Archivio del Tag ‘catastrofe’
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Perché mai dovremmo prendere ordini da Olli Rehn
Un fisico da attore comico, il classico volto pacioccone da commedia brillante: lo sfigato che tenta inutilmente di farsi prendere sul serio. In virtù dell’indecente ordinamento feudale dell’Unione Europea, persino uno come lui – Olli Illmari Rehn, classe 1962, proveniente dal paese di Babbo Natale – è in grado di impartire moniti e severe direttive ai 60 milioni di individui che compongono il popolo italiano. Popolo che pure è autorizzato (per ora) a continuare a votare per il suo Parlamento nazionale, quello di Roma, il quale però ha ormai competenza solo sull’1% dei problemi del paese: il 99% è infatti appannaggio diretto di Francoforte e Bruxelles, per gentile concessione di Washington. Così, a spiegare agli italiani di che morte dovranno morire può provvedere impunemente un tizio come il signor Rehn, dal 2010 “commissario europeo per gli affari economici e monetari”. Un super-potente, nonostante quella faccia un po’ così. Un gauleiter, a tutti gli effetti: con piena facoltà di emanare diktat acuminati, anche se non è mai stato eletto da nessuno di noi.Economia, relazioni internazionali e giornalismo: il curriculum del “signor no” che da qualche tempo perseguita gli italiani riassume da solo la mappa strategica dei territori-chiave riconquistati dal pensiero unico, negli ultimi decenni, per imporre la ricetta economica dell’oligarchia neoliberista: il trionfo dei pochi sui molti, la geopolitica piegata all’egemonia globalizzata delle élite finanziarie e mercantili, la disinformazione come arma pervasiva e invisibile del regime. Per capire chi è il “ministro dell’economia” della Commissione Europea basta aprire la relativa paginetta di Wikipedia: vi si legge che Rehn si è laureato nel Minnesota, si è specializzato a Oxford e ha approfondito le sue competenze sul corporativismo e la competitività industriale negli Stati europei minori, quelli che oggi sono sottoposti alle amorevoli cure della Troika. Ma anche Olli Rehn, dopotutto, è un essere umano: è sposato, ha un figlio, in gioventù ha persino giocato a calcio nella serie A finlandese.Moderato, è in politica dalla fine degli anni ’80. Nella triste Europa dell’Unione si è affacciato nel 1991, guidando la delegazione finlandese, per poi approdare all’euro-Parlamento nel ’95. Anni cruciali, quelli seguenti, segnati dall’incontro con l’uomo del destino, il connazionale Erkki Liikanen, futuro governatore della banca centrale finnica e all’epoca “ministro” della Commissione Europea guidata da Romano Prodi. Col tempo, Rehn ha preso il posto di Liikanen ed è rimasto pressoché in pianta stabile nell’esecutivo sub-imperiale europeo, prima presieduto da Prodi e poi da Barroso. Uno specialista, il dottor Rehn: è stato lui a trattare l’ingresso nell’Ue di Romania e Bulgaria, nonché a tenere in caldo l’adesione della Turchia. Così efficiente, il signor nessuno venuto da freddo, da meritarsi la poltronissima di super-ministro dell’economia, dalla quale minacciare ogni giorno – con le solite armi di distruzione di massa dell’economia – chiunque non intenda piegarsi alle micidiali “direttive” di Bruxelles.Al popolo italiano – e a tutti gli altri, sventurati ostaggi dell’Eurozona traditi dalle rispettive partitocrazie nazionali – resta da spiegare per quale ragione al mondo un paese come l’Italia dovrebbe prendere ordini (perché di questo si tratta) da un anonimo funzionario come l’ex calciatore finlandese. In Italia si combatte per un seggio in Parlamento, si corre per le primarie e si accorre ai meeting di Grillo, si favoleggia ancora sulle notti di Arcore, si discute (en passant) su come smontare la Costituzione e su come eventualmente rimontare una vera legge elettorale. E intanto si chiacchiera sull’Imu, si prende nota dei soggiorni europei del turista Letta e del fido banchiere Saccomanni, si vocifera di privatizzazioni e nuovi tagli, nuove tasse, nuovi orrori. E nessuno mai che spieghi per chi e per che cosa gli italiani dovrebbero votare, se poi alla fine a decidere del loro destino saranno ancora e sempre gli invisibili Padroni dell’Universo, per i quali lavorano gli estremisti in doppiopetto come Olli Rehn.Un fisico da attore comico, il classico volto pacioccone da commedia brillante: lo sfigato che tenta inutilmente di farsi prendere sul serio. In virtù dell’indecente ordinamento feudale dell’Unione Europea, persino uno come lui – Olli Illmari Rehn, classe 1962, proveniente dal paese di Babbo Natale – è in grado di impartire moniti e severe direttive ai 60 milioni di individui che compongono il popolo italiano. Popolo che pure è autorizzato (per ora) a continuare a votare per il suo Parlamento nazionale, quello di Roma, il quale però ha ormai competenza solo sull’1% dei problemi del paese: il 99% è infatti appannaggio diretto di Francoforte e Bruxelles, per gentile concessione di Washington. Così, a spiegare agli italiani di che morte dovranno morire può provvedere impunemente un tizio come il signor Rehn, dal 2010 “commissario europeo per gli affari economici e monetari”. Un super-potente, nonostante quella faccia un po’ così. Un gauleiter, a tutti gli effetti: con piena facoltà di emanare diktat acuminati, anche se non è mai stato eletto da nessuno di noi.
