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Piano Manhattan: banche, guerra segreta contro Putin
«Questa non è un’altra guerra fredda: non c’è nessun plausibile equilibrio tra Russia e Occidente, e nessuna ideologia mistica da contrapporre». Quella in atto contro Mosca è una guerra economica, che gli Usa stanno preparando da 12 anni. Si chiama “Progetto Manhattan”, messo a punto da un dipartimento d’élite del Tesoro: una «bomba finanziaria al neutrone», progettata per «mettere la Russia in ginocchio senza sparare un colpo». La strategia si basa sul controllo egemonico del sistema bancario globale: si tratta di colpire le banche russe, con la collaborazione – convinta o riluttante – di tutti gli alleati degli Usa. «La resa dei conti per la finanza degli Stati Uniti con la Russia è più pericolosa di quello che sembra», avverte Ambrose Evans-Pritchard: la Russia è il più grande produttore mondiale di energia, ha un fatturato da duemila miliardi di dollari, dispone di eccellenti scienziati e mantiene in efficienza un arsenale nucleare di prim’ordine.Juan Zarate, il “cervello” del Tesoro che ha contribuito a ridisegnare la politica della Casa Bianca dopo l’11 Settembre, la definisce «un nuovo tipo di guerra, una specie di insurrezione finanziaria strisciante, con l’intento di incidere senza precedenti sulla linfa vitale finanziaria dei nostri nemici». Una strategia «più efficiente e sottile di qualsiasi altro confronto geopolitico del passato, ma non meno spietato e distruttivo», scrive nel suo libro “La guerra del Tesoro: lo scatenamento di una nuova era di guerra finanziaria”. Obiettivo: stringere il cappio intorno al collo della Russia di Vladimir Putin, chiudendo lentamente l’accesso al mercato per banche, le aziende gli enti statali russi, scrive Evans-Pritchard in un intervento sul “Telegraph” ripreso da “Come Don Chisciotte”. L’arma invisibile è una disposizione contenuta nel Patriot Act: se una banca si macchia di mancato rispetto delle norme previste – se viene accusata di riciclaggio di denaro o di sovvenzionare attività terroristiche o reati collaterali – diventa “radioattiva” e viene catturata nell’abbraccio mortale di Wall Street. Il suo valore crolla e gli azionisti fuggono.«Questa può essere una condanna a morte, anche se il creditore non svolge nessuna operazione negli Stati Uniti», annota Evans-Pritchard. «Le banche europee non hanno il coraggio di sfidare le autorità di regolamentazione Usa e rompono tutti i loro rapporti con la vittima». Così, finora, hanno fatto anche i cinesi: nel 2005 gli Usa colpirono il Banco Delta Asia (Bda) di Macao, accusandolo di essere stato un canale di pirateria commerciale verso la Corea del Nord. La Cina staccò la spina e il Bda fallì entro due settimane. Zarate, lo stratega della guerra finanziaria contro Mosca, sostiene che gli Usa potrebbero procedere anche da soli con le sanzioni, senza neppure attendere gli alleati europei. Il nuovo arsenale, continua Evans-Pritchard, è stato schierato contro l’Ucraina già nel 2002, quando gli Usa accusarono le banche di Kiev di riciclare i fondi della mafia russa, facendole capitolare.«Si sta facendo una guerra segreta su scala globale di lungo termine», conferma Zarate. EPutin sa esattamente che cosa possono fare gli Usa con le loro armi finanziarie. Secondo Zarate, la Casa Bianca di Obama ha aspettato anche troppo a lungo per fare sul serio, aggrappandosi alla speranza che Putin avrebbe smesso presto di infrangere le regole. Non sono bastati gli “avvertimenti” inviati alle banche russe che sostenevano il regime siriano. Per lo stratega di Washington, gli americani ora «dovrebbero togliersi i guanti: più aspettano, più dovranno muoversi pesantemente». Sempre secondo Zarate, potrebbe essere già troppo tardi per mantenere il controllo dell’Ucraina orientale, ma non troppo tardi per far pagare ai russi un prezzo molto caro. «Se il Tesoro degli Stati Uniti affermasse che tre banche russe sono coinvolte in preoccupanti operazioni di riciclaggio – dice – siamo sicuri che Ubs o Standard Chartered non ci rimetterebbero niente?».Questo potrebbe far emettere sanzioni progressive alle imprese della difesa russa e alle esportazioni di minerali e di energia: basterebbe una stretta su Gazprom, per far crollare tutto il sistema. Per Evans-Pritchard, invece, è meglio che alla Casa Bianca non si facciano illusioni: la Russia ha 470 miliardi di dollari di riserve estere, con le quali la banca centrale combatte la fuga dei capitali e difende il rublo. Il professor Harold James, di Princeton, ricorda la vigilia della Prima Guerra Mondiale: Gran Bretagna e Francia pensavanodi scatenare una guerra finanziaria per controllare la potenza tedesca. Ma attenzione: rompere gli equilibri che sostengono la finanza mondiale significa che niente potrà più contenerla. Le sanzioni? Rischiano solo di innescare reazioni a catena simili allo shock del 2008. «Lehman era solo un piccolo istituto, se lo dovessimo confrontare con le banche austriache, francesi e tedesche che sono oggi altamente esposte al sistema finanziario della Russia. Un congelamento dei beni russi – scrive James “Project Syndicate” – potrebbe essere catastrofico per i mercati finanziari europei, anzi per i mercati globali».Secondo Evans-Pritchard, è molto serio il rischio di una «replica asimmetrica» dal Cremlino: «Gli esperti russi di guerrra cibernetica sono tra i migliori, e fecero un giro di prova sull’Estonia nel 2007. Un fermo cibernetico di un sistema idrico dell’Illinois nel 2011 è stato attribuito a fonti russe. Non sappiamo se la Us Homeland Security possa essere in grado di contrastare un attacco in piena regola che preveda un blocco dei servizi alle reti elettriche, ai sistemi idrici, al controllo del traffico aereo o peggio ancora al New York Stock Exchange, o a Washington stessa». Se scoppiasse una guerra cibernetica oggi, «gli Stati Uniti perderebbero: siamo semplicemente un paese molto dipendente e vulnerabile», disse nel 2010 il capo del servizio di spionaggio Usa, Mike McConnell. E nel 2012 il segretario alla difesa Leon Panetta lanciò l’allerta per un possibile cyber-attack tipo Pearl-Harbour, capace di paralizzare tutti i sistemi di logistica e di erogazione dei servizi vitali.«Potrebbero bloccare la rete elettrica di vaste zone del paese, potrebbero far deragliare treni passeggeri o, ancor più pericolosamente, far deragliare treni carichi di sostanze chimiche letali», o addittura «contaminare la fornitura d’acqua nelle grandi città». Solo una boutade esagerata, quella di Panetta, magari per chiedere più fondi al Congresso? Evans-Pritchard resta prudente: non è saggio provocare la Russia in modo tanto grave e pericoloso. «Le sanzioni sono vecchie come il mondo, così come le lezioni salutari», conclude il notista del “Telegraph”, ricorrendo all’insegnamento dell’antica Grecia. «Pericle cercò di spaventare la città-stato di Megara nel 432 a.C. bloccando tutti i suoi commerci con i mercati dell’impero ateniese e cominciarono così le guerre del Pelopenneso che portarono la fanteria oplita di Sparta ad abbattersi su Atene e distruggere tutto. Il sistema economico della Grecia cadde in rovina e in balia della Persia. Quello fu un assaggio di asimmetria».«Questa non è un’altra guerra fredda: non c’è nessun plausibile equilibrio tra Russia e Occidente, e nessuna ideologia mistica da contrapporre». Quella in atto contro Mosca è una guerra economica, che gli Usa stanno preparando da 12 anni. Si chiama “Progetto Manhattan”, messo a punto da un dipartimento d’élite del Tesoro: una «bomba finanziaria al neutrone», progettata per «mettere la Russia in ginocchio senza sparare un colpo». La strategia si basa sul controllo egemonico del sistema bancario globale: si tratta di colpire le banche russe, con la collaborazione – convinta o riluttante – di tutti gli alleati degli Usa. «La resa dei conti per la finanza degli Stati Uniti con la Russia è più pericolosa di quello che sembra», avverte Ambrose Evans-Pritchard: la Russia è il più grande produttore mondiale di energia, ha un fatturato da duemila miliardi di dollari, dispone di eccellenti scienziati e mantiene in efficienza un arsenale nucleare di prim’ordine.
