che si partì, in quel senso, quasi dagli inizi. Alcune teorie ipotizzano una “forbice” di sopravvissuti fra i 600 ed i 3.000, ma sono cifre ipotizzate e ricavate, come dicevamo, solo dalla scarsa varianza del Dna. I soli reperti archeologici non ci forniscono informazioni esaustive al riguardo». Finalmente, verso il 10.000 avanti Cristo, termina la glaciazione di Wurm: «Altro periodo di sconvolgimenti, il mare si alza di decine di metri in pochi secoli, fiumi immensi si generano dallo scioglimento dei ghiacci. Però, l’uomo può finalmente affacciarsi alla “finestra” del mondo. Sono, appena, 12.000 anni or sono. Qui, in qualche modo, s’innesta la trattazione di Biglino».Il testo biblico è datato fra il primo e il secondo millennio prima di Cristo, ma racconta vicende più antiche (tuttora, non c’è unità di vedute fra gli studiosi). «Passano 7.500 anni – un’inezia, se riferita ai tempi dell’evoluzione – e, intorno al 2.560 il faraone Khufu (Cheope) decide di farsi una bella tomba di famiglia, e fa costruire la nota piramide». In realtà la datazione è incerta: c’è chi calcola che le piramidi di Giza abbiano ben 20.000 anni. In ogni caso, «ancora oggi non si sa come la costruirono, nonostante mille teorie sullo spostamento dei massi». Craig Smith, un ingegnere statunitense che fece parte di una squadra incaricata di determinare i tempi e le modalità seguite per la costruzione della piramide di Cheope, confessò: «Le logistiche di costruzione di Giza sono impressionanti, se si pensa che gli antichi egizi non avevano a disposizione pulegge, ruote e accessori di ferro». Le dimensioni delle piramidi sono estremamente accurate, aggiunse Smiths, sottolineando che il sito «è stato livellato con un errore di meno di un centimetro su una base di oltre cinque ettari: è paragonabile all’accuratezza dei moderni metodi edilizi e al livellamento al laser». In altre parole: «E’ sbalorditivo: con i loro “attrezzi rudimentali”, i costruttori di piramidi dell’antico Egitto furono accurati quasi quanto lo siamo noi con la tecnologia del XX secolo».Si aggiunga che, nei siti di estrazione dei massi, non è stato rilevato nessun utensile di rame, il metallo più duro conosciuto all’epoca. «Inoltre – osserva Bertani – i massi delle piramidi avevano un peso compreso fra le 2,5 e le 80 tonnellate: li trasportavano su barche di papiro? Auguri». Come credere alla storia degli schiavi che trascinando 80 tonnellate su un piano inclinato inumidito con l’acqua? E tutto questo, aggiunge Bertani, l’avrebbe fatto un popolo che non conosceva la ruota, applicata all’edilizia? E questo è niente, se uno fa un salto al museo di Baghdad: vi scopre infatti «una rudimentale batteria». Non certo al fluoruro di litio, ma al ferro-rame: «Non conoscevano ancora lo zinco, figuriamoci il litio». Eppure, il vaso custodito nella capitale irachena «contiene proprio i due metalli, separati da uno strato di catrame». L’elettrolita? «Un acido qualunque, succo di limone oppure aceto, vino». In pratica, «è un’edizione arcaica della nota pila di Volta, che utilizzò il rame e lo zinco». Chi la costruì, e perché? «Nessuno lo sa». Una cella elettrolitica così fatta, spiega Bertani, poteva fornire una tensione di 0,4 volt. Ma magari, collegandole in serie, quelle celle potevano raggiungere tensioni più elevate. Di che epoca è, l’aggeggio? Pare risalga a due secoli prima di Cristo. «Ovviamente gli archeologi “ufficiali” si sono sperticati nel dire che “forse” era “solo” uno strumento per stendere, per via elettrolitica, un sottile strato d’oro su altri metalli». Troppo impegnativo, ammettere che i costruttori «conoscevano le tecniche galvaniche, che includono – en passant – una conoscenza approfondita dell’elettrologia, e della chimica».La galvanotecnica è complessa: si usano per lo più i sali cianidrici dei metalli che si vogliono usare per ricoprire. I proto-scienziati mesopotanici mettevano l’oro a bagno in un impasto con le mandorle amare? «Era un mondo che conosceva la tecnologia? O forse la ricordava? O l’aveva vista, o ricevuta, in dono da qualcuno?». Già, ma quale mondo? Le conoscenze, a quell’epoca, non erano omogenee, sottolinea Bertani: basti pensare che, quando i romani conquistarono la pianura padana e le valli circostanti (II-I secolo a.C.), in val Camonica incontrarono popolazioni che ancora si dedicavano alle pitture e sculture rupestri, come nel Mesolitico. «Una differenza abissale: le pitture rupestri incontrarono un mondo che già aveva creato strade, ponti, acquedotti… che già possedeva un corpus giuridico, che si governava grazie al Senato e… stava per sperimentare la guerra civile!». Mentre i romani si dedicavano alla conquista del mondo allora conosciuto, in un’isola del Mediterraneo – Cicerone dice la Sicilia, altri Rodi, ma non ha importanza: erano tutti greci – qualcuno costruiva ed esportava sofisticati orologi astronomici, come non ne sarebbero più stati costruiti per almeno 1.500 anni».Una di queste macchine, racconta Bertani, è stata ritrovata su una nave greca naufragata presso l’isola di Anticitera, vicino a Creta, nel 1900. Sulle prime non fecero caso al ritrovamento, incrostato dai sedimenti organici marini: poi però qualcuno “drizzò le antenne”. «Si cominciò a capire che era un meccanismo complesso, ma solo pochi anni or sono, grazie ad una sofisticata tecnica di scansioni ai raggi X ad alta risoluzione, i ricercatori sono riusciti a ricostruirla». Si tratta di un sofisticato orologio astronomico, azionato a manovella, che misura il moto del Sole, della Luna e dei cinque pianeti all’epoca conosciuti, ma non solo: fornisce le fasi lunari, le eclissi e persino le date delle Olimpiadi. Più che le conoscenze astronomiche dei greci, spiega Bertani, a sorprendere è la finezza realizzativa: decine di minuscoli ingranaggi di rame non possono esser stati fabbricati senza l’impiego di macchinari di precisione. Quell’orologio astronomico, non a caso, è considerato «la prima “espressione” di una macchina di calcolo automatico, precedente di 18 secoli a quelle di Pascal e di Liebnitz: dunque, il “capostipite” dei computer». L’Europa medievale conobbe diversi orologi astronomici, ma nessuno di dimensioni così ridotte.Sempre loro, i greci, «compaiono cose straordinarie, realizzazioni poco credibili considerando la tecnologia dell’epoca». Così, dopo la leggendaria “cavalcata” di Alessandro Magno in Oriente, alla sua morte tutto il bacino orientale del Mediterraneo è dominato dai suoi luogotenenti. Tolomeo Sotere “eredita” l’Egitto, dove regna come Tolomeo I. E’ il fondatore della famosa biblioteca di Alessandria, «che non era solo un ammasso di libri, bensì un centro del sapere in tutti i campi, tecnologia compresa: una sorta di campus universitario ante litteram». Nel 300 avanti Cristo, sempte ad Alessandria, Tolomeo decide di costruire un faro. «La navigazione degli egizi era poca cosa: le uniche notizie certe sono che si recavano nella terra dei fenici (odierno Libano) per importare legname, soprattutto per costruire navi: una navigazione costiera». Ma dall’avvento dei greci, probabilmente, le rotte cambiarono: e così, continua Bertani, quello di Tolomeo non era un faro qualsiasi, ma una torre alta 134 metri (dimensione accertata solo nel 2006, dopo anni di studi e comparazioni). Altro aspetto sbalorditivo: il Faro di Alessandria, nato fra il 300 ed il 280 avanti Cristo, durò fino al 1303 o 1323, quando si verificarono due tremendi terremoti. «Restò in servizio per 16 secoli! 1.600 anni!». Sedici lunghissimi secoli, «nei quali sfidò le intemperie, i venti, le tempeste e i terremoti».L’immagine di quel faro, ricorda Bertani, fu coniata sui sesterzi di Traiano. E la sua luce era visibile a 48 chilometri dalla costa, cioè dalla massima distanza che la curvatura dell’orizzonte terrestre permetteva. Lo afferma Giuseppe Flavio, storico e matematico romano d’origine giudaica. Probabilmente, quel maxi-faro «consentiva di tenere la rotta verso il mare aperto, verso Creta (distante 300 miglia nautiche) e la Grecia». Ma allora, osserva Bertani, «dobbiamo ipotizzare che i greci possedessero degli strumenti di navigazione assai avanzati, non la sola conoscenza del firmamento: la bussola era già nota ai cinesi… di più, non è possibile ipotizzare». Collegamenti e suggestioni? Niente di così assurdo, sostiene lo stesso Biglino, che ricorda che il nome di una delle dodici tribù ebraiche – Dan – è associato a una flotta. L’Iliade chiama “danai” i greci, e un’antica narrazione li associa all’Egitto, da cui si sarebbero poi allontanati – via mare, appunto – proprio verso Creta, dove una statuetta sembra rievocare quella curiosa concatenazione: Medio Oriente, Egitto, Egeo.Bertani si sofferma intanto sull’imponenza del Faro di Alessandria, di oltre duemila anni più “anziano” del modernissimo grattacielo Seagram, appena più alto (156 metri) ma costruito solo nel 1958 a New York. Il confronto «rende bene l’idea delle cubature e delle altezze del Faro di Alessandria». Qualcuno sostiene che, nella realizzazione, furono usate anche strutture in ferro, «ma non v’è certezza: i resti del faro sono ancora lì, sott’acqua». Resistette per 16 secoli, senza avere neppure la base d’appoggio di una piramide. «Alto come un moderno grattacielo: costruito con pietre squadrate e malta?». Fu una realtà che moltissimi romani videro con i propri occhi, fa notare Bartani, ma nessuno pensò di replicarlo sulle coste italiane. «Eppure, i romani furono grandi costruttori di strade, acquedotti, ponti, terme, templi». Ma non costruirono mai, per le basi della flotta (Miseno, Ostia) fari che potessero lontanamente ricordare il mastodonte alessandrino. Perché? La verità, conclude Bertani, è che sono tanti i quesiti ai quali non sappiamo rispondere. E se la scienza sembra reticente, o in imbarazzo, è perché ha rappresentato se stessa come fonte di risposte, smettendo di accogliere vere domande, sul nostro passato.«Si tratta di capire se la scienza, oggi, è in grado di capire qualcosa di più sulle nostre origini, qualcosa che – nel lungo periodo – potrebbe anche mutare il nostro modo di pensare, l’approccio stesso all’esistenza o alla coscienza del nostro essere», riflette Bertani. «In realtà, ciò che va per la maggiore è la “rimozione cosciente” di ciò che non ci aggrada, c’infastidisce, di qualcosa che cozza violentemente contro il nostro “laissez faire”, le nostre piccole sicurezze». Accade in ogni campo. Una banca collassa? Rimozione del problema: si crea una “bad company”, e il sistema è salvo. Dalla finanza alle auto: «Le emissioni dei diesel sono fuori dal range previsto? Si fabbrica una bella centralina elettronica che “non veda” le imperfezioni: è storia dei giorni nostri». Il cambiamento climatico? Si oscilla tra catastrofismo e fake news. Risultato: sempre lo stesso. Rimozione. Conseguenza: nessuno risolve il problema. «Cercare di capire, con la propria testa? Non serve: è troppo faticoso e poco redditizio: quel che conta è ottenere appoggi, seguito, oppure demonizzare l’avversario, ridurlo ad un minus habens per la sua vita privata, per le mille pecche che – cercando bene – si trovano nella vita di chiunque». Neppure l’archeologia, aggiunge Bertani, è scevra da questa mistificazione: «Ciò che non si riesce a spiegare è dovuto ad eventi “casuali”, a “fake news”, ad imbrogli».La scienza? E’ diventata la nuova religione. «Per questo, ha preferito la “turris eburnea” alla verifica precisa dei fatti, allo studio coerente degli eventi, allo sperimentalismo come fonte di prove». Non è solo una questione di denaro, di convenienze e di carriere: «Quando sono a congresso, i grandi scienziati ritengo che si sentano come un consesso di semidei, assisi appena un po’ sotto la vetta del monte Olimpo», scrive Bertani. Da qui in poi, ecco «la discesa ai mille “cedimenti” al dio denaro et similia: appunto, ad una vita da semidei, come il rango loro compete». E Biglino, dunque, che smentisce che la Bibbia descriva la creazione “divina” del mondo? «Io non so se un certo verbo, scritto in lingua ebraica antica, possa essere più correttamente tradotto come “fare” – ossia creare da qualcosa, come fa un artista – oppure che sia da intendere come “creare” e basta, dal nulla», specifica Bertani, che egeseta e filologo non è. Però, aggiunge, «questa persona» (Biglino) «si fa sentire sempre con misura, e con un aplomb più torinese che britannico». Morale: «A mio avviso meriterebbe più fiducia e ascolto, se questo fosse un posto dove la gente viene ascoltata per quel che dice o scrive, e non per schieramenti o amicizie». In fin dei conti, chiosa Bertani, trattando con sufficienza le voci come quella di Biglino «perdiamo di vista una cosuccia da nulla: la verità».«Oggi come non mai stiamo vivendo nella caverna platonica, dove gli uomini scambiano per reali le immagini che scorrono loro davanti». Oggi come non mai, infatti – scrive José Saramago – confondiamo la realtà con le ombre. Un blogger originale come Carlo Bertani invita i lettori a osservare il geroglifico scoperto in Egitto nel tempio di Abydos, XIX dinastia (dalle parti del 1300 avanti Cristo). «Che ve ne pare? Ci vedete qualcosa che assomiglia ad un elicottero, una nave (o sommergibile), un oggetto volante?». Invece, segnala Bertani, gli archeologi spiegano il fatto con «ripetute corrosioni, dovute allo scorrere del tempo». Certo, resta valido il paradosso della scimmia che scrive al computer: «Se lasciata picchiare sui tasti per un tempo uguale ad infinito, la scimmia – inesorabilmente – premendo i tasti casualmente, scriverà la Divina Commedia». E’ così che, secondo l’archeologia ufficiale, ad Abydos, «cancellando e riscrivendo» sarebbero saltati fuori l’elicottero, la nave e l’aereo? Tutti nella stessa tavoletta o porzione di muro? Non sarebbe più onesto affermare: non sappiamo cosa vollero dirci, gli egizi, con quel disegno? Bertani la chiama: rimozione cosciente. Ovvero: la scienza di oggi «s’ammanta con la stola della Nuova Religione Mondiale», che le impedisce di ammettere di non avere spiegazioni. Specie di fronte all’enigma dei testi antichi: come la sconcertante Bibbia, proposta – alla lettera – da Mauro Biglino.