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Macché Renzi, la carta di Napolitano si chiama Draghi
Non fatevi incantare dal talent show per la scalata del Pd: nessuno dei partecipanti ha il cosiddetto x factor. Uno dei tre moschettieri, quasi certamente Renzi, riuscirà a conquistare il partito. Ma per andare al governo dovrà attendere il 2015. Non perché Letta reggerà fino a quel momento. Ma proprio perché Letta, «come il latte, è già scaduto». Mentre alle sue spalle «s’avanza un altro bidone di latta e di governo, con la convocazione del Quirinale in tasca». Secondo Gianni Petrosillo, «sta per rientrare dall’estero il miglior fusto made in Italy che c’è in circolazione», ovvero Mario Draghi. Napolitano? «Tirerà presto fuori questo coniglio dal cilindro, per saldare definitivamente i pezzi del suo piano», che dopo la decadenza di Berlusconi ha di fronte una vistosa accelerazione. Infatti, la maggioranza in Parlamento è cambiata: i numeri più risicati «richiedono l’investitura di un condottiero di maggior spessore e prestigio». Meglio: «Un portatore di grandi interessi internazionali (tanto di cerchie finanziarie che di potenze globali) ai quali deputati e senatori non possono opporsi». Letta? «Non è adatto alla nuova “impresa”».Quindi, prima ancora di vedersela con gli elettori italiani e con «il prossimo burattino di Berlusconi, si tratti di un figlio o di un altro figlioccio», il nuovo segretario del Pd «si troverà davanti uno scenario prefabbricato, puntellato da soluzioni imprescindibili ed impegni ineludibili e già sottoscritti, rispetto ai quali non avrà nessun potere decisionale», scrive Petrosillo in un post su “Conflitti e Strategie”, ripreso da “Come Don Chisciotte”. In altre parole, il futuro segretario Pd «non potrà mettere becco in niente e dovrà limitarsi ad amministrare l’esistente, cioè la devastazione e la desolazione totale». Perché «l’uomo del miracolo», al contrario, cioè «il profeta che sta per approdare sulle nostre coste, ha il nome di un mostro mitologico che sputa fuoco e prescrizioni dell’Ue». A lui, l’uomo che cena a casa di Eugenio Scalfari in compagnia di Letta e dell’uomo del Colle, «toccherà il compito di ingabbiare la nazione secondo i diktat di Bruxelles e di svendere il patrimonio pubblico secondo dettami che provengono da molto più lontano».Il super-curriculum del presidente della Bce «è garanzia di servilismo e sottomissione ai nostri tradizionali padroni, continentali e soprattutto extracontinentali», sostiene Petrosillo, alludendo evidentemente al ruolo-chiave di Draghi all’epoca delle grandi privatizzazioni degli anni ’90 pianificate con la lobby britannica degli “Invisibili” e poi il ruolo di stratega della Goldman Sachs e privatizzatore del sistema bancario italiano. «Tra qualche giorno si aprirà ufficialmente la crisi e i draghi invaderanno i nostri cieli per toglierci tutto quello che abbiamo», continua Petrosillo. «Questa non è una profezia, questa è la soluzione pro-zio-Sam trovata dal nostro sovrano Napolitano». Fantapolitica? «Può essere, ma è sempre meglio farsi trovare preparati dopo quanto successo in questi ultimi miserabili vent’anni». Questa volta «potrebbe trattarsi dell’assalto finale alla nostra sovranità nazionale», ovvero «pene nuove, che si assommano a dolori atavici».Non fatevi incantare dal talent show per la scalata del Pd: nessuno dei partecipanti ha il cosiddetto x factor. Uno dei tre moschettieri, quasi certamente Renzi, riuscirà a conquistare il partito. Ma per andare al governo dovrà attendere il 2015. Non perché Letta reggerà fino a quel momento. Ma proprio perché Letta, «come il latte, è già scaduto». Mentre alle sue spalle «s’avanza un altro bidone di latta e di governo, con la convocazione del Quirinale in tasca». Secondo Gianni Petrosillo, «sta per rientrare dall’estero il miglior fusto made in Italy che c’è in circolazione», ovvero Mario Draghi. Napolitano? «Tirerà presto fuori questo coniglio dal cilindro, per saldare definitivamente i pezzi del suo piano», che dopo la decadenza di Berlusconi ha di fronte una vistosa accelerazione. Infatti, la maggioranza in Parlamento è cambiata: i numeri più risicati «richiedono l’investitura di un condottiero di maggior spessore e prestigio». Meglio: «Un portatore di grandi interessi internazionali (tanto di cerchie finanziarie che di potenze globali) ai quali deputati e senatori non possono opporsi». Letta? «Non è adatto alla nuova “impresa”».
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Pallante: monasteri del terzo millennio, così ci salveremo
Ora che tutto sta crollando, meglio si intende la strana lingua degli eretici. Lo spettacolo aiuta a comprendere: l’economia in recessione, la frana del Pil, l’assurdità lunare delle “grandi opere inutili” e la catastrofica impresentabilità di una politica ridotta a balbettare rottami di dogmi. Sono solo appunti sotto dettatura, sillabati da un mainstream autistico e pilotato dalle grandi lobby coi loro economisti di complemento, i profeti disonesti del rigore altrui. Di fronte al crollo storico del mito progressivo dello sviluppo – “comunque vada, il futuro sarà migliore” – la scena critica è dominata da due approcci paralleli e complementari: il primo è quello di chi sostiene la necessità di dare innanzitutto battaglia, per impedire a una minoranza “golpista” di rovinare milioni di cittadini. Il secondo schieramento, nel quale milita da decenni un intellettuale come Maurizio Pallante, all’analisi dei rapporti di forza (lo scontro sociale) preferisce lo sguardo lungo, la prospettiva culturale, il mondo che verrà.Se il regime di Wall Street e Bruxelles impone un nuovo feudalesimo senza più diritti, proprio dal cuore del medioevo Pallante ripesca una lezione dimenticata e attualissima: quella del sistema socio-economico cooperativo. “Monasteri del terzo millennio”, mini-saggio comparso per la prima volta diversi anni fa grazie al “Manifesto”, si ripresenta oggi per i tipi di Lindau in una versione aggiornata, e arricchita di nuovi contributi. Quei “monasteri” non invecchiano, tutt’altro: orto, comunità e fede restano le tre parole-chiave per tornare a respirare, verso un futuro credibile. Sovranità alimentare e cibo per tutti, relazioni sociali collaborative e liberate dalla mercificazione industriale. La “fede” di ieri si traduce oggi in un impianto ideologico che diventa una “contro-narrazione del mondo”. Televisione e pubblicità hanno desertificato il nostro immaginario di neo-schiavi compulsivi, ora frustrati anche dal ritrovarci in bolletta? La lezione dei monaci è chiara: contemplare la bellezza (letteralmente: racchiuderla in un tempio) è un “motore” potente, per animare un’umanità responsabile e vitale, non ostile, capace di produrre economia sana grazie al sistema della mutualità.A un quarto di secolo dal visionario “Comitato per l’uso razionale dell’energia”, fondato insieme a scienziati come Tullio Regge, il fondatore del Movimento per la Decrescita Felice torna a scommettere sui “suoi” monasteri, oggi reincarnati in casali di collina, borgate di montagna, quartieri “solidali”, orti urbani, co-housing, gruppi di acquisto solidale, finanza etica. «La potenza raggiunta dalla megamacchina industriale sta esaurendo gli stock di risorse non rinnovabili ed emette quantità crescenti di scarti», cioè residui liquidi, solidi e gassosi «non metabolizzabili dalla biosfera». Per questo, occorre cominciare a pensare a un “nuovo rinascimento” fondato su modelli economici praticabili e concreti, alternativi e funzionali. Solo «relazioni umane fondate sulla collaborazione e la solidarietà» hanno il potere di «promuovere l’autosufficienza, soprattutto alimentare ed energetica, delle comunità locali». Si comincia dal posto in cui si vive, ma l’obiettivo è il mondo: si tratta di «realizzare forme più eque di redistribuzione delle risorse tra i popoli», in modo da «garantire il futuro delle generazioni a venire», respingendo definitivamente il totem bugiardo della crescita indiscriminata di un valore-spazzatura come il