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Perché i russi amano Putin? Scoprirlo è molto istruttivo
Pare che i russi siano proprio innamorati di Vladimir Putin. Non tutti, certo, ma una enorme maggioranza. L’ultimo sondaggio dell’istituto Vciom-Levada, considerato il più affidabile del paese, accredita al leader del Cremlino un indice di popolarità del 76 per cento (per la precisione il 75,7). Sì dirà che il dato è falsato dai fatti della Crimea, ma nel maggio del 2012 era il 68,8 per cento a sostenere Putin, e mediamente negli ultimi 13 anni questo dato si è mantenuto sempre più o meno stabile, un po’ sopra al 60 per cento. In questi giorni, poi, come mai prima, arrivano molte telefonate di amici russi che proprio non riescono a spiegarsi l’atteggiamento dei paesi occidentali verso il loro leader e, dunque, semplificando, verso di loro. Chi pensa che sia facile dare una spiegazione convincente, sbaglia di grosso. Perché per spiegare ci vogliono le parole, e le parole hanno un significato molto diverso quando le dici a Roma o a Mosca.Democrazia? Per i russi normali, soprattutto nella periferia del paese, spesso è una parolaccia. La nuova borghesia? Sulle rive della Moscova la parola suona dispregiativa. La prepotenza del regime contro un оligarca democratico come Khodorkovskij che voleva sfidare Putin alle urne? Per moltissimi sotto le mura del Cremlino è il minimo sindacale di un atto di giustizia contro i tanti oligarchi arricchiti e non sazi di soldi e di potere. Ucraina, Crimea, prezzo del gas… una continua commedia degli equivoci che rende impossibile capirsi. E tutto comincia nei “terribili” anni Novanta. La notte del 25 dicembre 1991 i russi non riuscirono a dormire. Il giorno prima erano cittadini di un paese, l’Unione Sovietica; da quel momento, non lo erano più. Fu uno shock. Milioni di persone di nazionalità russa si ritrovarono, abbandonati dalla Madrepatria, cittadini di paesi che non li volevano e che spesso, come è accaduto nelle Repubbliche baltiche, negavano loro i diritti minimi della cittadinanza. Ma non c’era tempo, né forza per occuparsene.Presto le cose cominciarono ad andare peggio di quanto mai si sarebbe potuto immaginare. Arrivò la politica del Fondo monetario e degli Harvard Boys, introdotta dal governo di Boris Eltsin: liberalizzazione e privatizzazione. Fu chiamata “terapia shock”. Uno shock sullo shock. La promessa era che alla fine del tunnel ci sarebbe stato un paese finalmente libero, democratico e benestante. I russi si fidavano, erano pronti ai sacrifici. Pensavano che l’Occidente, essendo stato capace di offrire benessere, democrazia e giustizia a casa propria, lo avrebbe fatto anche da loro. La fiducia crollò lentamente, ma inesorabilmente, sotto i colpi della realtà. Sotto gli occhi impotenti della gente, per il bene del paese, le aziende cominciarono ad essere vendute per un prezzo vicino allo zero, tra l’1,5 e il 2 per cento del loro valore. In tutto, lo Stato realizzò dall’operazione circa il 10 per cento del valore effettivo, beni mobili e immobili inclusi.Alle persone normali fu dato un pezzo di carta, si chiamava voucher, che era l’equivalente della quota a cui avevano diritto. Valevano 10 mila rubli. Natalja Fjodorovna, l’anziana mamma di una mia cara amica, fu la prima a pronunciare quella che credevo fosse una battuta: «Muzhiki prodadut za butilku», gli uomini lo venderanno per una bottiglia. Ci volle poco a capire che non era una boutade. I voucher si vendevano agli angoli delle strade per una vodka, tremila rubli. Come scrive Naomi Klein nel suo “Shock Economy”, «nel 1998, oltre l’80% delle aziende agricole erano in bancarotta, e circa 70 mila fabbriche statali avevano chiuso i battenti, generando un’epidemia di disoccupazione». E «74 milioni di russi vivevano sotto la soglia di povertà, secondo la Banca Mondiale». Lavoro non ce n’era nel modo più assoluto. I ragazzi sognavano di fuggire e chiedevano i computer, le pensioni arrivavano in ritardo, gli stipendi non arrivavano più; medici, insegnanti, professori, chi poteva cercava un lavoretto all’estero.Le file nei negozi erano scomparse, come i soldi per comprare. Ovunque fiorivano tetri negozietti temporanei dove si pagava direttamente in dollari. Gli ospedali non davano più neanche le lenzuola. La criminalità fioriva, al punto che era diventato rischioso girare di notte anche in una città come Mosca. Nel frattempo, tutti i soldi della Russia erano passati nella tasche di pochi intraprendenti, che diventarono miliardari e potenti, i cosiddetti oligarchi. A proposito di Khodorkhovskij, quando fu arrestato, nel 2003, era il padrone della Yukos, il terzo colosso petrolifero del paese, e l’aveva acquistata partecipando ad un’asta, sebbene fosse stato proprietario della banca Menatep che quell’asta aveva gestito. In pratica, come spiegò poi il responsabile del programma di privatizzazione Alfred Kokh, aveva comprato la Yukos con i soldi della Yukos. Ottenne il 77 per cento delle azioni con 309 milioni di dollari. E poiché il valore reale si aggirava intorno ai 30 miliardi, entrò direttamente a far parte degli uomini più ricchi del mondo (“Forbes”).Così la vedono i russi. Che hanno ritrovato un po’ di fiducia il giorno in cui è arrivato Putin e ha ripreso in mano, nel bene e nel male, il paese. Questo dice Natalia Fjodorovna, che ha avuto una vita lunga e difficile, e partorì il suo primo figlio su un treno mentre fuggiva non sapeva dove coi nazisti alle calcagna. Ogni russo ha una storia incredibile da raccontare, una storia che – proprio come ha dimostrato Emmanuel Carrère con “Limonov” – vale un romanzo. Loro sì che possono spiegarci perché non si è ancora formata una vera borghesia in Russia. Ma per favore, almeno a Mosca, non chiamatela così.(Fiammetta Cucurnia, “Come si spiega il consenso russo per Putin”, da “Il Venerdì di Repubblica” dell’11 aprile 2014, ripreso da “Megachip”).Pare che i russi siano proprio innamorati di Vladimir Putin. Non tutti, certo, ma una enorme maggioranza. L’ultimo sondaggio dell’istituto Vciom-Levada, considerato il più affidabile del paese, accredita al leader del Cremlino un indice di popolarità del 76 per cento (per la precisione il 75,7). Sì dirà che il dato è falsato dai fatti della Crimea, ma nel maggio del 2012 era il 68,8 per cento a sostenere Putin, e mediamente negli ultimi 13 anni questo dato si è mantenuto sempre più o meno stabile, un po’ sopra al 60 per cento. In questi giorni, poi, come mai prima, arrivano molte telefonate di amici russi che proprio non riescono a spiegarsi l’atteggiamento dei paesi occidentali verso il loro leader e, dunque, semplificando, verso di loro. Chi pensa che sia facile dare una spiegazione convincente, sbaglia di grosso. Perché per spiegare ci vogliono le parole, e le parole hanno un significato molto diverso quando le dici a Roma o a Mosca.
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Le Goff e il medioevo quotidiano, così vicino a noi
«Come nessun altro storico, Jacques Le Goff ha modificato la nostra percezione del medioevo», scrive Agostino Paravicini Bagliani, ricordando il grande studioso morto a Parigi il 1° aprile, all’età di 90 anni. Come in pochi altri storici, l’opera di Le Goff «nasce dal desiderio di innovare con sempre nuove domande e nuovi temi, allargando il “territorio dello storico”» anche grazie «a una straordinaria abilità nel comunicare con un pubblico vasto, con la parola oltre che con la scrittura». Memorabili le sue indagini sulla vita quotidiana dell’epoca, estese alle scienze sociali come antropologia culturale ed etnografia, senza trascurare la storia delle immagini, allora agli inizi. Fin dai suoi primi due libri, sui mercanti e i banchieri (1956) e gli intellettuali (1957), poi con la sua prima grande sintesi, “La civiltà dell’Occidente medievale” (1964), Le Goff ha svelato un medioevo inedito – fatto di città e di foreste – incrociando l’immaginario e il simbolico con l’analisi dei gruppi sociali, visti come figure tipologiche della società di allora.«Non la storia dei monaci ma il monaco, non i mercanti ma il mercante, che nel medioevo è sempre un po’ usuraio, a causa della condanna dell’usura da parte della Chiesa», (“La borsa o la vita, dall’usuraio al banchiere”, 2003). Nel medioevo, continua Paravicini Bagliani in un intervento su “Repubblica” ripreso da “Micromega”, la ricchezza non è soltanto di questo mondo, anche se il ruolo del denaro non fa che crescere, dall’anno Mille in poi (“Lo sterco del diavolo. Il denaro nel Medioevo, 2010”). «Studiando l’intellettuale come rappresentante di quel gruppo sociale che ha il compito di pensare e di insegnare, pur in un contesto di condanne e di censure, Le Goff apre la porta a una storia delle università più attenta al contesto sociale. È forse il suo libro più agile e vivace. Lo aiutarono frequenti conversazioni con un domenicano geniale, Marie-Dominique Chenu».Un altro concetto a lui molto caro (e destinato a diffondersi) è quello di “un lungo medioevo”, perché molte sono le strutture – dalla feudalità all’immaginario sociale – sopravvissute fino alla Rivoluzione Francese. Le Goff manifesta uno spiccato interesse per la storia della dimensione corporale, che considera «una delle principali tensioni dell’Occidente», perché nel medioevo il corpo è stretto tra una straordinaria valorizzazione cristiana (“Incarnazione, reliquie, stimmate”) e un’altrettanto forte retorica di disprezzo del mondo (“Il corpo nel Medioevo”, con Nicolas Truon, 2007). «Il dualismo che attanaglia il corpo si attenua però dal XII secolo in poi, lasciando spazi nuovi alla medicina e alle scienze del corpo che aprono la via alla modernità». Sebbene il cristianesimo medievale condanni come errori le novità, Le Goff «scorge verso la fine del medioevo una società europea creatrice che innova e prepara la modernità che si consoliderà nell’umanesimo», conclude Paravicini. «Il medioevo di Le Goff affascina perché realtà e immaginario si fondono pur nelle loro contraddizioni: il suo medioevo non è mai senza legami profondi con il tempo lungo, è sempre attento all’uomo (“L’uomo medievale, 2006”) ed è quindi più vicino a noi».«Come nessun altro storico, Jacques Le Goff ha modificato la nostra percezione del medioevo», scrive Agostino Paravicini Bagliani, ricordando il grande studioso morto a Parigi il 1° aprile, all’età di 90 anni. Come in pochi altri storici, l’opera di Le Goff «nasce dal desiderio di innovare con sempre nuove domande e nuovi temi, allargando il “territorio dello storico”» anche grazie «a una straordinaria abilità nel comunicare con un pubblico vasto, con la parola oltre che con la scrittura». Memorabili le sue indagini sulla vita quotidiana dell’epoca, estese alle scienze sociali come antropologia culturale ed etnografia, senza trascurare la storia delle immagini, allora agli inizi. Fin dai suoi primi due libri, sui mercanti e i banchieri (1956) e gli intellettuali (1957), poi con la sua prima grande sintesi, “La civiltà dell’Occidente medievale” (1964), Le Goff ha svelato un medioevo inedito – fatto di città e di foreste – incrociando l’immaginario e il simbolico con l’analisi dei gruppi sociali, visti come figure tipologiche della società di allora.
