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Blondet: tranquilli, la Lombardia non farà alcuna secessione
Il secessionismo catalano apre la stagione degli altri indipendentismi? Aspettiamoci sorprese dai baschi, dagli scozzesi, dalle componenti etniche dell’Ucraina. E il famigerato Nord-Est italiano? Fra i motivi dell’indipendentismo dei catalani – bottegai – c’è quello dei residui passivi: la regione ricca è stufa di pagare 8 miliardi l’anno agli altri spagnoli. E la Lombardia? Dà ogni anno all’Italia 54 miliardi di euro; che finiscono tutti nell’alimentare il cialtronismo parassitario e la criminalità organizzata del Meridione, all’autonomia siciliana, a Roma capitale del disastro, senza alcun vantaggio per i cittadini meridionali. Puro spreco, e colossale: ogni famiglia lombarda di 4 persone si vede privata ogni anno di 23.000 euro (il costo di un’auto) che potrebbero essere impiegati molto più produttivamente al Nord, in investimenti e infrastrutture moderne, in corsi d’eccellenza per i figli, in università piene di Premi Nobel esteri chiamati dagli alti stipendi, in rifacimenti urbanistici radicali, necessari ad una città che da industriale e siderurgica, è diventa la capitale globale della moda… E non è solo la Lombardia. In Emilia, una famiglia di 4 persone viene privata annualmente di 14.000 eiro. Una famiglia veneta, di oltre 12.000: una emorragia che finisce nelle tasche del Sud criminale, non di quello onesto.La Lombardia si metterà alla testa di questa istanza di giustizia del Nord-Est? E’ stato pur indetto un referendum sull’autonomia, si celebrerà il 22 ottobre. Tremate, parassiti! Anzi no, contrordine. State pur tranquilli, parassiti. La Lombardia non ha alcuna ambizione politica. Non ha mai avuto la minima volontà di “comandare”, né Milano di essere “capitale”. Si è sempre messa volentieri sotto il dominio straniero, senza mai la minima ribellione: spagnoli, austriaci, i francesi di Napoleone, oggi la cosiddetta “Europa” stupida e oppressiva, sono sempre stati padroni benvenuti, perché sollevavano i milanesi dal peso di governare. L’unica volta che hanno avuto impulsi “politici”, nel cosiddetto Risorgimento, è stata una moda della sua classe ricca, “patriottica”, anti-absburgica; ma anche lì, solo il tempo di consegnarsi ai piemontesi, questi avidi e arretrati militaristi da quattro soldi, e dare loro le chiavi (e le casse) della città e della regione più ricca d’Italia. La Lombardia è, più che qualunque altro pezzo di terra italiota, una espressione geografica.La sola volta in cui fu capitale, fu nel 286 dopo Cristo, per scelta non propria, ma di Diocleziano: capitale dell’Impero d’Occidente, nientemeno. In quanto capitale, l’impero la ornò di una urbanistica grandiosa, monumentale, bellissima: la Porta Romana entrava in città dopo un percorso di 4 chilometri di porticato ai due lati; c’erano un circo, uno stadio, grandi basiliche, grandi e straordinarie terme. I portici monumentali di Porta Romana a Milano: possiamo solo immaginarli. Non è rimasto nulla di questa grandiosa bellezza. Praticamente, solo le colonne di San Lorenzo e della basilica di Costantino, sacrilegamente attraversata fino a ieri dai tram. Furono i milanesi stessi, ciechi e sordi al richiamo dell’ambizione che quei monumenti evocavano, a distruggerli, divorarli per recuperarne i mattoni e i marmi – in pochi decenni, Milano riprese l’aspetto dimesso, rurale e operaio, che è il suo. La tuta da lavoratore al posto delle vesti di velluto imperiale.La “bruttezza” di Milano moderna, una bruttezza unica fra le città italiane, anche più piccole (pensate a Parma, a Verona, a Padova) è il sintomo di questa sua mancanza di ambizione. Non vuole comandare, non ha classe dirigente: quando si è sforzata, ha dato a Roma Berlusconi e Bossi, l’ultimo un ladruncolo di denaro pubblico per i figli e la famiglia, un vero “terrone”, l’altro un pirla superficiale e irresponsabile che si vanta di essere “imprenditore” invece che statista. E non è nemmeno imprenditore: al più, impresario, capocomico. E il referendum sull’autonomia? Persino i leghisti della base forse non lo voteranno. I milanesi, secondo i sondaggi, in maggioranza schiacciante non andranno a votare, non capiscono di cosa parli. Dormite tranquilli, cialtroni e parassiti.(Maurizio Blondet, estratto dal post “La Catalogna apre la stagione delle secessioni, ma non qui”, pubblicato sul blog di Blondet il 2 ottobre 2017).Il secessionismo catalano apre la stagione degli altri indipendentismi? Aspettiamoci sorprese dai baschi, dagli scozzesi, dalle componenti etniche dell’Ucraina. E il famigerato Nord-Est italiano? Fra i motivi dell’indipendentismo dei catalani – bottegai – c’è quello dei residui passivi: la regione ricca è stufa di pagare 8 miliardi l’anno agli altri spagnoli. E la Lombardia? Dà ogni anno all’Italia 54 miliardi di euro; che finiscono tutti nell’alimentare il cialtronismo parassitario e la criminalità organizzata del Meridione, all’autonomia siciliana, a Roma capitale del disastro, senza alcun vantaggio per i cittadini meridionali. Puro spreco, e colossale: ogni famiglia lombarda di 4 persone si vede privata ogni anno di 23.000 euro (il costo di un’auto) che potrebbero essere impiegati molto più produttivamente al Nord, in investimenti e infrastrutture moderne, in corsi d’eccellenza per i figli, in università piene di Premi Nobel esteri chiamati dagli alti stipendi, in rifacimenti urbanistici radicali, necessari ad una città che da industriale e siderurgica, è diventa la capitale globale della moda… E non è solo la Lombardia. In Emilia, una famiglia di 4 persone viene privata annualmente di 14.000 eiro. Una famiglia veneta, di oltre 12.000: una emorragia che finisce nelle tasche del Sud criminale, non di quello onesto.
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Ricca Germania e poveri tedeschi, divario record in Europa
«Sopravvivo, ma non vivo», dice Doris, infermiera 71enne in pensione nell’ex città mineraria di Gelsenkirchen in Germania. «Non ho soldi per andare a vedere un balletto, nemmeno 10 euro per il cinema. Ma quello che mi rode di più è non potermi permettere di fare regali ai miei nipoti». Sebbene Angela Merkel affermi che oggi si vive “nella migliore Germania che sia mai esistita”, molti poveri nel suo paese la pensano diversamente. E dire che il resto del mondo industrializzato guarda con invidia alla performance economica tedesca: la Germania è un paese ricco, con il più elevato reddito pro-capite tra i grandi paesi della Ue, davanti a Gran Bretagna, Francia e Italia. La disoccupazione è ai livelli più bassi della Ue: il maggior grattacapo degli industriali tedeschi è trovare lavoratori, scrive Stefan Wagstly sul “Financial Times”, in un reportage sulle (enormi) disuguaglianze che minano la Germania. «Queste preoccupazioni sono particolarmente forti perché molti tedeschi hanno a lungo creduto di vivere in una società equa come poche altre, dopo che la Seconda Guerra Mondiale aveva spazzato via le vecchie élite e lasciato un paese con meno disparità». In un recente sondaggio della televisione “Ard”, i votanti hanno indicato la disuguaglianza sociale come il più grande problema del paese, dopo la politica di Berlino sui rifugiati.La disoccupazione, un problema cruciale per gli altri paesi Ue, per il sondaggio è solo al quinto posto. Marcel Fratzscher, capo del centro di ricerca economica Diw e consigliere dell’Spd, dice: «L’economia sta andando bene. La grande preoccupazione è per quelli che vengono lasciati indietro». I conservatori che sostengono la Merkel non sono d’accordo su questo punto, scrive Wagstly, nell’articolo tradotto da “Voci dall’Estero”. Ma in una recente intervista su YouTube, la stessa Merkel ha ammesso che la disuguaglianza sta diventando un problema politico: «Veramente – ha detto – molte persone ne sono preoccupate», Ma quanta disuguaglianza c’è in Germania, dopo 12 anni di governo Merkel? Dal 1990 (anno della riunificazione) ad oggi, le disparità sono realmente aumentate, anche se negli ultimi cinque anni sono state in parte attutite grazie alla crescita della produzione, dei posti di lavoro e dei salari. In termini di redditi delle famiglie, la Germania è vicina alla media europea. «Ma in termini di ricchezza – scrive Wagstly – la Germania è significativamente più disuguale rispetto agli altri paesi, con le famiglie più ricche che controllano una quota della ricchezza più ampia rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale».Il 40% dei tedeschi più poveri non possiede praticamente alcun bene patrimoniale, nemmeno dei risparmi in banca. Per quanto riguarda i redditi, il divario tra il 10% dei più poveri e quello dei più ricchi ha iniziato ad allargarsi dalla metà degli anni ’90. «Accade in larga misura per le stesse ragioni degli altri paesi del mondo sviluppato: globalizzazione e perdita di posti di lavoro tramite cambiamenti tecnologici». Dopo un periodo di iniziale stagnazione dopo la riunificazione, la Germania è tornata a crescere grazie a un boom delle esportazioni (“dopate” dall’euro), combinato con una moderazione salariale da parte dei sindacati, e col pacchetto Hartz IV per il mercato del lavoro (flessibilità) e le riforme dell’assistenza sociale, che hanno spinto sempre più disoccupati al lavoro. «Gli effetti economici complessivi sono stati molto ampi, riportando la Germania alla testa della Ue e cementando il sostegno a favore della Merkel», al potere dal 2005. Le riforme Hartz IV erano state comunque ereditate dal governo precedente del socialdemocratico Gerhard Schröder. «Ma se la disoccupazione è diminuita, le persone a reddito basso guadagnano comparativamente sempre meno rispetto ai lavoratori ben pagati».Un ruolo importante nel ridurre la disoccupazione e aumentare il numero degli occupati al livello record di 44 milioni ha avuto l’espansione dei mini-job, posti di lavoro part-time deregolamentati, che sono passati da 4,1 milioni nel 2002 a oltre 7,5 milioni quest’anno. «I loro sostenitori dicono che hanno contribuito a creare opportunità di lavoro, ad esempio per madri con figli piccoli, studenti e pensionati. Ma i critici affermano che questi mini-job hanno spesso rimpiazzato posti di lavoro a tempo pieno, specialmente nei settori della ristorazione e della vendita al dettaglio», scrive il “Financial Times”. E il sindacato Dgb aggiunge che, anziché aprire la strada a posti di lavoro permanenti, i mini-job sono diventati per i lavoratori un vicolo cieco. «Ci vorrebbe un cambiamento molto più drastico sui redditi per contrastare una causa ancora più grande di disuguaglianza in Germania, ossia la distribuzione della ricchezza tra ricchi e poveri, che è straordinariamente iniqua».Il paese non ha quell’abbondanza di miliardari che si trovano, ad esempio, nel Regno Unito, ha però una pletora di milionari, spesso concentrati nelle famiglie che possiedono industrie medio-grandi. Intanto, solo il 45% dei tedeschi possiede la casa nella quale vive. Tutti gli altri sono in affitto, specie nelle grandi città, dove i prezzi si sono rapidamente alzati dopo la crisi finanziaria del 2008. «Questo ha ulteriormente ampliato il divario tra gli abbienti e i nullatenenti». Secondo punto, le pensioni: sono generose più che altro con gli ex lavoratori a tempo pieno. «I ricchi si garantiscono una pensione con i fondi privati, ma il tedesco medio non se lo può permettere. In teoria le pensioni pubbliche dovrebbero essere un modo altrettanto sicuro delle pensioni private per garantirsi un reddito in età avanzata, al pari delle pensioni private negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Ma l’investimento manca di flessibilità. Per esempio, è impossibile andare in pensione prima e ottenere un riscatto dell’intera somma, che potrebbe essere usata per avviare un’attività produttiva». Infine, l’imposta di successione in Germania favorisce i proprietari di impresa.La disuguaglianza nella distribuzione di ricchezza e redditi aumenta la disuguaglianza sociale, prosegue Wagstly nella sua analisi. Le scuole tedesche reggono bene il confronto con gli altri paesi Ocse, ma «fanno peggio» se solo «si considera il divario tra i bambini di famiglie ricche e quelli di famiglie povere». Nel 2015 la condizione economica di uno studente spiegava il 16% delle differenze nel successo scolastico in Germania, rispetto al 13% della media Ocse. «Allo stesso modo, nella salute c’è un profondo divario tra i ricchi e i poveri, che sembra essere più ampio in Germania che nella media dei paesi Ue». A queste disuguaglianze, conclude il “Financial Times”, si somma un divario regionale che persiste tuttora: «Sebbene dopo la riunificazione del 1990 la Germania Est abbia fatto progressi, i redditi rimangono più bassi di un terzo rispetto ai livelli della Germania Ovest». I giovani hanno smesso di emigrare a frotte, ma il resto della popolazione sta invecchiando più rapidamente: se fosse uno Stato autonomo, con il 24% della popolazione over-65, la Germania Est sarebbe il paese «più anziano del mondo». Ma le sacche di povertà non si limitano alle regioni dell’Est. «I ricchi se ne vanno dai quartieri poveri, e persone povere affluiscono», dice Dieter Heisig, pastore protestante che ha prestato servizio nella città per più di 30 anni. «Non vorrei dover dire che abbiamo dei ghetti, qui in Germania, però li abbiamo».«Sopravvivo, ma non vivo», dice Doris, infermiera 71enne in pensione nell’ex città mineraria di Gelsenkirchen in Germania. «Non ho soldi per andare a vedere un balletto, nemmeno 10 euro per il cinema. Ma quello che mi rode di più è non potermi permettere di fare regali ai miei nipoti». Sebbene Angela Merkel affermi che oggi si vive “nella migliore Germania che sia mai esistita”, molti poveri nel suo paese la pensano diversamente. E dire che il resto del mondo industrializzato guarda con invidia alla performance economica tedesca: la Germania è un paese ricco, con il più elevato reddito pro-capite tra i grandi paesi della Ue, davanti a Gran Bretagna, Francia e Italia. La disoccupazione è ai livelli più bassi della Ue: il maggior grattacapo degli industriali tedeschi è trovare lavoratori, scrive Stefan Wagstyl sul “Financial Times”, in un reportage sulle (enormi) disuguaglianze che minano la Germania. «Queste preoccupazioni sono particolarmente forti perché molti tedeschi hanno a lungo creduto di vivere in una società equa come poche altre, dopo che la Seconda Guerra Mondiale aveva spazzato via le vecchie élite e lasciato un paese con meno disparità». In un recente sondaggio della televisione “Ard”, i votanti hanno indicato la disuguaglianza sociale come il più grande problema del paese, dopo la politica di Berlino sui rifugiati.