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Antiche civiltà pre-umane sulla Terra. La scienza: possibile
Sebbene a prima vista la mia disciplina, la paleontologia dei vertebrati, possa apparire totalmente fuori tema per un Carnevale collegato ad un progetto come quello Seti (Search for Extra-Terrestrial Intelligence), esistono delle intriganti similitudini tra questi due ambiti di ricerca, la cui esplorazione e comparazione può portare spunti e punti di vista alternativi, potenzialmente fecondi. L’osservazione dello spazio è accomunata all’indagine paleontologica dal fatto che la distanza sia una misura del tempo. Così come i segnali elettromagnetici provenienti dal cosmo sono tanto più antichi quanto più distante è la loro sorgente, così in paleontologia la posizione di un fossile indica un’età più antica tanto più il fossile è posto in profondità nella serie stratigrafica. L’interconnessione tra posizione nello spazio e distanza nel tempo dei fenomeni osservati dalle due discipline rende quindi la mente del paleontologo e quella dell’astronomo ugualmente predisposte a pensare in modo “quadrimensionale”, a concepire spazio e tempo non come variabili indipendenti, ma come manifestazioni di un unico fenomeno. Il progetto Seti è rivolto alle immensità extraterrestri alla ricerca di segnali, tracce che, per quanto flebili, siano evidenza di forme di vita intelligenti. In questo, il progetto Seti è convergente all’attività del paleontologo, che sonda le profondità geologiche alla ricerca di evidenze, per quanto flebili e frammentarie possano essere, della vita del remoto passato.Evoluzione dell’intelligenza nel Tempo Profondo, un analogo dello Spazio Profondo? Alla luce di queste convergenze interdisciplinari, non così scontate o banali come forse potrebbero apparire al profano, mi propongo di offire il mio punto di vista paleontologico come “analogo” a quello del ricercatore coinvolto nel progetto Seti. Parto da una provocazione. In base alle formulazioni più pessimiste della equazione di Drake, esiste solo un pianeta nel quale forme di vita intelligenti sono comparse, la Terra. Nei fatti, esso è finora il solo dal quale abbiamo evidenze di vita, di qualunque forma o complessità. Nonostante esso sia l’unico (e quindi migliore) caso noto, noi non abbiamo una stima precisa di quante volte, in quante forme ed in quali contesti, la vita intelligente sia comparsa sulla Terra. Noi conosciamo un singolo caso di specie intelligente (intesa qui come autocosciente, dotata di linguaggio articolato, pensiero simbolico e tecnologia trasmessa culturalmente) comparsa sulla Terra, Homo Sapiens. Ma fu il solo episodio? Questo unico caso è, purtroppo, il peggiore esempio possibile dal quale tentare di ricavare qualche principio generale sulle proprietà e i fattori che concorrono alla comparsa dell’intelligenza su un pianeta, dato che il soggetto osservante e l’oggetto osservato si fondono in un’unica creatura che, come nel peggiore incubo scaturito dalle peggiori aberrazioni del Principio di Indeterminazione, distorce in modo imprevedibile la nostra percezione del fenomeno.L’esempio più lampante di quanto la nostra autoreferenziale percezione della condizione umana abbia influenzato e distorto il modo di valutare criticamente il fenomeno dell’evoluzione dell’intelligenza in un pianeta è dato proprio dalla quasi totale mancanza di ipotesi o modelli che abbiano anche solo abozzato una possibile evoluzione di altri, dell’intelligenza non-umana, sulla Terra. A parte rari casi, che menzionerò sotto, quasi nessuno si è mai posto la domanda se l’intelligenza (capace di produrre linguaggio simbolico, cultura, tecnologia) sia mai comparsa qui, sulla Terra, prima di Homo Sapiens. Lo sciovinismo antropocentrico è talmente viscerale in Homo Sapiens, che egli non ha (quasi) mai ipotizzato che questo pianeta, sul quale arroga ed esercita un indiscusso diritto di proprietà, possa aver ospitato prima di lui altre intelligenze, altre civiltà, altre forme di vita capaci di produrre qualcosa di analogo a ciò che il progetto Seti sta cercando nello spazio esterno.Eppure, la vita, intesa come aggregati complessi di molecole organiche autoreplicanti e capaci di svolgere attività metabolica, esiste sulla Terra da almeno 3 miliardi e mezzo di anni (35.000 volte la durata dell’intera specie umana e oltre 3 milioni di volte la durata dell’intera civiltà post-paleolitica), mentre la vita pluricellulare dotata di sistema nervoso esiste da almeno 600 milioni di anni (6.000 volte la durata dell’intera specie umana): possibile che l’evoluzione dell’intelligenza sia un evento così altamente improbabile, contingente e accessorio da essersi verificata solamente in noi? Quanto è realistico abbandondare il nostro sciovinistico dogma dell’unicità dell’intelligenza umana sulla Terra, e ipotizzare che anche altre specie, non-umane, abbiano raggiunto quello stadio evolutivo qui, sul “nostro” pianeta? Questa domanda è, nella scala del Tempo Profondo, il tempo nel quale operano i paleontologi, l’equivalente della domanda alla base del Seti, sebbene nel secondo caso sia applicata allo Spazio Profondo.Estendiamo la provocazione, e chiediamoci se sulla Terra siano esistite altre forme di vita intelligente, forse persino civiltà avanzate, nel vastissimo passato remoto precedente la comparsa della nostra specie. Per meglio comprendere se questa domanda sia lecita oppure una fantasia gratuita, confrontate la durata dell’attuale civiltà tecnologica umana post-neolitica, circa 6.000 anni, con i 600 milioni di anni di esistenza della vita complessa (un misero centomillesimo) e provate a stimare quanto di tutto ciò che Homo Sapiens ha prodotto sarà ancora “evidente” sulla superficie terrestre tra 100 milioni di anni – nell’ipotesi che la nostra specie si estingua oggi. In pochi decenni, tutti i satelliti artificiali umani in orbita ricadrebbero verso terra, disintegrandosi nell’atmosfera. In pochi secoli, tutto ciò che fu creato dall’uomo e che esiste sulla superficie terrestre sarebbe ricoperto dal rapido ritorno della vegetazione selvatica in quei luoghi che l’uomo aveva trasformato in città, strade, aree coltivate. La capacità delle radici in crescita delle piante di disgregare anche la roccia, figurarsi materiali come asfalto o cemento, non dà molte speranze di persistenza a buona parte dei nostri manufatti, apparentemente molto tenaci, di restare intatti dopo che le piante si fossero riprese possesso delle terre emerse.Nel giro di alcuni millenni, al più qualche milione di anni, l’erosione, gli agenti atmosferici, le future fasi glaciali, il sollevamento dei mari, la deriva dei continenti, il sollevamento di nuove catene montuose, tutto ciò distruggerebbe qualsiasi struttura superficiale (manufatti, strade, edifici, porti) non ancora distrutta dall’espansione della vegetazione. Buona parte dei monili di materiale resistente alla corrosione sarebbe dilavato dalle acque, trasportato in mare dai fiumi, dalle alluvioni e dalla lenta subsidenza dei suoli, e nel giro di qualche milione di anni si accumularebbe sul fondo dei mari, formando una stratificazione che, progressivamente sepolta sotto strati successivi, e compattata dalla loro pressione, si trasformerebbe in roccia. Nei successivi milioni di anni, il ritorno totale della Natura come unica signora della Terra cancellerebbe la quasi totalità delle prove della nostra passata esistenza. Forse qualcosa persisterebbe sepolta sotto i fondali oceanici, ma sarebbe condannata ad un lento dissolvimento, sotto le inesorabili pressioni prodotte dai movimenti della crosta terrestre. L’unica testimonianza della nostra esistenza, quindi, sarebbe quel sottile strato di carbonio e metalli pesanti, vestigio della nostra tecnologia, accumulatosi sul fondale oceanico ed eventualmente riemerso come parte marginale di qualche catena montuosa.Pertanto, se questo è l’inevitabile destino delle ultime tracce della civiltà umana, perché non dovrebbe essere già tutto avvenuto per una specie precedente la nostra, della quale, appunto, ogni traccia è andata distrutta al di fuori di qualche sottile strato sedimentario? Se l’intero ciclo dell’esistenza di una civiltà, la sua estinzione e la quasi totale distruzione naturale di ogni sua manifestazione scampata all’estinzione, si compie in qualche milione di anni, non esiste obiezione logica per cui il vastissimo passato geologico della Terra non possa contenere al suo interno dozzine di episodi come quello appena narrato. Ciò è coerente con la stima data dai paleontologi che solamente una frazione ridotta di tutte le specie comparse sulla Terra ha lasciato tracce fossili: se, come tutti concordano, le specie intelligenti sono una ridottissima frazione nel totale delle specie comparse, appare chiaro che è altamente improbabile che esse ricadano nella ridotta frazione che si manifesterà sotto forma di fossili. Improbabile, ma non impossibile.Pertanto, un possibile indizio dell’esistenza di una civiltà non-umana sulla Terra potrebbe essere un sottile strato la cui composizione chimica anomala (dovuta ad un eccesso di carbonio e metalli pesanti) potrebbe indicare l’accumulo dei residui di una qualche specie tecnologicamente avanzata. Lo scenario ipotetico che vi ho appena illustrato fu sviluppato, indipendentemente uno dall’altro, da due autori, John C. McLoughlin (1984) e Mike Magee (1993), come ipotesi fantascientifica per spiegare le anomalie geologiche e paleontologiche presenti nel famoso “limite K-T”, il livello geologico che segna la fine dell’era Mesozoica e la grande estinzione dei dinosauri: secondo questi autori, una specie intelligente di dinosauro, vissuta 65 milioni di anni fa, fu la causa della grande estinzione e della propria autodistruzione, secondo modalità e tempi non tanto diversi da quelli con cui oggi Homo Sapiens sta alterando, in modo forse irreparabile, la biosfera ed il clima.Aldilà della plausibilità di questo scenario, notare che sia io che i miei due predecessori siamo caduti, quasi incosciamente, nello sciovinismo autoreferenziale ed antropocentrico che avevo criticato all’inizio, proponendo un’ipotesi plasmata sulla nostra condizione umana. In realtà, non è detto che tutte le specie intelligenti siano portate a sviluppare la metallurgia, l’allevamento intensivo o un massiccio sfruttamento delle risorse naturali, come siamo soliti fare noi, e quindi potrebbero non lasciare una traccia stratigrafica così evidente della loro presenza sul pianeta del passato. In alternativa, come imposteremmo un “Seti”, qui inteso come “Search for Extinct Terrestrial Intelligence”, e che lezioni potrebbe darci in appoggio al suo più famoso fratello maggiore, rivolto allo spazio esterno? La prima domanda da porsi è se sia possibile ridurre la gamma dei candidati al ruolo di “extinct-terrestrials”: quali linee evolutive animali potrebbero essere le più plausibili candidate? L’osservazione delle specie viventi al giorno d’oggi, ci mostra almeno 3 linee evolutive che mostrano (almeno in forma incipiente) le potenzialità per evolvere un’intelligenza avanzata. Il primo passo sarebbe quindi di cercare tra i rappresentanti estinti di quelle linee evolutive dei potenziali candidati.(Andrea Cau, estratto da “Search for Extinct Terrestrial Intelligence”, intervento pubblicato il 15 agosto 2012 sul blog “Theropoda” a cura dello stesso Cau, paleontologo dei vertebrati).Sebbene a prima vista la mia disciplina, la paleontologia dei vertebrati, possa apparire totalmente fuori tema per un Carnevale collegato ad un progetto come quello Seti (Search for Extra-Terrestrial Intelligence), esistono delle intriganti similitudini tra questi due ambiti di ricerca, la cui esplorazione e comparazione può portare spunti e punti di vista alternativi, potenzialmente fecondi. L’osservazione dello spazio è accomunata all’indagine paleontologica dal fatto che la distanza sia una misura del tempo. Così come i segnali elettromagnetici provenienti dal cosmo sono tanto più antichi quanto più distante è la loro sorgente, così in paleontologia la posizione di un fossile indica un’età più antica tanto più il fossile è posto in profondità nella serie stratigrafica. L’interconnessione tra posizione nello spazio e distanza nel tempo dei fenomeni osservati dalle due discipline rende quindi la mente del paleontologo e quella dell’astronomo ugualmente predisposte a pensare in modo “quadrimensionale”, a concepire spazio e tempo non come variabili indipendenti, ma come manifestazioni di un unico fenomeno. Il progetto Seti è rivolto alle immensità extraterrestri alla ricerca di segnali, tracce che, per quanto flebili, siano evidenza di forme di vita intelligenti. In questo, il progetto Seti è convergente all’attività del paleontologo, che sonda le profondità geologiche alla ricerca di evidenze, per quanto flebili e frammentarie possano essere, della vita del remoto passato.