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Reporter senza frontiere, ora sindaco lepenista a Béziers
«Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi». Non è certo che l’infelicissima frase – sterminare l’intera popolazione di una città che ospitava 500 càtari – sia stata testualmente pronunciata dall’abate Arnaud Amaury, capo della “crociata contro gli albigesi”. Né è sicuro che i morti di quel fatidico 22 luglio 1209 siano stati davvero così tanti, 20.000 civili. Ma è invece accertato che la città di Béziers, pure circondata dalle schiaccianti milizie crociate, avesse sdegnosamente rifiutato, il giorno prima, di salvarsi consegnando ai carnefici gli eretici che ospitava: la morte, piuttosto che il tradimento della protezione accordata agli inermi “veri cristiani” del medioevo. Otto secoli dopo quella strage, che segnò l’inizio della sanguinosa Crociata Albigese, oggi la città di Béziers – ribelle e martire – ha un sindaco eletto coi voti del Front National di Marine Le Pen, la donna che sfida a viso aperto il regime di Bruxelles. Ma la notizia è un’altra: il nuovo primo cittadino è il giornalista Robert Ménard, fondatore di “Reporters Sans Frontières” e icona francese della difesa dei diritti civili.I francesi, scrive Leonardo Martinelli sul “Fatto Quotidiano”, se lo ricordano per anni a difendere con entusiasmo e determinazione «il diritto a informare e a essere informati in tutto il mondo». Protagonista di blitz sorprendenti, Ménard: nel 2008 salì di notte in cima a Notre-Dame, a Parigi, per poi sventolare una bandiera con la scritta “Freedom in China”, in occasione del passaggio della fiamma dei Giochi olimpici di Pechino nelle strade della capitale francese. «Oggi, ecco il nuovo Ménard: sindaco di Béziers, città del profondo Sud francese, una delle più degradate e povere del paese», nel cuore della regione dove nacque la lingua d’Oc. Ménard è stato un uomo simbolo, in Francia, delle tradizionali battaglie sociali della sinistra: gli stessi francesi faticano a comprenderne la “metamorfosi”, ora che si è schierato con un partito sovranista ed euroscettico, che la gauche – francese e non solo – continua a definire “sciovinista e di estrema destra”, non volendo riconoscere il “patriottismo socio-economico” invocato dalla Le Pen, per tornare alla “sovranità democratica nazionale” contro i diktat dell’Unione Europea.Classe 1953, Ménard è nato a Orano, in Algeria. «È quindi un pied-noir, figlio di coloni dell’Algeria francese, che dovette abbandonare dopo la raggiunta indipendenza», scrive Martinelli. Famiglia di origini modeste, il padre era un sindacalista comunista che poi passò all’Oas, l’organizzazione paramilitare che voleva mantenere il dominio della Francia sull’Algeria. La madre, una fervente cattolica. «Sono elementi non secondari, se si guarda alla vita che verrà del piccolo Robert». Lasciata in fretta Orano, andarono a vivere a Béziers, nel quartiere (ancora oggi) popolare della Devèze. «Negli anni Settanta il giovane Robert aderì alla Lega comunista rivoluzionaria, per poi prendere la tessera del Partito socialista nel 1979, abbandonato, a dire il vero, poco dopo l’elezione di François Mitterrand», uno dei massimi artefici dell’attuale Unione Europea. Ménard continuò negli anni Ottanta a impegnarsi animando radio libere, per poi entrare a far parte, come giornalista, della redazione locale di “Radio France”, l’emittente di Stato.A Montpellier, ancora nel Sud, fondò nel 1985 con un gruppo di amici “Reporters Sans Frontières”, «una Ong che in seguito ha assunto un ruolo importante, anche a livello internazionale, nella difesa dei giornalisti perseguitati in tutto il mondo», ricorda Martinelli. Sebbene Rsf non sia legata direttamente ad alcun partito, ha sempre avuto in Francia un’immagine di sinistra. «Ménard veniva invitato sempre più spesso in tv: diretto nell’eloquio, perfino un po’ irascibile. Ormai era diventato un personaggio pubblico». A sorpresa Ménard lasciò Rsf nel settembre 2008 per andare a Doha, in Qatar, a dirigere il “Centro per la libertà dell’informazione”, «finanziato dall’emirato, che non si può proprio definire una democrazia perfetta». Ma «fuggì anche da lì, l’anno seguente, in mezzo alle polemiche, per rientrare in Francia e ricominciare la sua carriera di giornalista, con trasmissioni alla tv e in radio». È a quel momento, continua il “Fatto”, che è emersa chiaramente la virata verso il Front National, firmando il libro “Vive Le Pen!”, uscito nel 2011. Il paladino francese della libertà d’informazione ha sempre rifiutato di iscriversi al partito. E anche a Béziers, la città della sua giovinezza, quando ha deciso di presentarsi alle comunali ha costituito una lista indipendente, con personaggi provenienti da vari orizzonti culturali, non solo quello del Fn, di cui ha chiesto solo in seguito l’appoggio esterno.In ogni caso, riguardo al discorso politico di Marine Le Pen, dice di «condividerne almeno l’80%», in modo assolutamente spiazzante: è favorevole alla linea dura sull’immigrazione mentre è contrario al maggior cavallo di battaglia del Fronte Nazionale, cioè l’uscita della Francia dall’euro. «Adesso – ha dichiarato – dico quello che penso e che prima non osavo dire o non ammettevo neanche a me stesso». Si è quindi lanciato contro il «perbenismo della sinistra», accusata di essere troppo “politicamente corretta”. «Sul matrimonio gay, ad esempio – scrive Martinelli – si è espresso in maniera critica, definendolo un “capriccio” e assicurando che, una volta eletto a Béziers, si sarebbe rifiutato di celebrarne al municipio della città». Il “Fatto” sottolinea che Ménard ha scritto quasi tutti i suoi ultimi libri assieme a Emmanuelle Duverger, sua moglie, che proviene da una famiglia cattolica di destra.Partita in sordina nell’estate scorsa, la campagna elettorale di Ménard è diventata progressivamente un caso in Francia e soprattutto a Béziers, città rivierasca del sud-ovest mediterraneo con 76.000 abitanti, di cui il 32% vive al di sotto della soglia di povertà. Béziers, che ha vissuto un lento declino economico a partire dagli anni Ottanta, esce da 19 anni ininterrotti di dominio dell’Ump, il partito conservatore, protagonista di un governo locale accusato a più riprese di corruzione. «Anche questo ha favorito la lista di Ménard, oltre al fatto che la sinistra è storicamente debole in città», conclude Martinelli. «L’ex agitatore di Rsf ha costituito una lista “con l’obiettivo di riunire elettori di sinistra e di destra”. Obiettivo decisamente centrato».«Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi». Non è certo che l’infelicissima frase – sterminare l’intera popolazione di una città che ospitava 500 càtari – sia stata testualmente pronunciata dall’abate Arnaud Amaury, capo della “crociata contro gli albigesi”. Né è sicuro che i morti di quel fatidico 22 luglio 1209 siano stati davvero così tanti, 20.000 civili. Ma è invece accertato che la città di Béziers, pure circondata dalle schiaccianti milizie crociate, avesse sdegnosamente rifiutato, il giorno prima, di salvarsi consegnando ai carnefici gli eretici che ospitava: la morte, piuttosto che il tradimento della protezione accordata agli inermi “veri cristiani” del medioevo. Otto secoli dopo quella strage, che segnò l’inizio della sanguinosa Crociata Albigese, oggi la città di Béziers – che fu ribelle e martire – ha un sindaco eletto coi voti del Front National di Marine Le Pen, la donna che sfida a viso aperto il regime di Bruxelles. Ma la notizia è un’altra: il nuovo primo cittadino è il giornalista Robert Ménard, fondatore di “Reporters Sans Frontières” e icona francese della difesa dei diritti civili.