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Indagine-choc: fibre di plastica nell’acqua del rubinetto
Quanta plastica beviamo? Molte ricerche ormai mostrano la presenza di fibre plastiche, praticamente ovunque: negli oceani, nelle acque dolci, nel suolo e nell’aria. E oggi uno studio americano prova l’esistenza di una contaminazione da plastica persino nell’acqua corrente domestica, spiegano Dan Morrison e Chris Tyree in un report su “Repubblica”. «Dai rubinetti di casa di tutto il mondo, da New York a Nuova Delhi, sgorgano fibre di plastica microscopiche», secondo una ricerca originale di “Orb Media”, un sito di informazione no-profit di Washington. Insieme ai ricercatori dell’università statale di New York e dell’università del Minnesota, “Orb Media” ha testato 159 campioni di acqua potabile di città grandi e piccole nei cinque continenti. L’83% dei campioni contiene microscopiche fibre di plastica: compresa l’acqua che esce dai rubinetti del Congresso degli Stati Uniti. E se la plastica è nell’acqua di rubinetto, probabilmente sarà presente anche nei cibi preparati con l’acqua, come pane, pasta, zuppe e latte artificiale. «È una notizia che dovrebbe scuoterci», dice Muhammad Yunus, Premio Nobel per la Pace 2006. «Sapevamo che questa plastica tornava da noi attraverso la catena alimentare. Ora scopriamo che torna da noi attraverso l’acqua potabile. Abbiamo una via d’uscita?».Yunus, il fondatore della banca di microcredito Grameen Bank, progetta di lanciare un’iniziativa contro lo spreco di plastica nei prossimi mesi. Ricerche sempre più numerose, aggiungono Morrison e Tyree, dimostrano la presenza di microscopiche fibre di plastica negli oceani, nelle acque dolci, nel suolo e nell’aria: «Questo studio è il primo a provare l’esistenza di una contaminazione da plastica nell’acqua corrente di tutto il mondo». Attenzione: «Gli scienziati non sanno in che modo le fibre di plastica arrivino nell’acqua di rubinetto, o quali possano essere le implicazioni per la salute. Qualcuno sospetta che possano venire dai vestiti sintetici, come gli indumenti sportivi, o dai tessuti usati per tappeti e tappezzeria. Il timore è che queste fibre possano veicolare sostanze chimiche tossiche, come una sorta di navetta che trasporta sostanze pericolose dall’acqua dolce al corpo umano». Negli studi su animali, «era diventato chiaro molto presto che la plastica avrebbe rilasciato queste sostanze chimiche, e che le condizioni dell’apparato digerente avrebbero facilitato un rilascio piuttosto rapido», racconta Richard Thompson, direttore della ricerca all’università di Plymouth, Gran Bretagna.Dalle osservazioni sulla fauna selvatica e l’impatto che sta avendo questa cosa abbiamo dati a sufficienza per essere preoccupati, aggiunge Sherri Mason, una delle pioniere della ricerca sulla microplastica, che ha supervisionato lo studio della “Orb Media”: «Se sta avendo un impatto sulla fauna selvatica, come possiamo pensare che non avrà un impatto su di noi?». La contaminazione, scrive “Repubblica”, sfida le barriere geografiche e di reddito: il numero di fibre trovate nel campione di acqua di rubinetto prelevato nei bagni del Trump Grill, il ristorante della Trump Tower a New York, è uguale a quello dei campioni prelevati a Quito, la capitale dell’Ecuador. “Orb Media” ha rilevato fibre di plastica persino nell’acqua in bottiglia, e nelle case in cui si usano filtri per l’osmosi inversa. Le autorità sono spiazzate: gli Usa non hanno nemmeno inserito le particelle di plastica nella lista delle possibili sostanze contaminanti rintracciabili nell’acqua di rubinetto. Dei 33 campioni d’acqua prelevati in varie città degli Stati Uniti, il 94% è risultato positivo alla presenza di fibre di plastica. E’ la stessa media dei campioni raccolti a Beirut, Libano. Fra le altre città monitorate figurano Delhi (India, 82%), Kampala (Uganda, 81%), Giacarta (Indonesia, 76%), nonché Quito (Ecuador, 75%) e varie città europee (72%).La ricerca, precisa “Repubblica”, è stata progettata dal dipartimento di geologia e scienza ambientale dell’università statale di New York, e i test sono stati eseguiti dalla ricercatrice Mary Kosuth, della scuola di salute pubblica dell’università del Minnesota. «E’ la prima indagine a livello globale sull’inquinamento da plastica nell’acqua di rubinetto», afferma la Kosuth. I risultati rappresentano «un primo sguardo sulle conseguenze dell’uso e dello smaltimento della plastica». I campioni sono stati raccolti da scienziati, giornalisti e volontari addestrati, seguendo i protocolli stabiliti. «Questa ricerca si limita a scalfire la superficie, ma ha l’aria di essere una questione molto seria», ammette Hussan Hawwa, amministratore delegato della società di consulenze ambientali Difaf, che si è occupata della raccolta dei campioni in Libano. «La ricerca sulle conseguenze per la salute umana è appena agli inizi», dice Lincoln Fok, studioso dell’ambiente presso l’Education University di Hong Kong. In ogni caso, la ricerca «solleva più interrogativi di quelli che risolve», secondo Albert Appleton, già commissario alle acque del Comune di New York. «C’è un bioaccumulo? Influisce sulla formazione delle cellule? È un vettore per la trasmissione di agenti patogeni nocivi? Se si scompone, che cosa produce?».Il mondo, riassume “Repubblica”, sforna ogni anno 300 milioni di tonnellate di plastica. Oltre il 40% di questa massa «viene usato una volta soltanto, a volte per meno di un minuto, e poi buttato via». Ma la plastica «rimane nell’ambiente per secoli». Secondo un recente studio, dagli anni ‘50 a oggi sono stati prodotti in tutto il mondo oltre 8,3 miliardi di tonnellate di plastica. Sono migliaia di miliardi le scorie plastiche disseminate sulla superficie dell’oceano: fibre di plastica sono state ritrovate «dentro i pesci venduti nei mercati, nel Sudest asiatico, nell’Africa orientale e in California». E la plastica dal rubinetto di casa? «È una cosa brutta: si sentono così tante cose sul cancro», ha detto Mercedes Noroña, 61 anni, dopo essere stata informata che un campione di acqua prelevato dal suo rubinetto di casa, a Quito, conteneva fibre di plastica. «Forse esagero, ma ho paura delle cose che ci beviamo con l’acqua». Non è sola, nella sua inquietudine: un recente sondaggio Gallup svela che il 63% degli americani è «fortemente preoccupato» per l’inquinamento dell’acqua potabile.Tra le fonti inquinanti, aggiungono Dan Morrison e Chris Tyree, c’è anche l’abbigliamento: gli indumenti sintetici emettono fino a 700.0006 fibre a lavaggio, ma gli impianti di depurazione delle acque ne intercettano solo la metà (il resto finisce nei corsi d’acqua, per un totale di 29 tonnellate di microfibre di plastica al giorno, secondo l’università di Plymouth). E poi l’aria: uno studio del 2015 calcolava che a Parigi, ogni anno, si depositano sulla superficie fra le 3 e le 10 tonnellate di fibre sintetiche. Laghi e fiumi possono essere contaminati da deposizioni atmosferiche cumulative, afferma Johnny Gasperi, professore dell’università di Parigi-Est Créteil: «Nelle ricadute atmosferiche è presente un’enorme quantità di fibre». Questo, osserva “Repubblica”, potrebbe spiegare perché si trovano fibre di plastica anche in sorgenti idriche sperdute, in tutto il mondo. Ma la “Orb” ha trovato fibre di plastica anche in acque di rubinetto provenienti da falde sotterranee. Tante le incognite: quanto è grande il pericolo se le fibre di plastica assorbono “perturbatori endocrini” che alterano i nostri sistemi ormonali? «Non abbiamo mai veramente preso in considerazione questo rischio prima», ammette Tamara Galloway, ecotossicologa all’università di Exeter.Le città stanno appena cominciando a fare i conti con l’inquinamento da fibre di plastica e con il ruolo che giocano in tutto questo le lavatrici di casa, continua il report su “Repubblica”. Rallentare il processo di trattamento delle acque reflue consentirebbe di intercettare una maggior quantità di fibre di plastica, dice Kartik Chandran, ingegnere ambientale della Columbia University. Ma potrebbe anche accrescere i costi. «I grandi marchi dell’abbigliamento dicono che stanno lavorando per migliorare i loro tessuti sintetici in modo da ridurre l’inquinamento da fibre. E sta venendo fuori tutta una serie di filtri, di prodotti da inserire nel cestello della lavatrice durante il lavaggio e di altri prodotti per ridurre le emissioni di fibre durante i lavaggi. Test indipendenti mostreranno quale di questi metodi è più efficace». Sherri Mason, la prima ricercatrice a scoprire la forte presenza di inquinamento da microplastica nella regione americana dei Grandi Laghi, si dice «sconvolta» dai risultati dei test sull’acqua potabile: «La gente mi chiedeva sempre: “Ma queste cose ci sono anche nell’acqua che beviamo?”. Io rispondevo sempre che non lo sapevo». Ora invece, purtroppo, lo sa.Quanta plastica beviamo? Molte ricerche ormai mostrano la presenza di fibre plastiche, praticamente ovunque: negli oceani, nelle acque dolci, nel suolo e nell’aria. E oggi uno studio americano prova l’esistenza di una contaminazione da plastica persino nell’acqua corrente domestica, spiegano Dan Morrison e Chris Tyree in un report su “Repubblica”. «Dai rubinetti di casa di tutto il mondo, da New York a Nuova Delhi, sgorgano fibre di plastica microscopiche», secondo una ricerca originale di “Orb Media”, un sito di informazione no-profit di Washington. Insieme ai ricercatori dell’università statale di New York e dell’università del Minnesota, “Orb Media” ha testato 159 campioni di acqua potabile di città grandi e piccole nei cinque continenti. L’83% dei campioni contiene microscopiche fibre di plastica: compresa l’acqua che esce dai rubinetti del Congresso degli Stati Uniti. E se la plastica è nell’acqua di rubinetto, probabilmente sarà presente anche nei cibi preparati con l’acqua, come pane, pasta, zuppe e latte artificiale. «È una notizia che dovrebbe scuoterci», dice Muhammad Yunus, Premio Nobel per la Pace 2006. «Sapevamo che questa plastica tornava da noi attraverso la catena alimentare. Ora scopriamo che torna da noi attraverso l’acqua potabile. Abbiamo una via d’uscita?».