Pil.Rivoluzione dolce, la chiama Pallante, citando Gandhi: «Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo». La crescita incessante della produzione di merci, aumentata in modo esponenziale dalle innovazioni tecnologiche, «ha indotto a confondere il ben-essere col tanto-avere», e a utilizzare come unico indicatore il prodotto interno lordo, «ovvero il valore monetario degli oggetti e dei servizi scambiati con denaro». Così, i beni (quelli veri) sono finiti nel magma su cui galleggiano le merci (comprese quelle usa e getta, senza valore) e «le cose sono diventate più importanti delle relazioni». Scenari più che allarmanti: entro il 2050, il 75% dell’umanità si ammasserà nelle aree urbane, 27 delle quali supereranno i venti milioni di abitanti, e qualcuna i trenta. Risultato: dipendenza totale dai servizi, nessuna capacità di procurarsi cibo. Mai l’umanità è stata così vulnerabile. Milioni di persone (miliardi) lavorano in modo cieco, per servizi alienanti e prodotti di dubbia utilità, che non controlleranno mai. Pallante richiama l’attenzione sui monasteri medievali, vere e proprie “aziende” per comunità autosufficienti, a chilometri zero. «Se il lavoro che svolgi risponde davvero a un bisogno umano, questo attenua il disagio, riduce la fatica e migliora il rendimento, la comunicazione, la qualità della vita».Coi politici, è un dialogo tra sordi: non uno di loro rinuncia a parlare, ancora, di “crescita”. E’ un tragico equivoco: l’impennarsi del Pil è fatto anche di rifiuti, gas di scarico, auto in coda, case-colabrodo non protette dal freddo. Oggi, “crescita” è esattamente l’opposto di “progresso”. In più, ormai anche il mitico Pil sta franando. «Se la causa della crisi è la crescita, tutti i tentativi di superare la crisi rimettendo in moto la crescita sono destinati a fallire: non si può risolvere un problema aggravando le cause che l’hanno generato». La grande eresia della decrescita – ridurre gli sprechi velenosi, per pesare meno sulla Terra e vivere meglio, impedendo alla grande crisi di travolgerci – si sta facendo faticosamente strada, “aiutata” dal disastro che avanza: collasso energetico, climatico, economico-finanziario. Spesso, chi invoca una svolta sovranista e democratica per opporsi all’oligarchia del super-potere trascura il quadro mondiale, vicino all’implosione per raggiunti limiti di espansione e saturazione delle capacità di consumo. Intanto, cresce una foresta silenziosa di individui e gruppi, decisi a resistere ma non ancora rappresentati. Se il “monastero” potesse anche votare, e dotarsi di propri portavoce, probabilmente la “rivoluzione dolce” potrebbe davvero cominciare, col necessario sostegno di politiche strategiche, capaci di rilanciare l’occupazione “utile”: l’unica possibile, quella del futuro.(Il libro: Maurizio Pallante, “Monasteri del terzo millennio”, Lindau, 176 pagine, 13 euro).Ora che tutto sta crollando, meglio si intende la strana lingua degli eretici. Lo spettacolo aiuta a comprendere: l’economia in recessione, la frana del Pil, l’assurdità lunare delle “grandi opere inutili” e la catastrofica impresentabilità di una politica ridotta a balbettare rottami di dogmi. Sono solo appunti sotto dettatura, sillabati da un mainstream autistico e pilotato dalle grandi lobby coi loro economisti di complemento, i profeti disonesti del rigore altrui. Di fronte al crollo storico del mito progressivo dello sviluppo – “comunque vada, il futuro sarà migliore” – la scena critica è dominata da due approcci paralleli e complementari: il primo è quello di chi sostiene la necessità di dare innanzitutto battaglia, per impedire a una minoranza “golpista” di rovinare milioni di cittadini. Il secondo schieramento, nel quale milita da decenni un intellettuale come Maurizio Pallante, all’analisi dei rapporti di forza (lo scontro sociale) preferisce lo sguardo lungo, la prospettiva culturale, il mondo che verrà.
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Un Comitato di Liberazione Nazionale contro le euro-tasse
Serve un nuovo Comitato di Liberazione Nazionale, per respingere il “fascismo finanziario” dell’Unione Europea e imporre il ritorno della democrazia e della sovranità in Italia. Paolo Barnard lo spiega “verticalizzando” il problema senza giri di parole. I “sociopatici” trattati-capestro su cui si fonda l’Ue? «Esautorano Stati, Costituzioni e Parlamenti, quindi i cittadini sovrani», che non hanno mai votato né per Maastricht né tantomeno per il Fiscal Compact. Su Bruxelles il Parlamento Europeo non ha potere, i popoli europei non possono esprimersi democraticamente né difendersi. Imposizione fiscale, taglio dei deficit, austerità imposte dal regime europeo? «Sono strumenti del fascismo finanziario Ue per l’impoverimento delle masse e conseguente scadimento della democrazia». L’unica soluzione, secondo Barnard, sta nell’abolizione, «per legittima difesa», del reato di evasione fiscale. Inutile aspettarsi misure di salvezza dal governo: non le adotterà mai.«La tragedia dell’economia attuale, quella del tuo reddito, del tuo mutuo e del futuro di tuo figlio – scrive Barnard nel suo blog – è che una generazione di miserabili economisti prezzolati a suon di parcelle dal Potere ha fatto dimenticare a tutti il Dna dell’economia per l’Interesse Pubblico, quella che veramente creò la ricchezza moderna. Così ci hanno guadagnato quattro porci di speculatori, sulla pelle di milioni». Ed è successo. «Immaginate: è come se Maria De Filippi, il Gabibbo, Jovanotti e Mammuccari ci avessero fatto dimenticare che il Dna della lingua italiana sono Dante, Petrarca, Foscolo, Carducci o Pavese e Moravia – infatti è successo anche questo, e la lingua che parliamo è una cosa abominevole». Barnard cita un economista democratico di 70 anni fa, Michal Kalecki: «Basterebbe ricordare che razza di genio illuminato era costui e che cuore aveva per l’interesse della gente». Meglio si capirebbe che «la penicillina della salvezza delle nostre vite economiche è stata annientata, nascosta, con risultati orripilanti sulla vita di tutti noi».Nel 2013, l’Italia si ritrova un governo «illegittimo», sorretto da un uomo come Napolitano, accusato di “cestinare” la Costituzione. «Il potere deve tornare ai cittadini», dice Barnard, attraverso un nuovo Cln come quello sorto nel 1943. Obiettivo, abbattere il “fascismo finanziario” di Bruxelles. Come? Con una sorta di rivolta fiscale. «Azione numero 1: Il reato di evasione fiscale è abolito. Lo decidono gli italiani per legittima difesa. Evaderemo tasse fino al raggiungimento del 9% di deficit, poiché le identità macroeconomiche dimostrano oltre ogni dubbio che il deficit dello Stato è la ricchezza di cittadini e aziende per la salvezza nazionale. O l’alza il governo (unitamente a un taglio delle tasse), o l’alziamo noi con l’evasione. Vita o morte dell’Italia è in gioco». Un appello che Barnard considera patriottico: «Nel nome della patria e della Costituzione italiana, oggi la salvezza del paese passa per l’evasione fiscale delle tasse dell’Economicidio impostoci dal fascismo tecnocratico europeo».Serve un nuovo Comitato di Liberazione Nazionale, per respingere il “fascismo finanziario” dell’Unione Europea e imporre il ritorno della democrazia e della sovranità in Italia. Paolo Barnard lo spiega “verticalizzando” il problema senza giri di parole. I “sociopatici” trattati-capestro su cui si fonda l’Ue? «Esautorano Stati, Costituzioni e Parlamenti, quindi i cittadini sovrani», che non hanno mai votato né per Maastricht né tantomeno per il Fiscal Compact. Su Bruxelles il Parlamento Europeo non ha potere, i popoli europei non possono esprimersi democraticamente né difendersi. Imposizione fiscale, taglio dei deficit, austerità imposte dal regime europeo? «Sono strumenti del fascismo finanziario Ue per l’impoverimento delle masse e conseguente scadimento della democrazia». L’unica soluzione, secondo Barnard, sta nell’abolizione, «per legittima difesa», del reato di evasione fiscale. Inutile aspettarsi misure di salvezza dal governo: non le adotterà mai.