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Banca Mondiale e maxi-dighe, ma l’Africa resta al buio
La realizzazione di dighe di grandi o grandissime dimensioni comporta danni ambientali e costi economici e umani che risultano, stando ai dati, assolutamente controproducenti. Questo però non sembra preoccupare la Banca Mondiale, anzi essa è da molto tempo in prima linea nel finanziamento di dighe e sbarramenti fluviali tra i più grandi del mondo. In Italia la storia ha dimostrato la pericolosità e i costi delle grandi dighe, che fortunatamente non hanno avuto una così larga diffusione come in altre nazioni. La Banca Mondiale da molto tempo è impegnata con tutte le sue forze nel promuovere la costruzione di tali opere e si prepara a finanziare enormi progetti idraulici. In tempi di crisi economica mondiale, la Bm imbocca la via percorsa ormai anche da paesi come il Brasile e la Cina. I progetti riguardano in particolare il Congo, l’Himalaya e il bacino dello Zambesi.Già dal luglio 2013 la Banca Mondiale ha adottato un nuovo programma energetico che prevede appunto di aumentare i prestiti ai grandi progetti idroelettrici e ai gasdotti. Ha finanziato più di 600 grandi dighe in 60 anni e supporta attualmente 150 progetti in corso nel settore idroelettrico. La metà di essi sono in Africa e nel Sudest Asiatico. Questi progetti sono tuttavia meno colossali rispetto alla prossima generazione di opera che si preannuncia.Un esempio è costituito dalle dighe Inga 1 e 2 costruite sul fiume Congo. Dopo che un gruppo di finanziatori ha speso miliardi in questi progetti, l’85% dell’elettricità della Repubblica Democratica del Congo è destinata a grandi industrie forti consumatrici di energia e… alla popolazione urbana! Mentre meno del 10% della popolazione delle zone rurali ha accesso all’elettricità.La Banca ha scelto nel luglio 2013 di finanziare il progetto Inga 3 sempre sul fiume Congo per 12 miliardi di dollari, il più costoso mai proposto in Africa, oltre a due progetti di parecchi miliardi sullo Zambesi. Queste tre opere dovrebbero servire a produrre elettricità per le compagnie minerarie e i consumatori delle classi abbienti dell’Africa del Sud. Le Ong che lavorano sulla dipendenza energetica sono allarmate per questa scelta, fatta in uno dei paesi più poveri e più corrotti dell’Africa. I progetti Inga 1 e 2 non hanno portato alcuno sviluppo economico, ma hanno aumentato il peso del debito e in un periodo di fragilità idrogeologica le grandi dighe aumenteranno la vulnerabilità climatica dei paesi poveri.A chi paventa e prevede disastri ecologici e tragedie umane per le popolazioni private di terra e sostentamento e costrette a sfollare, la Bm si difende. «Non si tratta più delle dighe dei vostri nonni», ha detto infatti Julia Bucknall, responsabile del settore idrogeologico dell’istituto internazionale. Cosa cambia rispetto alle dighe “dei nostri nonni”? Soltanto il fatto che vengono pubblicati miriadi di rapporti sull’impatto ambientale che, così come le dighe stesse, verranno addebitati ai paesi che ne “beneficiano”, il cui debito aumenterà e con esso la loro dipendenza dalle grandi industrie e istituzioni finanziare occidentali. La diga Lom Pangar in Camerun è un esempio di medio progetto finanziato dalla Banca. Inonderà 30.000 ettari di foresta tropicale tra cui il parco nazionale Deng Deng, un rifugio per gorilla, scimpanzè e altre specie minacciate. Il progetto è destinato ad alimentare un’industria di alluminio, che consuma già la maggior parte di energia del Camerun. E tutto quell’alluminio non serve di certo al Camerun. Magari servirà per le lattine delle nostre bibite.Soluzioni migliori esistono già. In questi ultimi dieci anni a livello mondiale i governi e gli investitori privati hanno prodotto più energia dall’eolico che dalle dighe. Anche il solare ha reso più degli investimenti idroelettrici. Queste due fonti di energia sono più efficaci delle dighe per rifornire l’Africa sub sahariana. L’Agenzia Internazionale dell’Energia ha dimostrato che l’elettrificazione in rete ottenuta dai grandi progetti idroelettrici non è efficace per le zone rurali, che non sono densamente popolate. Sono efficaci invece le energie rinnovabili e decentrate. Queste presenterebbero il triplo beneficio di aumentare l’accesso all’energia, proteggere l’ambiente e non incentivare il cambiamento climatico. L’Agenzia raccomanda che più del 60% dei fondi siano investiti nelle energie rinnovabili. Ma la Banca Mondiale tra il 2007 e il 2012 ha accordato 5,4 miliardi di dollari per le dighe contro 2 miliardi complessivi per eolico e solare. Il programma si concentra sempre su progetti di grandi opere idrauliche. Ne sorgeranno anche in Nepal, nella fragile regione dell’Himalaya, con l’obiettivo di esportare l’energia in India.E in Italia? Il nostro territorio fortemente antropizzato non consente di realizzare progetti di grande portata ed è ormai finita l’era delle dighe che, complice lo sviluppo industriale ed economico, sono state realizzate in gran parte dagli anni 50’ alla fine degli anni 90’. Ma se nel nostro paese non ci sono più vallate e fiumi da sfruttare in maniera massiccia, le aziende del settore non stanno con le mani in mano. Infatti Enel collabora nella costruzione di grandi dighe nel mondo a discapito di popoli indigeni e di patrimoni naturalistici, come nel caso degli enormi impianti da realizzare in Cile e in Guatemala. Se l’acqua è un diritto per tutti i cittadini del mondo, ne consegue che nessuno dovrebbe avere il diritto di sciuparla, deviarla, imbrigliarla nel nome del profitto monetario ed energetico; ma si sa, in questi tempi di globalizzazione i diritti degli alberi, dei popoli primitivi e dei fiumi sono sempre meno considerati, soprattutto da istituzioni il cui scopo è salvaguardare e incrementare ad ogni costo i profitti dei potenti, come la Banca Mondiale.(Martino Danielli, “Alla Banca Mondiale piacciono le grandi dighe”, da “Il Cambiamento” del 5 marzo 2014).La realizzazione di dighe di grandi o grandissime dimensioni comporta danni ambientali e costi economici e umani che risultano, stando ai dati, assolutamente controproducenti. Questo però non sembra preoccupare la Banca Mondiale, anzi essa è da molto tempo in prima linea nel finanziamento di dighe e sbarramenti fluviali tra i più grandi del mondo. In Italia la storia ha dimostrato la pericolosità e i costi delle grandi dighe, che fortunatamente non hanno avuto una così larga diffusione come in altre nazioni. La Banca Mondiale da molto tempo è impegnata con tutte le sue forze nel promuovere la costruzione di tali opere e si prepara a finanziare enormi progetti idraulici. In tempi di crisi economica mondiale, la Bm imbocca la via percorsa ormai anche da paesi come il Brasile e la Cina. I progetti riguardano in particolare il Congo, l’Himalaya e il bacino dello Zambesi.
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Ortaggi-spazzatura? Piantati sul balcone, ricresceranno
Orto sul balcone? Sì, trasformando in risorse quelli che stanno per diventare rifiuti. Avviso ai sempre più numerosi amanti di questo genere di fai da te: «Prima di andare a comprare sementi e piantine, aprite il frigorifero e date un’occhiata a quello che sta per diventare scarto alimentare». Esempio: «Che mi dite del sedano rinsecchito dimenticato lì da giorni, o della patata e dell’aglio germogliati?». Non gettate via il sedano: piantatelo sul terrazzo, perché «può ricrescere facilmente a partire dal proprio gambo», spiega Alessandra Mazzotta sul newsmagazine “Econote”. «Basterà posizionarlo in un piattino con dell’acqua e attendere l’inizio dello sviluppo del nuovo ortaggio prima di trasferirlo nel’orto. Pardon, nel vaso». Le patate germogliate – tagliate in varie parti, ognuna con germoglio – insieme allo spicchio d’aglio andranno invece interrate in vaso: «Si svilupperanno nel terreno e nel giro di poco tempo potrete raccoglierne di nuove. Meraviglioso, no? E a costo zero».Trasformare gli sprechi in nuovo cibo, fresco e autoprodotto direttamente a casa. «Alzi la mano chi non è mai stato tentato di realizzare un proprio orto domestico». Dove c’è un balcone, volendo, c’è un orto. «Un po’ per moda, un po’ per passione, un po’ per necessità, sono ormai tanti i cittadini che vestono i panni dei contadini urbani», osserva Mazzotta, giornalista pubblicista e copywriter, esperta nella comunicazione ambientale e nell’organizzazione di eventi sostenibili. «Certo, l’autosostentamento è altra cosa e il vostro bilancio familiare avrà solo qualche debole cenno di miglioramento, ma state sicuri che la Fil (Felicità Interna Lorda) registrerà invece impennate sorprendenti: volete mettere la soddisfazione di fare le cose con le proprie mani e poi mangiarle?». Unici accorgimenti: difendersi dalla città e dai suoi veleni. «Una volta raccolte, le verdure del vostro orto andranno lavate molto bene dallo smog con bicarbonato di sodio. Se invece il vostro balcone è al primo piano, coprite le piantine con tessuto non tessuto che terrà lontane le polveri sottili, permettendo però a acqua e sole di filtrare».Facile facile, il vademecun per orticoltori da balcone. Basta un terrazzino esposto al sole per almeno 4-6 ore, con spazio per qualche vaso – meglio se di terracotta, per la traspirazione e la freschezza del terriccio, acquistato dal vivaista di fiducia e magari concimato con «del compost home made», proveniente dalla cucina di casa. «Poi naturalmente, attrezzatevi di guanti, palette, forbici da giardino, aste o canne per le piante dal portamento rampicante, e innaffiatoio». Sul fondo di ogni vaso, meglio versare uno strato di argilla espansa o semplice ghiaia, e terra. Poi, la scelta delle piante: «In primavera si possono coltivare piante aromatiche, ortaggi e piccoli frutti di bosco». Semi o piantine? «Se volete vincere facile, preferite ai semi le piantine già cresciute, che una volta piantate danno percentuali di successo maggiori. Ma ricordate di invasarle la sera, lontano dalla luce solare». Ma, appunto: prima di correre al negozio di sementi, esplorate il frigo: le prime produzioni domestiche potrebbero germinare proprio da prodotti che stanno per finire nella spazzatura.Orto sul balcone? Sì, trasformando in risorse le verdure che stanno per trasformarsi in rifiuti. Avviso ai sempre più numerosi amanti di questo genere di fai da te: «Prima di andare a comprare sementi e piantine, aprite il frigorifero e date un’occhiata a quello che sta per diventare scarto alimentare». Esempio: «Che mi dite del sedano rinsecchito dimenticato lì da giorni, o della patata e dell’aglio germogliati?». Non gettate via il sedano: piantatelo sul terrazzo, perché «può ricrescere facilmente a partire dal proprio gambo», spiega Alessandra Mazzotta sul newsmagazine “Econote”. «Basterà posizionarlo in un piattino con dell’acqua e attendere l’inizio dello sviluppo del nuovo ortaggio prima di trasferirlo nel’orto. Pardon, nel vaso». Le patate germogliate – tagliate in varie parti, ognuna con germoglio – insieme allo spicchio d’aglio andranno invece interrate in vaso: «Si svilupperanno nel terreno e nel giro di poco tempo potrete raccoglierne di nuove. Meraviglioso, no? E a costo zero».