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Lo Stato non è una famiglia: se risparmia, siamo rovinati
L’esposizione ripetuta a un’immagine o a un contenuto fa sì che l’individuo modifichi la propria percezione della realtà e interiorizzi il messaggio veicolato. E’ quello che gli psicologi chiamano “effetto priming”, e che pubblicitari ed esperti della comunicazione conoscono molto bene. Quanto più un messaggio viene ripetuto ed enfatizzato, magari attraverso la forma dello spot, tanto più esso risulterà familiare. Così può accadere che un concetto privo di veridicità, ma ripetuto con insistenza e in modo convincente, acquisisca il rango di verità. E’ quanto accaduto con la fake news economica del momento, tanto assurda quanto apparentemente efficace: il bilancio dello Stato sarebbe come quello di una famiglia. La ripetono all’unisono giornalisti, conduttori televisivi, economisti e qualunquisti. Così la gente comune, digiuna di economia e soprattutto in buona fede, ha interiorizzato un pensiero del tutto fuorviante. Secondo questa logica, quando un paese presenta un debito pubblico – dunque la normalità in un’economia moderna – dovrebbe assumere il comportamento di una brava e accorta casalinga: stringere la cinghia e tagliare le spese familiari. Così, come una donna morigerata risparmierà sul cibo, sul vestiario e, in condizioni di estrema ratio, alle cure sanitarie per sé, per il coniuge e per i figli, così lo Stato dovrebbe seguire il suo virtuoso esempio.Dunque, poiché la “famiglia” dello Stato è lo Stato stesso, ossia l’insieme dei cittadini che lo abitano, il suo territorio e le sue istituzioni, i tagli si ripercuoteranno sull’intera collettività. Per risparmiare occorre innanzitutto che contravvenga a quello che in un sistema socio-economico civile dovrebbe essere la sua funzione principale: tutelare chi non ha tutela, chi per nascita o per eventi sopravvenuti o condizioni particolari si trova in una situazione di evidente svantaggio. E qui gli esempi potrebbero essere infiniti, dal disoccupato all’invalido, alle vittime di disastri naturali. Potrebbe poi, in un’ottica di far quadrare il bilancio, ristrutturare la sanità pubblica in un’ottica mercatistica orientata al profitto, trasformando il paziente in un cliente. Continuare poi in un’opera di privatizzazione dei servizi pubblici e delle infrastrutture, facendoli gestire al mercato – considerato per antonomasia efficiente. A parte qualche piccola eccezione come successo a Genova. Così si potrebbe abbracciare un modello di scuola privata, in cui i genitori offriranno ai loro figli un livello di istruzione strettamente legato al proprio reddito. Ci sarebbe solo il piccolo inconveniente di bloccare l’ascensore sociale e rinstaurare il censo.Siccome non amo la retorica, mi fermo qui, ma gli esempi pratici per smontare l’assurda comparazione tra bilancio pubblico e familiare potrebbero andare avanti ancora a lungo. Lo Stato non è una famiglia perché esso ha come obiettivo il benessere e la tutela di tutti cittadini, non solo dei suoi figli come la famiglia, e opera su un orizzonte temporale di lungo periodo. Deve inoltre garantire il funzionamento delle istituzioni a garanzia del diritto e della democrazia. Infine, come dicono gli inglesi last but not least, da un punto di vista economico e contabile adottare la condotta della brava casalinga, che per uno Stato significa adottare l’austerity, vuol dire licenziare, rendere i servizi pubblici essenziali sempre più costosi, aumentare il livello di povertà, di disuguaglianza e disoccupazione. Così potrebbe accadere che la stessa virtuosa casalinga a causa dell’austerity debba rinunciare a curarsi o, addirittura, che suo marito perda il lavoro. Esiste infatti una relazione diretta, alquanto intuitiva, tra tagli dello Stato e diminuzione della ricchezza privata perché, per dirla con le parole del premio Nobel Krugman, «la tua spesa è il mio reddito». Potremmo dunque a ragion veduta ribaltare lo spot e affermare: «Il bilancio dello Stato è il contrario di quello della famiglia». Ma i pregiudizi si sa, una volta sedimentati sono difficili da scardinare.(Ilaria Bifarini, “Lo Stato è il contrario di una famiglia”, dal blog della Bifarini del 28 settembre 2018).L’esposizione ripetuta a un’immagine o a un contenuto fa sì che l’individuo modifichi la propria percezione della realtà e interiorizzi il messaggio veicolato. E’ quello che gli psicologi chiamano “effetto priming”, e che pubblicitari ed esperti della comunicazione conoscono molto bene. Quanto più un messaggio viene ripetuto ed enfatizzato, magari attraverso la forma dello spot, tanto più esso risulterà familiare. Così può accadere che un concetto privo di veridicità, ma ripetuto con insistenza e in modo convincente, acquisisca il rango di verità. E’ quanto accaduto con la fake news economica del momento, tanto assurda quanto apparentemente efficace: il bilancio dello Stato sarebbe come quello di una famiglia. La ripetono all’unisono giornalisti, conduttori televisivi, economisti e qualunquisti. Così la gente comune, digiuna di economia e soprattutto in buona fede, ha interiorizzato un pensiero del tutto fuorviante. Secondo questa logica, quando un paese presenta un debito pubblico – dunque la normalità in un’economia moderna – dovrebbe assumere il comportamento di una brava e accorta casalinga: stringere la cinghia e tagliare le spese familiari. Così, come una donna morigerata risparmierà sul cibo, sul vestiario e, in condizioni di estrema ratio, alle cure sanitarie per sé, per il coniuge e per i figli, così lo Stato dovrebbe seguire il suo virtuoso esempio.
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Vaccini, massoni e tabù: Colors Radio licenzia Gramiccioli
Perdi il posto, se insisti nel cercare la verità? Le forti pressioni subite avrebbero costretto l’editore di “Colors Radio” a licenziare il conduttore David Gramiccioli, direttore artistico dell’emittente. Sempre in prima linea sui temi più scomodi, Gramiccioli, a partire dalla battaglia civile contro l’obbligo vaccinale introdotto dal governo Gentiloni attraverso Beatrice Lorenzin – da cui lo spettacolo “Il decreto”, scritto e interpretato dallo stesso Gramiccioli, “sold out” nei teatri di tutta Italia. Ma non solo: vero e proprio mattatore di “Colors Radio”, Gramiccioli ha dato grande visibilità ai temi più difficili da trattare, come la polemica su “fake news” e terrorismo “false flag” sollevata dalla giornalista torinese Enrica Perucchietti, o le grandi falsificazioni del mainstream – a partire da quella sull’11 Settembre – denunciata dal documentarista Massimo Mazzucco, cui Gramiccioli aveva riservato una rubrica settimanale. Il licenziamento del conduttore “spegne” anche la voce radiofonica di Gioele Magaldi, che attraverso la rubrica “Massoneria On Air” ha potuto svelare la cifra massonica (occulta, e spesso oligarchica) dei maggiori protagonisti della politica, quella da cui giornali e televisioni stanno sempre a distanza di sicurezza, grazie al noto fenomeno dell’autocensura preventiva – mai disturbare il manovratore.«Permetteteci di esprimere subito la nostra solidarietà nei confronti del collega David Gramiccioli, che ha diffuso la notizia del suo licenziamento», afferma Fabio Frabetti di “Colors Radio” nella video-chat settimanale con Massimo Mazzucco, su YouTube. Una realtà radiofonica, quella di “Colors Radio”, che si stava affermando: grazie a Gramiccioli, «era diventata un vettore molto importante, per quanto riguarda il discorso vaccini e non solo». Purtroppo, gli fa eco lo stesso Mazzucco, «la storia di David è costellata da situazioni del genere: credo che questa sia la quarta o quinta volta che gli succede di essere licenziato per questi motivi». Mazzucco ricorda la sua prima intervista con Gramiccioli, a poca distanza dall’attentato alle Torri Gemelle, per quella che allora si chiamava “Radio Spazio Aperto”: si cominciava appena, a parlare di “verità non ufficiale” sull’11 Settembre, e Gramiccioli era già “sul pezzo”. «Poi le pressioni sono cresciute, la trasmissione è stata chiusa e il conduttore è stato costretto a licenziarsi». Il problema? Gramiccioli «tratta temi veramente scomodi: non solo l’11 Settembre ma anche la pedofilia, specie quella nella Chiesa», spiega Mazzucco. All’inizio le radio libere gli danno carta bianca, «ma appena lui guadagna ascolti – come stava succededo ora, con “Colors Radio” – qualcuno comincia a fare pressioni perché smetta di parlare di argomenti tanto delicati».A quel punto, continua Mazzucco, «l’editore si trova tra l’incudine e il martello, e comunica a Gramiccioli: “Guarda che mi stanno facendo pressioni: o la smetti o devo licenziarti”. Ma David è una persona con la schiena dritta, e risponde: io vado avanti. Così finisce regolarmente senza lavoro». Purtroppo, sottolinea Mazzucco, questo dimostra che, tanto per cominciare, «il discorso sui vaccini è veramente insidioso: oltre una certa soglia di attenzione non si può andare». Facile anche dedurre che Gramiccioli «abbia pagato il grande successo del suo spettacolo, “Il decreto”, che ha portato in tutta Italia: racconta la vera storia del decreto Lorenzin, di come è nato e di cosa c’è dietro. Io l’ho visto – conferma Mazzucco – ed è uno spettacolo veramente devastante, per quelli che sostengono la versione ufficiale sui vaccini, perché c’è dietro una storia di conflitto d’interessi che è veramente enorme». Gramiccioli, evidentemente, «si è creato dei nemici ad alto livello». Il che è un titolo di merito, se uno fa davvero il giornalista: permette al pubblico di scoprire verità che gli altri non raccontano mai.Informazione libera? Una rosa piena di spine: «Se c’è di mezzo la pubblicità, cominciano i condizionamenti», osserva Mazzucco: «Se devi pagare stipendi finisci per dipendere dalla pubblicità, e può succedere che ti si chieda di “sacrificare” certe trasmissioni che danno fastidio a chi comanda». Come si finisce nel mirino dei censori? Basta uscire dal “frame” citato da Marcello Foa, ora presidente Rai, nella sua coraggiosa polemica sulle viltà quotidiane dei media mainstream. Nelle notizie c’è sempre un “frame” (una cornice, un telaio ben preciso) all’interno del quale si deve restare, con qualunque argomentazione, sui grandi media. «Ma appena esci fuori da quel “frame”, da quella cornice – sottolinea Mazzucco – la notizia diventa tabù: certi argomenti non si possono più trattare, se affrontati in modo autonomo». Brutta storia: «Ci sembra sempre di avere una grande libertà di stampa solo perché viviamo – ci dicono – in un paese libero, in democrazia. Ma se appena esci fuori da quelle rotaie ti segano le caviglie», conclude Mazzucco, sicuro – comunque – che lo «spirito libero» di David Gramiccioli (già sommerso di attestazioni di solidarietà) gli ispirerà nuove avventure, come sempre dalla parte di quella verità che i grandi media temono, e di cui il pubblico ha sempre più bisogno.Perdi il posto, se insisti nel cercare la verità? Le forti pressioni subite avrebbero costretto l’editore di “Colors Radio” a licenziare il conduttore David Gramiccioli, direttore artistico dell’emittente. Sempre in prima linea sui temi più scomodi, Gramiccioli, a partire dalla battaglia civile contro l’obbligo vaccinale introdotto dal governo Gentiloni attraverso Beatrice Lorenzin – da cui lo spettacolo “Il decreto”, scritto e interpretato dallo stesso Gramiccioli, “sold out” nei teatri di tutta Italia. Ma non solo: vero e proprio mattatore di “Colors Radio”, Gramiccioli ha dato grande visibilità ai temi più difficili da trattare, come la polemica su “fake news” e terrorismo “false flag” sollevata dalla giornalista torinese Enrica Perucchietti, o le grandi falsificazioni del mainstream – a partire da quella sull’11 Settembre – denunciata dal documentarista Massimo Mazzucco, cui Gramiccioli aveva riservato una rubrica settimanale. Il licenziamento del conduttore “spegne” anche la voce radiofonica di Gioele Magaldi, che attraverso la rubrica “Massoneria On Air” ha potuto svelare la cifra massonica (occulta, e spesso oligarchica) dei maggiori protagonisti della politica, quella da cui giornali e televisioni stanno sempre a distanza di sicurezza, grazie al noto fenomeno dell’autocensura preventiva – mai disturbare il manovratore.