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Sapelli: Letta svende il paese perché non osa difenderlo
La privatizzazione di Eni è stata concepita fin dall’inizio in modo sbagliato. Eni non ha bisogno di essere privatizzata in modo classico, ma di avere un aumento del suo capitale attraverso gli investimenti dei soci stranieri. La società deve accrescere le sue dimensioni per affrontare le nuove sfide che si aprono a livello globale nel campo della ricerca “oil & gas”. Il governo dovrebbe favorire l’investimento di grandi gruppi, merger o fondi d’investimento, per aumentare il volume di Eni e farla diventare più grande. Il problema non è cambiare la forma di proprietà privatizzando, ma aumentarne le dimensioni. Eni ha un ruolo fondamentale perché rifornisce di petrolio e di gas l’intera nazione e varrebbe quindi la pena attuare un aumento della partecipazione statale, anche se purtroppo non è possibile. Gas ed elettricità sono strategici per il paese, e le liberalizzazioni dell’energia negli ultimi dieci anni hanno prodotto effetti disastrosi. Il prezzo del gas è aumentato, abbiamo un’over-supply, abbiamo avuto consolidamenti di piccole imprese che sono diventate grandi e sono ancora più dominate dalla politica di quanto non fosse un tempo.Privatizzare la rete ferroviaria è impossibile, si potrebbero piuttosto vendere le Grandi Stazioni. Per quanto riguarda Poste Italiane, avrebbe senso privatizzarle a condizione di trasformarle in un grande gruppo di logistica. In questo momento però manca un disegno industriale, e lo documenta il fatto che sono un’entità ibrida a metà tra le poste e una banca. Quindi, parlare di privatizzazioni in questo momento è soltanto una concessione al pensiero dominante che ha distrutto la crescita del nostro paese. Gli effetti delle privatizzazioni negli anni ‘90 sono stati la spartizione di un bottino e l’indebolimento del nostro settore industriale. Le privatizzazioni attuate dal governo Letta per “ridurre il debito pubblico”? Cercare di fare passare un’idea di questo tipo è soltanto una presa in giro. L’Italia ha un debito pubblico da 2.000 miliardi, e 12 miliardi non sono certo sufficienti a cambiare le cose.I dividendi di queste imprese partecipate dallo Stato sono molto più utili a ridurre gli squilibri di bilancio. Mi domando come si possa credere a una manovra illusionistica come quella che sta facendo il governo. Enrico Letta ha delle pesanti responsabilità storiche, perché è stato lui, insieme a Pier Luigi Bersani, ad attuare la liberalizzazione dell’energia elettrica e del gas, in modo errato anche dal punto di vista tecnico. Il premier ora si trova costretto a privatizzare perché da un lato è messo sotto pressione da parte di Saccomanni, che non risponde agli interessi dell’Italia ma a quelli della tecnocrazia europea. Letta non ha la forza né il coraggio di battersi per cambiare la linea europea in politica economica, che sta producendo effetti suicidi. Non a caso Francia e Germania, che si rifiutano di applicare i diktat europei, stanno subendo una decrescita meno pesante rispetto al nostro paese.(Giulio Sapelli, dichiarazioni rilasciate a Pietro Vernizzi per l’intervista “La tecnocrazia europea vuole svenderci”, apparsa su “Il Sussidiario” il 23 novembre 2013).La privatizzazione di Eni è stata concepita fin dall’inizio in modo sbagliato. Eni non ha bisogno di essere privatizzata in modo classico, ma di avere un aumento del suo capitale attraverso gli investimenti dei soci stranieri. La società deve accrescere le sue dimensioni per affrontare le nuove sfide che si aprono a livello globale nel campo della ricerca “oil & gas”. Il governo dovrebbe favorire l’investimento di grandi gruppi, merger o fondi d’investimento, per aumentare il volume di Eni e farla diventare più grande. Il problema non è cambiare la forma di proprietà privatizzando, ma aumentarne le dimensioni. Eni ha un ruolo fondamentale perché rifornisce di petrolio e di gas l’intera nazione e varrebbe quindi la pena attuare un aumento della partecipazione statale, anche se purtroppo non è possibile. Gas ed elettricità sono strategici per il paese, e le liberalizzazioni dell’energia negli ultimi dieci anni hanno prodotto effetti disastrosi. Il prezzo del gas è aumentato, abbiamo un’over-supply, abbiamo avuto consolidamenti di piccole imprese che sono diventate grandi e sono ancora più dominate dalla politica di quanto non fosse un tempo.