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Sos, rischiamo un’estinzione di massa: la sesta, sulla Terra
Si avvicina il rischio di un’estinzione di massa, la sesta nella storia della Terra. Lo affermano Daniele Conversi e Luis Moreno, commentando una recentissima ricerca statunitense: secondo la prestigiosa Pnas, “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America”, per la sesta volta, saremmo nell’imminenza di un evento chiamato “biological annihilation”, annientamento biologico. Miliardi di animali sono stati eliminati negli ultimi decenni, conseguenza diretta e indiretta dell’attività umana. Come se non bastassero gli allarmi che ci giungono da tutti i fronti, le ricerche confermano un’unica tendenza: l’impatto del consumo di massa promosso dal neoliberismo imperante sta alterando la superficie terrestre in maniera irreversibile, fino a cambiare lo stesso suolo su cui poggiamo i piedi. Nel corso dell’ultimo secolo, con l’uso generalizzato dell’automobile, ci si è adagiati sullo sfruttamento dei combustibili fossili attraverso un aumento massiccio dei consumi, promuovendo inoltre una divisione internazionale del lavoro tra regioni destinate all’estrazione e altre destinate all’industrializzazione. Tutto questo, dicono i ricercatori, sta semplicemente portando al collasso l’ecosistema terrestre.Resa popolare dal Nobel per la chimica Paul Crutzen per designare un nuovo periodo geologico separato dall’Olocene (l’ultimo periodo geologico dell’era Quaternaria), la nozione di Antropocene ci richiama all’impatto determinante, permanente e irreversibile del comportamento umano sulla superficie terrestre. Nel suo libro tradotto in italiano come “Benvenuti nell’Antropocene”, Crutzen argomenta che le prove per stabilire l’inizio del nuovo periodo sono già visibili sia nelle rocce (in forma di isotopi nucleari, sedimenti, scorie, particelle di alluminio, cemento, plastica e carbone), sia negli oceani e nelle zone costiere, con l’innalzamento del livello del mare conseguente allo scioglimento dei ghiacci. L’aumento rapido dei gas serra è probabilmente segna l’inizio della nuova era, che si può collocare all’incirca verso la metà del 20º secolo. Negli ultimi decenni, aggiungono Conversi e Moreno in un’analisi su “Micromega”, la crescita abnorme dei consumi di gran parte della popolazione terrestre ha prodotto gravi effetti sul nostro pianeta, con conseguenze potenzialmente catastrofiche per il futuro di tutte le specie viventi.Purtroppo però questa massa di studi fatica a trovare spazio sui grandi media, spesso «ostacolata e contraddetta dalla visibilità istrionica di pseudo-scienziati portavoce, riconosciuti o meno, delle lobbies petrolifere e dei combustibili fossili». Data l’assenza di vere informazioni, «non c’è da sorprendersi che il pubblico sia più orientato a crucciarsi per i prezzi di consumo dell’energia elettrica piuttosto che a chiedersi come ridurre le emissioni». Come ridurre il climate change? Nebbia fitta. «Raggiungendo livelli sempre più alti, l’aumento costante dei gas serra, accoppiato alla diffusione della fratturazione idraulica (fracking), è in grado di produrre un impatto incontrollabile, minacciando la continuità stessa della vita sulla Terra». L’attuale modello iper-consumistico «è stato responsabile non solo di un aumento senza precedenti delle emissioni di CO2, ma anche di un processo a senso unico di omogeneizzazione culturale, a seguito del quale mai prima d’ora così tante persone hanno assunto abitudini di consumo originariamente proprie delle vecchie élites occidentali». Processi che «hanno contribuito ad aumentare i livelli di povertà e di emarginazione sociale, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo».Secondo un noto rapporto di Oxfam, la stragrande maggioranza delle vittime del cambiamento climatico sono proprio coloro che vivono in paesi che contribuiscono di meno al fenomeno. «E per di più, le regioni più vulnerabili ospitano circa la metà più povera della popolazione mondiale: un grafico assai rivelatore dell’ingiustizia climatica, che non lascia dubbi su come la metà più povera della popolazione mondiale produca solo il 10% delle emissioni globali di carbonio, mentre il 10% più ricco del pianeta contribuisce a oltre il 50% delle emissioni», aggiungono Conversi e Moreno. Inoltre, questo sembra dimostrare che, sebbene il problema demografico non debba essere sottovalutato, l’impatto più consistente non è prodotto dai numeri di bocche da sfamare, ma da modelli acquisiti di consumo, sperpero, abitudini e stili di vita insostenibili. Intanto, sempre secondo Oxfam, l’81% dei decessi causati dai disastri ambientali colpisce le aree a reddito basso e medio-basso. Secondo un altro studio, “Carbon and inequality from Kyoto to Paris”, diretto da Lucas Chancel e Thomas Piketty della Paris School of Economics, l’1% delle famiglie statunitensi, singaporesi o saudite a reddito più elevato sono annoverabili tra i maggiori responsabili di inquinamento, con più di 200 tonnellate annuali di emissione di CO2.Di conseguenza, continuano Conversi e Moreno, una visione semplicistica della frattura Est-Ovest o Nord-Sud, appare inadeguata: tra l’1% dei super-emettitori vanno anche incluse le élites dei super-ricchi di Cina, Russia, India e Brasile, per fare un esempio. E un terzo studio, pubblicato di recente (“The Carbon Majors Report” 2017) mostra che circa 100 aziende sono responsabili del 71% delle emissioni globali, cioè un numero significativamente infimo di grandi produttori legati ai combustibili fossili arreca un danno assolutamente sproporzionato rispetto ai guadagni astronomici di pochi. In America Latina, quasi tre quarti dei cittadini – una delle percentuali più alte al mondo – riconoscono fermamente la gravità e la serietà del cambiamento climatico: i paesi latinoamericani e caraibici sono molto vulnerabili al problema del riscaldamento globale. «Un aumento rilevante e sostenuto delle temperature porterebbe in un intervallo non molto lungo a una riduzione drastica dei terreni coltivabili, alla scomparsa di atolli, barriere coralline, isole basse e intere regioni costiere, così come ad una estrema variabilità del tempo».Per Conversi e Moreno, non sarebbe realistico ipotizzare una risposta unica ai difficili e complessi problemi legati al cambio climatico. I punti di vista normativi variano: dall’illusione di “miracoli tecnologici” all’espansione massiccia delle energie rinnovabili (dal 2019 la Volvo produrrà solo auto elettriche o ibride), dalla decrescita volontaria dei consumi alla rivalutazione delle conoscenze ecologiche tradizionali. Si pensa alla protezione delle economie pre-industriali residue, all’economia circolare, al riciclaggio, alla pratica della “sovranità alimentare” (km zero, filiere corte), fino all’opzione estrema della geo-ingegneria, «che implicherebbe la costruzione di dighe per proteggere città o paesi dall’innalzamento delle maree e altre soluzioni provvisorie per tamponare effetti localizzati di un fenomeno che non ha nulla di locale». In ogni caso, aggiungono Conversi e Moreno, sarà vitale «ambire alla massima eterogeneità e creatività in termini di soluzioni, adattamento, conoscenze o tecniche di sopravvivenza».Da parte sua, l’Ue si sta adoperando per trasformare i rifiuti in materiali rinnovabili in una nuova “economia circolare”. Secondo la Commissione Europea, l’Europa produce più di 2,5 milioni di tonnellate di rifiuti l’anno, oltre la metà dei quali (63%) è derivata dal settore minerario e delle costruzioni. Ma spesso l’accento è posto sul cittadino, nonostante solo l’8% dei rifiuti sia di origine domestica. «Così l’Europa perde ogni anno circa 600 milioni di tonnellate di materiali contenuti nei rifiuti che potrebbero essere riciclati o riutilizzati – mentre si ricicla solo il 40% dei rifiuti prodotti dalle famiglie». A livello planetario, i problemi restano di portata incalcolabile. «Questa nuova geografia del cambiamento climatico, accompagnata dall’aumento delle disuguaglianze di reddito e dell’emarginazione sociale, rende più che mai urgente un’azione concertata da parte di tutti i paesi». Unica possibilità di salvezza, trovare i mezzi per «controllare questa ristretta élite, detentrice di un potere economico e mediatico immenso». Ma le cose non stanno andando esattamente così: restano modesti gli obiettivi dei trattati internazionali finora firmati, da Rio (1992) all’accordo di Parigi del 2015, in vigore dal 2016 «in vista della sua piena applicabilità nel 2020», a seguito del Protocollo di Kyoto del 1997.Non mancano ulteriori complicazioni: «Donald Trump ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, in conformità alle promesse elargite durante la campagna elettorale in combutta con le élites dei combustibili fossili». In contrasto con l’allarme che si sta diffondendo in molti paesi, il nuovo protezionismo degli Stati Uniti, accompagnato dalle iperboli della negazione, «indica che ci stiamo avvicinando a passi da gigante verso il suicidio climatico, incoraggiato da un modello economico neoliberista inarrestabile», concludono Conversi e Moreno. «Di fronte al pressoché unanime consenso scientifico sulle origini antropogeniche di un riscaldamento globale indotto da modelli di consumo selvaggio, si erge un revisionismo corporativo militante impostato sulla manipolazione dei mezzi di comunicazione e ostile a ogni possibile mobilitazione sociale volta a salvare il pianeta». Ciò che si profila è un mondo nuovo, un “brave New World”, come annunciava Aldous Huxley, condannato a finire in tempi brevissimi. «Un mondo, insomma, in cui una percentuale irrisoria ma ultra-potente del genere umano sembra pronta a immolare i destini della Terra sull’altare dei propri guadagni mai soddisfatti».Conmversi e Moreno parlano di “classicidio”, vista l’enorme sproporzione numerica tra vittime e carnefici, ancora più accentuata tra i redditi delle vittime e quelli dei carnefici. «Ma nessuno potrà ritenersi al sicuro ed esente dal pericolo di estinzione: se il secolo 20º è stato spesso definito il “secolo del genocidio”, c’è da temere che il secolo 21º potrebbe essere identificato, da un punto di vista terminologico, come il “secolo dell’omnicidio”, dello sterminio potenziale della gran parte delle specie viventi, tra cui bisognerà annoverare gli esseri umani». Ma, onestamente, «piuttosto che di un epilogo casuale, è bene comprendere che si tratta una “cronaca” lungamente preannunciata». Bisognerà quindi «combattere il negazionismo, incarnato successivamente nell’anti-scienza, nella marginalizzazione degli esperti e nell’anarchia informativa della post-verità». Appello inevitabile: «Contro quest’Idra dalle multipli teste, siamo chiamati a mobilitarci. Meglio tardi che mai».Si avvicina il rischio di un’estinzione di massa, la sesta nella storia della Terra. Lo affermano Daniele Conversi e Luis Moreno, commentando una recentissima ricerca statunitense: secondo la prestigiosa Pnas, “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America”, per la sesta volta, saremmo nell’imminenza di un evento chiamato “biological annihilation”, annientamento biologico. Miliardi di animali sono stati eliminati negli ultimi decenni, conseguenza diretta e indiretta dell’attività umana. Come se non bastassero gli allarmi che ci giungono da tutti i fronti, le ricerche confermano un’unica tendenza: l’impatto del consumo di massa promosso dal neoliberismo imperante sta alterando la superficie terrestre in maniera irreversibile, fino a cambiare lo stesso suolo su cui poggiamo i piedi. Nel corso dell’ultimo secolo, con l’uso generalizzato dell’automobile, ci si è adagiati sullo sfruttamento dei combustibili fossili attraverso un aumento massiccio dei consumi, promuovendo inoltre una divisione internazionale del lavoro tra regioni destinate all’estrazione e altre destinate all’industrializzazione. Tutto questo, dicono i ricercatori, sta semplicemente portando al collasso l’ecosistema terrestre.
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Siamo seri, pensate davvero che il futuro sia l’auto elettrica?