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L’oro dei Sumeri: Sudafrica, una metropoli di 200.000 anni
Heine aveva un vantaggio unico: essersi reso conto del numero e della portata di quelle strane fondazioni di pietra. Il loro significato non era mai stato colto? «Quando Johan per primo mi ha fatto conoscere le antiche rovine di pietra dell’Africa Australe, non avevo idea delle incredibili scoperte che ne sarebbero seguite, in breve tempo», racconta Tellinger. «Le fotografie, i manufatti e le prove che abbiamo accumulato puntano senza dubbio ad una civiltà perduta e sconosciuta, visto che precede tutte le altre – non di poche centinaia d’anni, o di qualche migliaio d’anni… ma di molte migliaia d’anni». Queste scoperte, continua Tellinger, «sono così impressionanti che non saranno facilmente digerite dall’opinione ufficiale, dagli storici e dagli archeologi, come abbiamo già sperimentato». Secondo il ricercatore, «è necessario un completo mutamento di paradigmi, nel nostro modo di vedere la nostra storia umana». Autore, scienziato ed esploratore sudafricano, protagonista di campagne d’opinione contro le banche, Tellinger ha fondato un suo partito politico, Ubuntu, che sostiene la fornitura gratuita delle risorse a tutta la società. Ha presentato la sua scoperta, ribattezzata “Calendario di Adamo”, come un sito di straordinaria importanza archeologica, essendo al centro di una rete di cerchi di pietre presenti in tutta l’Africa meridionale, che presumibilmente «ha incanalato l’energia, in tempi antichi».L’area è importantissima, per un aspetto che colpisce subito: l’oro. «Le migliaia di antiche miniere d’oro, scoperte nel corso degli ultimi 500 anni, indicano una civiltà scomparsa che ha vissuto e scavato per l’oro in questa parte del mondo per migliaia d’anni», dice Tellinger. «E se questa è in realtà la culla del genere umano, forse stiamo osservando le attività della più antica civiltà sulla Terra». Se si compie una “ricognizione aerea” con Google Earth (secondo le coordinate fornite da Dan Eden) il risultato è stupefacente. Prima domanda: l’oro ha giocato un certo ruolo sulla densità di popolazione che un tempo viveva qui? Il sito si trova a circa 150 miglia da un ottimo porto, il cui commercio marittimo potrebbe avere contribuito a sostenere una popolazione così importante. Ma stiamo parlando di quasi 200.000 anni fa. Tanta attenzione per le miniere d’oro – di cui non ci risulta cha nostra civiltà conoscesse, in tempi così remoti, le tecniche estrattive – ricorda alcuni racconti dei Sumeri: narrano che gli Anunnaki (i signori della Terra, l’equivalente degli Elohim biblici) inizialmente fossero costretti a lavorare duramente. Ed è noto che proprio l’oro, in astronautica, è apprezzato per le sue proprietà isolanti: proteggerebbe anche dalle radiazioni nucleari. I lavoratori Anunnaki, narrano i Sumeri, a un certo punto si ribellarono al lavoro schiavistico. Da lì nacque l’idea di “fabbricare” geneticamente una specie intelligente, quella degli “Adamu”, che lavorasse nelle miniere al posto degli “dei”.Le singole rovine scoperte in Sudafrica sono in gran parte costituite da cerchi di pietre, per lo più sepolti sotto la sabbia e visibili soltanto dal satellite o dall’aereo. Alcuni, scrive Eden, sono riaffiorati di recente, quando il cambiamento climatico ha soffiato via la sabbia, rivelando le mura e le fondamenta. «Anche se mi vedo come una persona di mente aperta – dice Tellinger – devo ammettere che mi ci è voluto oltre un anno, per digerire la scoperta e per capire che abbiamo realmente a che fare con le strutture più antiche mai costruite dall’uomo sulla Terra». Tanto stupore deriva da un pregiudizio: «Ci hanno insegnato che nulla di significativo è mai venuto dal Sud Africa: ci è stato sempre detto che le civiltà più potenti sono apparse in Sumeria, in Egitto e in altri luoghi». Quanto all’Africa, la storia ufficiale sostiene che, fino all’insediamento del popolo Bantu, proveniente da nord a partire dal 1300 (medioevo europeo), questa parte del mondo era piena soltanto di cacciatori-raccoglitori, e che i cosiddetti Boscimani non hanno fornito alcun contributo importante alla tecnologia o alla civiltà. Quando i primi esploratori incontrarono queste rovine sudafricane, scrive Eden, davano per scontato che fossero recinti per il bestiame realizzati da tribù nomadi come quelle dei Bantu, si spostarono verso sud e si stabilirono in quei terrtitori intorno al XIII secolo dopo Cristo.«Non si conoscevano le testimonianze storiche di nessuna civiltà precedente, più antica, in grado di costituire una comunità così densamente popolata». Tuttavia, aggiunge Eden, ben pochi sforzi sono stati fatti per indagare il gigantesco sito ora emerso: la collocazione storica delle rovine non era ancora nota. «Negli ultimi 20 anni, persone come Cyril Hromnik, Richard Wade, Johan Heine e una manciata d’altri hanno scoperto che queste strutture in pietra non sono ciò che sembrano essere. In realtà questi sono ora ritenuti i resti di antichi templi e osservatori astronomici di antiche civiltà perdute, che risalgono a molte migliaia di anni fa». Le immense rovine circolari sono distribuite su una vasta area. Possono solo essere veramente apprezzate soltanto dal cielo, dall’aereo o attraverso immagini satellitari. «Molte di loro sono quasi completamente erose o sono state coperte dai movimenti del suolo fatti per l’agricoltura lungo il tempo. Alcune sono sopravvissute abbastanza bene da rivelare le loro grandi dimensioni, con alcuni muri originali in piedi, sino a quasi 2 metri d’altezza e oltre un metro di larghezza». Guardando la “metropoli” intera, diventa evidente che si trattava d’una comunità ben progettata, sviluppata da una civiltà evoluta. E poi, appunto, l’oro: il numero di antiche miniere suggerisce la ragione per cui la comunità si trovasse proprio in quella regione.E’ possibile rilevare anche l’esistenza di tracciati “stradali”, lunghi anche 100 miglia, che collegavano la comunità e l’agricoltura a terrazzamenti molto simili a quelli trovati negli insediamenti Inca in Perù. Ma, si domanda Eden, tutto questo come potrebbe esser stato realizzato dagli esseri umani 200.000 anni fa? «Trovare i resti di una grande comunità, con ben 200.000 persone che vivevano e lavoravano insieme, è stata una scoperta importante in sé. Ma la datazione del sito ha costituito un problema. La patina pesante sulle pareti di roccia – scrive Eden, citando il lavoro degli archeologi – suggeriva che le strutture dovessero essere molto vecchie, ma la scienza della datazione tramite la patina è solo in fase di sviluppo ed è ancora controversa». La datazione col carbonio 14, che rileva sostanze organiche come il legno bruciato, è alterata dalla possibilità che i reperti «possano aver subito incendi recenti dell’erba circostante, che sono comuni nella zona». La svolta è arrivata inaspettatamente, come spiega lo stesso Tellinger: è l’astronomia a rivelare la datazione del complesso, che riproduce una configurazione stellare visibile dalla Terra soltanto 200.000 anni fa.Johan Heine, racconta Tellinger, scoprì il “Calendario Adam” nel 2003, quasi per caso. Andava a cercare uno dei suoi piloti che si era schiantato con l’aereo sul bordo dell’altopiano. Accanto al luogo dello schianto, Johan notò un gruppo molto strano di grosse pietre, sporgenti dal terreno. Mentre portava in salvo il pilota ferito, Johan si rese conto che i monoliti erano allineati ai punti cardinali della Terra – nord, sud, est e ovest. «C’erano almeno tre monoliti allineati verso il sorgere del sole, ma sul lato ovest dei monoliti allineati c’era un misterioso buco nella terra – mancava qualcosa». Dopo mesi di misurazioni, Johan concluse che le rocce erano perfettamente allineate con il sorgere e il tramonto del sole: solstizi ed equinozi. E il misterioso buco nel terreno? Un giorno, l’esperto locale di piste a cavallo, Christo, spiegò a Johan che c’era una pietra dalla strana forma, che era stata rimossa dal luogo qualche tempo prima, e collocata vicino all’ingresso della riserva naturale. Dopo una lunga ricerca, Johan trovò la pietra (antropomorfica, di forma umanoide). «Era intatta e con orgoglio recava una targa, attaccata ad essa. Era stata utilizzata dalla Fondazione Blue Swallow per commemorare l’apertura della riserva Blue Swallow nel 1994. L’ironia è che era stata rimossa dal sito antico più importante trovato fino ad oggi, e misteriosamente era ritornata alla riserva».I primi calcoli dell’età del Calendario di Adamo sono stati effettuati in base al sorgere di Orione, costellazione conosciuta per le sue tre stelle luminose che formano la “cintura” del mitico cacciatore della Beozia. La Terra oscilla sul suo asse, e quindi le stelle e le costellazioni cambiano il loro angolo di presentazione nel cielo notturno, in base alla congiuntura. Questa rotazione, denominata “precessione degli equinozi”, completa il suo ciclo ogni 26.000 anni, all’incirca. «Se possiamo stabilire quando le tre stelle della Cintura di Orione erano posizionate in orizzontale contro l’orizzonte, possiamo stimare il momento in cui le tre pietre del Calendario erano in linea con queste stelle visibili». Il primo calcolo approssimativo fu di almeno 25.000 anni. Ma le nuove misurazioni, più precise, tendevano ad aumentare l’età del ritrovamento. Il calcolo successivo è stato compiuto da un esperto archeo-astronomo, «che vuole rimanere anonimo per paura», temendo di essete deriso dalla comunità accademica. Il suo calcolo, spuega Eden, si è basato sul sorgere di Orione e ha suggerito un’età di almeno 75.000 anni. Ma il conteggio più recente e più preciso, eseguito soltanto nel giugno del 2009, suggerisce un’età di almeno 160.000 anni, sulla base del sorgere apparente di Orione all’orizzonte – ma anche dell’erosione delle pietre costituite da un particolare minerale, la dolerite, trovare sul sito. Alcuni frammenti dei “marcatori” di pietra sono stati sbriciolati dall’erosione naturale: ricomposti, rivelano l’assenza di circa 3 centimetri di roccia (tanto basta, per calcolare – mediante sottrazione – la loro presunta età originaria).Chi ha edificato la metropoli? E perché? Sembrerebbe che gli esseri umani abbiano sempre apprezzato l’oro. È anche menzionato nella Bibbia, che descrive i fiumi del Gan, il “paradiso terrestre” situato nella regione geografica di Eden, tra la Mesopotamia e il Mar Caspio: «Il nome del primo [fiume] è Pishon; scorre intorno a tutto il paese di Havilah, dove c’è l’oro», si legge in Genesi 2:11. Il Sudafrica è conosciuto come il più grande paese produttore di oro al mondo. L’epicentro estrattivo è il Witwatersrand, cioè la stessa regione dove l’antica metropoli si trova. Nelle vicinanze di Johannesburg c’è poi un luogo chiamato “Egoli”, che significa “la città d’oro”. Sembra molto probabile, quindi, che l’antica metropoli sorgesse a causa della sua vicinanza con l’offerta d’oro più grande del pianeta. Ma perché gli antichi lavoravano così alacremente nelle miniere d’oro? Il prezioso metallo non si può mangiare, è troppo tenero da utilizzare per la produzione di utensili e non ha alcuna utilità pratica, se non per ricavarne ornamenti, anche se la sua qualità estetica non è superiore a quella di altri metalli pregiati, come il rame o l’argento. Perché mai l’oro divenne così prezioso, dunque? Perché proprio l’oro diventò così importante per i primi Homo Sapiens?Per cercare la risposta, scrive Dan Eden, dobbiamo esaminare il periodo preistorico in questione: com’erano, gli esseri umani, 160.000 anni fa? Come fece, il Sapiens, a distinguersi dai suoi antenati ominidi assai meno evoluti, come l’Homo Habilis e l’Homo Erectus? Gli scienziati, scrive Eden, non hanno ancora capito perché apparve, improvvisamente, quel nuovo tipo umano. Non sanno in che modo quel cambiamento avvenne. Attualmente, infatti, siamo soltanto in grado di rintracciare i nostri geni risalendo fino ad un’unica donna, che paleontologi e genetisti chiamano Eva Mitocondriale. Quell’Eva primigenia, denominata “mt-Mrca”, è definita come il nostro antenato “matrilineare” più recente. Tramandato da madre a figlio, tutto il Dna mitocondriale (“mt-Dna”) in ogni persona vivente è derivato da quell’individuo di sesso femminile. L’Eva Mitocondriale è la controparte femminile di “Adamo Y-cromosomico”, l’antenato comune “patrilineare” più recente. Gli studiosi ritengono che la Eva Mitocondriale sia vissuta tra 150.000 a 250.000 anni fa, probabilmente in Africa Orientale, attorno alla Tanzania. Si ipotizza che vivesse in una popolazione di 4-5.000 esemplari, tutte femmine, in grado di produrre prole in un dato momento.