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Offsetting: finanziarizzare la natura per rapinare la Terra
Al confronto, la privatizzazione dell’acqua fa ridere. Lo chiamano “biodiversity offsetting” o “ecosystem offsetting”: è il nuovo trucco della finanza globale per mettere definitivamente le mani sugli ecosistemi. Tutto deve avere un prezzo, l’ambiente va comprato e venduto, trasformato in business. Finanziarizzazione della natura, istruzioni per l’uso. Energia, miniere, trasporti: le grandi opere devastano un’intera area? Niente paura, basta “quotare” il danno e trasferire il risarcimento altrove. Europa, istituzioni finanziarie e governi (Regno Unito in testa) premono per introdurre il concetto della “compensazione traslata” del danno ambientale, in particolare di habitat protetti e biodiversità. Se la “valutazione di impatto ambientale” punta a causare il minor danno possibile, il nuovo meccanismo non si cura più di salvare il territorio minacciato ma si limita a quantificare il danno. «Parallelamente, si sta creando un mercato di titoli collegati alla biodiversità e agli habitat naturali da avviare alla compravendita, come per qualsiasi altro titolo di investimento altamente speculativo», spiega Rebecca Rovoletto su “Democrazia Km Zero”.Una pratica simile a quella dei famigerati “crediti di carbonio”, che permette alle aziende responsabili del danno di dichiararsi “investitori nella protezione dell’ambiente”, con conseguente ritorno d’immagine e “greenwashing” dei loro prodotti e servizi. Così, la protezione dell’ambiente si trasforma in un sottoprodotto commerciale. «Il paradosso è che le più grandi aberrazioni in tema di ambiente vengono concepite proprio in occasione dei grandi vertici internazionali, spacciati per momenti di bilancio e autocritica, per ricercare soluzioni alle drammatiche emergenze dell’umanità e del pianeta». Già il Protocollo di Kyoto aveva sostenuto la logica dei “permessi di inquinamento” per il carbonio, ma il peggio è avvenuto nel giugno 2012 al vertice di Rio +20: la “Dichiarazione sul Capitale Naturale e sui Servizi resi da un ecosistema”, elaborata dalla grande finanza, sdogana ufficialmente il “mercato delle indulgenze ambientali”.Cibo, fibre, acqua, aria, salute, energia, sicurezza climatica: i beni e i servizi degli ecosistemi del “capitale naturale” ogni anno ammontano a trilioni di dollari. Sono fondamentali per la nostra sopravvivenza, anche se il loro immenso beneficio non è “registrato all’interno dei nostri sistemi economici”. Grosso problema, per chi non conosce altra misura che il denaro. Che il vero benessere non influisca sul Pil, ai “padroni dell’universo” non sta bene: non è “sostenibile”, letteralmente, il mancato conteggio – in soldoni – di tutto quanto ci è davvero indispensabile per vivere. «Non esiterei a paragonarla a una dichiarazione di guerra al pianeta e ai suoi abitanti», protesta Rebecca Rovoletto: la pretesa mercificazione finale dell’habitat «impone una sofisticata e sordida “anschluss” semantica», dove anche la natura viene assorbita dal mondo del mercato. «E questo sta avvenendo mentre ovunque nel mondo ci si batte per la difesa dei territori, per la sovranità alimentare e l’accesso alla terra, per il diritto alla gestione e tutela dei beni comuni naturali da parte delle comunità».Mentre sale la protesta dei movimenti sovranisti organizzati, coi contro-vertici di Bruxelles e Edimburgo, nel sistema globalizzato non c’è istituzione che non sostenga questa nuova, perversa visione: si va dall’Unesco al Wwf, che ha sottoscritto la Dichiarazione di Rio e «sposato questa falsa soluzione in un’ottica di investimento di capitali finanziari in alcune riserve protette, a discapito però di tutte le altre aree aggredite». Per Rovoletto, si aprono scenari inimmaginabili: «La natura è unica e complessa, è impossibile misurarne la biodiversità: allora chi e come stabilisce il valore di un ecosistema?». Alcuni ecosistemi hanno impiegato migliaia di anni per raggiungere il loro stato attuale: «Possono essere riproducibili? E che valore hanno i loro abitanti, umani e non umani? Che fine faranno la sussistenza, le economie, la cultura?». Attenzione: «La natura ha un ruolo sociale, spirituale e di sostegno per le comunità, che definiscono il proprio territorio sulla base di interrelazioni tradizionali con la terra: come si può pensare di sfollare intere comunità?».Per il mercato, tutto questo si traduce in un prezzo, «calcolato da discutibili software», con simulatori che conteggiano, al volo, i “crediti di natura”. Il “pallottoliere digitale” è destinato ai proprietari di terreni e foreste intenzionati a mettere all’asta, come “offset”, i loro tesori naturali: «Nasceranno istituti per certificare i valori degli habitat, società di rating per stabilire le classifiche degli investimenti più redditizi, broker e intermediari per un mercato dalle infinite e infernali potenzialità». I casi studiati, aggiunge “Democrazia Km Zero”, dimostrano come questa pratica incentivi lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, minando ogni tipo di pianificazione “verde”: «La logica dell’offsetting della biodiversità separa le persone dall’ambiente e dai territori in cui vivono, marginalizzandole fino a minacciare lo stesso diritto alla vita».In Brasile, per esempio, il nuovo codice forestale permette ai proprietari di terre di distruggere i boschi contro l’acquisto di “certificati di riserve ambientali” emessi dallo Stato e commercializzati alla Borsa Verde di Rio, cioè, il “mercato di titoli verdi” creato di recente dal governo brasiliano. Si sta muovendo il super-potere mondiale, regista della disastrosa globalizzazione del pianeta: la Banca Mondiale e la Bei, Banca Europea per gli Investimenti, puntano a includere l’offsetting della biodiversità nei propri standard, «come strumento per “compensare” il danno permanente causato dalle grandi infrastrutture che queste stesse istituzioni finanziano». E mentre Londra sta cercando di introdurre l’offsetting nel proprio quadro normativo, «compromettendo l’iter decisionale democratico e indebolendo le voci delle comunità», in Francia fa scandalo il progetto aeroportuale di Notre Dame des Landes: l’agenzia Biotope ha ricalcolato il “valore” dell’ecosistema considerando le sue “funzioni” e non la sua estensione, così il maxi-costruttore Vinci dovrà provvedere all’offsetting di appena 600 ettari di zona umida, anziché 1.000.«Da 40 anni l’opposizione degli abitanti ha permesso di bloccare il progetto e ha messo in discussione lo schema di offsetting», ma ora la Commissione Europea sta intervenendo anche sul caso francese: attraverso la “strategia europea 2020 sulla biodiversità”, Bruxelles vuole dotarsi di una legislazione sull’offsetting che includa la creazione di una “banca degli habitat” per consentire l’offsetting di specie e habitat naturali all’interno dei confini europei. «Lo scopo è quello di annullare la “perdita netta” (no net loss) della biodiversità, obiettivo assolutamente diverso da quello precedentemente perseguito di garantire “nessuna perdita” (no loss)». E’ la stessa filosofia iper-liberista della Banca Mondiale, che ha finanziato il mega-progetto di estrazione mineraria di nichel e cobalto Weda Bay in Indonesia.L’azienda mineraria francese Eramet dichiara di coniugare “business e biodiversità”, dal nome dell’ambiguo progetto europeo che punta a raccogliere fondi anche dalla Banca Asiatica di Sviluppo, dalla Banca Giapponese per la Cooperazione Internazionale (Jpic) e dalle francesi Coface e Agenzia di sviluppo (Afd). L’impatto sulle persone e sul territorio? Enorme: infatti, «il progetto è contestato dalle comunità indonesiane e da organizzazioni della società civile internazionale». Per Rebecca Rovoletto, «è chiaro che ci troviamo di fronte a un giro di boa fondamentale nella folle corsa che sta sistematizzando il paradigma della finanziarizzazione globale della natura, all’interno del noto orizzonte sviluppista-speculativo e della retorica mistificante che si appella alla sostenibilità e alla salvaguardia, alla partecipazione e all’equità. Un paradigma dalle profonde implicazioni, queste sì, davvero eversive dell’ordine naturale del creato».Al confronto, la privatizzazione dell’acqua fa ridere. Lo chiamano “biodiversity offsetting” o “ecosystem offsetting”: è il nuovo trucco della finanza globale per mettere definitivamente le mani sugli ecosistemi. Tutto deve avere un prezzo, l’ambiente va comprato e venduto, trasformato in business. Finanziarizzazione della natura, istruzioni per l’uso. Energia, miniere, trasporti: le grandi opere devastano un’intera area? Niente paura, basta “quotare” il danno e trasferire il risarcimento altrove. Europa, istituzioni finanziarie e governi (Regno Unito in testa) premono per introdurre il concetto della “compensazione traslata” del danno ambientale, in particolare di habitat protetti e biodiversità. Se la “valutazione di impatto ambientale” punta a causare il minor danno possibile, il nuovo meccanismo non si cura più di salvare il territorio minacciato ma si limita a quantificare il danno. «Parallelamente, si sta creando un mercato di titoli collegati alla biodiversità e agli habitat naturali da avviare alla compravendita, come per qualsiasi altro titolo di investimento altamente speculativo», spiega Rebecca Rovoletto su “Democrazia Km Zero”.