Il futuro non è dell’auto elettrica. La questione infatti non è solo con cosa sono alimentate le auto, ma soprattutto quante se ne producono e se ci siano sufficienti materiali, energia e risorse per produrle. Aspetto di sapere chi può rispondere in maniera ovviamente non fantasiosa alla domanda su dove, come e con quale energia si ricaveranno i materiali e le risorse per costruire e alimentare miliardi di automobili elettriche. E la risposta ovviamente non può essere: “Qualcosa ci inventeremo”. Visti anche questi non piccoli problemi di impossibile soluzione, la conclusione è assai facile e veloce a cui giungere, anche perchè il miglior mezzo per muoversi, soprattutto nelle città, non è l’automobile, elettrica o meno. Primo, perché essere imbottigliati nel traffico con una macchina, a benzina o elettrica, è esattamente la stessa cosa; secondo, perché le auto elettriche costano normalmente di più, poi hanno bisogno comunque di elettricità per essere alimentate e bisogna vedere come e dove si troverà questa elettricità che potrebbe anche essere il cavallo di Troia per una riscossa del nucleare. E ci vuole veramente un grande sforzo di fantasia, che sconfina appunto nell’impossibile, a pensare che tutta questa energia verrà prodotta da fonti rinnovabili, perché non solo servirà energia per produrre le automobili, ma anche per tutto il resto.Dove si trova l’energia per costruire ad esempio pannelli solari, che in teoria dovebbero coprire l’intero pianeta per alimentare tutto ciò? E non si tirino fuori assurdità tipo fusione nucleare, energie cosmiche o altre fantasiose storielle e si rimanga nel razionale e fattibile. Non si scappa: per fortuna non si possono eludere i limiti del pianeta e delle risorse, per quanti voli pindarici e illusioni tecnologiche si possano immaginare. L’auto, con tutta l’enfasi data alla presunta libertà che ci permette (poi la realtà è che si è quasi sempre bloccati nel traffico) e al fascino della velocità (che significa migliaia di morti l’anno e centinaia di migliaia di feriti per i quali non si fa nessuna campagna di prevenzione reale e non si strepita certo così come per imporre l’obbligatorietà ai vaccini), è solo una grande occasione di profitto, non risolve affatto la mobilità, casomai la congestiona. Comprare un’automobile nuova è il peggior investimento che chiunque possa fare, anche a rate, poiché si svaluta immediatamente e ha costi di mantenimento esorbitanti. Eppure. in Italia, malgrado la miseria in cui si dice versino milioni di poveri e disoccupati, nonostante la crisi, le automobili aumentano le vendite con percentuali a due cifre.Sono i famosi misteri italiani dove tutti si lamentano, tutti sono poveri ma poi siamo al secondo posto al mondo per numero di automobili ogni mille abitanti, che pascolano nell’immenso garage asfaltato che è diventata la nostra penisola per fare ricchi i Marchionne della situazione. E intanto noi imprechiamo nel traffico, moriamo di inquinamento, di incidenti, e lui e i suoi compari contano i soldi e ridono mentre si spostano in elicottero. Il futuro della mobilità non sarà il trasporto individuale, ma collettivo. E poi sarà un trasporto effettivamente sostenibile e risolutorio, cioè mezzi pubblici e mezzi a trazione muscolare, ovvero la bicicletta nelle sue varie declinazioni. Ci saranno anche delle automobili, ma usate per lo più collettivamente e solo per effettiva necessità, laddove la bicicletta o i mezzi di trasporto pubblici non possano sopperire al bisogno. E anche in questo caso non si possono non citare tutti gli esperti che, sempre innamorati delle magnifiche sorti e progressive per le quali ci saremmo in futuro spostati con astronavi, dicevano e ancora dicono che la bicicletta non si sarebbe diffusa, che è il medioevo, eccetera. Fatto sta che, alla faccia degli esperti, la semplicissima, vetusta e arretrata bicicletta, come vendite nel 2013, ha superato quelle delle automobili in 26 paesi dell’Unione Europea su 28.Mi sa che di vetusto e arretrato c’è solo il cervello dei luminari. E per questi sognatori di mondi in cui ci muoveremo con la macchina di Paperinik ci sono intanto città, capitali di paesi come la Danimarca che hanno così tante biciclette che ormai si hanno ingorghi di biciclette nelle strade poichè superano il numero delle automobili. In Italia in una situazione simile avrebbero proposto di limitare l’uso delle biciclette, là prevedono di diminuire le carreggiate delle macchine e aumentare la larghezza delle strade per le biciclette. In Danimarca, in Germania ormai si costruiscono autostrade per le biciclette che collegano interi paesi, con corsie riservate alle diverse velocità a cui vanno i ciclisti. Questo è il futuro, semplice, geniale e risolutivo – e soprattutto realmente compatibile, ambientalmente, non i voli pindarici di impossibili e costose non-soluzioni. Ma a questo punto arrivano le solite obiezioni degli italiani, che spesso alle soluzioni rispondono con ulteriori problemi e con il famoso: da noi non si può fare. Non si può fare?Vediamo in dettaglio i problemi che ci sono in Danimarca all’utilizzo della bicicletta: vento più o meno forte durante tutto l’anno, essendo uno dei paesi più ventosi d’Europa; piovosità decisamente più alta che in Italia; clima decisamente più rigido che in Italia. Quindi hanno tutti i presupposti contrari all’uso di questo mezzo, e invece lo usano eccome: perché, oltre che le ruote delle biciclette, fanno girare anche altre ruote che ci sono nel cervello e che, se azionate, possono produrre ottimi risultati. Ma l’italico problematico, che non si arrende nemmeno di fronte all’evidenza, ti dirà che da noi ci sono le salite e in Danimarca è tutto piatto. Come se città tipo Milano, Bologna, Napoli, Roma, Palermo, Bari, Torino, Verona e moltissime altre fossero tutte aggrappate a catene montuose. E non sia mai che ogni tanto dovesse spuntare una leggera salitella, ci sono anche le biciclette con pedalata assistita che ovviano al problema. Quindi, se in Danimarca – fra vento, pioggia e freddo – vanno tranquillamente in bicicletta, figuriamoci cosa potremmo fare noi.Tempo fa mi trovavo in Puglia e mi chiedevo come mai, in una regione in gran parte piatta, dove piove assai poco, non fa freddo e tutto l’anno c’è un tempo invidiabile, non girassero tutti in bicicletta. Ma figuriamoci se nel nostro paese, dove la macchina è uno status symbol, si può andare in giro con una sfigata bicicletta. Ma scherziamo? E mica siamo degli scemi come i danesi, noi. Comunque sia, i risultati positivi dall’uso della bicicletta sono molteplici. Aumento delle produzioni di sistemi legati alla bicicletta con relativo indotto, costruzione di carrelli e soluzioni di ogni tipo collegabili alle bici per trasporto di bambini e materiali. In Italia abbiamo una grande tradizione come costruttori di biciclette, basterebbe adeguarla anche a usi diversi da quelle soprattutto da corsa, obiettivo raggiungibile assai facilmente. Aumento dell’occupazione, non solo dalla vendita di biciclette ma dalla miriade di officine, pezzi di ricambio, assistenza che ci sono normalmente lungo tutti i percorsi di piste ciclabili.Diminuzione della congestione del traffico, aumento della qualità della vita all’interno delle città, diminuzioni degli incidenti e relativa paura di essere investiti ad ogni attimo. Diminuzione dell’inquinamento acustico, diminuzione delle emissioni inquinanti e del conseguente effetto serra. Diminuzione dell’utilizzo di risorse non rinnovabili, diminuzione del tempo sprecato nelle code e quindi conseguenti spese. Diminuzione drastica di alcune delle spese più ingenti della famiglia, che sono quelle legate all’automobile, quindi conseguente minor tempo dedicato al lavoro per mantenere l’automobile. Diminuzione dello stress, miglioramento della salute e della forma fisica. Il futuro della mobilita è di chi fa girare le ruote del cervello.(Paolo Ermani, “Il futuro non è dell’auto elettrica”, da “Il Cambiamento” del 28 luglio 2017).Il futuro non è dell’auto elettrica. La questione infatti non è solo con cosa sono alimentate le auto, ma soprattutto quante se ne producono e se ci siano sufficienti materiali, energia e risorse per produrle. Aspetto di sapere chi può rispondere in maniera ovviamente non fantasiosa alla domanda su dove, come e con quale energia si ricaveranno i materiali e le risorse per costruire e alimentare miliardi di automobili elettriche. E la risposta ovviamente non può essere: “Qualcosa ci inventeremo”. Visti anche questi non piccoli problemi di impossibile soluzione, la conclusione è assai facile e veloce a cui giungere, anche perché il miglior mezzo per muoversi, soprattutto nelle città, non è l’automobile, elettrica o meno. Primo, perché essere imbottigliati nel traffico con una macchina, a benzina o elettrica, è esattamente la stessa cosa; secondo, perché le auto elettriche costano normalmente di più, poi hanno bisogno comunque di elettricità per essere alimentate e bisogna vedere come e dove si troverà questa elettricità che potrebbe anche essere il cavallo di Troia per una riscossa del nucleare. E ci vuole veramente un grande sforzo di fantasia, che sconfina appunto nell’impossibile, a pensare che tutta questa energia verrà prodotta da fonti rinnovabili, perché non solo servirà energia per produrre le automobili, ma anche per tutto il resto.
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Guerra, menzogna, false flag: siamo nell’incubo di Orwell
Alcuni critici sostenevano che dopo l’anno 1984 la rilevanza di George Orwell sarebbe andata diminuendo. Nel 1987 Harold Bloom scriveva che il più grande romanzo di Orwell sul totalitarismo, “1984”, rischiava di diventare un libro storico, un po’ come “La Capanna dello Zio Tom”. Anche il critico letterario Irving Howe, un grande sostenitore di Orwell, pensava che “1984” avrebbe presentato per le future generazioni «un interesse più che altro storico». Eppure, invece di affievolirsi, la popolarità di Orwell sta crescendo in tutto il mondo. Il fatto che il contesto storico di “1984” sia ormai trascorso sembra avere “liberato” il romanzo, rendendo chiaro che il suo messaggio si riferisce a un problema universale dell’umanità moderna. Negli anni recenti le sue parole hanno suscitato un notevole interesse presso la nuova generazione post-Guerra Fredda. «Sono sicuro che George Orwell non pensava: ‘Devo scrivere una storia istruttiva per un ragazzo iracheno’, mentre scriveva “1984”», ha sottolineato lo scrittore iracheno Hassan Abdulrazzak nel 2014. «Ma questo libro mi ha spiegato cosa fosse l’Iraq di Saddam meglio di chiunque altro, prima o dopo».L’anno successivo, “1984” entrava nella classifica dei 10 libri più venduti in Russia. Nel 2014, 1984 è diventato un simbolo delle proteste anti-governative in Thailandia, ad un punto tale che, secondo i resoconti, nei voli della Philippine Airlines i passeggeri venivano avvertiti che portare una copia del libro a bordo avrebbe potuto causare problemi con i funzionari di frontiera e le altre autorità. Dal 1984 sono state pubblicate almeno 13 traduzioni in cinese del romanzo. Sia “1984” che “La Fattoria degli Animali” sono stati tradotti anche in tibetano. Per spiegare la rilevanza di Orwell in Cina, uno dei suoi traduttori, Dong Leshan, ha scritto che «il ventesimo secolo finirà presto, ma il terrore politico vive ancora, e questo è il motivo per il quale “1984” rimane valido ancora oggi». Le prime meditazioni di Orwell sugli abusi del potere politico hanno trovato ascolto perfino nei contesti più inaspettati. Mentre era imprigionato in Egitto, il radicale islamico Maajid Nawaz si rese conto che “La Fattoria degli Animali” esprimeva i suoi stessi dubbi: «Ho iniziato a unire i puntini e ho pensato ‘Mio Dio, se questa gente con cui mi trovo adesso dovesse mai arrivare al potere, si tratterebbe dell’equivalente islamico della Fattoria degli Animali’».In Zimbabwe, un giornale di opposizione ha fatto circolare una versione a puntate della “Fattoria degli Animali” – dopo che la sede del giornale era stata distrutta da una mina anticarro – con delle illustrazioni del maiale Napoleon coi grandi occhiali tipici del “presidente a vita” dello Zimbabwe, Robert Mugabe. Un artista cubano nel 2014 è stato incarcerato senza processo per aver progettato di mettere in scena una versione della “Fattoria degli Animali”. Per essere proprio sicuro che le autorità avessero capito, aveva scritto i nomi “Fidel” e “Raul” sopra due maiali. Ma “1984” sta trovando nuova rilevanza soprattutto tra i lettori occidentali, per tre motivi interconnessi. Per gli americani di oggi, “1984”, con il suo stato di guerra permanente sullo sfondo, è un sinistro avvertimento. Nel libro, proprio come nella vita quotidiana degli Stati Uniti di oggi, il conflitto è fuori dalla scena, viene udito solo occasionalmente per l’esplosione di qualche missile lontano. «Winston non riusciva a ricordare precisamente un momento nel quale il paese non fosse stato in guerra», scriveva Orwell in “1984” (lo stesso si può dire di tutti gli adolescenti americani di oggi).In un’epoca nella quale le guerre americane sono combattute con missili di precisione lanciati dai droni, nelle quali sono coinvolte solo poche unità speciali in operazioni di terra, in luoghi remoti del Medio Oriente, con qualche sporadico attacco in città come Londra, Parigi, Madrid e New York, questi passaggi del romanzo suonano di una preveggenza inquietante: «È uno stato di guerra dagli obiettivi limitati, tra combattenti che non sono in grado di distruggersi a vicenda, e non hanno cause materiali per le quali combattere… Coinvolge un piccolo numero di persone, per lo più specialisti altamente addestrati, e causa relativamente pochi morti. I combattimenti, quando hanno luogo, avvengono in remoti luoghi di frontiera la cui ubicazione è pressoché ignota all’uomo comune… Nei centri abitati la guerra non significa altro che… la caduta occasionale di un razzo che causa qualche decina di vittime».La seconda ragione che spiega la rinnovata attualità di Orwell è la crescita dell’intelligence dopo l’11 Settembre. Viviamo con uno Stato intrusivo, invadente, sia in Occidente che in Oriente. All’inizio degli anni 2000 il governo americano uccideva regolarmente persone in paesi con i quali non era ufficialmente in guerra usando mezzi aerei controllati da remoto. Questa tattica è conosciuta come “attacco all’impronta” [signature strike], e colpisce uomini in età da servizio militare che mostrano comportamenti minacciosi che possono essere associati al terrorismo, come ad esempio parlare al telefono con terroristi noti o partecipare con loro a una riunione. Molte centinaia di queste uccisioni hanno avuto luogo in Pakistan, Yemen e Somalia. Una raccolta di metadati, che mettono insieme migliaia di miliardi di bit di informazioni esaminati dall’intelligence, permette ai governi di elaborare silenziosamente dei dossier sul comportamento di milioni di individui. Certo, il governo americano ha agito in questo modo letale e intrusivo dopo gli attacchi dell’11 Settembre. Orwell avrebbe probabilmente denunciato senza mezzi termini sia quegli attacchi che la reazione di panico del governo Usa. La luce che lo guidava era la libertà di coscienza, libertà sia dal controllo del governo che dagli estremismi, fossero essi religiosi o ideologici.Come egli stesso ha detto: «Se la libertà significa qualcosa, è il diritto di dire alle persone ciò che esse non vogliono ascoltare». Da questo punto di vista è significativo che la più grande minaccia alla libertà percepita da Winston, il protagonista di “1984”, non provenisse da altri paesi, ma dal suo stesso governo. Il terzo e forse più scioccante motivo è che l’uso della tortura descritto in “1984” prefigura i modi in cui essa viene utilizzata dagli stati di oggi nella loro interminabile “guerra al terrore”. Dopo l’11 Settembre e per la prima volta nella storia americana la tortura è diventata una politica ufficiale (prima di allora veniva usata occasionalmente, ma sempre contro la legge, e talvolta come tale veniva punita). Per capire meglio l’anno 2017 tornate ai tre più celebri libri di Orwell. Il primo è Omaggio alla Catalogna, nel quale mostra come la sinistra possa mentire esattamente come fa la destra, e diventa scettico verso qualsiasi esercizio del potere. Secondo, “La Fattoria degli Animali”, che lui definisce una favola, una versione per adulti di una storia di disincanto. E infine “1984”, nel quale Orwell aggiorna il racconto dell’orrore. Il suo mostro non è Frankestein, ma lo Stato moderno.(Thomas E. Ricks, “Stiamo (ancora) vivendo in un mondo orwelliano”, estratto dell’ultimo libro di Ricks pubblicato da “Foreign Policy il 24 luglio 2017, tradotto e ripreso da Henry Tougha per “Voci dall’Estero”).Alcuni critici sostenevano che dopo l’anno 1984 la rilevanza di George Orwell sarebbe andata diminuendo. Nel 1987 Harold Bloom scriveva che il più grande romanzo di Orwell sul totalitarismo, “1984”, rischiava di diventare un libro storico, un po’ come “La Capanna dello Zio Tom”. Anche il critico letterario Irving Howe, un grande sostenitore di Orwell, pensava che “1984” avrebbe presentato per le future generazioni «un interesse più che altro storico». Eppure, invece di affievolirsi, la popolarità di Orwell sta crescendo in tutto il mondo. Il fatto che il contesto storico di “1984” sia ormai trascorso sembra avere “liberato” il romanzo, rendendo chiaro che il suo messaggio si riferisce a un problema universale dell’umanità moderna. Negli anni recenti le sue parole hanno suscitato un notevole interesse presso la nuova generazione post-Guerra Fredda. «Sono sicuro che George Orwell non pensava: ‘Devo scrivere una storia istruttiva per un ragazzo iracheno’, mentre scriveva “1984”», ha sottolineato lo scrittore iracheno Hassan Abdulrazzak nel 2014. «Ma questo libro mi ha spiegato cosa fosse l’Iraq di Saddam meglio di chiunque altro, prima o dopo».