«Se altre femmine avevano prole con cambiamenti evolutivi del loro Dna, non abbiamo alcuna registrazione della loro sopravvivenza», scrive Eden. «Sembra che siamo tutti discendenti di questa femmina umana». Lei, Eva Mitocondriale, sarebbe stata «pressoché contemporanea degli esseri umani i cui fossili sono stati rinvenuti in Etiopia, nei pressi del fiume Omo e di Hertho». Si pensa che l’Eva Mitocondriale sia vissuta «molto prima dell’emigrazione dall’Africa, che potrebbe essersi verificata tra 60.000 e 95.000 anni fa». La regione africana dove si può trovare il massimo livello di diversità mitocondriale, aggiunge Eden, è la stessa in cui gli antropologi ipotizzano che la divisione più antica della popolazione umana abbia iniziato a verificarsi. E l’antica metropoli sudafricana si trova proprio in quest’ultima regione, «che corrisponde anche al periodo stimato in cui le mutazioni genetiche improvvisamente accaddero», per dare origine al Sapiens. Coincidenze? La stessa storia dei Sumeri descrive l’antica metropoli e i suoi abitanti. «Sarò onesto con voi», premette Eden: «Questa parte successiva della storia è difficile da scrivere. È così sconvolgente che la persona media non ci vuole credere. Se siete come me, vi consiglio di fare la ricerca voi stessi, e di prendervi del tempo per permettere ai fatti di stabilirsi nella vostra mente».Riassume Eden: ci hanno spesso fatto credere che la nostra storia conosciuta cominci con gli egizi, le piramidi e i faraoni, le cui dinastie più antiche risalgono a poco più che 5.000 anni fa, precisamente nel 3.200 avanti Cristo. Ma la civiltà mesopotamica dei Sumeri, considerata la prima a costruire città, risale ad almeno mille anni prima. «Abbiamo tradotto molte delle loro tavolette, scritte in caratteri cuneiformi e in scritture precedenti, in modo da sapere parecchio sulla loro storia e sulle loro leggende». Viene da lì il primo sigillo che raffigura la narrazione del “Grande Diluvio”, che annienta l’umanità. Molte leggende sumere, riconosce Eden, sembrano aver ispirato la stessa Genesi, assai più recente. Come la Genesi, la narrazione sumerica contenuta nell’Atrahasis racconta la comparsa degli esseri umani moderni, originati «non da un “Dio d’amore”, ma da esseri provenienti da un altro pianeta, che avevano bisogno di “lavoratori schiavi”, per aiutarli a lavorare nelle miniere d’oro». Quel metallo, sempre secondo i Sumeri, era indispensabile per le «spedizioni extra-planetarie» di quei misteriosi signori, gli Anunnaki. La versione a noi nota dell’Atrahasis, aggiunge Eden, proviene da una stesura babilonese più recente, che risale al 1.700 avanti Cristo. La storia inizia presentando gli “dèi”, esseri provenienti da un pianeta chiamato Nibiru, che scavano fossati e miniere per l’oro, come fossero una squadra minatori. L’Homo Sapiens non esistevano ancora, la Terra era abitata soltanto da ominidi primitivi.Sempre secondo la narrazione babilonese ispirata all’originario racconto dei Sumeri, c’erano due gruppi distinti di “divinità”: i lavoratori e la classe dirigente, i comandanti. Gli “dèi lavoratori”, fabbricanti di infrastrutture e impianti minerari, dopo migliaia d’anni si ribellarono, data l’eccessiva mole di lavoro. «Gli dèi dovevano scavare i canali», scrive l’Atrahasis. «Dovevano tenere puliti i canali, le arterie vitali della terra». Addirittura, «gli dèi scavarono il letto del fiume Tigri, e poi hanno fatto quello dell’Eufrate». Dopo 3.600 anni di questo lavoro, gli “dèi” finalmente cominciarono a lamentarsi. Decisero di scendere in sciopero, bruciando i loro strumenti e circondando la “dimora” del dio principale, Enlil (il suo “tempio”). Il ministro di Enlil, Nusku, scosse Enlil dal letto e l’avvisò che la folla inferocita stava là fuori. Enlil ne rimase spaventato. Il suo volto è descritto «olivastro come una tamerice». Il ministrò Nusku consigliò Enlil di chiamare gli altri grandi “dèi”, soprattutto Anu (“dio” del cielo) ed Enki (il “dio” intelligente delle acque dolci). Anu consigliò ad Enlil di scoprire chi fosse il capo della ribellione. Spedirono Nusku in avanscoperta per chiedere alla folla delle “divinità” chi fosse il loro leader. E la folla rispose: «Ciascuno di noi dèi vi ha dichiarato guerra!».Constatato che il lavoro degli “dèi” di classe inferiore «era troppo difficile», i capi decisero di sacrificare uno dei ribelli per il bene di tutti: avrebbero preso un solo “dio”, l’avrebbero ucciso e ne avrebbero ricavato il genere umano, mescolando la carne e il sangue del “dio” con l’argilla. Scrive sempre l’Atrahasis nella versione babilonese: «Belit-ili, la dea del grembo materno, è presente». Il nome ricorda – in modo impressionante – quello di Lilith, mitica femmina e “madre primigenia” un tempo presente nella stessa Bibbia, e poi rimossa. «Lasciate che la dea del grembo materno crei la sua prole – aggiunge l’Atrahasis – e lasciate che l’uomo sopporti il carico degli dei!». Dopo che Enki li istruì sui rituali di purificazione per il primo, settimo e quindicesimo giorno d’ogni mese, gli “dèi” uccisero Geshtu-e, «un dio che aveva l’intelligenza» (il suo nome significa “orecchio” o “saggezza”) e, di fatto, “fabbricarono” l’attuale l’umanità impastando il suo sangue con della creta. Dopo che la “dea della nascita” ebbe mescolato l’argilla, tutti gli “dèi” si raccolsero intorno e, letteralmente, sputarono sul nascituro. Poi Enki e la “dea dell’utero” presero l’argilla e la portarono nella “stanza del destino”, dove si riunirono tutte le “dee del grembo materno”. Continua l’Atrahasis: «Egli [Enki] calpestò l’argilla in presenza di lei; lei continuava a recitare un incantesimo, perché Enki, soggiornando in sua presenza, l’aveva obbligata a recitarlo. Quando ebbe finito il suo incantesimo, estrasse quattordici pezzi d’argilla e mise sette pezzi a destra, sette a sinistra. Tra di essi depose un mattone di fango».La “creazione dell’uomo”, scrive Dan Eden, sembra dunque descritta come una specie di clonazione, che ricorda l’odierna fecondazione in vitro. «Il risultato fu un ibrido, o “umano evoluto”, con maggiore intelligenza, che potesse svolgere le funzioni fisiche degli “dèi lavoratori” e anche prendersi cura delle esigenze di tutti gli “dèi”». In altri testi, poi, ci viene detto che la “spedizione” nella regione mineraria fu originata dalla necessità di estrarre grandi quantità di oro, destinate ad essere spedite “fuori del pianeta”. Quella comunità stanziatasi in Sud Africa aveva un nome proprio: era chiamata Abzu. Visto che questi “eventi” sembrano coincidere con le date della Eva Mitocondriale, vale a dire dal 150.000 al 250.000 avanti Cristo, alcuni ricercatori – conclude Eden – sospettano che i “miti dell’origine” della tradizione sumera possano essere basati su precisi avvenimenti storici. Consonanze, analogie: «Secondo gli stessi testi, una volta conclusa la spedizione mineraria, fu deciso che la popolazione umana dovrebbe essere lasciata perire in un diluvio che era stato previsto dal astronomi degli “dèi”. A quanto pare, il passaggio ciclico del pianeta natale degli “dèi”, Nibiru, stava per portarlo abbastanza vicino all’orbita della Terra», e la gravità dell’evento astronomico «avrebbe provocato una risalita (marea) degli oceani», fino a inondare completamente la Terra, mettendo fine alla specie – ibrida – dell’Homo Sapiens, “fabbricato” con sangue “divino”, sputi e creta.Sempre secondo la narrazione mesopotamica, uno degli “dèi” sumeri aveva simpatia per un essere umano particolare, Zuisudra, e lo avvertì del pericolo imminente: gli consigliò di costruire una imbarcazione capace di cavalcare l’onda del diluvio. Questo, osserva Eden, divenne poi la base narrativa per la successiva storia del Noè biblico. Il cataclisma del diluvio fu un fatto veramente accaduto? «L’unica altra spiegazione è immaginare che le leggende sumere, che parlano della vita su altri pianeti e della clonazione umana, fossero straordinarie creazioni di fantascienza. Questo sarebbe di per sé sorprendente». Oggi però abbiamo la prova che la “mitica” città mineraria, Abzu, è reale. Sarebbe stata popolata dai Sapiens “fabbricati” dagli “dei” per rimpiazzarli nelle miniere d’oro. Dall’alto, scrutandola sorvolando il Sudafrica, appare come una megalopoli di dimensioni impressionanti. E secondo la datazione ricostruita dall’équipe archeologica di Tellinger, quella gigantesca “colonia” «esisteva nella stessa epoca dell’improvvisa evoluzione degli ominidi a Homo Sapiens». E’ sufficiente, quello che è stato scoperto? E’ abbastanza, conclude Eden, per darci da pensare un bel po’, su come e quando sia davvero comparso, l’uomo, sulla faccia della Terra.Sono sempre stati lì. Qualcuno li aveva già notati prima, ma nessuno riusciva a ricordare chi li avesse fatti, e perché? Fino a poco tempo fa, nessuno sapeva nemmeno quanti fossero. Ora sono dappertutto, a migliaia, a centinaia di migliaia. «E la storia che raccontano è la storia più importante dell’umanità, ma c’è chi potrebbe non essere pronto ad ascoltarla», scrive Dan Eden, presentando «qualcosa di straordinario» che è stato scoperto in una zona del Sudafrica, a circa 280 chilometri dalla costa, ad ovest del porto di Maputo (capitale del Mozambico). «Sono i resti d’una grande metropoli che misurava, secondo stime prudenti, circa 5.000 chilometri quadrati. Faceva parte di una comunità ancora più ampia, di circa 35.000 chilometri quadrati, che sembra essere stata costruita – siete pronti? – dal 160.000 al 200.000 avanti Cristo». Il perimetro della megalopoli, scrive Eden in un post ripreso da “La Crepa nel Muro”, si lo può intravedere attraverso Google Earth. La regione è remota, ma i “cerchi” presenti sul terreno non erano sfuggiti, in passato, agli agricoltori indigeni. «Nessuno però s’era mai preso la briga di informarsi su chi potrebbe averli fatti o quale età potessero avere». La situazione è cambiata quando se n’è occupato il ricercatore Michael Tellinger, in collaborazione con Johan Heine, un vigile del fuoco locale, nonché pilota, che – dal suo aereo – aveva osservato quelle rovine per anni, sorvolando la regione.
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Strinati: poesia per Nino Polifroni, l’eroe che rifiutò il racket
«E’ logico che prima o poi un figlio raggiunga il padre sotto molti aspetti. Uno di questi è l’età. In quest’anno siamo coetanei. Lui si è fermato per aspettarmi, io da venti corro per raggiungerlo». Con queste parole, nel 2016, Bruno Polifroni ricordava il ventennale del sacrificio del padre, Antonino Polifroni, assassinato dalla ‘ndrangheta il 30 settembre 1996 a Varapodio, nella piana di Gioia Tauro. Aveva 49 anni. La sua colpa? Essersi rifiutato di pagare il pizzo alle ‘ndrine, denunciando alle forze dell’ordine i signori del racket calabrese. Padre di sei figli e imprenditore edile, fu sottoposto – insieme alla famiglia – a un autentico inferno, fatto di intimidazioni e attentati. Prima di essere “giustiziato” a colpi di lupara mentre viaggiava verso uno dei suoi cantieri, fece in tempo a diventare un simbolo della resistenza, in Calabria, al dominio della criminalità organizzata. In esclusiva per “Libreidee”, il poeta Fabio Strinati gli dedica un commosso ricordo, in versi, sottolineando il valore civile e il tratto umano di un italiano speciale, capace di anteporre il coraggio della dignità alla paura delle feroci ritorsioni alle quali si sarebbe esposto. Nel 1992 – quando ancora si sapeva poco, del potere della ‘ndrangheta – la tensione raggiunse il culmine: Nino Polifroni su preso a fucilate, prima alla guida di un camion e poi sulla porta di casa, rimediando gravi ferite. L’imprenditore non si piegò al terrore, fino al tragico epilogo che lo attendeva, quattro anni più tardi.«Ora che è successo – scrive il figlio, Bruno – posso meditare sulla sua storia da una diversa angolatura: prima d’ora, da figlio cercavo di immaginare il suo punto di vista, da persona ormai matura negli anni, e a come si potesse sentire quando era continuamente vessato dalla ‘ndrangheta. Ora che siamo “coetanei”, ho riavuto poche settimane fa il coraggio di rispolverare documenti e registrazioni del 1992: volevo risentire e studiare le sue reazioni nei momenti più bui, quando era giornalmente minacciato insieme ai suoi figli e qualche delinquente tentava di estorcergli denaro». Aggiunge Bruno: «Ho riascoltato le sue parole, il suo fiatone nel tentare di mantenere la calma, la tensione nel non sapere fare altro per combattere quel nemico invisibile». Li avrebbero presi, i maledetti killer: Bruno Polifroni ne era certo. «Caro papà, hai avuto coraggio e determinazione», scrive. «Senza la tua tenacia, oggi, invece di essere tutti qui a ricordarti ci saremmo occupati solo di vivere una normale giornata di settembre. E spesso ci siamo arrabbiati con te, perché più volte siamo caduti nell’errore di pensare che avremmo preferito fosse così. Ma mentre ti raggiungevo nell’età ho capito che nulla succede per caso e ogni storia ha il proprio significato da mostrare: grazie per averci insegnato a vivere e a farlo da persone libere. Se tu non ti fossi sacrificato per noi, oggi saremmo ancora imprigionati e schiavi di quei delinquenti. Grazie, papà».AD ANTONINO POLIFRONIUomini senza cuorehanno chiuso il tuo sguardoposando un delitto scurosopra la tua animaonesta ed integerrima.Uomini strani d’infima naturahanno spento con violenzai tuoi occhi vitaliimmersi di una luce chiaranutriti di memoriadentro una terra caldae assolata di natura…,ma quel ricordo vivo, densodi un coraggio fertilee di tanta premura che nel tuo pettoancora rintocca l’alba del mattino,mi ricorda il tuo esser fieroche di decoro s’è nutritocome materia di perpetua luceil tuo palpito infinito, smisuratocome un fascio di biluce.(Fabio Strinati)Fabio Strinati (Esanatoglia, 1983) è poeta, artista visivo, compositore e fotografo. È presente in diverse riviste e antologie letterarie. Da ricordare “Il Segnale”, rivista letteraria fondata a Milano dal poeta Lelio Scanavini, la rivista Fabio Strinati“Sìlarus” fondata da Italo Rocco, e “Osservatorio Letterario – Ferrara e L’Altrove”. È stato inserito da Margherita Laura Volante nel volume “Ti sogno, Terra”, viaggio alla scoperta di Arte Bellezza Scienza e Civiltà, inserito nei “Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche”. Sue poesie sono state tradotte in romeno e in spagnolo. È inoltre il direttore della collana poesia per “Il Foglio Letterario” e cura una rubrica poetica dal nome “Retroscena”, proprio sulla Rivista trimestrale del “Foglio Letterario”. Pubblicazioni: “Pensieri nello scrigno. Nelle spighe di grano è il ritmo” (2014); “Un’allodola ai bordi del pozzo” (2015); “Dal proprio nido alla vita” (2016); “Al di sopra di un uomo” e “Periodo di transizione” (2017), “Aforismi scelti Vol.2” e “L’esigenza del silenzio” (2018).«E’ logico che prima o poi un figlio raggiunga il padre sotto molti aspetti. Uno di questi è l’età. In quest’anno siamo coetanei. Lui si è fermato per aspettarmi, io da venti corro per raggiungerlo». Con queste parole, nel 2016, Bruno Polifroni ricordava il ventennale del sacrificio del padre, Antonino Polifroni, assassinato dalla ‘ndrangheta il 30 settembre 1996 a Varapodio, nella piana di Gioia Tauro. Aveva 49 anni. La sua colpa? Essersi rifiutato di pagare il pizzo alle ‘ndrine, denunciando alle forze dell’ordine i signori del racket calabrese. Padre di sei figli e imprenditore edile, fu sottoposto – insieme alla famiglia – a un autentico inferno, fatto di intimidazioni e attentati. Prima di essere “giustiziato” a colpi di lupara mentre viaggiava verso uno dei suoi cantieri, fece in tempo a diventare un simbolo della resistenza, in Calabria, al dominio della criminalità organizzata. In esclusiva per “Libreidee”, il poeta Fabio Strinati gli dedica un commosso ricordo, in versi, sottolineando il valore civile e il tratto umano di un italiano speciale, capace di anteporre il coraggio della dignità alla paura delle feroci ritorsioni alle quali si sarebbe esposto. Nel 1992 – quando ancora si sapeva poco, del potere della ‘ndrangheta – la tensione raggiunse il culmine: Nino Polifroni fu preso a fucilate, prima alla guida di un camion e poi sulla porta di casa, rimediando gravi ferite. L’imprenditore non si piegò al terrore, fino al tragico epilogo che lo attendeva, quattro anni più tardi.
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Foa in Rai: che succede quando un eretico sale al potere?
Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.C’è qualcosa di meta-politico, di profondamente eversivo, nella sola idea di aver pensato a un cavaliere solitario e coltissimo come Foa, giornalista di razza e gentiluomo, per la presidenza della televisione di Stato, vera e propria fabbrica del consenso, per decenni affidata il più delle volte a mani servili e mediocri. È antropologicamente eversiva, la figura del liberale Foa al vertice della Rai: è il bambino che non può fare a meno di svelare l’imbarazzante nudità del sovrano, del monarca che si gloria nel celebrare una pace apparente, mentre intorno infuria la peggiore delle guerre. La guerriglia di oggi, nella quale Marcello Foa si trova coinvolto – dopo aver dato la sua avventurosa disponibilità a quell’ipotesi democratica chiamata “governo gialloverde” – non è un conflitto come quelli che l’hanno preceduto: è un sordido massacro quotidiano perpetrato ovunque, senza frontiere, senza più neppure le bandiere di un tempo. È una guerra orwelliana, affidata a mercenari. Navi corsare, che combattono (per lo più in incognito) per conto di padroni potentissimi, protetti dall’anonimato. Non c’è più neppure il triste onore della battaglia: si viene sopraffatti in modo subdolo, sistematicamente sommersi da menzogne spacciate per verità di fede, che il sistema mediatico non si cura più di verificare. Ed è proprio per questo che l’attuale sistema mediatico italiano detesta, e teme, Marcello Foa.Ascoltando solo e sempre un’unica campana, il sistema mainstream ci ha raccontato in questi anni che le poderose, ciclopiche Torri Gemelle di Manhattan sono crollate su se stesse, come se fossero state di cartone anziché di acciaio, solo perché colpite – con una manovra proibitiva persino per i migliori “top gun” – da normalissimi e leggerissimi jet di linea fatti di alluminio, dirottati da apprendisti piloti arabi, di cui tuttora non si sa nulla: non un’immagine, al fatale imbarco, di nessuno dei 19 presunti dirottatori (salvo poi rintracciare i loro passaporti, nientemeno, nell’inferno fumante di Ground Zero). Finge di credere sempre e soltanto alla versione ufficiale, il mainstream media, anche quando dimentica di ricordare che furono gli Usa a incoraggiare Saddam Hussein a invadere il Kuwait, dopo averlo spinto a combattere contro l’Iran. Dà retta unicamente al super-governo universale, il club dei telegiornali, anche quando assicura che Saddam disponeva di micidiali armi di distruzione di massa. E tace, invece, quando l’Onu dimostra che quelle armi erano pura fantasia, come i gas siriani di Assad, le fosse comuni di Gheddafi, le violenze della polizia di Yanukovich in Ucraina. E poi applaude a reti unificate, la consorteria mediatica, quando in Italia appaiono i cosiddetti salvatori della patria – i Monti, i Cottarelli – armati del bisturi che useranno per amputare carne viva, risparmi e pensioni, economia italiana di aziende e famiglie, oscurando il futuro dei giovani.All’epoca in cui Marcello Foa lavorava al “Giornale” di Indro Montanelli, il mondo probabilmente appariva infinitamente più semplice – più chiaro, più visibile nei suoi errori e orrori: la guerra fredda, il Medio Oriente e gli sconquassi africani della decolonizzazione, la strategia della tensione organizzata per gambizzare l’Italia e impedirle di prendere il volo come autonoma potenza euromediterranea fondata sulla forza formidabile dell’economia mista, pubblico-privata. In quella redazione milanese, dove Foa è cresciuto professionalmente, su una parete c’era appesa una carta geografica di Israele che indicava come capitale Gerusalemme, già allora, anziché Tel Aviv. Se Enrico Berlinguer impiegò anni per ammettere che si sentiva più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che tra i carri armati del Patto di Varsavia, Marcello Foa e il suo maestro Montanelli non avevano mai avuto dubbi sul fatto che niente di buono potesse venire, per l’Occidente, da un’oligarchia sedicente comunista che aveva soppresso sul nascere i primi vagiti democratici della Russia, cambiando semplicemente look all’antico dispotismo zarista. L’eroico sacrificio dell’Unione Sovietica, decisivo nell’abbattere il nazifascismo, non poteva cancellare né i Gulag di Stalin né l’esilio di Aleksandr Solženicyn. Era fatto di certezze, il mondo di Foa e Montanelli: la libertà (inclusa quella d’impresa) come fondamento irrinunciabile di qualsiasi comunità civile degna di chiamarsi democratica.Ed è questo che rende Foa insopportabile al potere economico di oggi, dove la libertà d’impresa cede il passo al dominio di immensi oligopoli finanziari globalizzati, privilegiati da legislazioni truccate come quelle dell’Unione Europea ordoliberista. È tanto più sgradevole e insidioso, Foa, perché non proviene – come invece molti anchorman televisivi – dalla contestazione giovanile del capitalismo: credeva, Foa, negli stessi valori professati dall’élite economica di un tempo, orientata pur sempre alla promozione della mobilità sociale, in sostanziale accordo con le forze sindacali dell’allora sinistra. Una dialettica anche aspra, ma vocata in ogni caso al miglioramento complessivo del sistema-paese. E mediata – sempre – dalla politica, letteralmente scomparsa dai radar italiani per 25 lunghissimi anni. Solo oggi, alla distanza, ci si mette le mani tra i capelli nel rivedere il film dell’euforia generale con la quale i cittadini avevano accolto il Trattato di Maastricht e, dieci anni dopo, l’ingresso nell’Eurozona disegnata dalle banche e governata dalla Bce con modalità feudali, imperiali, senza la supervisione di alcun controllo democratico. Succedeva negli anni cui, con la caduta del Muro di Berlino benedetta da Gorbaciov, l’umanità si era illusa che il fantasma della guerra sarebbe stato semplicemente cancellato dalla storia del pianeta.Magari fosse un comune complottista, Marcello Foa: sarebbe più comodo liquidarlo, come velleitario chiacchierone. Chi oggi gli promette guerra, invece, sa benissimo che l’ex caporedattore del “Giornale”, nonché docente universitario, nonché feroce critico del sub-giornalismo odierno, è un vero e proprio disertore. Non era un eretico: lo è diventato negli ultimi anni, disgustato dallo spettacolo al quale è stato costretto ad assistere. Per questo, al di là del reale potere che gli conferisce la carica di presidente Rai, Marcello Foa rappresenta un vero pericolo, per i malintenzionati che oggi gli danno del traditore. Nell’Italia corporativa delle caste, ha osato “sparare” contro la sua – quella dei giornalisti – definendoli “stregoni della notizia”, bugiardi e omertosi spacciatori di “fake news” di regime. E non c’è niente di peggio, per i servi, che l’ex schiavo che si libera delle catene: la sua rivolta personale, intellettuale, suona umiliante per chi si ostina a raccontare che la Terra è piatta, e che è il Sole a orbitarle attorno.Chi l’avrebbe detto? Oggi l’Italia riesce incredibilmente a piazzare una persona autorevole, onesta e competente, alla guida della televisione pubblica. Marcello Foa non è infallibile: ma quando ha sbagliato – anche di recente, prendendo per buona la notizia di presunte istruzioni che il governo tedesco avrebbe impartito alla polizia, per enfatizzare il terrorismo “casereccio” targato Isis – non ha esitato ad ammetterlo, tempestivamente. Quanti, al suo posto, avrebbero avuto lo stesso coraggio? E ora, questo volto pulito del nostro giornalismo è alle prese con una sfida estremamente impegnativa. È davvero impossibile fare molta strada, in politica, se non si è almeno in parte ricattabili, e quindi controllabili, in quanto complici dell’apparato da cui si è stati promossi? Così almeno ebbe a dire un protagonista della vita pubblica italiana come Giuliano Ferrara. Qualcuno – sincero o meno – obietterà che questa regola non vale necessariamente per tutti. Ma è sicuro che, una volta entrati in cabina di regia, le proprie virtù possono trasformarsi in problemi: in un ambiente non esattamente cristallino, le qualità naturali dell’eretico diventano un’enorme seccatura, se non un ostacolo da rimuovere prima che possa mettere in pericolo la sopravvivenza del sistema stesso.Questa è la sfida di Marcello Foa, nella quale è in gioco l’Italia intera: restare fedeli alla propria coscienza significa contribuire a riaccendere la luce sulle notizie. Senza un’informazione trasparente, lo sappiamo, non c’è neppure vera democrazia. Lo sostiene con vigore, Marcello Foa, che resta innanzitutto un uomo leale e garbato – anche quando si permette di dissentire in modo netto sull’operato del presidente della Repubblica: chi oggi lo accusa di aver addirittura insolentito Sergio Mattarella, dopo la bocciatura di Paolo Savona al ministero dell’economia, più che il prestigio del capo dello Stato sembra aver a cuore la disciplina sociale dell’ossequio, da imporre al popolo nei confronti di chiunque rivesta funzioni di potere. Non è questa la democrazia per la quale il giovane liberale Foa tifava, quando polemizzava con quel comunismo da cui provengono moltissimi dei suoi attuali, smemorati detrattori. Non sappiamo come si svilupperà, la sua avventura negli uffici della Rai. Ma sappiamo che – contro ogni previsione – è tornata sotto i riflettori, in Italia, un’antropologia che si credeva estinta. Quella delle persone per bene, a cui il governo in carica affida addirittura la guida della televisione.(Giorgio Cattaneo, “Marcello Foa alla guida della Rai: che succede quando un eretico sale al potere?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 27 settembre 201).Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.
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Il Fenicio: quelli non erano Dei, i sacerdoti ci hanno mentito
L’inganno di cui siamo vittime non è una cosa moderna. Eusebio di Cesarea, padre della Chiesa, vissuto nel III secolo dopo Cristo, ha scritto la sua “Praeparatio Evangelica”. Lui riprende gli studi di Filone di Biblos, il quale a sua volta aveva ripreso gli studi di un certo Sanchuniathon, sacerdote fenicio del 1200 avanti Cristo. Siamo più o meno all’epoca della Guerra di Troia, cioè nel periodo in cui Israele, uscito dall’Egitto, stava conquistando la cosiddetta Terra Promessa, “promessa” da “Dio”. Ovvero: Dio l’onnisciente, l’onnipotente, promette la terra alla sua famiglia (non al popolo, perché non l’ha promessa agli ebrei: l’ha promessa alla famiglia di Giacobbe-Israele, che era una delle centinana di famiglie di ebrei). Sono passati 4.000 anni, dal momento della promessa, e se vogliono quella terra se la devono conquistare e mantenere con i carri armati, i missili, i muri, il filo spinato, le trincee. Quattromila anni: “promessa” di “Dio”. Che cavolo di dio è? Ma chi può pensare, anche solo per un attimo, che quella sia una promessa di Dio? Soltanto una ideologia che è basata sulla falsità. Attenzione: questo non vuol dire “antisemitismo”, vuol dire “anti-sionismo”, che sono due cose diverse (sono moltissimi gli ebrei anti-sionisti).Ma torniamo a Eusebio di Cesarea. Allora, Filone di Biblo, a cavallo tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo, riprende gli studi questo Sanchuniathon, e sentite che cosa dice: «Nel corso dell’opera, Sanchunathon riconosce che le “divinità” non sono degli dèi celesti, bensì dei semplici mortali, maschi e femmine; non di costumi talmente incorrotti da dover essere accolti per la loro virtù o imitati per la loro saggezza, ma ricolmi di malvagità e di perversioni di ogni genere». Questa è una bella descrizione dello Yahvè biblico, per esempio. Ma poi, dice Eusebio di Cesarea: dopo avere fatto queste osservazioni, egli (Sanchuniathon) critica aspramente «gli scrittori vissuti nelle epoche successive a quando quei fatti avvenivano», per il fatto che – ascoltate bene – «in modo falso e arbitrario hanno interpretato in maniera allegorica, e fondandosi su spiegazioni e teorie fisiche, e perciò snaturandoli, i racconti riguardanti gli dèi». E aggiunge: «Ma i più recenti scrittori che si sono occupati di storia sacra hanno ripudiato i fatti avvenuti in principio. E dopo aver inventato allegorie e miti, che combinarono in modo tale da ricondurli a fenomeni cosmici, istituirono dei misteri e li avvolsero in una oscurità così densa che non era possibile vedere facilmente i fatti realmente avvenuti».Cioè, Filone di Biblo, tra primo e secondo secolo dopo Cristo, diceva che nel 1200 avanti Cristo c’era già chi aveva denunciato l’inganno, perpetrato dalle classi sacerdotali: che hanno preso dei racconti reali e li hanno trasformati in allegorie e miti – che è quello che ancora oggi continuano a volerci far credere. E ci sono appunto quelli che, ancora oggi, a sostegno di questo, ci raccontano: “No, ma questi sono miti, queste sono allegorie”. E non è mica finita: Filone scrive che Sanchunathon, «imbattutosi in certi libri» (che sono quelli, è scritto prima, di Toth), che erano stati fino ad allora «nascosti nei penetrali del tempio di Amon», si dedicò loro studio «per comprendere tutte quelle cose che non a tutti era dato conoscere». Alla fine, Sanchunathon «riuscì a realizzare il suo progetto e tolse di mezzo i miti e le allegorie in cui erano stati avvolti i tempi primitivi». In seguito, aggiunge Filone, «i sacerdoti che vissero dopo di lui vollero nascondere nuovamente la verità e ritornare al mito». Ed è quello che si sta facendo da millenni, continuamente. Quando c’è qualcuno che dice: “Guardate che forse quei racconti lì sono delle cronache vere, c’è sempre chi interviene e fa in modo di coprirli, trasformandoli in allegorie e miti, perché le cronache vere non si devono conoscere. Ci sono sempre quelli che continuano a “coprire”, perché non si conosca la reale concretezza di ciò che veniva detto all’inizio.In seguito – aggiunge sempre Eusebio, citando Filone – i sacerdoti che vissero dopo Sanchuniathon «vollero nascondere nuovamente la verità e ritornare al mito: da allora ebbero origine i Misteri, che ancora non erano stati introdotti» (e qui sta parlando dei culti misterici greci, eccetera). Poi aggiunge: «Traendo spunto da queste narrazioni, Esiodo e gli altri poeti composero le loro teogonie, gigantomachie e titanomachie, eccetera; portando in giro in ogni luogo queste narrazioni, riuscirono a soffocare la verità». Sembra che parli di noi: «I nostri orecchi, abituati fin dall’infanzia alle loro invenzioni e martellati ormai da tanti secoli da queste fantasie, custodiscono quasi come un deposito la materia favolosa trasmessa da queste favole, che essi hanno appreso così come ho già detto all’inizio». Ancora: «Rafforzate dal tempo, queste invenzioni fantastiche sono diventate un patrimonio di cui assai difficilmente ci si può disfare, tanto che la verità sembra una fantasticheria, mentre i racconti contraffatti sembrano avere tutti i caratteri della verità».Non è stupendo? E’ quello che viviamo noi, tutti i santi giorni. E’ stato scritto nel III secolo dopo Cristo sulla base di un testo del I-II secolo dopo Cristo, che a sua volta riprende un testo del 1200 avanti Cristo. Sembra scritto per noi: le fantasticherie hanno preso il posto della verità. E quando c’è qualcuno che vuole farla emergere, la verità, bisogna “segarlo”: la verità non deve essere conosciuta, perché la verità è quella che farebbe cadere i sistemi di potere. Perché la verità è molto semplice: ed è talmente semplice da essere immensamente più affascinante delle favole che ci hanno ricamato sopra. Uno studioso contemporaneo, il filologo Giovanni Semerano – molto importante ma scomodo, e quindi un po’ ostracizzato – citando sempre Eusebio di Cesarea, dice: «Abbiamo notizia dell’albero genealogico degli dèi. Primo fra tutti sarebbe stato Elyòn», che è quello citato nella Bibbia, «da cui sarebbe nato Baal Shemìn. Da Baal nasce El, che nel secondo millennio sarebbe divenuto il capo del Pantheon fenicio. Ai suoi figli, tra i quali Yahvè, El affida la cura di un popolo». E’ esattamente ciò che ci racconta la Bibbia, nel Deuteronomio. Cioè: ce lo raccontano tutti. Non dobbiamo far altro che fare finta che sia vero, ben sapendo che gli autori biblici non avevano certo tempo da perdere: perché avrebbero dovuto inventare fiabe? E se facciamo finta che sia vero, capiamo tutto. Ma è proprio questo che non deve avvenire.(Mauro Biglino, estratto della conferenza tenuta a Reggio Emilia il 30 giugno 2018, ripresa su YouTube. Già traduttore della Bibbia per le Edizioni San Paolo, Biglino ha reso popolare la traduzione letterale dell’Antico Testamento firmando saggi divulagativi di grande successo, pubblicati da UnoEditori e da Mondadori, nei quali presenta Yahvè e i suoi “colleghi” Elohim non come dèi, ma come misteriosi e potenti dominatori, improvvisamente giunti sulla Terra. Biglino rivela che nella Bibbia – presa alla lettera, nell’ebraico antico rimaneggiato dai Masoreti fino all’epoca di Carlomagno – non esiste traccia di alcun dio: non c’è metafisica né spiritualità. Non esistono neppure i concetti di creazione, eternità, onnipotenza. Gli “dèi” della Bibbia – tanti, corporei e non certo immortali – sarebbero la fotocopia dei futuri “theòi” greci, degli “dèi” romani e di tutte le “divinità” delle civiltà precedenti, a partire da quella sumera. Singolare la denuncia formulata, in questo senso, dall’antico sacerdote fenicio Sanchunathon già nel 1200 avanti Cristo, poi ripresa dallo storico greco Filone Erennio di Biblos e quindi da un autorevole “padre della Chiesa” come, appunto, Eusebio di Cesarea).L’inganno di cui siamo vittime non è una cosa moderna. Eusebio di Cesarea, padre della Chiesa, vissuto nel III secolo dopo Cristo, ha scritto la sua “Praeparatio Evangelica”. Lui riprende gli studi di Filone di Biblos, il quale a sua volta aveva ripreso gli studi di un certo Sanchuniathon, sacerdote fenicio del 1200 avanti Cristo. Siamo più o meno all’epoca della Guerra di Troia, cioè nel periodo in cui Israele, uscito dall’Egitto, stava conquistando la cosiddetta Terra Promessa, “promessa” da “Dio”. Ovvero: Dio l’onnisciente, l’onnipotente, promette la terra alla sua famiglia (non al popolo, perché non l’ha promessa agli ebrei: l’ha promessa alla famiglia di Giacobbe-Israele, che era una delle centinana di famiglie di ebrei). Sono passati 4.000 anni, dal momento della promessa, e se vogliono quella terra se la devono conquistare e mantenere con i carri armati, i missili, i muri, il filo spinato, le trincee. Quattromila anni: “promessa” di “Dio”. Che cavolo di dio è? Ma chi può pensare, anche solo per un attimo, che quella sia una promessa di Dio? Soltanto una ideologia che è basata sulla falsità. Attenzione: questo non vuol dire “antisemitismo”, vuol dire “anti-sionismo”, che sono due cose diverse (sono moltissimi gli ebrei anti-sionisti).