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Seminare avvenire: orticoltori di tutta Europa unitevi
E’ nata, ufficialmente, la Libera Repubblica degli Orti. Si estende dal Piemonte alla Provenza, lungo la frontiera tra Italia e Francia, dalle Alpi fino al Mediterraneo. E’ popolata di melanzane, peperoni, cavolfiori, fagioli, meloni. Non sono prodotti qualsiasi: sono antiche varietà locali, messe in salvo dai loro agricoltori-custodi. Obiettivo: preservare la biodiversità che arricchisce i territori e i consumatori. «Si tratta di specie autoctone, di grande qualità, selezionate nel corso dei decenni e ben adattatesi al clima delle loro zone», dicono Vianney Le Pichon e Massimo Pinna, sviluppatori del progetto europeo “Una rete per le biodiversità transfrontaliere”. Il network ha aggregato decine di coltivatori-pionieri e li ha messi in contatto: oggi i loro saperi sono condivisi, e i semi dei rispettivi ortaggi – italiani e francesi – fanno parte di una sorta di “banca” e sono a disposizione di chiunque voglia impegnarsi a propagarli, seminandoli nel proprio orto, in barba ai diktat sempre più invadenti che favoriscono la grande distribuzione a vantaggio delle varietà industriali, che puntano tutto sulla resa a scapito della qualità.Piccolo è bello: mai stato più vero. «Da parte nostra – dice Marie Beysson, giovane coltivatrice di peperoni nella zona del Vaucluse – si tratta di offrire ai consumatori un’alternativa valida, permettendo loro di assaggiare sapori diversi». Fa eco il conterraneo Thierry Varis: «Rinunciare agli ibridi e puntare sui semi autoprodotti significa scommettere sul valore del gusto e della genuinità». Filiere corte, chilometri zero, economia locale dei territori. Volendo, sovranità alimentare. E riconversione ecologica del sistema produttivo. Decrescita virtuosa: se ad essere tagliati sono gli sprechi (trasporti, carburante, energia) ci guadagnano tutti. Il video “Seminare futuro”, che documenta il ciclo vitale del progetto, offre un piccolo affresco di umanità resistente, pienamente consapevole del difficile momento mondiale. «Noi teniamo duro – taglia corto Alberto Lombardo, dalla valle di Susa – perché la salvaguardia del territorio non ha prezzo, e la piccola agricoltura locale resta un baluardo».La pensa così anche Eraldo Dionese, agricoltore-poeta delle Langhe, con all’attivo libri di versi pubblicati da Vallecchi. Eraldo è un “mago” dei fagioli: i suoi “scozzesi” vanno a ruba, contesi dai gruppi d’acquisto solidale. Dice: «Il mercato ci ha abituati a “comprare con gli occhi”, trascurando gli ortaggi più rari e più validi: bisogna impegnarsi a farli sopravvivere, bisogna crederci». Il progetto – presentato nel sito ufficiale – è anche una piccola narrazione di ritrovamenti fortunati. «Lavorando negli impianti vinicoli di Gigondas, a nord di Avignone – racconta Françoise Genies – un giorno mio marito si è imbattuto in un pomodoro particolarissimo, assolutamente delizioso e sconosciuto: l’ho recuperato, e ora è diffuso in diverse zone del Vaucluse, per la felicità dei consumatori». Il paniere della “rete transfrontaliera” trabocca di delizie poco note: la cipolla piatta di Leinì, il prelibato ravanello di Moncalieri, il pisello “quarantin” di Casalborgone, l’insalatina invernale di Castagneto Po che cresce anche sotto la neve.Sul versante francese si segnalano varietà rare come la lattuga sanguigna, coltivata dai suoi agricoltori-custodi sulle colline di Saignon in una sorta di campo sperimentale per le biodiversità orticole, coordinato da Jean-Luc Danneyrolles e Hervé Coullet. Ci sono melanzane locali, pomodori-cachi, peperoncini della Costa Azzurra e peperoni come quello di Lagnes, recuperati grazie alle risorse genetiche di un istituto come l’Inra e ora al centro di un vasto programma di reintroduzione, per dare vita a una filiera locale in grado di realizzare sul posto anche la trasformazione del prodotto. Piccoli passi, ma significativi, partendo dalle verdure di stagione, che grazie all’impegno degli agricoltori-custodi stanno tornando stabilmente sui mercati locali. «E sono tutti prodotti rustici, robusti», assicura Vianney Le Pichon. Ortaggi conservati per generazioni dalla sapienza contadina, oggi trasferita a quelli che vengono chiamati “seed savers”.Orticoltori di tutta Europa unitevi. Il momento è propizio: sotto i colpi della crisi economica, cresce ovunque il ritorno alla passione per l’orto, come dimostra anche il proliferare degli orti urbani nelle grandi città. Il progetto transfrontaliero, fondato sull’incontro sistematico tra italiani e francesi, lascia intravedere un germe di futuro, un possibile modello socio-economico alternativo e pieno di vantaggi: «C’è più autonomia per gli agricoltori, che scelgono di coltivare i prodotti che preferiscono», dice Massimo Pinna, «e al tempo stesso più scelta per i consumatori, a cui si offrono varietà locali e genuine». Un modello da replicare: condividendo i suoi saperi sulla coltivazione del proprio prodotto, ogni singolo agricoltore più aiutarlo a sopravvivere e diffondersi, scongiurando l’estinzione. «Il nostro nemico infatti è l’erosione genetica, che impoverisce il patrimonio della biodiversità europea», dice Antonio Balbo, di Leinì. «Coltivare ortaggi locali – insiste Alberto Lombardo – significa anche fare cultura, perché dietro di essi c’è sempre l’umanità».C’è da augurarsi che la “rete delle biodiversità” valichi altri confini europei, sviluppando un’alleanza ecologica e sostenibile fra territori, contadini, consumatori. Del resto, le vie dei semi sono infinite: «Ho recuperato un fagiolo in via di estinzione, il “crochet di Nizza”, grazie a un’appassionata italiana che ho incontrato casualmente a una fiera», racconta Arnaud Dauvillier, agricoltore a Sisteron nella valle della Durance. «Io invece ho già provato a piantare nel mio terreno, con ottimi risulati, i semi che ho ricevuto dai colleghi italiani: sono prodotti come il cavolfiore di Moncalieri e il peperone di montagna», racconta Sylvain Martin, che riesce a coltivare ottimi ortaggi in alta montagna, nel parco nazionale francese degli Écrins. Loris Leali, originario del lago di Garda, si è trasferito in Provenza e ha impiantato un’azienda biologica sulle alture che sovrastano Nizza, a Massoins, nella valle del Var: «Spero che domani i semi recuperati da questo progetto possano diventare patrimonio comune», dice. «Abbiamo bisogno di conoscerci, di essere uniti e solidali, di scambiarci saperi». Anche questa è Europa, sebbene non parli la lingua fredda di Bruxelles.E’ nata, ufficialmente, la Libera Repubblica degli Orti. Si estende dal Piemonte alla Provenza, lungo la frontiera tra Italia e Francia, dalle Alpi fino al Mediterraneo. E’ popolata di melanzane, peperoni, cavolfiori, fagioli, meloni. Non sono prodotti qualsiasi: sono antiche varietà locali, messe in salvo dai loro agricoltori-custodi. Obiettivo: preservare la biodiversità che arricchisce i territori e i consumatori. «Si tratta di specie autoctone, di grande qualità, selezionate nel corso dei decenni e ben adattatesi al clima delle loro zone», dicono Vianney Le Pichon e Massimo Pinna, sviluppatori del progetto europeo “Una rete per le biodiversità transfrontaliere”. Il network ha aggregato decine di coltivatori-pionieri e li ha messi in contatto: oggi i loro saperi sono condivisi, e i semi dei rispettivi ortaggi – italiani e francesi – fanno parte di una sorta di “banca” e sono a disposizione di chiunque voglia impegnarsi a propagarli, seminandoli nel proprio orto, in barba ai diktat sempre più invadenti che favoriscono la grande distribuzione a vantaggio delle varietà industriali, che puntano tutto sulla resa a scapito della qualità.