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Come vaccinarsi contro decreto-vaccini e politici impostori
«Con l’infame decreto vaccini stiamo vivendo una delle pagine più nere dell’aggressione di forze anticoscienza alla costituzione umana ed alla sua evoluzione». Lo sostiene Fausto Carotenuto, già analista internazionale dell’intelligence, ora promotore del network “Coscienze in Rete”. La sua tesi di fondo: il potere si sta imbarbarendo perché scorge, ancora sottotraccia, un potenziale “risveglio” delle coscienze, e dunque tenta di reprimerlo. «Negli ultimissimi decenni», secondo Carotenuto, «è in corso la più grande rivoluzione della storia: la rivoluzione delle coscienze, che stanno cominciando a risvegliarsi in grandi numeri, per la prima volta nella storia umana». E’ una lotta per far emergere «la propria interiorità che vuole il bene, il bene vero per tutti e non solo per sé», in un mondo «dominato da istituzioni oscure e di potere». Cresce la voglia di consapevolezza, cioè «sapere la verità delle cose che ci circondano, che siano alimenti, medicine, malattie, avvenimenti, politica, economia, finanza, lavoro, arte, cultura, ambiente, spiritualità». E se la conoscenza rende più liberi, i vaccini obbligatori rappresentano «una campagna di indebolimento del sistema immunitario umano, ideata per minare alle basi le possibilità di ulteriore crescita della coscienza».Se il punto di partenza di Carotenuto è spiritualistico, la sua analisi affronta anche i passaggi politici e sociologici, osservando ad esempio le proteste spontanee contro il decreto-vaccini. Proteste che rappresentano «una fiammata di voglia di libertà che sta coagulando tutto lo sparso e disorganizzato mondo del “risveglio di coscienza”», ovvero «quel mondo di persone libere che stanno cercando una vita diversa, fatta di una alimentazione e di una medicina consapevoli, nuove, etiche. Il mondo dell’olismo, delle medicine nuove, della nuove spiritualità, del biologico, della economia solidale, della finanza etica, della cultura del bene per tutti». Un mondo su cui è caduta la tegola del decreto-vaccini: «Questa aggressione fino ad ora ha prodotto solamente il meraviglioso risultato di far vibrare insieme un esercito di coscienze fino ad ora troppo sparse e disorganizzate, finalmente unite al grido di “libertà”», scrive Carotenuto su “Coscienze in Rete”. L’analista parla di «protervia, cecità e sfrenato egoismo» da parte dei «poteri anticoscienza», che forse hanno compiuto «un passo eccessivamente azzardato, per loro infine controproducente».Con i vaccini, aggiunge Carotenuto, «stanno perseguendo il disegno di indebolire il sistema immunitario umano», cioè «la presenza dello spirito nella nostra costituzione psico-fisica», come uno degli strumenti principali «per frenare la crescita della coscienza umana, ora in pieno sviluppo». Ma, aggiunge, quelli che chiama Poteri Oscuri «non hanno calcolato il livello già raggiunto dal risveglio di coscienza». E spiega: «Solamente dieci anni fa avrebbero potuto fare meglio questa operazione: non ci sarebbero state masse di persone consapevoli in rivolta in nome della libertà. E poi hanno aggredito un tema, quello della salute dei figli, capace di generare reazioni enormi in qualsiasi popolo. Ma forse ancora di più in quello italiano, più fortemente legato ai sentimenti familiari». Folle nelle piazze, dunque. E questa fiammata inattesa ha spiazzato i partiti. «Più furba di tutti la Lega, che ha colto subito la possibilità di avere voti sposando le tesi “no vax”. Ma sarebbe il colmo se, mossi dalla voglia di bene e dall’amore, si finisse per votare il partito dell’odio. Così come un altro partito che ha fatto dell’odio la sua bandiera, il 5 Stelle, si è ritrovato in grave difficoltà: lanciato verso il governo dai gruppi internazionali di potere che lo hanno creato, è costretto a mostrare il suo vero volto, e a sposare sostanzialmente le tesi pro-vaccino, quando moltissimi di quegli elettori che ha illuso fino ad ora sono proprio nel movimento del risveglio».Tutto questo, sostiene Carotenuto, «servirà a molte persone ad aprire gli occhi e a capire cosa è in effetti il vertice dei 5 Stelle», ovvero «uno strumento gattopardesco degli stessi poteri che dice di combattere». Un imbroglio: «Un modo per illudere proprio le coscienze in risveglio» è proprio quello di presentarsi come «grande partito nel quale ritrovarsi e che potrà cambiare le cose in meglio, per lasciarle con un po’ di cosmesi esattamente nelle mani di chi il potere lo ha da millenni». Ormai è chiaro – e lo dimostrano anche le grandi città che ora governa – che man mano che il grillismo si avvicina al potere, «mostra le stesse, identiche propensioni degli altri partiti: servire i poteri internazionali a danno della gente». Il Pd da parte sua «ha mostrato ancora il suo vero volto di partito strumento del potere e delle lobbies a discapito dei cittadini». e infatti «non riesce a provare alcuna sensibilità nei confronti dei veri interessi della gente». Così come Forza Italia, «che sta ora facendo l’occhiolino ai “no vax” con l’unico scopo di guadagnare qualche voto ed eventualmente tornare a governare nel modo pessimo che le è tipico».Aggiunge Carotenuto: è singolare come tutti questi poteri, «che hanno sempre dominato facendosi abusivamente “pastori” di greggi di “pecore” umane, che come tali andavano quindi trattate, stiano ora assistendo alla rivolta delle coscienze su un tema che comprende proprio la tanto decantata balla della “immunità di gregge”». Una parte del “gregge” non vuole più esserlo, e non solo per i vaccini: per tutto, in nome della libertà. «E’ un segnale molto forte, al quale il potere risponde ancora giocando sul fatto che la maggioranza della popolazione ancora non si è risvegliata». E’ sempre utilizzabile come “gregge”. E va usata «come clava maggioritaria contro i diritti umani della gente in risveglio». La tattica è antoca, quella del divide et impera, basata «sul creare una spaccatura tra gli “obbedienti” ciechi e sordi e gli “untori”». Un gioco di manipolazione del sistema democratico. Ma lo stesso movimento di opposizione al decreto-vaccini non è immune da pericoli, avverte Carotenuto: è fontamentale «che l’elemento coagulante sia la voglia di bene per tutti e non l’odio», rendendosi conto «dei lupi che già circolano nel movimento “no vax” per farsene guide e strumentalizzarlo per successive operazioni».«Con l’infame decreto vaccini stiamo vivendo una delle pagine più nere dell’aggressione di forze anticoscienza alla costituzione umana ed alla sua evoluzione». Lo sostiene Fausto Carotenuto, già analista internazionale dell’intelligence, ora promotore del network “Coscienze in Rete”. La sua tesi di fondo: il potere si sta imbarbarendo perché scorge, ancora sottotraccia, un potenziale “risveglio” delle coscienze, e dunque tenta di reprimerlo. «Negli ultimissimi decenni», secondo Carotenuto, «è in corso la più grande rivoluzione della storia: la rivoluzione delle coscienze, che stanno cominciando a risvegliarsi in grandi numeri, per la prima volta nella storia umana». E’ una lotta per far emergere «la propria interiorità che vuole il bene, il bene vero per tutti e non solo per sé», in un mondo «dominato da istituzioni oscure e di potere». Cresce la voglia di consapevolezza, cioè «sapere la verità delle cose che ci circondano, che siano alimenti, medicine, malattie, avvenimenti, politica, economia, finanza, lavoro, arte, cultura, ambiente, spiritualità». E se la conoscenza rende più liberi, i vaccini obbligatori rappresentano «una campagna di indebolimento del sistema immunitario umano, ideata per minare alle basi le possibilità di ulteriore crescita della coscienza».