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Liberarsi dall’euro, non-moneta fraudolenta e totalitaria
La nostra maledizione? Si chiama euro. «Più che una moneta, è un metodo di governo occulto, elitario, illegittimo, autoritario e antidemocratico». Una minaccia «che divide, anziché unire i popoli europei, col terrorismo della miseria (fuori dall’euro) e la promessa della prosperità (dentro l’euro)». Un mito, «falsificato in diverse varianti, a seconda della realtà socio-economica interna di ciascun paese». L’inizio della fine? Lo storico divorzio tra governi e banche centrali, dove queste ultime hanno cessato di fungere da “bancomat” degli Stati per sostenere la spesa pubblica. Di qui le “riforme strutturali” che prevedono stangate fiscali e misure recessive, privatizzazioni dei servizi, devastazione del lavoro con flessibilità, precarizzazione e licenziamenti facili. Era un piano preciso: togliere ossigeno agli Stati, azzoppando le economie democratiche a vantaggio delle élite. Lo spread? «Chiaramente pilotato dalla Bce, come “clava di ultima istanza” per costringere i governi periferici a imporre l’amara medicina».Obiettivo: smantellare lo Stato democratico – garante dei cittadini – per privatizzare tutto, a beneficio di pochi ricchissimi. E tutto questo, osserva Alberto Conti su “Megachip”, grazie a un alibi come il «falso dogma dell’indipendenza della politica monetaria ai fini della stabilità». Così, si è formata l’euro-burocrazia al servizio delle lobby economico-finanziarie, che di fatto si arrogano il diritto d’interpretare il processo di unificazione europea, «falsamente presentato con la persuasiva immagine progressista dei padri fondatori di un sogno, che in realtà si è trasformato in un incubo», soprattutto per paesi come l’Italia. Col maturare della crisi, «l’euro mostra sempre più la sua vera natura di moneta fraudolenta, con la funzione di idrovora della ricchezza pompata dal basso verso l’alto». Ma la cosa peggiore è che questi falsi ideologici «alimentano odio e false contrapposizioni d’interesse tra i popoli, in nome della “competitività nei liberi mercati”, senza mai specificare se fisici o finanziari, in una logica di commistione diabolica dove per salvare gli uni occorre distruggere gli altri».Che l’euro sia una non-moneta, continua Conti, lo testimonia il suo disegno strutturale fin dalla nascita (Maastricht, Bundesbank, Deutsche Bank), i cui esiti nefasti si stanno manifestando dopo poco più di un decennio dalla sua entrata in vigore, precipitati e aggravati dalla crisi finanziaria globale che ha il suo epicentro a Wall Street. Basta un raffronto dell’euro col dollaro – i debiti sovrani europei e quello federale Usa – per capire le analogie e le differenze della “nostra” (si fa per dire) moneta con quella di riferimento globale, cioè il dollaro di Bretton Woods, dal 1971 divenuto «la principale arma di contrapposizione ostile e violenta dell’impero col resto del mondo». Quanto all’euro, «da promessa di simbolo e motore economico dell’Unione Europea», si è presto rivelato essere il suo esatto opposto, cioè «strumento di prevaricazione di pochi sempre più ricchi sulle masse impoverite». Una vera «forza disgregatrice dell’Unione Europea, dopo i primi illusori anni». La catastrofe della periferia, però, è di tali proporzioni da travolgere di seguito anche il centro, che però un risultato lo ha comunque ottenuto: consolidare l’economia della Germania riunificata, “stabilizzando” un alleato strategico degli Usa.«Si pronuncia euro, copyright della Bce, ma si legge “potere della finanza globale neoliberista”», realizzato «attraverso la longa manus di un sistema bancario privatizzato e asservito agli interessi dell’élite, come già le corporation che monopolizzano i mercati fisici e il sistema mediatico che disinforma e addormenta le masse». Dunque, che fare? Abbattere questo “mostro” o riformarlo, mettendolo al servizio dei popoli? Per Conti, «la natura non riformabile di questa sovrastruttura tecno-politica può pur sempre trasfigurare in positivo semplicemente abrogandone la sua caratteristica principale, il totalitarismo progressivamente istituzionalizzato, cioè il fatto di essere una “moneta unica” non nel senso che è comune (10 paesi dell’Ue non l’hanno mai adottata), ma nel senso che non ammette altre valute là dove invece è stata introdotta nel 2000». Tecnicamente basterebbe aggiungere in ogni paese dell’Eurozona una nuova moneta nazionale (Euro-lira, Euro-marco, Euro-pesetas), inizialmente nel rapporto 1:1 con l’euro; la nuova moneta sostituirebbe quella della Bce per la fiscalità e i pagamenti interni al paese, lasciando all’euro la funzione di pagamento nelle transazioni tra paesi diversi. Decisivo il rapporto dei cambi: andrebbe aggiornato periodicamente «sotto il controllo di un nuovo Parlamento Europeo, finalmente dotato della dignità di un vero governo di competenza strettamente confederale, che governa la Bce collegialmente».Questa misura, per avere il successo sperato e traghettare l’Europa fuori dalla crisi, dovrebbe essere accompagnata da un decalogo di cambiamento radicale. Mai più cessioni improprie di sovranità nazionale, a cominciare da quella monetaria interna. Mai più obbedienza cieca, sotto ricatto, ai diktat del circo della finanza globalizzata. Mai più salvataggi pubblici dei crack degli speculatori privati, grandi o piccoli. Mai più la primazia del profitto privato sulla difesa del lavoro. Mai più il contrasto alla recessione con misure recessive. E mai più libera circolazione di merci e capitali contro gli equilibri e gli interessi leciti dell’economia locale. Inoltre, aggiunge Conti, bisognerebbe bloccare gli attacchi speculativi eterodiretti alla valuta nazionale, impedire che i “debiti sovrani” finiscano fuori controllo. Mai più interferenze delle lobby, le grandi mafie che oggi dettano ai governi le misure da infliggere ai cittadini. Obiettivo possibile, a patto che risorga lo Stato democratico come “attore dell’economia”, con «funzioni di stimolo e di controllo sistemico». Dalla dignità dello Stato dipende quella dei cittadini, quindi la democrazia: serve «una forte volontà politica» per globalizzare i diritti, verso un futuro di pace che ci liberi dall’incubo.La nostra maledizione? Si chiama euro. «Più che una moneta, è un metodo di governo occulto, elitario, illegittimo, autoritario e antidemocratico». Una minaccia «che divide, anziché unire i popoli europei, col terrorismo della miseria (fuori dall’euro) e la promessa della prosperità (dentro l’euro)». Un mito, «falsificato in diverse varianti, a seconda della realtà socio-economica interna di ciascun paese». L’inizio della fine? Lo storico divorzio tra governi e banche centrali, dove queste ultime hanno cessato di fungere da “bancomat” degli Stati per sostenere la spesa pubblica. Di qui le “riforme strutturali” che prevedono stangate fiscali e misure recessive, privatizzazioni dei servizi, devastazione del lavoro con flessibilità, precarizzazione e licenziamenti facili. Era un piano preciso: togliere ossigeno agli Stati, azzoppando le economie democratiche a vantaggio delle élite. Lo spread? «Chiaramente pilotato dalla Bce, come “clava di ultima istanza” per costringere i governi periferici a imporre l’amara medicina».