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Sapelli: via tutti, l’Italia si salva solo con una rivoluzione
«Fino al 1450 eravamo l’economia più florida del mondo. Poi abbiamo conosciuto la crisi del ‘600. Perché i figli della borghesia comunale hanno lasciato le città e sono andati a vivere in villa come nobili: quando si guadagnano troppi soldi, non si risponde più a se stessi». Secondo il professor Giulio Sapelli, per l’Italia «forse non c’è più speranza. «A forza di imporre l’ortodossia monetarista e deflazionista, i tedeschi stanno facendo dell’Europa un deserto». Italia addio: «Questa è una nazione ricca, con un grande risparmio. E la cultura. Ma i risparmi si stanno erodendo. E tra 20 anni, forse, saremo un paese desertificato». Come uscirne? Licenziare immediatamente l’attuale classe dirigente, e puntare a una svolta radicale, «socialista e rivoluzionaria», per dire no alla politica della Troika di Bruxelles.Per l’economista che ha conosciuto l’Italia di Olivetti, la grande e la media impresa, le cooperative e i distretti, scrive Giovanna Faggionato su “Lettera 43”, la crisi di oggi è il frutto di un male antico: la persistenza di una classe dirigente che ci condanna alla sudditanza estera. Così, mentre la Commissione Europea certifica che siamo il paese in cui «la situazione sociale si è deteriorata maggiormente», e in cui una quota consistente di occupati non riesce più ad arrivare a fine mese, lo studioso non si dà pace. E si chiede come il Parlamento Ue abbia potuto firmare il Fiscal Compact. Risposta: «Le nostre classi dirigenti cercano approvazione, legami e inserimento nella finanza internazionale. Lo ha fatto Romano Prodi. E poi Mario Monti. E ora anche Enrico Letta punta alle cariche all’estero». Quindi non fanno gli interessi italiani? «Monti ha fatto gli interessi di chi lo ha sempre sostenuto, cioè le istituzioni finanziarie». Draghi? «Lui viene da Goldman Sachs, dalla scuola americana. E prova a fare la politica Usa».La Germania, aggiunge Sapelli nell’intervista, «ci vuole fare morire di deflazione». Meglio gli Stati Uniti, perché a loro «in questo momento serve un’Europa forte». E’ vero, sono proiettati verso il Pacifico perché «preparano la guerra che verrà con la Cina», ma hanno bisogno di avere le spalle coperte, cioè un’economia europea in salute. «Stiamo trattando un accordo di libero scambio transatlantico: possiamo negoziare», dice Sapelli. «E comunque, meglio gli Stati Uniti del dominio tedesco», a cui Draghi “non osa” opporsi. Andiamo verso un crack come quello argentino del decennio scorso? «Dell’Argentina stiamo iniziando a copiare i leader peronisti», a comiciare da Renzi. «Abbiamo avuto due sole “rivoluzioni” generazionali in Italia. Una l’ha fatta Benito Mussolini ed era il fascismo. E l’altra è stata il ‘68. Basta guardare come sono finite». Spiragli? «Avete votato il Pd, Berlusconi…». E cosa bisogna votare, Grillo? «Nessuno. Bisogna rifondare un partito socialista, rivoluzionario. Come Syriza, in Grecia. Che non vuole uscire dall’Europa, ma rinegoziare il debito».«Fino al 1450 eravamo l’economia più florida del mondo. Poi abbiamo conosciuto la crisi del ‘600. Perché i figli della borghesia comunale hanno lasciato le città e sono andati a vivere in villa come nobili: quando si guadagnano troppi soldi, non si risponde più a se stessi». Secondo il professor Giulio Sapelli, per l’Italia «forse non c’è più speranza. «A forza di imporre l’ortodossia monetarista e deflazionista, i tedeschi stanno facendo dell’Europa un deserto». Italia addio: «Questa è una nazione ricca, con un grande risparmio. E la cultura. Ma i risparmi si stanno erodendo. E tra 20 anni, forse, saremo un paese desertificato». Come uscirne? Licenziare immediatamente l’attuale classe dirigente, e puntare a una svolta radicale, «socialista e rivoluzionaria», per dire no alla politica della Troika di Bruxelles.
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Se ci rubano anche le Poste, servizio pubblico universale
Dopo aver versato, per non più di un minuto, lacrime di coccodrillo sui dati della disuguaglianza sociale nel pianeta, forniti dal rapporto della ong Oxfam – le 85 persone più ricche del mondo detengono una ricchezza equivalente a quella di 3,5 miliardi di persone; l’1% del pianeta possiede il 50% della ricchezza mondiale – il ministro Saccomanni, presente all’annuale Forum di Davos, è passato alle cose serie e, in un incontro con i grandi investitori stranieri, ha annunciato l’avvio dell’ennesimo piano di privatizzazioni, con in testa le Poste Italiane. Senza senso del ridicolo, è riuscito a dire che l’operazione, che prevede, per ora, la messa sul mercato del 40% del capitale sociale di Poste, comporterà un’entrata di almeno 4 miliardi da destinare alla riduzione del debito pubblico.Anche ai più sprovveduti credo risulti chiara l’inversione del contesto: Saccomanni dice di voler privatizzare le Poste per ridurre il debito pubblico, mentre è evidente come il debito pubblico sia solo l’alibi – lo shock teorizzato da Milton Friedman – per permettere la privatizzazione di un servizio pubblico universale. Bastano due semplici operazioni di matematica: la vendita del 40% di Poste Italiane porterebbe il debito pubblico da 2.068 a 2.064 miliardi, con un entrata una tantum non riproducibile, e nel contempo eliminerebbe un’entrata annuale stabile di almeno 400 milioni/anno (essendo l’utile di Poste Italiane pari a 1 miliardo). Ma, ovviamente, non c’è dato che conti quando l’obiettivo è quello di dichiarare una vera e propria guerra alla società, attraverso la progressiva spoliazione di diritti, beni comuni, servizi pubblici e democrazia, all’unico scopo di favorire l’espansione dei mercati finanziari.E, d’altronde, la messa sul mercato del 40% di Poste è la naturale prosecuzione di un processo di trasformazione del servizio, in corso già da quando l’azienda dello Stato è diventata una SpA: da allora abbiamo assistito a più riprese – tutte avvallate dagli accordi sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil di categoria – al progressivo smantellamento del servizio postale universale, con relativo attacco alle sue prerogative di uniformità di servizio su tutto il territorio nazionale, di tariffe contenute e di soddisfacente qualità del recapito. Ciò che si vuole perseguire, con la definitiva privatizzazione, è lo smantellamento della funzione sociale di Poste Italiane, attraverso la separazione di Banco Posta dal servizio di recapito, trasformando il primo – già oggi ricettacolo di molteplici attività finanziarie – in una vera e propria banca e mettendo sul mercato il secondo.Con la naturale conseguenza che i servizi postali saranno garantiti da una miriade di soggetti privati, solo laddove adeguatamente remunerativi (grandi città e grandi utenti) e smantellati, o a carico della collettività con aumento incontrollato dei costi, in ogni territorio dove il rapporto servizio/redditività non sarà considerato adeguato. Senza contare il fatto che, con questa operazione, anche tutta la funzione di raccolta del risparmio dei cittadini, oggi svolta dagli oltre 13.000 uffici postali, che convogliano il denaro raccolto a Cassa Depositi e Prestiti, verrebbe messa a rischio o profondamente trasformata. Stiamo già sentendo le consuete sirene ideologiche di accompagnamento: la vendita del 40% non intaccherà il controllo pubblico, mentre nel capitale sociale verranno coinvolti i lavoratori e i cittadini risparmiatori, in una sorta di azionariato popolare e democratico.Credo che tre decenni di privatizzazioni abbiano già fornito gli elementi per confutare entrambe le tesi: l’entrata dei privati nel capitale sociale di un’azienda pubblica ha sempre e inevitabilmente comportato la trasformazione della parte pubblica in soggetto finalizzato all’unico obiettivo del profitto; l’azionariato diffuso tra lavoratori e cittadini, aldilà delle favole sulla democrazia economica, è sempre servito a immettere denaro nell’azienda, permettendo agli azionisti maggiori – i poteri forti – di poterla possedere senza fare nemmeno lo sforzo di doverla comprare. Ogni smantellamento di un servizio pubblico universale consegna tutte e tutti noi all’orizzonte della solitudine competitiva: ciascuno da solo sul mercato in diretta competizione con l’altro. Opporsi alle privatizzazioni, oltre a fermare i processi di finanziarizzazione della società, consente di riaprire lo spazio pubblico dei beni comuni e di un altro modello sociale. Perché il futuro è una cosa troppo seria per affidarlo agli indici di Borsa.(Marco Bersani, “Il postino smetterà di suonare?”, da “Comunitaria” del 24 gennaio 2014).Dopo aver versato, per non più di un minuto, lacrime di coccodrillo sui dati della disuguaglianza sociale nel pianeta, forniti dal rapporto della ong Oxfam – le 85 persone più ricche del mondo detengono una ricchezza equivalente a quella di 3,5 miliardi di persone; l’1% del pianeta possiede il 50% della ricchezza mondiale – il ministro Saccomanni, presente all’annuale Forum di Davos, è passato alle cose serie e, in un incontro con i grandi investitori stranieri, ha annunciato l’avvio dell’ennesimo piano di privatizzazioni, con in testa le Poste Italiane. Senza senso del ridicolo, è riuscito a dire che l’operazione, che prevede, per ora, la messa sul mercato del 40% del capitale sociale di Poste, comporterà un’entrata di almeno 4 miliardi da destinare alla riduzione del debito pubblico.