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Tino Aime, il timido maestro che ha fatto parlare l’invisibile
Quando un maestro trasloca, tace il rumore e l’aria si popola di parole sospese, che restano lì e non se ne andranno. Tino Aime, riconosciuto caposcuola ed elegantissimo incisore, cresciuto nella Torino del dopoguerra, quella di Casorati, fu iniziato alla Libera Accademia sotto la guida di Idro Colombi. Era nato a Cuneo 86 anni fa. Discendeva da una stirpe di pastori annidata sulle impervie alture di Roaschia, valle Gesso, zona Nuto Revelli. Memorabile il primo incontro tra i due, in alta val Maira: lo scrittore a caccia di sopravvissuti in carne e ossa, il pittore in cerca di altre sopravvivenze, ancora più impalpabili. Nuto Revelli e poi anche Davide Lajolo, Nico Orengo, Massimo Mila, finissimi cantori come Francesco Biamonti. Tutti innamorati del segno inimitabile dell’ex ragazzo di Roaschia. Fino al grande Mario Rigoni Stern, vera e propria anima gemella, accomunato dallo stesso amore per i silenzi del bosco, la montagna scabra e nuda, la lingua nitida e sincera della neve. Il vero nome di Aime, Battista, rivela quasi una vocazione: un battesimo della luce, fatto di nuovi occhi per scrutare l’orizzonte e scoprire che, volendo, la meraviglia abita ovunque.Chi l’ha conosciuto ha potuto constatare la perfetta coincidenza tra l’opera e la vita: stessa capacità di dire tutto, con pochissimo, senza parlare quasi mai. Arte figurativa, in apparenza, ma con dentro le stimmate del vasto Novecento, il codice cifrato dei Sironi, dei Morandi. Le tele degli esordi raccontano periferie desolate, urbane, travolte dall’industria. Lo spirito del tempo: un carotaggio nel dolore, tra le macerie della guerra appena spentasi – tanto più vivo nell’artista giovanissimo, scampato con terrore (per due volte, da bambino) alle bombe degli alleati. Poi, però, Tino ha lasciato la città. Ha scelto la montagna, seguendo l’istinto: il ritorno alla terra magra degli antenati. E non ne ha fatto un’elegia, ma un cantico, riuscendo sempre a far vibrare l’aria. Schivo e ritroso, timidissimo, si è avventurato nel sua homeland che non ha confini, ha per frontiera solo il cielo. Niente alpinismo, nessuna cartolina. Terra vissuta, scura e primordiale, dentro un’archeologia di case diroccate, un’antropologia di assenze. Un viaggio nel silenzio, rischiarato dalla luna. Un’armonia di essenze indecifrabili e misteri, oltre il fraseggio elementare della geografia, dell’apparenza.Vedere quello che non c’è. Mostrare quel che c’è, ma non si vede. Una missione: condotta fino in fondo, per tutta la vita, come un dovere segreto, una promessa impossibile da estinguere. Tutto nasce da una strana confidenza, che avvicina all’invisibile. Narrazioni sottili, la finezza laconica dell’haiku. Ovunque espressa: nella solarità mediterranea del Ponente ligure, nei deserti spagnoli dell’Estremadura, nel bianco abbacinante dell’Andalusia. E tra le lande dell’amatissima Provenza dove Tino, ancora giovane, fu scelto – per elezione – dalla chiassosa banda dei gitani, il favoloso popolo migrante, alle prese coi festeggiamenti della loro regina, sulla spiaggia che ricorda il leggendario sbarco delle Marie venute dal mare, appena dopo il supplizio del Calvario. Tra i misteri di Tino Aime, il Battista cuneese, la passione con la quale – da laico irriducibile – ha offerto la sua arte alla simbologia spirituale, religiosa, con Cristi crocefissi – plastici, inteneriti – che adornano abbazie, chiese, cappelle di montagna.Si è spinto in Romania, tra le selve dei germani, nella laguna di Venezia – ricamando l’intarsio dei palazzi che si specchiano in un cielo d’acqua. Ma la sua vera casa è stata soprattutto la montagna piemontese, dalle natìe vallate d’Occitania fino alla patria di più recente acquisizione, la tormentata val di Susa, esplorata in profondità e fatta parlare in modo insospettabile, sciorinando storie e lingue sconosciute. Un’epica silente, che ricorda le cadenze di Neruda, l’attitudine domestica alla gioia, là dove non l’aspetti. Compaiono giganti, ma sono solo pettirossi, merli, ortensie. E tutto è misteriosamente sacro, in Tino Aime. Le sue notti incantate, i suoi inverni. L’impenetrabile splendore delle cose, recitato col cuore, rispondendo a una chiamata antica.Era anche amaro, a volte, il vecchio Tino. Scoraggiato, dalla barbarie incorreggibile del mondo. Siate onesti, ha mandato a dire – di recente – a una scolaresca di artisti in erba. E state in guardia: non fidatevi di quel che vi raccontano. Tino ha ascoltato tutti, ma poi ha sempre scelto in solitudine. Sapeva cosa fare, dove andare. Che verità evocare, sapendole tacere. Usava specchi, per incidere le lastre. Come Leonardo, conosceva l’arte del contrario – certo che il tutto, poi, si rivelasse alla distanza, senza strappi. Niente e nessuno in prima fila, mai, nel suo mosaico: parti dell’armonia, l’insieme risuonante. Amava lavorare a suon di musica, spesso sceglieva Bach. Ha frequentato – in buona compagnia, la sua – il gran paese da cui scendono silenzi e sogni. Quelli rimasti qui non svaniranno, grazie a lui.Quando un maestro trasloca, tace il rumore e l’aria si popola di parole sospese, che restano lì e non se ne andranno. Tino Aime, riconosciuto caposcuola ed elegantissimo incisore, cresciuto nella Torino del dopoguerra, quella di Casorati, fu iniziato alla Libera Accademia sotto la guida di Idro Colombi. Era nato a Cuneo 86 anni fa. Discendeva da una stirpe di pastori annidata sulle impervie alture di Roaschia, valle Gesso, zona Nuto Revelli. Memorabile il primo incontro tra i due, in alta val Maira: lo scrittore a caccia di sopravvissuti in carne e ossa, il pittore in cerca di altre sopravvivenze, ancora più impalpabili. Nuto Revelli e poi anche Davide Lajolo, Nico Orengo, Massimo Mila, finissimi cantori come Francesco Biamonti. Tutti innamorati del segno inimitabile dell’ex ragazzo di Roaschia. Fino al grande Mario Rigoni Stern, vera e propria anima gemella, accomunato dallo stesso amore per i silenzi del bosco, la montagna scabra e nuda, la lingua nitida e sincera della neve. Il vero nome di Aime, Battista, rivela quasi una vocazione: un battesimo della luce, fatto di nuovi occhi per scrutare l’orizzonte e scoprire che, volendo, la meraviglia abita ovunque.
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Guzzi: noi, umanità nuova, e i morti viventi ancora al potere
Questa crisi è antropologica, quindi molto più profonda dei numeri, molto più radicale. Ma è anche una grande crisi di crescita. Io sono positivo. È una grande crisi, ma non è più grande di noi: è alla nostra portata. Dobbiamo renderci conto della sua radicalità e prenderla di petto. È una crisi di crescita, è una crisi sostanzialmente evolutiva, e noi non siamo ancora in grado di interpretare questa direzione evolutiva e facilitarla. E questo la aggrava. Questa è la cosa più pericolosa: non tanto che la crisi sia antropologica, cioè è una crisi paragonabile a quella del Neolitico, perché sta cambiando un’antropologia, cioè un modo di essere uomini. La crisi antropologica del Neolitico è il momento in cui (grossomodo dall’8.000 al 5.000 a.C.) l’umanità si dà una forma che è poi quella che – con moltissime evoluzioni – arriva fino a noi. Inizia l’agricoltura, gli uomini cominciano quindi a stabilizzarsi in un luogo, a costruire le città, e sorge la civiltà che poi, con enormi mutazioni, arriva fino a noi. Noi siamo in una fase di trasformazione ancora più grande per l’essere umano. Questo vuol dire, in termini semplici, che tutto un modo di “essere umani”, come il diritto, l’economia, la filosofia, la democrazia, la politica, i rapporti sessuali, i rapporti familiari, cioè tutte le forme antropologiche, le istituzioni in cui l’umanità organizza la sua vita, sono in travaglio.Quelle che appartengono alla modalità che sta finendo tracollano. Ecco perché c’è una crisi generale. Tutto è in crisi perché le forme storiche – matrimonio, democrazia, università, religioni – è come se si stessero esaurendo, non ci soddisfano più. Per cui noi non sappiamo che fare. Siamo in una fase caotica – che è una fase, però, di transizione. Se noi riuscissimo a capire un po’ meglio quale figura di uomo si sta consumando e quale modalità nuova sta emergendo, riusciremmo a vivere questo passaggio per quello che è: un enorme momento di crescita. Mi viene in mente la fase decadente dell’Impero Romano. Ci vollero centinaia di anni, ci volle un’epoca di barbarie per far rifiorire un nuovo Rinascimento. Oggi forse, con tutta questa tecnologia, con la rete, potremmo metterci di meno? Quando abbiamo una crisi esistenziale, possiamo reagire in due modi diversi. Il primo modo è: negare la crisi, fare finta che la crisi non ci sia, non capire che certe modalità della nostra vita non funzionano più. Se facciamo così, cioè resistiamo, fingiamo, neghiamo, la crisi diventa molto lunga e molto dolorosa.Se invece iniziamo a interrogarci e ci chiediamo: “Ma forse c’è qualche cosa nella nostra vita che posso correggere, forse c’è qualche cosa nel modo di fare, nei miei affetti, nel modo in cui lavoro che non è giusto, che non va più bene, che posso incominciare a correggere”, se assumiamo un atteggiamento di questo tipo, direi di cura, allora la crisi solitamente è meno penosa e anche meno lunga. La stessa cosa vale per la nostra civiltà. Il problema è che questa civiltà non vuole capire. E non è mica una cosa che nasce ieri. Tutto il XX° Secolo è catastrofico dal punto di vista della vecchia umanità. Un certo tipo di “essere uomo” vive lungo il XX° Secolo catastrofi mondiali: due guerre mondiali, campi di concentramento, totalitarismi. C’è una fase di distruzione mostruosa. Eppure non abbiamo ancora ben capito, non vogliamo capire. E questo neoliberismo degli ultimi trent’anni – a mio parere – è la forma estrema di resistenza al cambiamento. Cioè, il vecchio io, l’uomo morente, quello che non funziona più, che io amo chiamare “Egoico bellico”, cioè un’umanità che si rafforza nel contrapporsi, contrapporsi all’altro, contrapporsi alla natura, ecco: questa forma tracolla, ma resiste.Il neoliberismo è una forma estrema di egotismo, di egocentrismo, di individualismo egoistico, cieco e suicidario, che non vuole capire la lezione. E quindi le catastrofi non sono rappresentative solo del nostro passato, ma sembrano purtroppo prefigurare anche il futuro. La politica vigente? E’ la politica neoliberista. Quindi le classi dominanti occidentali, oggi, sono i portavoce dell’io morente. Sono i portavoce di questa forma di umanità che è già morta, è già esaurita, ma che persiste a dominare sul mondo in una forma vampiristica o zombistica. È come un mondo di morti viventi che fingono di essere vivi, ma sono zombie, sono morti e vogliono che tutti siano come loro. Perché gli zombie, come i vampiri, vogliono che tu diventi come loro. Una metafora un po’ forte? Questa metafora era alla base anche del primo film di zombie, “La notte dei morti viventi“, diretto da George Romero, alla fine degli anni sessanta, che metteva in scena proprio questa critica della società. Tant’è vero che lo zombie lo uccidi annientando il cervello, perché è nel cervello che si annida quella forma di massificazione, di non-pensiero, che non può morire se non esiste – ma, appunto, era questo il paradosso, la metafora.D’altra parte “The Walking Dead”, il serial che sta avendo successo mondiale in questi anni (la storia – appunto – di un manipolo di umani che sono sopravvissuti a questa epidemia di zombie), simbolicamente molto significativo, ci racconta proprio la disperata volontà di questo gruppo di uomini di rimanere umani in un mondo di zombie. Ed è per questo che ha tanto successo, perché spesso le serie americane – in modo non sempre consapevole – riescono a parlare in modo diretto, ma anche mitico dei drammi dell’umanità contemporanea. Perciò hanno uno straordinario successo. “Breaking Bad”, “The Walking Dead”, insomma quelle… Ma anche “House of Cards”. Cioè… ci parlano come pochi, oggi, di questo tempo finale. Quel tempo che si viene a collocare dopo la fine della storia in cui siamo come congelati. Un po’ anche “Matrix” ci ha raccontato questo. Siamo bloccati e congelati, per cui i politici attuali – quelli che oggi dominano i paesi occidentali – sono i funzionari di questa resistenza al cambiamento e adoperano tutti i loro strumenti, specialmente le armi di distrazione di massa: cioè ci distraggono, ci distolgono, ci occupano per mesi interi a discutere di una legge elettorale in Italia che ha il valore del due di picche, capite?Nel contesto terminale in cui sta vivendo il pianeta, con fenomeni come quello migratorio che si sta scatenando e che nell’arco di pochi anni diventerà una cosa incredibile… I demografi ci dicono che nell’arco di 15/20 anni solo la Nigeria avrà 500 milioni di abitanti, cioè superererà l’intera area europea! Capite? Questo è il paesaggio prossimo futuro, e questi deficienti – questa vergognosa Unione Europea gestita da queste persone inverosimili – si occupano di quisquilie! Ma non è un caso: è appunto una strategia di distrazione, perché se ci dovessimo occupare dei veri problemi, l’intero assetto che loro dominano dovrebbe essere messo in discussione. Le vaccinazioni? Non posso pensare che, come tali, siano un male, perché le vaccinazioni nella storia – a partire dall’antivaiolosa – ci hanno liberato da alcune patologie. Che poi ci sia una degenerazione, un pericolo, un eccesso per cui dobbiamo obbligatoriamente farne 12, su questo anch’io ho qualche dubbio. Ma anche