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Corbyn: web di Stato, libero e trasparente, per i cittadini
Parliamoci chiaro: uno dei grandi problemi dei nostri tempi è che la politica e il diritto non riescono a stare al passo con i progressi tecnologici, specialmente a partire dall’avvento dell’era di Internet. È accaduto infatti che, mentre alcune grandi aziende informatiche si affermavano e diventavano rapidamente monopoli, i nostri parlamenti sono rimasti perlopiù inermi, sia perché vittime dell’illusione che rappresenta Internet come il regno delle libertà, il massimo terreno di realizzazione della democrazia, sia per semplice inadeguatezza e mancanza di preparazione in materia. Si è dovuta attendere la totale scomparsa della privacy, prima di porsi il problema di come tutelarla. Si son dovuti perdere miliardi di euro in tasse, a fronte degli enormi fatturati di Google, Facebook e Amazon, prima di iniziare a discutere sulla possibilità di una “tassa del web”, da rimandare però in sede europea. I ceti politici invece inizialmente non hanno compreso le potenzialità offerte dai social network, perdendo bruscamente e a causa di ciò i loro consensi in favore di quelle nuove forze che invece ne hanno intuito i vantaggi in termini di propaganda, per poi farne, tutti insieme, un uso sistematico e spregiudicato, riducendo di fatto il loro rapporto con i cittadini ad una manciata di caratteri su Twitter (basti pensare che, a dispetto di una lunga tradizione che vedeva i candidati alla presidenza americani fare il proprio annuncio in discorsi tenuti nelle università, Hillary Clinton palesò le proprie intenzioni su Twitter).Quanto al funesto impatto che un sistema così articolato di collezione dei dati personali avrebbe avuto sulla salute nostre democrazie, nessuno se ne è occupato, salvo poi indignarsi in coro di fronte non ad una questione di etica pubblica o di tutela dei cittadini, ma all’effetto che i social network hanno direttamente o indirettamente avuto: l’elezione di Donald Trump. Ma qui non si vuole discutere su come le nuove reti sociali abbiano esacerbato dei problemi più o meno latenti della civiltà occidentale, favorendo l’ascesa di nuove élite reazionarie. Si vuole piuttosto introdurre nel dibattito pubblico, dopo il totale silenzio dei media, dei partiti e in generale dei principali mezzi di informazione e formazione dell’opinione pubblica nella nostra penisola, un nuovo modo di affrontare quella che è una delle questioni più importanti del nuovo millennio. Di fronte a un tale quadro desolante infatti, una risposta sembra provenire dalla Gran Bretagna. Jeremy Corbyn, il leader del Partito Laburista, già noto per le sue proposte di nazionalizzazione dei servizi pubblici principali, in alcune sue dichiarazioni ha avanzato una strategia per far fronte alla realtà che si è solidamente affermata con Internet.E il fatto che una simile novità provenga da lui è un’indicazione circa la lucidità e lo stato di salute dei laburisti inglesi, attualmente una delle poche forze politiche di sinistra, in Europa, che potrebbero affermarsi alla guida di un paese. Partendo dal presupposto che il Regno Unito non deve sedersi e restare guardare come poche mega aziende risucchiano diritti digitali, asset e, in definitiva, i nostri soldi, Corbyn ha proposto di affiancare, alla già esistente “Bbc” (British Broadcasting Corporation), una “Bdc” (British Digital Corporation). Tale ente, rigorosamente pubblico, sarà una sorta di grande archivio culturale, centralizzato, per offrire alla popolazione un punto di accesso per le conoscenze, le informazioni e i contenuti attualmente conservati negli archivi della “Bbc”, nella British Library e nel British Museum. Un’istituzione pubblica per definizione non persegue le finalità di un’organizzazione privata. Piattaforme come Google e Facebook erogano sì gratuitamente i loro servizi agli utenti, ma lo fanno solo dopo che questi ultimi hanno acconsentito – e questa è una condizione necessaria e impossibile da contrattare – al trattamento dei loro dati personali per fini quantomeno commerciali.Nell’idea di Corbyn, esclusa la logica del profitto, occorrerebbe sfruttare i big data a fin di bene. Sì, ma come? In due modi, entrambi rivoluzionari. In primo luogo una “Bdc” potrebbe sviluppare nuove tecnologie, e utilizzare le informazioni di cui entra in possesso, per la creazione dei programmi in base all’orientamento del pubblico e perfino un social network pubblico, che garantisca la privacy degli utenti e abbia il controllo su quei dati che rendono Facebook e altri così ricchi. Il tema della nazionalizzazione di Facebook diventa sempre più incalzante, dal momento che la conoscenza così accurata di una popolazione può servire a fini tutt’altro che trasparenti: al controllo sociale, per condizionamenti di massa, a bombardamenti mediatici mirati o ad instillare l’odio, inquietudini morali e paure striscianti in grado di modificare i comportamenti, le abitudini, il modo di pensare – o di votare – dei più. Non vogliamo essere apocalittici o tendere necessariamente a scenari di orwelliana memoria, ma occorre stare all’erta: si tratta di cose già successe e che, verosimilmente, senza le opportune contromisure, riaccadranno.In seconda misura un ente pubblico digitale potrebbe aprire nuovi spazi per la democrazia diretta, a partire dalla creazione di nuove modalità di coinvolgimento, supervisione e controllo delle leve chiave della nostra economia da parte della popolazione. Tutto ciò si inquadra, nell’ottica di Corbyn, in un più ampio piano di gestione della cosa pubblica. La “Bdc” lavorerà in stretta sinergia con altre istituzioni che il prossimo governo laburista istituirà, come la National Investment Bank, il National Transformation Fund, lo Strategic Investment Board, la Regional Development Banks, fornendo così un collegamento base tra di esse ai fini di una maggiore trasparenza e democrazia. La nuova istituzione è anche un tassello chiave per il rilancio attivo del ruolo dello Stato che, su un piano di servizi e commerciale, potrebbe arrivare ad essere concorrenziale con l’estero e con i privati. Essa infatti potrebbe utilizzare tutte le nostre migliori menti, le tecnologie più recenti e le risorse pubbliche disponibili non solo per fornire informazioni e intrattenimento come quelli di Netflix e Amazon, con la possibilità di competere e vendere bene anche Oltreoceano.Le proposte del leader dei Labour, seppur ancora vaghe e poco articolate, sembrano già molto interessanti. L’articolo apparso sul Guardian[2] non ha però praticamente trovato alcuna risonanza in Italia.[3] Si spera che le forze comuniste e della sinistra popolare presenti nella penisola rispondano alle idee proveniente da Oltremanica elaborandone di nuove e più definite, studiando per esempio un sistema di controlli e garanzie per fare in modo che l’enorme mole di dati personali, non più in mani private, non finisca per essere a disposizione dei governi per spiare e monitorare i comportamenti della propria popolazione. Ovviamente questa è solo una delle tante possibilità. Compito nostro è quello di accogliere il contributo iniziale di Corbyn e formulare una proposta politica adatta a contribuire al dibattito e ad arricchirlo.(Massimiliano Romanello, “Buone notizie da Oltremanica”, dal blog della Fcgi del 2 settembre 2018).Parliamoci chiaro: uno dei grandi problemi dei nostri tempi è che la politica e il diritto non riescono a stare al passo con i progressi tecnologici, specialmente a partire dall’avvento dell’era di Internet. È accaduto infatti che, mentre alcune grandi aziende informatiche si affermavano e diventavano rapidamente monopoli, i nostri parlamenti sono rimasti perlopiù inermi, sia perché vittime dell’illusione che rappresenta Internet come il regno delle libertà, il massimo terreno di realizzazione della democrazia, sia per semplice inadeguatezza e mancanza di preparazione in materia. Si è dovuta attendere la totale scomparsa della privacy, prima di porsi il problema di come tutelarla. Si son dovuti perdere miliardi di euro in tasse, a fronte degli enormi fatturati di Google, Facebook e Amazon, prima di iniziare a discutere sulla possibilità di una “tassa del web”, da rimandare però in sede europea. I ceti politici invece inizialmente non hanno compreso le potenzialità offerte dai social network, perdendo bruscamente e a causa di ciò i loro consensi in favore di quelle nuove forze che invece ne hanno intuito i vantaggi in termini di propaganda, per poi farne, tutti insieme, un uso sistematico e spregiudicato, riducendo di fatto il loro rapporto con i cittadini ad una manciata di caratteri su Twitter (basti pensare che, a dispetto di una lunga tradizione che vedeva i candidati alla presidenza americani fare il proprio annuncio in discorsi tenuti nelle università, Hillary Clinton palesò le proprie intenzioni su Twitter).