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Maggiani: rimpiango i piccoli negozi, uccisi dall’avidità
Finiscono un sacco di cose nel tempo della crisi; si estinguono, si dissanguano, si consumano un sacco di cose che avrebbero meritato di esserci, di perdurare, di resistere. Perché la crisi spazza via parecchio dell’inutile e dell’obsoleto, ma anche molto di buono, di utile, di bello. In una minuscola, antica frazione sulla collina del golfo di La Spezia, uno dei non pochi borghi rimasti vivi nonostante i vecchi abbandoni e le recenti speculazioni, un borgo ancora abitato dai vecchi che hanno voluto rimanere e dai giovani che hanno voluto tornare, c’era un piccolo commestibile. Era un presidio importante e amato; gli anziani potevano comprare le cose essenziali senza dover faticosamente scendere in città, i giovani tornavano dal lavoro e lo trovavano aperto alle ore insolite dei loro frettolosi rientri. E siccome la signora che lo gestiva sapeva fare in cucina delle cose molto buone che metteva sul banco, le giovani coppie non sentivano troppo la lontananza dalle vecchie madri cuciniere, e gli operai dei cantieri lungo la strada si godevano confortanti pause del mezzodì, e i girovaghi e i viandanti, tra questi il sottoscritto, se n’erano fatto un prezioso punto di ristoro e soccorso alle crisi ipoglicemiche.Con quel suo minuscolo esercizio la signora che lo gestiva non ci si è davvero arricchita, ma ci sono persone che vivono con piacere anche la semplice condizione di dignitoso sostentamento, appagandosi del necessario e ignorando l’accumulazione. Ora, dicevo, questa piccola, utile e buona cosa non c’è più. Colpa della crisi, ma di un particolare, e singolare, risvolto della crisi. Alla signora del commestibile il titolare della licenza ha chiesto un possente aumento del suo affitto, un aumento che non le permette di sopravvivere. Per inciso, stupidamente e ingenuamente, mi ero fatto l’idea che in questo Paese il commercio fosse attività liberalizzata da anni, così mi pareva per certe leggi di cui ero venuto a conoscenza, salvo constatare che non è così, non per alcuni settori strategici per la conservazione delle vecchie, care rendite di posizione, a ferma tutela del parassitismo nazionale; non solo taxi e farmacie, ma anche, per esempio, commestibili e ristorazione. Comunque, ecco, che il commestibile chiude, e non per questo se ne riapre uno nuovo, perché nessun pazzo è disponibile a farsi strozzare dall’avidità del titolare della licenza che gli dovrebbe consentire di vivere.Non più distante di un paio di chilometri da lì, sta chiudendo, sempre a causa delle pretese del “padrone” della licenza, e in questo caso anche dei muri, una piccola trattoria di collina, presa in gestione, dopo anni di decadenza e abbandono, da un giovane cuoco capace e volenteroso. Che si è rimesso a fare quei tre o quattro piatti della vecchia cucina di cui sentiamo ancora nostalgia, e li fa buoni e sani e alla portata dei più, e solo per questo dovrebbe essere nominato cavaliere del lavoro. Se ne andrà, fine, e al suo posto non ci sarà più niente di buono, perché a quei costi niente di buono può dar da vivere. Ben che vada al goloso proprietario, arriverà un qualche disperato furbastro o un ingenuo incompetente che firmerà un pacco di pagherò che non pagherà, e svanirà nel nulla in una manciata di mesi. Come è già capitato, come continua a succedere in ogni ramo del commercio.Perché se ne contano decine, centinaia di desolanti casi del genere in ogni città, centro storico, periferia e collina, e non si contano più le serrande abbassate e mai più rialzate, le vetrine vuote e le scritte “affittasi” ormai stinte. Come non si contano più i cambi continui di gestione. E c’è qualcosa di raccapricciante in questo. C’è il fatto che in tempo di crisi chi ha la “roba” da ricavarci una rendita di posizione, è preso da una fame di profitto ancor maggiore della sua solita, tipica fame. Una smania di fare ancora più soldi di quanti non ne abbia già fatto, da accecarlo. Sfugge a una qualsivoglia regola dell’accumulo capitalistico il pretendere più di quanto la “roba” valga sul mercato. Sfugge a qualsivoglia ragionevole calcolo preferire nessun reddito a un modesto ma certo reddito. A meno che il calcolo non segua le regole dell’irragionevole, ultra umana avidità che presagisce vacche grasse da mungere e macellare che nessun altro sa immaginare. E a me pare più che un problema sociologico da sottoporre agli economisti, una questione da affrontare nell’ambito della psicoanalisi, là dove getto lo sguardo nello sprofondo delle pulsioni di morte. E vedo in quegli avidi il Mazzarò della novella del Verga che ancora, mi pare, si studia a scuola. Il racconto della “Roba” e di quel tale, Mazzarò, che, dopo una vita dedicata all’accumulo in totale dispregio degli uomini e di Iddio, in punto di morte si mette a distruggere la sua roba urlando a squarciagola: Roba mia vieni con me.(Maurizio Maggiani, “Quei piccoli negozi uccisi dall’avidità”, da “Il Secolo XIX” del 24 giugno 2012).Finiscono un sacco di cose nel tempo della crisi; si estinguono, si dissanguano, si consumano un sacco di cose che avrebbero meritato di esserci, di perdurare, di resistere. Perché la crisi spazza via parecchio dell’inutile e dell’obsoleto, ma anche molto di buono, di utile, di bello. In una minuscola, antica frazione sulla collina del golfo di La Spezia, uno dei non pochi borghi rimasti vivi nonostante i vecchi abbandoni e le recenti speculazioni, un borgo ancora abitato dai vecchi che hanno voluto rimanere e dai giovani che hanno voluto tornare, c’era un piccolo commestibile. Era un presidio importante e amato; gli anziani potevano comprare le cose essenziali senza dover faticosamente scendere in città, i giovani tornavano dal lavoro e lo trovavano aperto alle ore insolite dei loro frettolosi rientri. E siccome la signora che lo gestiva sapeva fare in cucina delle cose molto buone che metteva sul banco, le giovani coppie non sentivano troppo la lontananza dalle vecchie madri cuciniere
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Il generale Mini: la guerra climatica è già cominciata
La guerra ambientale non è più solo un’ipotesi: è già in atto. Ma guai a dirlo: si passa per pazzi. Eppure, «negare l’informazione è già un atto di guerra fondamentale», denuncia il generale Fabio Mini, che conferma tutto: la “bomba climatica” è la nuova arma di distruzione di massa a cui si sta lavorando, in gran segreto, per acquisire vantaggi inimmaginabili su scala planetaria. Alluvioni, terremoti, tsunami, siccità, cataclismi. Uno scenario che, purtroppo, non è più fantascienza. E da parecchi anni. Era il lontano 1946 quando Thomas Leech, scienziato e professore israeliano-neozelandese, lavorò in Australia per conto dell’Università di Auckland con fondi americani e inglesi per provocare piccoli tsunami. Il successo del “Progetto Seal” spaventò Leech spingendolo a fermarsi dopo i primi test. Ma chi ci dice che la manipolazione del clima non sia stata portata avanti? Oggi, con la robotizzazione, per molte “operazioni” bastano poche persone. «Non ci sono vincoli, non ci sono regole, se c’è la possibilità di farlo ‘qualcuno’ lo farà». Non i governi, ma ristrette élite.Ne ha parlato di recente, in un convegno a Firenze largamente disertato dai media, l’ex comandante delle forze Nato in Kosovo. Mini rivendica la responsabilità di aver posto in Italia l’attenzione su questo tema quando nel 2007 scrisse l’articolo “Owning the weather: la guerra ambientale è già cominciata”, ufficializzando uno scenario nuovo e inquietante: le forze della natura sono adoperate e piegate come strumento ed arma. Può accadere, sottolinea Mini, perché – come di fronte a qualsiasi altra aberrazione di carattere mostruoso – l’opinione pubblica è innanzitutto incredula: «La maggior parte delle persone ritiene inconcepibili certi scenari, in quanto non è al corrente delle progettazioni in materia di tecnologie militari e quindi delle conseguenti implicazioni». Da un lato c’è la rassicurante convenzione Onu del 1977, che proibisce espressamente «l’uso militare, o di altra ostile natura, di tecniche di modificazione ambientale con effetti a larga diffusione, di lunga durata o di violenta intensità». In realtà, al 90% le prescrizioni Onu vengono regolarmente disattese, in particolare dai militari. I quali «hanno già la capacità di condizionare l’ambiente: tornado, uragani, terremoti e tsunami alterati o addirittura provocati dall’uomo sono una possibilità concreta».I militari, riassume Mini – citato nel report del blog “No Geoingegneria” – prediligono la tecnologia. E le loro richieste alla scienza non sono per programmi attuabili a breve termine, ma sono progetti con sviluppi nel medio e lunghissimo termine. Attenzione: «Non esiste una moralità che possa impedire di oltrepassare un certo punto. Basti pensare allo sviluppo e le applicazioni degli ordigni atomici. Non esiste vincolo morale, ciò che si può fare si fa». Inoltre, la nuova tecnologia viene applicata anche a livello immaturo: «La voglia di conseguire un vantaggio spinge ad usare le tecnologie senza fare test a sufficienza. Una possibilità viene messa in atto per verificarne il funzionamento, sperimentandone direttamente sul campo gli effetti». Già nel 1995, uno studio dell’aeronautica militare statunitense (“Weather as a Force Multiplier: Owning the Weather in 2025”) delineava i piani da sviluppare per conseguire nell’arco di 30 anni il controllo del meteo a livello globale. Secondo Mini, non si parlava ancora di “possedere il clima”, ma di controllare il meteo e lo spazio atmosferico per condurre operazioni belliche, «per esempio irrorando le nubi con ioduro d’argento, altre sostanze chimiche o polimeri, per dissolverle oppure spostarle».Si tratta della possibilità di destabilizzare una regione o paese, in qualsiasi parte del mondo. Oggi, a 17 anni dalla pubblicazione di quello studio, secondo il generale Mini «siamo piuttosto vicini al traguardo del 2025». Secondo il meteorologo statunitense Edward Norton Lorenz, padre della “teoria del caos”, mai e poi mai avremo conoscenze sufficienti a verificare le effettive conseguenze di una modificazione climatica. Se qualcuno trae un vantaggio da una modificazione climatica, dall’altra ci sarà qualcun altro che ne subisce un danno, e non è detto che lo paghi in termini lineari, con conseguenze anche catastrofiche, che Lorenz chiama “effetto farfalla”. Proprio in quegli anni si comincia a pensare non solo di cambiare il meteo, ma di creare una situazione permanente e quindi di trasformare il clima. «Così qualcuno inizia a pensare: cosa rende l’Europa prospera e le garantisce un clima favorevole? La corrente del Golfo del Messico. Bene, allora qualcuno si è messo a studiare come modificare questa corrente. Non solo, ma qualcuno ha iniziato a chiedersi: possiamo provocare un terremoto? Qualcuno