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Potere massonico: Silvio e Giorgio, affinità e fratellanza?
«Berlusconi ha avuto molto, in passato, in termini di supporto e relazioni significative, dall’ambiente libero-muratorio. Per converso, sono stati proprio alcuni circuiti massonici sovranazionali a pretendere e a determinare la caduta politica del “fratello Silvio” nell’autunno del 2011, imponendo il collocamento del “fratello” Mario Monti a Palazzo Chigi». Un’affermazione forte, che il leader del “Grande Oriente Democratico” Gioele Magaldi ha rilasciato in un’intervista a Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara, autori del saggio “I panni sporchi della sinistra” (Chiarelettere). Ma l’obiettivo dei due autori non è tanto il Cavaliere, la cui militanza massonica è arcinota, quanto l’uomo del Colle: «Il complesso rapporto creatosi nel corso degli anni tra Berlusconi e Napolitano – scrivono – suggerisce sintonie che spesso vanno oltre la simpatia personale e il reciproco rispetto che può esistere tra figure che dovrebbero essere radicalmente lontane, sia per storia intellettuale e professionale sia per schieramento politico».Se di Berlusconi si ricorda l’iscrizione alla Loggia P2 di Licio Gelli nel 1978, da cui poi proseguì «il suo percorso massonico alla corte del Gran maestro Armando Corona dal 1982 al 1990», con accanto Marcello Dell’Utri – sempre secondo Magaldi – per tessere la rete di relazioni alla base di Forza Italia, per Pinotti e Santachiara è «molto più complesso il discorso che riguarda Napolitano», come affermano nel loro libro, di cui “Affari Italiani” pubblica un’anticipazione. «È possibile che le sintonie con Berlusconi siano state facilitate da comuni vicinanze su questo terreno? Secondo Magaldi – che lo ha affermato in numerose interviste – non vi sono dubbi sul fatto che il presidente della Repubblica sia un “fratello”». Dichiarazioni certamente insufficienti, ammettono i due giornalisti, intenzionati ad “approfondire” il tema con «un’autorevole fonte», che però «ha chiesto di rimanere anonima». Si tratta di «un avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti». L’avvocato sarebbe «figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Secondo il legale, già il padre di Napolitano è stato «una delle figure più in vista della massoneria partenopea».Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (notoriamente legatissimo al padre, che ammirava profondamente) non solo l’amore per i codici ma anche quello per la “fratellanza”? «A rafforzare la connotazione “muratoria” dell’ambiente in cui è nato Giorgio Napoletano c’è un altro massone, amico fraterno del padre: Giovanni Amendola, padre di Giorgio, storico dirigente del Pci e figura fondamentale per la crescita intellettuale e politica dell’attuale presidente della Repubblica», scrivono Pinotti e Santachiara. «Va detto che l’appartenenza alla massoneria non è un reato, anzi, molto spesso figure a essa legate sono diventate protagoniste di rivoluzioni innovatrici e progressiste». Certo, il legame massonico «rappresenta una modalità di gestione del potere di cui poco si conosce». Modalità che «è spesso determinante per capire i fatti più recenti della politica italiana e internazionale». Per molti aspetti, sostiene la “fonte” dei due reporter, «Napolitano è assimilabile a Mitterrand, che era anche lui massone», ed è stato il politico più decisivo nell’imporre in Europa sia il regime dell’euro che l’asfissia del rigore come “virtù” neoliberista, oggi simboleggiata dal tetto del 3% deficit-Pil per la spesa pubblica. Un vincolo fatale, che sta mettendo in croce le democrazie europee e demolendo il nostro tessuto socio-economico.Sempre secondo l’anonimo avvocato napoletano citato da Pinotti e Santachiara, la visione di Napolitano è identica a quella della “république” incarnata da Mitterrand, «un monarchico travestito da socialista» secondo un ex consulente dell’Eliseo come l’economista Alain Parguez, nemico giurato dell’euro-regime di Bruxelles. «L’appartenenza massonica di Napolitano è molto diversa da quella di Ciampi, fa riferimento a mondi molto più ampi», continua “l’avvocato”. «Ciampi inoltre è un cattolico. Napolitano si muove in un contesto più vasto». La massoneria italiana, dal canto suo, ha sempre espresso grande simpatia verso l’attuale presidente della Repubblica, sostengono i due autori del libro. «Il Gran maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi), avvocato Gustavo Raffi, si è rivolto più volte pubblicamente a Napolitano, esprimendo simpatia e deferenza». Il 10 maggio 2006, dopo la prima elezione alla presidenza della Repubblica, Raffi esultava indicando la scelta di Napolitano come «uno dei momenti più alti nella vita democratica del paese», ed esprimeva felicitazioni «a nome dei liberi muratori del Grande Oriente d’Italia».Stesso entusiasmo nel marzo del 2010, per la rielezione di Napolitano al Quirinale, di fronte all’agonia del Parlamento tramortito dall’exploit di Grillo dopo la micidiale “cura dimagrante” affidata a Monti e Fornero. E il 13 giugno 2010, lo stesso Raffi si è spinto «sino alla soglia di pesanti rivelazioni, rispondendo a una domanda non casuale di Lucia Annunziata», nella trasmissione Rai “In mezz’ora”. Domanda: «Napolitano potrebbe essere un massone sotto il profilo dei valori?». Netta la risposta di Raffi: «A mio avviso sì, per umanità, distacco, intelligenza, per avere levigato la pietra, per averla sgrezzata, lo dico in linguaggio muratorio, in questo senso sì». Anche nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia, aggiungono Pinotti e Santachiara, si registrano convergenze tra la spinta celebrativa del Colle e i momenti pubblici organizzati dalla massoneria italiana, artefice forte del Risorgimento. Il 7 gennaio 2011 Raffi apre le danze dichiarando: «Come ci ricorda con il suo esempio altissimo il capo dello Stato Giorgio Napolitano, abbiamo il compito di ritrovare fiducia, unità e coesione nazionale, capacità di risolvere i problemi, insieme a progetti che indichino la strada al di là di ogni polemica di parte e del cortile degli interessi».«Berlusconi ha avuto molto, in passato, in termini di supporto e relazioni significative, dall’ambiente libero-muratorio. Per converso, sono stati proprio alcuni circuiti massonici sovranazionali a pretendere e a determinare la caduta politica del “fratello Silvio” nell’autunno del 2011, imponendo il collocamento del “fratello” Mario Monti a Palazzo Chigi». Un’affermazione forte, che il leader del “Grande Oriente Democratico” Gioele Magaldi ha rilasciato in un’intervista a Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara, autori del saggio “I panni sporchi della sinistra” (Chiarelettere). Ma l’obiettivo dei due autori non è tanto il Cavaliere, la cui militanza massonica è arcinota, quanto l’uomo del Colle: «Il complesso rapporto creatosi nel corso degli anni tra Berlusconi e Napolitano – scrivono – suggerisce sintonie che spesso vanno oltre la simpatia personale e il reciproco rispetto che può esistere tra figure che dovrebbero essere radicalmente lontane, sia per storia intellettuale e professionale sia per schieramento politico».