questo si può inserire nel processo di meccanicizzazione tecnologica della società, dove l’unico criterio che si adotta è la quantificazione di pulegge e ruote, ingranaggi che girano.Tutto è algoritmo, il fattore umano è diventato un inquinante. Cioè è tutta una questione di numeri, di leve, di giochi di forza e di potere, di catene di montaggio. E’ chiaro che la “figura di umanità morente”, che io chiamo “egoico-bellica” ma che si può chiamare anche neoliberista, materialistica, nichilistica, questa forma di umanità vuole sostanzialmente eliminare l’io umano come principio libero e spirituale. Quindi vuole trasformare l’essere umano in qualcosa di meccanico, di non spirituale, di non libero, essenzialmente, di condizionato e determinato al punto da potersi inserire dentro un sistema nel quale tu sei solo una rotellina sostituibile, come diceva Heidegger. Tutto dev’essere sostituibile. E questa è proprio la natura antitetica dell’io. L’io, nel suo mistero è proprio insostituibile. Ognuno di noi è se stesso: un mistero insostituibile. Loro vogliono, invece che tutto venga sostituito. E da qua, per esempio, la svalutazione crescente del mondo del lavoro, delle professioni. Perché le professioni connotano qualche qualità umana che non è sostituibile. Invece tutto deve essere sostituibile, tutto deve essere disanimato, calcolabile, contabile.Tutto deve essere ridotto a numero, a economia matematica che viene fatta passare come legge naturale, come se fosse una legge della natura. Mentre sappiamo – almeno da 150 anni – che non esiste alcuna economia come scienza esatta, ma esiste sempre un’economia che è l’organizzazione di interessi molto precisi. E qui è il punto. È questo che non si vuole mostrare. È questo l’indicibile! E qui ci stanno degli interessi precisi di élite oligarchiche precise che dominano il mondo a livello finanziario. Ma questo oggi ce lo dice Habermas, cioè ce lo dicono pensatori moderati. Quest’idea del complottismo è veramente ridicola e denuncia una grande ignoranza. Perché allora è complottista anche il Papa, è complottista Habermas, è complottista Rifkin, cioè sono complottisti praticamente tutti quelli che ancora pensano. Ci sarebbe da chiedere, se questi sono complottisti, gli altri chi sono? Sono quelli che i complotti li fanno davvero! Perché questo è il problema: c’è una vasta area di collaborazionismo, oggi! Perciò ci vuole una rivoluzione culturale inedita, che è la rivoluzione della nuova umanità. Cioè, quella che sta nascendo in questa crisi, perché sta nascendo una nuova umanità. Un’umanità più relazionale, un’umanità che non si può meccanicizzare, che scopre i livelli più profondi di libertà interiore e li vuole manifestare socialmente.L’uomo nascente, la nuova umanità, ancora non trova dei fuochi di aggregazione, per cui è disseminata e molto controversa e confusa. Quindi dobbiamo trovare dei minimi comuni denominatori, cioè dei punti su cui persone molto diverse, che hanno anche formazioni diverse, potranno convergere in questa dinamica rivoluzionaria. E io credo che i punti poi siano pochi, quelli necessari per creare poi un’aggregazione. C’è un accordo tra una visione laica e una visione di chi pratica il buddismo, lo yoga, le medicine alternative e via dicendo: tutti concordano sul fatto che è un’intera figura di umanità che non funziona più. Il secondo punto su cui possiamo concordare tutti è che questo passaggio non può essere soltanto estrinseco, cioè “cambiamo le strutture del mondo”, come sono state le rivoluzioni moderne: “assaltiamo la Bastiglia”, “prendiamo il Palazzo d’Inverno”, “facciamo l’insurrezione mazziniana”… No! Questo è oggi impossibile. Dobbiamo organizzare un movimento di trasformazione che parta sempre anche dal profondo di sé. Cioè, il Palazzo d’Inverno ce l’ho anche dentro di me. La modalità “egoico-bellica” c’è anche nei gruppi alternativi ed è fortissima! La modalità bellica di pensare la trovi anche in tanti pacifisti. Dobbiamo collaborare ad un processo che certo sarà secolare, però ce lo possiamo godere anche oggi.Dobbiamo immaginare un movimento che sia al contempo interiore, diciamo spirituale in senso assolutamente transconfessionale, e politico-storico. Insieme, su questi due grandi fuochi, io credo che potremo organizzare un’aggregazione finalmente in grado di avere una rappresentanza politica e finalmente mettere seriamente in crisi il sistema, altrimenti rimaniamo nell’ambito dell’idealismo, della testimonianza, anche bella ma di nicchia, e non potremo aspirare a quello che invece dobbiamo aspirare: cioè a trasformare le strutture. La grande riforma implica una riforma spirituale. Dobbiamo cioè aiutarci a far uscire l’umanità dalla modalità bellica, che non è naturale. Ecco perché io ho creato dei gruppi di liberazione interiore, con un percorso che dura sette anni. Perché sennò sono chiacchiere. E di chiacchiere, negli ultimi duecento anni, ne abbiamo sentite tante… Dall’Illuminismo in poi c’è questa idea che l’uomo, di punto in bianco, diventi santo, diventi generoso, diventi altruista, ma sono tutte balle! Poi abbiamo prodotto il Terrore di Robespierre, abbiamo prodotto le devastazioni del comunismo nel XX° secolo in nome della pace e della giustizia e della libertà. Dovrebbe essere finito questo tempo, cioè: trasformarci è un lavoro quotidiano.Ma questo deve poi divenire un movimento storico, culturale e quindi politico. Politico nel senso grande e in un senso nuovo. Dovremmo creare aggregazioni, anche delle forme di attestazione non-violenta, totalmente post-novecentesca, post-ideologica, direi ridente, sorridente e determinata, che abbia la forza della novità, la forza della vita crescente. Capite che è travolgente la vita che cresce? Se ne strafotte del passato, non ha nemmeno più bisogno di confutarlo, si manifesta nella sua novità. La novità è travolgente. Questo è quello che io sento e che i grandi poeti – ai quali mi rifaccio – profetizzano da almeno duecento anni. Perché questa è una storia – ripeto – antica, è una storia antica che sta vivendo una fase nuova. Ma non è una cosa che nasce adesso. L’idea della nuova umanità non nasce adesso: ha perlomeno duemila anni, in Occidente. E tutta la modernità – a partire del XV°/XVI° secolo – si è proposta come una nuova umanità. Noi siamo in una fase nuova di questo lungo processo e anche questo lo dobbiamo capire, perché altrimenti poi facciamo la new age, che è un fenomeno di costume, si sbriciola.I passi io li vedo molto semplici e chiari, anche se poi i tempi della realizzazione storica di questa insurrezione non sono facilmente prevedibili. Bisogna partire da sé stessi, ma bisogna ripartire tutti i giorni. Cioè non è che parti e poi te lo scordi. L’insurrezione della nuova umanità è il processo quotidiano attraverso il quale ci liberiamo di legami interiori, schiavitù, paure, blocchi, terrori, risentimenti, di tutto ciò che impedisce alla nuova umanità, alla sua creatività di esprimersi. Questo è il primo passo sempre da rifare. Dopodiché, questa cosa bisogna viverla in gruppi, non è che la vivi da solo. Bisogna espandersi a cerchi concentrici partendo dai gruppi – potremmo dire – più iniziatici, quelli che lavorano assiduamente su di sé. Bisogna poi che questo diventi un discorso comune, ecco: dobbiamo far sì che questi concetti elaborino una nuova cultura.(Marco Guzzi, dichiarazioni rilasciate a Claudio Messora per la video-intervista “Siamo entrati in un nuovo Neolitico”, pubblicata da “ByoBlu” il 16 giugno 2017. Poeta e filosofo, Guzzi è il fondatore del movimento “Darsi pace”, un laboratorio di nuova umanità).Questa crisi è antropologica, quindi molto più profonda dei numeri, molto più radicale. Ma è anche una grande crisi di crescita. Io sono positivo. È una grande crisi, ma non è più grande di noi: è alla nostra portata. Dobbiamo renderci conto della sua radicalità e prenderla di petto. È una crisi di crescita, è una crisi sostanzialmente evolutiva, e noi non siamo ancora in grado di interpretare questa direzione evolutiva e facilitarla. E questo la aggrava. Questa è la cosa più pericolosa: non tanto che la crisi sia antropologica, cioè è una crisi paragonabile a quella del Neolitico, perché sta cambiando un’antropologia, cioè un modo di essere uomini. La crisi antropologica del Neolitico è il momento in cui (grossomodo dall’8.000 al 5.000 a.C.) l’umanità si dà una forma che è poi quella che – con moltissime evoluzioni – arriva fino a noi. Inizia l’agricoltura, gli uomini cominciano quindi a stabilizzarsi in un luogo, a costruire le città, e sorge la civiltà che poi, con enormi mutazioni, arriva fino a noi. Noi siamo in una fase di trasformazione ancora più grande per l’essere umano. Questo vuol dire, in termini semplici, che tutto un modo di “essere umani”, come il diritto, l’economia, la filosofia, la democrazia, la politica, i rapporti sessuali, i rapporti familiari, cioè tutte le forme antropologiche, le istituzioni in cui l’umanità organizza la sua vita, sono in travaglio.
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Alberoni: Islam radicale? Recente, e prodotto dall’Occidente
Scontro di civiltà? Ma mi faccia il piacere. L’arma letale della “guerra infinita” avviata dagli Usa l’11 settembre 2001 con il pretesto dell’attentato alle Torri Gemelle, e tuttora in corso, si basa sulla fabbricazione in vitro della “minaccia islamista”. Dopo decenni di brutale sfruttamento e selvaggia colonizzazione, oggi esistono masse arabe esasperate dagli abusi subiti. Ma, avverte il sociologo Francesco Alberoni, è stato l’Occidente a radicalizzare l’Islam, o meglio quella parte di Islam oggi utilizzata dalla strategia della tensione internazionale messa in piedi dal Deep State, il partito-ombra della “guerra infinita”. Per renderci conto dei rapporti fra Islam e Cristianesimo nei secoli, scrive Alberoni sul “Giornale”, è utilissimo il libro di uno scrittore inglese, William Dalrymple, “Dalla montagna sacra”. La montagna sacra è il monte Athos, da dove nel 587 partirono due monaci bizantini per visitare le ricche chiese e i fiorenti monasteri diffusi nell’Impero Bizantino, dall’Asia Minore alla Siria, fino all’Egitto. L’autore ha rifatto lo stesso viaggio oggi: rivisitando quelle zone, abbiamo un’idea delle fasi del processo di islamizzazione. Che non è affatto antico, né endogeno.«Il radicalismo islamico antioccidentale e anticristiano è recente», osserva Alberoni. «Gli eserciti del profeta e il governo dei califfi furono, nel complesso, tolleranti. Al suo apogeo, Baghdad era una stupenda città cosmopolita e multireligiosa». Gli imperi, aggiunge lo studioso, sono sempre multietnici e multireligiosi: «Solo con l’arrivo dei mongoli ci furono massacri e rovine. Che finirono quando sorse un nuovo impero, quello ottomano, dove le comunità cristiane e i monasteri poterono sopravvivere e qualche volta prosperare». La rovina, sottolinea Alberoni, è avvenuta alla fine della Prima Guerra Mondiale, quando la nazione turca impose la purezza della razza turca e la religione islamica: «Vennero uccisi o cacciati i greci, sterminati gli armeni e annientato il resto». Di fatto, «la Turchia imitava l’Europa e voleva diventare europea ma ad un certo punto c’è stato un vero e proprio processo di rigetto dei valori dell’Occidente».L’integralismo, sostiene Alberoni, «nasce quando il mondo islamico subisce l’influenza occidentale ma intimamente si ribella e, quando si accorge di essere inferiore, vuol superarlo e sconfiggerlo facendo ritornare i paesi islamici alla purezza e alla potenza dell’epoca di Maometto e poi islamizzare l’Europa e il mondo». Per tutto il XX secolo, ricorda Alberoni, c’è stato un immenso movimento islamista, costituito da diverse ondate: in Pakistan e in Algeria, in Sudan, poi i Fratelli Musulmani in Egitto, i khomeinisti sciiti in Iran, i Talebani in Afghanistan, «con una profonda influenza sulla popolazione islamica». Fino alle recentissime propaggini terroristiche, completamente infiltrate e pilotate dall’intelligence occidentale: prima Al-Qaeda, ora l’Isis in Iraq e Siria, più Boko Haram in Nigeria. «Nelle zone dove sono avvenuti gli scontri con gli integralisti, le comunità cristiane sono finite, i cristiani morti o emigrati». Del passato, conclude Alberoni, restano solo le rovine: «Il viaggio di William Dalrymple mostra un immenso deserto culturale con pochi sopravvissuti spaventati».Scontro di civiltà? Ma mi faccia il piacere. L’arma letale della “guerra infinita” avviata dagli Usa l’11 settembre 2001 con il pretesto dell’attentato alle Torri Gemelle, e tuttora in corso, si basa sulla fabbricazione in vitro della “minaccia islamista”. Dopo decenni di brutale sfruttamento e selvaggia colonizzazione, oggi esistono masse arabe esasperate dagli abusi subiti. Ma, avverte il sociologo Francesco Alberoni, è stato l’Occidente a radicalizzare l’Islam, o meglio quella parte di Islam oggi utilizzata dalla strategia della tensione internazionale messa in piedi dal Deep State, il partito-ombra della “guerra infinita”. Per renderci conto dei rapporti fra Islam e Cristianesimo nei secoli, scrive Alberoni sul “Giornale”, è utilissimo il libro di uno scrittore inglese, William Dalrymple, “Dalla montagna sacra”. La montagna sacra è il monte Athos, da dove nel 587 partirono due monaci bizantini per visitare le ricche chiese e i fiorenti monasteri diffusi nell’Impero Bizantino, dall’Asia Minore alla Siria, fino all’Egitto. L’autore ha rifatto lo stesso viaggio oggi: rivisitando quelle zone, abbiamo un’idea delle fasi del processo di islamizzazione. Che non è affatto antico, né endogeno.