ha risposto ‘si può fare’». Qualcuno chi?La domanda, infatti, è particolarmente inquietante: da chi scaturisce quella volontà politica che sta alla base della catena di comando? Brutte notizie, dice Mini: gli Stati stanno perdendo il controllo della situazione, che è monopolizzata da ristrettissimi gruppi di potere. Il generale le chiama “bande”. Sono costituite da «persone, associazioni e corporazioni, coaguli di potere che non hanno nessun interesse istituzionale, ma conseguono solamente il proprio interesse, e nel nome di esso sono disposte a mandare in crisi un sistema per modificarlo a proprio vantaggio, utilizzando mezzi illegali e legali». L’enorme potere di questo super-clan è confermato dalla situazione mondiale di massima emergenza, come confermato dalle analisi di carattere strategico a livello militare. In sintesi: la demografia del pianeta è in aumento esponenziale, le risorse della Terra sono in netta diminuzione, l’economia globale è in recessione. Insomma, la coperta è sempre più corta. E il ruolo degli Stati nella definizione della minaccia è ormai ridotto a zero.Non sono più gli Stati a decidere, a individuare o prevedere le minacce, sottolinea Mini. Sono “altri” che fanno le analisi. E fare le valutazioni della minaccia «vuol dire fornire le indicazioni per la politica». Bene, «questa prerogativa non è più nelle mani degli Stati, neanche di quelli forti». George W. Bush, quando ha avviato la “guerra infinita” innescata dagli attentati dell’11 Settembre, non è stato indirizzato da fonti istituzionali, ma da «qualcuno che lavora fuori dalle istituzioni, contro le istituzioni». La situazione è veramente critica: molti Stati hanno l’acqua alla gola, colpiti dalla crisi e ricattati dalla cupola finanziaria mondiale. La criminalità è in netto aumento, il contrasto verso le mafie si è indebolito e la percezione dell’insicurezza è cresciuta. Ogni problema viene estremizzato: la favola dello “scontro di civiltà” tra cultura giudaico-cristiana e cultura musulmana resta «il faro politico di tutte le relazioni internazionali». Così, non fa che cresce la militarizzazione del pianeta: «Le cose che venivano fatte con strumenti civili oggi vengono fatte quasi esclusivamente con strumenti militari, inducendo gli ambienti militari ad essere sempre più proiettati verso il controllo e il possesso di strumenti tecnologici per attuarlo».La dualità, lo scontro, si manifesta in maniera preponderante nello spazio, con il controllo delle telecomunicazioni e dei sistemi di difesa, e ora anche nell’ambiente, «che non è più il luogo ove la guerra si manifesta, ma è l’arma», e negli agglomerati urbani, «che sono i luoghi dove si prevede il maggior intervento in termini di militarizzazione». Lo spazio è definito un “bene comune” e come tale dovrebbe essere salvaguardato. «Ma non succede, e la percezione di scarsa sicurezza alimenta un incremento della militarizzazione». Come si sfrutta l’ambiente come arma? «Non solo con le modifiche meteorologiche, ma anche tramite la negazione delle informazioni. Non c’è solo la disinformazione sull’ambiente, ma c’è una pratica militare che si chiama “denial of service”». Ovvero: «Si stabilisce che è necessario non solo negare la realtà o l’evidenza, ma negare l’informazione». E questo, ribadisce Mini, è già un vero e proprio atto di guerra. «Determinate persone o paesi non devono venire a conoscenza delle informazioni», anche se questo può causare catastrofi di proporzioni bibliche, come il devastante tsunami abbattutosi sulle coste dell’Indonesia. «Lo tsunami indonesiano è ancora uno scandalo: l’informazione sul suo arrivo era disponibile, ma interruzioni nella trasmissione dati a causa di anelli malfunzionanti, o volutamente non funzionanti, ne hanno impedito la comunicazione».Un altro aspetto è emblematicamente rappresentato dal sistema Haarp. Invece di influire sull’ambiente a carattere solo locale, dice Mini, ormai si può incidere globalmente. Come? «Andando a creare, artificialmente, dei punti più caldi o più freddi, e quindi modificando il clima interferendo anche sulle correnti». Lo stesso dicasi per le alterazioni che provocano i terremoti, anche se il generale nega che il recente terremoto in Emilia sia stato “indotto”. Ma attenzione: «Nessuno può negare che ci siano state più di 2.000 esplosioni nucleari nel sottosuolo terrestre, nella profondità degli oceani e persino nello spazio». Già negli anni ’90, per colpire obiettivi di interesse militare in Cina, «fu pianificato di indurre un terremoto con delle esplosioni dalla zona di Okinawa». La dismissione di migliaia di ordigni nucleari, dopo la fine della guerra fredda, ha creato un mercato dei materiali fissili da innesco. «Le grandi compagnie petrolifere si offrirono di reimpiegarli e sappiamo che è possibile agire sulle faglie inducendo terremoti tramite ordigni nucleari o micro-nucleari».La guerra ambientale non è più solo un’ipotesi: è già in atto. Ma guai a dirlo: si passa per pazzi. Eppure, «negare l’informazione è già un atto di guerra fondamentale», denuncia il generale Fabio Mini, che conferma tutto: la “bomba climatica” è la nuova arma di distruzione di massa a cui si sta lavorando, in gran segreto, per acquisire vantaggi inimmaginabili su scala planetaria. Alluvioni, terremoti, tsunami, siccità, cataclismi. Uno scenario che, purtroppo, non è più fantascienza. E da parecchi anni. Era il lontano 1946 quando Thomas Leech, scienziato e professore israeliano-neozelandese, lavorò in Australia per conto dell’Università di Auckland con fondi americani e inglesi per provocare piccoli tsunami. Il successo del “Progetto Seal” spaventò Leech spingendolo a fermarsi dopo i primi test. Ma chi ci dice che la manipolazione del clima non sia stata portata avanti? Oggi, con la robotizzazione, per molte “operazioni” bastano poche persone. «Non ci sono vincoli, non ci sono regole, se c’è la possibilità di farlo ‘qualcuno’ lo farà». Non i governi, ma ristrette élite.
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Sawant: ora gli americani vogliono un partito di sinistra
I tempi stanno davvero per cambiare, a quanto pare: e gli americani ora chiedono un terzo partito, che sia veramente di sinistra. La conquista di un seggio alle elezioni comunali di una grande città americana come Seattle è un evento storico per la candidata del piccolo partito “Alternativa Socialista”: Kshama Sawant è un’immigrata indiana di 41 anni, insegnante universitaria part time ed ex attivista locale di Occupy Wall Street, impostasi alle recenti elezioni amministrative della capitale dello Stato di Washington. Ha conquistato gli elettori di Seattle con un programma radicale di sinistra: aumento del salario minimo a 15 dollari l’ora, controllo del prezzo degli affitti, tassa milionaria sui maxi-redditi per finanziare il trasporto pubblico e l’istruzione. Nel mirino della leader socialista americana anche le grandi opere, come il progetto iper-inquinante che prevede il transito lungo Seattle di un elevato numero di treni che trasportano il carbone verso il porto di Bellingham, che diverrebbe il più grande terminale di esportazione del carbone nel Nord America.Il successo alle amministrative di Seattle è una conquista storica, dice l’attivista a Marco Orlando in un’intervista per “Micromega”. «Siamo stati gli unici senza finanziamenti delle grandi aziende ma abbiamo ricevuto più di 120.000 dollari, in gran parte piccole donazioni effettuate dalla gente comune». Campagna elettorale porta a porta, grazie a 300 volontari. L’estremo nord-ovest degli States come banco di prova: «La società americana esprime il desiderio di una politica alternativa ai due partiti che, secondo noi, sono entrambi rappresentativi degli interessi delle grandi imprese». Le crisi politiche come il recente “shutdown”, le pressioni di Obama per scatenare la guerra in Siria e le rivelazioni sul Datagate dell’Nsa «hanno minato il supporto sia per i democratici che per i repubblicani». Inoltre, «la grande recessione in corso ha rivelato che il capitalismo non funziona più per la maggior parte delle persone: molti, soprattutto tra i giovani, hanno maturato conclusioni radicali e sono alla ricerca di un’alternativa».Alcuni recenti sondaggi hanno rilevato che solo il 28% degli americani crede che democratici e repubblicani stiano governando in maniera soddisfacente, mentre il 60% riconosce la necessità di un terzo partito politico. «La nostra campagna, quindi, ha dato voce alla rabbia contro le politiche influenzate dalle grandi corporation», continua Kshama Sawant. «Siamo partiti dai bisogni di lavoratori, studenti e poveri di Seattle: un salario di sussistenza, il trasporto pubblico, alloggi a prezzi accessibili e finanziamenti per l’istruzione». Chiaro l’orizzonte intellettuale: «Abbiamo indicato il sistema capitalistico come la radice del problema e presentato il socialismo democratico come alternativa», del resto già presente all’interno di Occupy Wall Street. «Abbiamo conquistato la fiducia e il supporto necessari per dirigere i movimenti locali in direzioni efficaci».Seattle e Minneapolis – altra città dove i socialisti si sono affermati – faranno da apripista per seggi a Washington nelle elezioni di medio termine? «Uno dei principali obiettivi raggiunti era dimostrare l’esistenza di uno spazio a sinistra del Partito Democratico», spiega Sawant. «Abbiamo provato che i candidati indipendenti, non finanziati dalle grandi multinazionali, possono avere un grandissimo impatto sulla politica locale». Il gruppo è già al lavoro per «stringere coalizioni in tutto il paese, in modo da far correre insieme 100 candidati della sinistra indipendente alle elezioni politiche di medio termine: è il primo passo per costruire un partito politico che rappresenti milioni di cittadini americani e non i soliti ricchi».I tempi stanno davvero per cambiare, a quanto pare: e gli americani ora chiedono un terzo partito, che sia veramente di sinistra. La conquista di un seggio alle elezioni comunali di una grande città americana come Seattle è un evento storico per la candidata del piccolo partito “Alternativa Socialista”: Kshama Sawant è un’immigrata indiana di 41 anni, insegnante universitaria part time ed ex attivista locale di Occupy Wall Street, impostasi alle recenti elezioni amministrative della capitale dello Stato di Washington. Ha conquistato gli elettori di Seattle con un programma radicale di sinistra: aumento del salario minimo a 15 dollari l’ora, controllo del prezzo degli affitti, tassa milionaria sui maxi-redditi per finanziare il trasporto pubblico e l’istruzione. Nel mirino della leader socialista americana anche le grandi opere, come il progetto iper-inquinante che prevede il transito lungo Seattle di un elevato numero di treni che trasportano il carbone verso il porto di Bellingham, che diverrebbe il più grande terminale di esportazione del carbone nel Nord America.