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Non temete i sovranisti, in quest’Europa fondata sulla paura
Anche in Svezia l’onda sovranista cresce, ma non abbastanza da rovesciare gli assetti di governo. Si ripete lo schema Le Pen, col Front National primo nei consensi ma non in grado di essere maggioranza né in grado di trovare alleati. E a quel punto scatta la coalizione antisovranista, tutti contro uno, e nascono governi stentati su fragili alleanze (come in Germania o in Spagna), con presidenti indesiderati dai due terzi della popolazione (Francia) o coalizioni spurie come da noi. O nascono perfino due, tre partiti “nazionali” che si cannibalizzano a vicenda (caso inglese coi conservatori biforcati più l’Ukip). Il vero problema è che siamo nel mezzo del guado, e dunque la situazione rischia la paralisi tra il non ancora e il non più. Perché poi i governi europeisti tra moderati e progressisti uniscono due debolezze e due declini, trascinano i paesi in coalizioni politiche di mera sopravvivenza, dentro sistemi fatiscenti, subordinati ai potentati economici, lontani dal popolo, dentro un’Europa ridotta a unione monetaria nel nome degli apparati di comando. Ma torniamo alla rappresentazione e alla percezione che ne ha la gente, ne danno i media, ne dà il potere.L’Europa di oggi è fondata sulla paura. Paura dello straniero per taluni, paura dei nazionalisti per talatri. Xenofobia e nazionefobia sono le due categorie politiche dominanti, le twin towers dell’Europa. Ma con la paura non si compiono scelte assennate. Fino a ieri nominavi la Svezia, l’Olanda, i paesi scandinavi e i paesi bassi, e spuntavano le immagini del socialismo democratico, della società aperta, permissiva, globale e spregiudicata, della droga libera, dell’eutanasia, delle coppie omosessuali esibite e parificate alle famiglie. Adesso nomini quei paesi e senti dire xenofobia, razzismo, nazionalismo. Fino a oggi appena nomini l’estrema destra ti viene fuori la solita genealogia: l’Austria reazionaria, asburgica e patria di Hitler, la Germania del Terzo Reich, la Francia di Vichy. Più l’aggravante cattolico-tradizionalista. E ora come la mettiamo che pure la permissiva, la protestante, la mai fascista Svezia, si rivolge a quella destra, dopo la Norvegia, l’Olanda e altri paesi nordeuropei?E come la mettiamo con paesi che hanno subito il nazismo e soprattutto il comunismo e ora si votano al sovranismo, come l’Ungheria, la Polonia, i cechi e gli slovacchi, cioè i paesi di Visegrad? Lasciamo stare i demoni fuori dalla porta, e lasciamo stare le paure. Ragioniamo con realismo. Sgomberiamo subito il campo da un’ossessione. L’antisemitismo e il razzismo non c’entrano con questa ondata populista, sovranista e nazionalista. Se conati antiebraici affiorano in Europa sono legati alla presenza islamica o alla questione palestinese; il resto è marginale periferia, patetico folclore, fuori dalla politica. C’è un tasso preoccupante di xenofobia in Europa? Ma non bisogna ridurla a patologia. Anche perché è paura, non odio razziale; è preoccupazione, non disprezzo etnico. C’è paura, umanissima e giustificatissima paura per l’ignoto e per l’estraneo, per la difficile convivenza, per il disagio sociale, per la criminalità legata a tutti questi fattori di instabilità. Quando la paura colpisce in modo così massiccio popoli maturi e civili non si può gridare al demonio, bisogna porsi il problema e affrontarlo fuori dai codici ideologici.La xenofobia attraversa oggi ceti sociali diversi, a cominciare dai più deboli e dai più popolari, e colpisce a destra come a sinistra. Vedete i travasi di voti in tutta Europa, compreso da noi, dalla sinistra al populismo, per rendervene conto. Allora rispetto allo straniero si devono portare a rigore due posizioni divergenti ma entrambi giustificate e rispettabili: quella di chi dice accoglienza punto e basta, viva la società multiculturale; e quella di chi dice accoglienza limitata e condizionata, e tutela prioritaria della comunità locale e nazionale e dei suoi confini. Sono due posizioni nettamente opposte, entrambi comprensibili e legittime se condotte con realismo e senza fanatismo. Se si accolgono nell’agone politico della democrazia entrambe le posizioni si spuntano le armi agli estremismi, ai fondamentalismi, alle violenze. Perché i fanatici stanno da entrambi le parti, e bisogna costringere entrambe a fare i conti con la realtà. I sovranisti crescono perché non hanno cittadinanza nella democrazia; e usano linguaggi duri e netti perché non sono ammessi nel gioco democratico.Finora la loro risorsa è proprio l’essere fuori, outsider, estranei e dunque critici radicali del sistema, a cominciare dal gergo usato. Non resta che scommettere a immetterla nel gioco, a pieno titolo, senza dichiararla criminale e illegale appena cresce (caso italiano docet): è una scelta che comporta rischi e incognite, ma complessivamente minori della scelta opposta, di escluderla e lasciarla inselvatichire, creando abissi tra popoli e istituzioni. Sarebbe un rischio anche per loro, perché si giocherebbero il loro ruolo di antagonisti anti-sistema. Larga parte di questi movimenti sovranisti non sono contro l’Europa ma contro l’Eurocrazia, ovvero contro le oligarchie finanziarie, tecnocratiche o ideologiche che decidono i destini dell’Europa a prescindere dai popoli e dalla loro realtà concreta. Sono movimenti fondati sull’importanza decisiva del confine e sulla priorità delle popolazioni autoctone e degli Stati nazionali rispetto al mondo esterno.Uscendo dal demagogico populismo antisistema, queste forze sarebbero costrette a rendere ragionevole, realista e compatibile la loro posizione: e questo si può convertire in un rafforzamento della base democratica e popolare dell’Europa al suo interno e di una maggiore incisività strategica e politica all’esterno. Anzi, queste spinte, opportunamente metabolizzate, possono alimentare un patriottismo europeo, o un patriottismo dei cerchi concentrici, che va dalla piccola patria alla nazione fino alla patria europea. Questi movimenti invocano, seppure a volte con rozzezza e demagogia, il ritorno della politica e delle passioni comunitarie, il ritorno ai popoli e alle loro sovranità, la salvaguardia della civiltà e della continuità con la storia. Non mi sembra una cosa terribile, o negativa.Dicono che queste forze rappresentino una minaccia per la democrazia e per la libertà. Ma oggi la democrazia come sovranità popolare è minacciata più da chi vuole invalidare i verdetti elettorali piuttosto che da chi vuole rispettarli. Quanto alla libertà vorrei ricordare che molti di questi partiti sovranisti sono di estrazione liberale, si presentano come partiti democratici del progresso, dell’Occidente, della modernità contro le invasioni islamiche, l’africanizzazione dei popoli. Il leader della destra olandese, l’omosessuale Pim Fortuyn, aveva scritto un saggio, “L’influenza islamica sulla nostra cultura”, in cui sosteneva l’incompatibilità tra l’Islam e la civiltà liberale d’Occidente. Posizione alla Oriana Fallaci, per intenderci. Fortuyn non si appellava alla difesa della tradizione europea o peggio al razzismo, ma al fatto che l’islamismo mette in pericolo la modernità liberale e democratica, la tolleranza e i costumi europei.Si può concordare o no con questa tesi (a me per esempio non piace), ma si deve riconoscere che si tratta di una posizione ultramoderna, liberale, occidentalista e perfino progressista. Che trova oggi molti seguaci nel nord Europa. Tesi non dissimili affiorano in difesa di Israele, rispetto al mondo arabo che lo circonda. Insomma, smettiamola di ingabbiare la mente e sprigionare le paure; proviamo a fare il contrario. Il futuro riserva sorprese e non è detto che siano amare. E tra le sorprese, la meno probabile mi sembra il ritorno al nazismo, al razzismo, al fascismo, e archeologia varia. Esortate ogni giorno a non innalzare muri; provate anche voi a non erigere muri dentro casa, contro l’onda sovranista.(Marcello Veneziani, “Non abboate paura dei sovranisti”, dal “Tempo” dell’11 settembre 2018, articolo ripreso sul blog di Veneziani).Anche in Svezia l’onda sovranista cresce, ma non abbastanza da rovesciare gli assetti di governo. Si ripete lo schema Le Pen, col Front National primo nei consensi ma non in grado di essere maggioranza né in grado di trovare alleati. E a quel punto scatta la coalizione antisovranista, tutti contro uno, e nascono governi stentati su fragili alleanze (come in Germania o in Spagna), con presidenti indesiderati dai due terzi della popolazione (Francia) o coalizioni spurie come da noi. O nascono perfino due, tre partiti “nazionali” che si cannibalizzano a vicenda (caso inglese coi conservatori biforcati più l’Ukip). Il vero problema è che siamo nel mezzo del guado, e dunque la situazione rischia la paralisi tra il non ancora e il non più. Perché poi i governi europeisti tra moderati e progressisti uniscono due debolezze e due declini, trascinano i paesi in coalizioni politiche di mera sopravvivenza, dentro sistemi fatiscenti, subordinati ai potentati economici, lontani dal popolo, dentro un’Europa ridotta a unione monetaria nel nome degli apparati di comando. Ma torniamo alla rappresentazione e alla percezione che ne ha la gente, ne danno i media, ne dà il potere.
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Strinati: una poesia per Mauro De Mauro, ucciso 48 anni fa
«Mauro De Mauro rappresenta quel modello di uomo a cui ho sempre aspirato nella vita:curioso, caparbio, onesto, giusto e anche molto preciso nel suo sguardo magnetico eperfetto. Aveva quella straordinaria capacità di andare oltre una parola o meglio, sapevafare l’uomo e sapeva interpretare il ruolo serio del giornalista, passando prima attraversol’uomo». Così il poeta Fabio Strinati introduce la poesia inedita “A Mauro De Mauro”, offerta al blog “Libreidee” per la sua pubblicazione nel quarantottesimo anniversario della scomparsa del grande giornalista siciliano, rapito da Cosa Nostra il 16 settembre 1970. Secondo il pentito Rosario Naimo, “l’ater ego di Riina in America”, interrogato nel 2011 dai magistrati palermitani Sergio Demontis e Antonio Ingroia, il cronista de “L’Ora” – prelevato sotto casa, testimone la figlia – fu portato a Fondo Patti, dietro al motovelodromo di Palermo, in una tenuta dove il boss Francesco Madonia aveva un allevamento di polli. Secondo Naimo fu ucciso subito, sul posto, e gettato in un pozzo. Sempre secondo il pentito, alcuni anni più tardi il pozzo fu “ripulito”, su disposizione dello stesso Madonia. Il corpo del giornalista, fratello del linguista e futuro ministro Tullio De Mauro, non è mai stato ritrovato. Probabile movente dell’omicidio: la fine di Enrico Mattei.Ottimo cronista, nel 1962 Mauro De Mauro aveva seguito la morte del presidente dell’Eni. E nel settembre del 1970 si stava nuovamente occupando del caso, in seguito all’incarico ricevuto dal regista Francesco Rosi per il suo film “Il caso Mattei”, che sarebbe uscito due anni dopo. A investigare sulla scomparsa di Mauro furono per i carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa e per la polizia Boris Giuliano, entrambi a loro volta assassinati dalla mafia. Su “L’Ora” di Parlermo, De Mauro aveva pubblicato già nel 1962 un verbale di polizia risalente al 1937, in cui un medico siciliano – Melchiorre Allegra, affiliato a Cosa Nostra e poi dissociatosi dalla criminalità, elencava tutta la struttura del vertice malavitoso: gli aderenti, le regole, l’affiliazione, l’organigramma delle cosche. Davanti a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, quindici anni dopo la morte del giornalista, il super-pentito Tommaso Buscetta dichiarò che «De Mauro era un cadavere che camminava», e che «avrebbe pagato, per quello scoop». La sentenza di morte fu eseguita otto anni dopo, quando Di Mauro stava per tornare sull’affare Mattei: il caso politico più scottante dell’Italia del dopoguerra, con l’uccisione del leader dell’Eni, protagonista della rinascita economica italiana grazie al petrolio, in aperta sfida al potere internazionale delle Sette Sorelle. Ed ecco il testo poetico che Strinati dedica al coraggioso, indimenticato De Mauro:A MAURO DE MAUROHanno spento il tuo cuoreinnamorato della vitae sepolto il tuo corposotto una montagna di terraconcimata coi fiori della morte.Hanno trafugato la tua animapiena di una luce chiara,frugato nel tuo sguardo vispocapace di esplorar le cosee di osservare oltre il buio lividodella notte.Ti hanno rapito il tempo,costretto allo strazioatroce di una sorte ingiustatogliendoti il respirodentro una colonna d’aria.(Fabio Strinati)Strinati (Esanatoglia, 1983 ) è poeta, artista visivo, compositore e fotografo. È presente in diverse riviste e antologie letterarie. Da ricordare “Il Segnale”, rivista letteraria fondata a Milano dal poeta Lelio Scanavini, la rivista “Sìlarus” fondata da Italo Rocco, e “Osservatorio Letterario – Ferrara e L’Altrove”. È stato inserito da Margherita Laura Volante nel volume “Ti sogno, Terra”, viaggio alla scoperta di Arte Bellezza Scienza e Civiltà, inserito nei “Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche”. Sue poesie sono state tradotte in romeno e in spagnolo. È inoltre il direttore della collana poesia per “Il Foglio Letterario” e cura una rubrica poetica dal nome “Retroscena”, proprio sulla Rivista trimestrale del “Foglio Letterario”. Pubblicazioni: “Pensieri nello scrigno. Nelle spighe di grano è il ritmo” (2014); “Un’allodola ai bordi del pozzo” (2015); “Dal proprio nido alla vita” (2016); “Al di sopra di un uomo” e “Periodo di transizione” (2017), “Aforismi scelti Vol.2” e “L’esigenza del silenzio” (2018).«Mauro De Mauro rappresenta quel modello di uomo a cui ho sempre aspirato nella vita: curioso, caparbio, onesto, giusto e anche molto preciso nel suo sguardo magnetico e perfetto. Aveva quella straordinaria capacità di andare oltre una parola o meglio, sapeva fare l’uomo e sapeva interpretare il ruolo serio del giornalista, passando prima attraverso l’uomo». Così il poeta Fabio Strinati introduce la poesia inedita “A Mauro De Mauro”, offerta al blog Libreidee per la sua pubblicazione nel quarantottesimo anniversario della scomparsa del grande giornalista foggiano, trapiantato in Sicilia e rapito da Cosa Nostra il 16 settembre 1970. Secondo il pentito Rosario Naimo, “l’ater ego di Riina in America”, interrogato nel 2011 dai magistrati palermitani Sergio Demontis e Antonio Ingroia, il cronista de “L’Ora” – prelevato sotto casa, testimone la figlia – fu portato a Fondo Patti, dietro al motovelodromo di Palermo, in una tenuta dove il boss Francesco Madonia aveva un allevamento di polli. Racconta Naimo che il reporter fu ucciso subito, sul posto, e gettato in un pozzo. Sempre secondo il pentito, alcuni anni più tardi il pozzo fu “ripulito”, su disposizione dello stesso Madonia. Il corpo del giornalista, fratello del linguista e futuro ministro Tullio De Mauro, non è mai stato ritrovato. Probabile movente dell’omicidio: la fine di Enrico Mattei.
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Ceronetti, quel genio italiano troppo scomodo per gli italiani
I cosiddetti “grandi italiani”, ebbe a dire l’autore televisivo Diego Cugia, sono personaggi che normalmente gli italiani neppure conoscono: la maggior parte della popolazione non sa neppure chi siano, che faccia abbiano, per quale ragione debbano essere ricordati. Per molti, i “grandi italiani” diventano tali, all’improvviso, solo quando muoiono: come nel caso dell’immenso letterato Guido Ceronetti, spentosi il 13 settembre all’età di 91 anni. Sul “Corriere della Sera”, Paolo Di Stefano lo rievoca con le parole di Ernesto Ferrero, tratte da “I migliori anni della nostra vita”, dove si vede l’allora quarantenne Ceronetti aggirarsi nei corridoi dell’Einaudi: «Avvolto in impermeabili sdruciti, in baschi da cui spuntavano capelli spiritati che ricordavano quelli di Artaud. Magro, anzi secco, con un naso alla Voltaire che spioveva su una bocca piegata all’ingiù, da cui uscivano riflessioni sapienziali, aforismi, profezie apocalittiche». Per ottenere il ritratto di Ceronetti, scrive Di Stefano, basta aggiungere «la erre arrotata, l’autoironia, lo strascicato accento piemontese, la voce sottile, quasi femminea. E le ossessioni vegetariane: invitato al ristorante, anche nel migliore, immancabilmente tirava fuori dalla cartella il suo olio e le sue tisane, mangiava semi di chissà che, grani di miglio».