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Magaldi: piango, per questa miserabile politica italiana
Legge elettorale col sistema tedesco? C’è un’invasione di personaggi e culture politiche tedesche: l’Italia sembra tornata a prima della Seconda Guerra Mondiale, quando l’influenza tedesca è stata sinistramente egemone. Oggi, al posto del truculento argomentare di Hitler abbiamo questa apparente pacioccona, questa ragazzotta tedesca ormai invecchiata, che però mette insieme il cinismo di alcuni ambienti dell’ex Germania Est con il peggio delle tendenze imperialiste di lungo corso della Germania, che precedono anche Hitler e la stagione del nazismo. Dopo aver mutuato l’austerità e avere introiettato tutte le “frescacce” che ci sono state propinate, in termini di dottrine economiche disutili per il popolo italiano e per l’Europa, utili solo per una Germania fattasi tramite di poteri sovranazionali, adesso ci viene proposta anche una legge elettorale simile a quella tedesca, proporzionale, con sbarramento al 5%. Quindi non sarebbe un proporzionale vero, che fotografi le articolazioni politiche come fu nella nostra Prima Repubblica, con partiti dignitosissimi con una storia culturale e ideologica importante, magari sotto il 5% ma che fecero cose anche egregie.No, viene proposto questo perché, evidentemente, è un sistema che – come qualcuno ha già detto – in Germania ha prodotto “grosse coalizioni” quasi sempre, mettendo in difficoltà il singolo partito o una colazione netta di governo. Dunque non produce vere alternanze, ingessa il sistema politico e forse è proprio questo il punto: qualcuno pensa che questo ingessamento sia necessario per neutralizzare il Movimento 5 Stelle. D’altra parte, si osserva che lo stesso Grillo, insieme a qualcuno dei pentastellati, potrebbe auspicare questo sistema, perché favorirebbe il nuovo abbraccio tra Berlusconi, Renzi e tutti quanti. Ma stanno già tremando, i “tutti quanti”: perché i vari Alfano e gli pseudo-progressisti di D’Alema, Bersani e Speranza sanno che non arrivano al 5% e quindi dovrebbero trovare prima un modo di ricevere una qualche elemosina dai rispettivi partiti di cui sono satelliti. Grillo sarebbe favorevole perché così, da quell’abbraccio, lui prenderebbe il via, poi, per una stagione in cui trionferebbe, dopo aver visto l’ennesima coalizione degli “impuri” e dei “corrotti”.Io piango, su questa miseria. Piango e rido insieme, come avrebbe detto Giordano Bruno: non saprei se divertirmi o disgustarmi, perché questo è un altro atto di una stagione veramente miserabile della politica italiana, che non ragiona in termini di regole del gioco lungimiranti per tutti, per il bene comune, ma fa calcoli di bottega, di corto respiro. Quindi credo che sia sempre più necessaria l’entrata in campo del “partito che non c’è”, di cui si parlerà il 10 giugno con tanti amici, a partire da quelli di “Pandora.Tv” e Giulietto Chiesa. Parlo del Partito Democratico Progressista. Anche perché, intanto, siamo ancora e sempre alle prese con una serie di saltimbanchi della politica italiana, che anche in questa occasione della legge elettorale non hanno mancato di evidenziare la propria mediocrità e la propria pochezza. Io vedrei con favore, in teoria, qualunque governo che fosse una soluzione di continuità rispetto al recente passato, che ha visto centrodestra, centrosinistra e “grossa coalizione” governare, tutti, male. Discorso di metodo, fatto anche per Roma: nella capitale, centrodestra e centrosinistra avevano mal governato e quindi era giusto dire “avanti la Raggi”. Più saggio e lungimirante sarebbe stato che il gruppo Raggi mettesse al primo posto il benessere di Roma, accettando la nostra proposta di collaborare con Nino Galloni e altre figure del Movimento Roosevelt. Risultato? Il “nuovo che avanza” non governa meglio del “vecchio” che sta là a gufare.E se Roma non è ben governata, il rischio c’è anche per l’Italia, sebbene in uno scenario che non mi sembra imminente: perché questa legge elettorale con lo sbarramento al 5%, che magari ha anche l’appoggio mefistofelico di Grillo e di alcuni pentastellati, non è fatta per far vincere, ora, il Movimento 5 Stelle; è per farlo vincere non domani, ma dopodomani. Però il punto è: su quale programma il Movimento 5 Stelle vuole governare l’Italia? Io ancora non l’ho capito. Forse non è pronto. Da un lato non lo sarà mai, se non si dà una ristrutturazione ideologica. E dall’altro potrebbe esserlo molto presto, se non si pone più soltanto il problema di raccogliere il consenso, ma anche di governare, sia le città che il paese. E non vale l’esempio della Appendino che governerebbe bene Torino, perché quella città si governa bene da sé: è amministrata abbastanza bene da molti anni, a prescindere da chi siede sulla poltrona di primo cittadino. Intendiamoci: ad oggi, il Movimento 5 Stelle ha tutto il diritto di chiedere per sé il governo del paese, per dimostrare di poter fare meglio degli altri, ma non si è ancora strutturato con un programma adeguato allo scopo. Per questo immagino sia ormai davvero inevitabile pensare al “partito che non c’è”.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a David Gramiccioli il 29 maggio 2017 nella diretta radiofonica “Massoneria on Air” su “Colors Radio”. Non è la prima volta che Magaldi accenna all’ipotetico Partito Democratico Progressista, che imposterebbe una politica di completa rottura col passato, partendo da un punto fondamentale: dire “no” a questa Ue, al Fiscal Compact, al pareggio di bilancio nella Costituzione).Legge elettorale col sistema tedesco? C’è un’invasione di personaggi e culture politiche tedesche: l’Italia sembra tornata a prima della Seconda Guerra Mondiale, quando l’influenza tedesca è stata sinistramente egemone. Oggi, al posto del truculento argomentare di Hitler abbiamo questa apparente pacioccona, questa ragazzotta tedesca ormai invecchiata, che però mette insieme il cinismo di alcuni ambienti dell’ex Germania Est con il peggio delle tendenze imperialiste di lungo corso della Germania, che precedono anche Hitler e la stagione del nazismo. Dopo aver mutuato l’austerità e avere introiettato tutte le “frescacce” che ci sono state propinate, in termini di dottrine economiche disutili per il popolo italiano e per l’Europa, utili solo per una Germania fattasi tramite di poteri sovranazionali, adesso ci viene proposta anche una legge elettorale simile a quella tedesca, proporzionale, con sbarramento al 5%. Quindi non sarebbe un proporzionale vero, che fotografi le articolazioni politiche come fu nella nostra Prima Repubblica, con partiti dignitosissimi con una storia culturale e ideologica importante, magari sotto il 5% ma che fecero cose anche egregie.
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Laurenti: Ilaria Alpi e Carlo Giuliani, stessi killer (nostri 007)
«Fotografò un uomo, un carabiniere, mentre fracassava il cranio di Carlo Giuliani, già a terra, colpito ma ancora vivo. E poi ammise: ho avuto più paura a Genova che tra i miliziani in Somalia. Poi quella foto è scomparsa per sempre». Parola di Giulio Laurenti, scrittore, autore del romanzo d’inchiesta “La madre dell’uovo” che gli è costato minacce e pericolose intrusioni. Il sospetto: Carlo Giuliani è stato ucciso al G8 di Genova nel 2001 per ordine delle stesse persone che, sette anni prima, avevano fatto assassinare a Mogadiscio Ilaria Alpi, giornalista del Tg3. La traccia parte dalla confessione di quel fotografo, di cui Laurenti non fa il nome. «Ho saputo comunque che, prima di essere a piazza Alimonda al momento dell’omicidio Giuliani, aveva lavorato coi militari italiani in Somalia». Retroscena inquietanti, come quelli contenuti nel diario pubblicato nel 1997 dal maresciallo Francesco Aloi, del Sismi, allora in forza in Somalia: nel documento, poi secretato, Aloi accusa alcuni alti funzionari dei servizi, tra cui l’ufficiale dei carabinieri Claudio Cappello e il colonnello Giovanni Truglio, già a capo della polizia militare Msu in Iraq e ora alla guida, in Italia, di Eurogendfor, la misteriosa super-gendarmeria europea dotata di poteri illimitati, e di cui si sa pochissimo.Intervistato da Stefania Nicoletti ai microfoni di “Border Nights”, Laurenti ripercorre le tappe salienti del suo lavoro. «Non ho mai avuto tesi precostituite, mi sono limitato a verificare collegamenti, cercando di dar loro un significato». Nel suo memoriale, «che sembra far parte di una sorta di “guerra tra servizi”», il maresciallo Aloi accusa con inistenza alcuni ufficiali, come Truglio e Cappello: dice che potevano muoversi in territorio somalo come “fantasmi”, senza neppure essere controllati dalla Cia. La loro missione: tenere i contatti con i “signori della guerra”. Il veterano dell’intelligence attribuisce agli ex colleghi la “copertura” di svariate operazioni: contrabbando di armi e di avorio, traffico di scorie e rifiuti tossici. In più, imputa ad essi il ricorso sistematico alla tortura – e anche all’omicidio per chi, come Ilaria Alpi (e Miran Hrovatin) si avvicinasse troppo alla verità. «La cosa sorprendente è ritrovare quei nomi, quegli ufficiali, sette anni dopo a Genova, in piazza Alimonda, a pochi metri da Carlo Giuliani, durante il suo assassinio».Gli stessi uomini presenti sulla scena di due delitti: ma quale sarebbe il movente dell’omicidio Giuliani? «L’idea che mi sono fatto di piazza Alimonda – dichiara Laurenti a Stefania Nicoletti – è che è stata un’esercitazione, probabilmente per far fuori un carabiniere», in quel caso Mario Placanica, il militare accusato di aver sparato al manifestante No-Global. «A pensarla così è anche un magistrato romano come Alfonso Sabella», aggiunge Laurenti. E perché mai mettere nei guai un carabiniere? «Per eliminare la legge Calcaterra, che dagli anni ‘50 proibisce ai carabinieri di gestire l’ordine pubblico nei centri abitati oltre i 15.000 abitanti». La sua abrogazione, continua Laurenti, è stata inutilmente richiesta, più volte. «Ma ora c’è la gendarmeria europea, che rappresenta il superamento di quella norma. E lo stesso Truglio è a capo di Eurogendfor». Per il suo lavoro, Giulio Laurenti è stato pesantemente ostacolato e intimidito: telefoni isolati dopo le chiamate, pc inaccessibile, account Facebook violato.I “disagi” informatici, scrive Eleonora Bianchini sul “Fatto Quotidiano”, sono iniziati nel 2011, quando lo scrittore ha iniziato a indagare su Carlo Giuliani e Ilaria Alpi. Alcuni stralci dello scottante diario del maresciallo Aloi, 430 pagine, erano usciti nel ‘97 su “Panorama”, “L’Unità” ed “Epoca”. Accuse pesantissime, sottolinea il “Fatto”: si parla di «violenze sui somali, soprattutto donne», con prigionieri «torturati a morte». Eppure, dopo la denuncia, non accadde sostanzialmente nulla. A partire da quelle informazioni, Laurenti ha elaborato un’ipotesi diversa: e cioè che gli agenti a Mogadiscio non avrebbero solo depistato, ma piuttosto «agito per colpire deliberatamente Alpi e Hrovatin». Ma, appena Laurenti s’è messo al lavoro, sono cominciati i “problemi”: «Isolavano i telefoni di chiunque chiamassi. Ricevevo chiamate al cellulare mentre stavo guidando. Dall’altra parte della cornetta parlavano come se mi stessero seguendo. Sentivo solo che alcune voci dicevano: “Ma tu lo vedi?”. “Sì, sì, è un po’ più avanti”». E ancora: «Mi chiamavano a casa. Rispondevo. E sentivo le voci dei miei figli al piano di sopra. Dove, però, non c’è nessun telefono. Quindi non so se abbiano messo alcune microspie».Secondo Laurenti, gli uomini-ombra che lo hanno tallonato «fanno il gioco del gatto e del topo: sperano di fermarmi facendomi paura». Si è ritrovato anche l’auto danneggiata, e qualcuno ha “eliminato” dal suo computer uno stralcio di documento destinato a Heidi Giuliani, la madre di Carlo. «Credo che i responsabili di queste intimidazioni facciano parte del gruppo di potere che racconto nel libro», afferma l’autore, indicando «quella parte di servizi che ha firmato il patto di sangue nel 1994», all’epoca del drammatico passaggio tra Prima e Seconda Repubblica, quando alti dirigenti del Sismi si ritrovarono privi delle vecchie coperture politiche. Una “guerra” misteriosa, di cui parla anche il maresciallo Aloi, che cita – fra le altre – la strana morte di un ex collega, il maresciallo Vincenzo Li Causi, insieme a quell del suo braccio destro, il parà Flaviano Mandolini, a suo tempo inquadrati nella struttura Gladio, o Stay Behind. Sempre secondo Laurenti, un «gruppo di potere» è riuscito a “sopravvivere” ai rivolgimenti politici degli anni ‘90. Di mezzo ci sarebbero anche le morti eccellenti di Ilaria Alpi, Miran Hrovatin e Carlo Giuliani. Fino a “chiudere il cerchio” con la creazione di Eurogendfor. Risolvere l’enigma? Servirebbe quella famosa foto scomparsa, che proverebbe la presenza a Genova degli stessi operatori presenti a Modadiscio. «Ma è impossibile», ammette Laurenti: «Me l’hanno fatto capire: quella foto non salterà fuori mai».(Il libro: Giulio Laurenti, “La madre dell’uovo”, Effigie, 258 pagine, 19 euro).«Fotografò un uomo, un carabiniere, mentre fracassava il cranio di Carlo Giuliani, già a terra, colpito ma ancora vivo. E poi ammise: ho avuto più paura a Genova che tra i miliziani in Somalia. Poi quella foto è scomparsa per sempre». Parola di Giulio Laurenti, scrittore, autore del romanzo d’inchiesta “La madre dell’uovo” che gli è costato minacce e pericolose intrusioni. Il sospetto: Carlo Giuliani è stato ucciso al G8 di Genova nel 2001 per ordine delle stesse persone che, sette anni prima, avevano fatto assassinare a Mogadiscio Ilaria Alpi, giornalista del Tg3. La traccia parte dalla confessione di quel fotografo, di cui Laurenti però non fa il nome. «Ho saputo comunque che, prima di essere a piazza Alimonda al momento dell’omicidio Giuliani, aveva lavorato coi militari italiani in Somalia». Retroscena inquietanti, come quelli contenuti nel diario pubblicato nel 1997 dal maresciallo Francesco Aloi, del Sismi, allora in forza in Somalia: nel documento, poi secretato, Aloi accusa alcuni alti funzionari dei servizi, tra cui l’ufficiale dei carabinieri Claudio Cappello e il colonnello Giovanni Truglio, già a capo della polizia militare Msu in Iraq e ora alla guida, in Italia, di Eurogendfor, la misteriosa super-gendarmeria europea dotata di poteri illimitati, e di cui si sa pochissimo.