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Pil e cemento: i veri assassini della Sardegna alluvionata
Gli hanno dato molti nomi: ciclone, Cleopatra, uragano, bomba d’acqua. La mia terra gli ha dato un tributo di vite umane. Il presidente della regione Ugo Cappellacci, pronto ad aggiornare l’elenco di piaghe descritte nel Libro dell’Esodo, gli ha dato la definizione di “piena millenaria”. La tempesta che ha rovesciato sui suoli sardi sei mesi d’acqua in appena mezza giornata ha saputo guadagnarsi così il primo posto nella borsa mediatica delle catastrofi, in Italia e nel mondo, prima di essere inevitabilmente sostituita da altre notizie.I lutti e i danni, tuttavia, non sono tutti dovuti al meteo cinico e baro. Questa devastazione deriva da un equivoco di fondo che la Sardegna di oggi e l’Italia sin dai tempi del Vajont si portano dietro: avere un suolo prevalentemente montagnoso e collinare, ma percepirsi come un paese di pianura, dove la pianura ha dimenticato per sempre tutta quella inutile materia fangosa e “prevalente” che sta a monte.È uno spazio addomesticato, quella pianura ideale, segnato da linee d’asfalto, case, scantinati, capannoni, e mille altri segni di “sviluppo” che la separano dal passato rurale e la proiettano in un mondo magico e progressivo che fa a meno della geologia. Olbia alla fine della seconda guerra mondiale era un borgo di diecimila abitanti, oggi ne ha sei volte di più. E dove ha fatto il nido tutta questa gente nuova? Lo ha fatto là dove volevano gli speculatori e dove la portava la corrente dell’abusivismo: dove un tempo c’erano stagni e dove scorrevano magri torrenti. Le “piene millenarie”, proprio perché hanno memorie lunghissime, ricordano ogni tanto che dove il fiume è già passato tanti anni fa, prima o poi ci ripassa ancora. In autunno in Sardegna e in altre regioni non sono infrequenti i flash flood. Non possono essere considerati eventi sorprendenti. Solo che un tempo il torrente gonfiato dalle tempeste autunnali aveva modo di diluirsi in un suolo intatto, o di sfogarsi in canali costruiti a regola d’arte, senza alvei intombinati che lo accelerassero, né ponti che diventassero dighe prima di cedergli il passo.Olbia è crescuta in fretta, è un piccolo emblema dell’ideologia della crescita libera che ripudia qualsiasi pianificazione. Il Pil veniva prima di tutto, e perciò si doveva dimenticare che una vera città, prima di tante altre cose, è un sistema idraulico artificiale che si sovrappone a un sistema idraulico naturale. Olbia però andava oltre. Non si sovrapponeva alla natura, la sostituiva senza criterio. L’onda del Pil era un flutto di cemento che impermealizzava ettari ed ettari, al galoppo. Poi, ieri, fine corsa. All’acqua della città, incanalata senza regola e non più assorbita, si è aggiunta l’acqua della montagna, e tutto è stato devastato. Ora la cronaca ha il suo momento di frastuono, di pianti, di governanti che snocciolano compunti i milioni stanziati per l’emergenza: Enrico Letta 20 milioni, Ugo Cappellacci 5 milioni. Dev’essere lo stesso Cappellacci che ha guidato un’amministrazione che ha revocato 1,5 milioni di euro destinati alla difesa del suolo e contro il dissesto idrogeologico.Certo, quei milioni non sarebbero bastati, nemmeno a Olbia, interessata negli ultimi decenni anni da 17 (diciassette) “piani di risanamento”. Cioè: prima si lasciava fare, senza permessi, poi si condonava, si “risanava”, senza nemmeno completare fogne, argini. Niente di niente. Erano bolli e timbri aggiunti ai fatti compiuti: fatti irrimediabili, ferite non sanabili se non abbattendo tutto. Ma come fai ad abbattere interi quartieri? Risanare, ma per davvero, costa molte volte di più del gesto iniziale, mai fermato, che cambiava natura a quel pezzo di territorio. Facile strapparsi i capelli adesso. I nomi dei quartieri olbiesi sommersi di oggi c’erano già tutti in un articolo del 2010. Era un trafiletto di cronaca locale sul “rischio alluvione”. La prevenzione non fa notizia, non porta voti, non mobilita risorse, non diventa la pagina d’apertura di “Repubblica”. È solo un misero fondino di un giornale locale che non rompe il silenzio. La gente non sa, e crede perciò di stare nel suo Belpaese di pianura, senza pericoli, senza colline, e senza verità sul clima.Negli anni in cui la Regione Sardegna fu guidata da Soru (2004-2009) venne approvato un piano paesaggistico fra i più avanzati al mondo, molto chiaro nel considerare il paesaggio un bene pubblico non negoziabile. Dopo, a livello nazionale e regionale, vi è stata una pressione costante per una nuova liberalizzazione edilizia e per abrogare le regole restrittive, in nome dello sviluppo e della crescita, e al diavolo i geologi. Proprio un geologo, Fausto Pani, sul sito “sardiniapost.it”, in veste di autore del Pai (Piano stralcio per l’assetto idrogeologico) e del Piano delle fasce fluviali, si toglie oggi qualche detrito dalla scarpa: «Solo pochi giorni fa i sindaci interpellati dicevano che nei loro paesi non pioveva così tanto, che il Piano stralcio delle fasce fluviali era tutto sbagliato e bloccava lo sviluppo dei Comuni. Oggi chiederei a quegli stessi amministratori locali se la pensano ancora allo stesso modo».Infatti il problema non è solo Olbia. Uno dei comuni più colpiti dall’alluvione è Terralba, nell’oristanese. Ho visto in Tv il sindaco di centrosinistra Pietro Paolo Piras con la faccia tesa del tipico sindaco in lotta sincera con il disastro, circondato da uomini della protezione civile. Poche settimane fa proprio Piras partecipava a una manifestazione a Cagliari contro il Piano per le fasce fluviali. Lo considerava troppo rigido. Persino le norme di una giunta post-Soru, teoricamente più morbida con chi vuole sviluppo edilizio, non andavano bene a una parte della gente di Terralba. Lo scorso 15 giugno un comitato locale aveva impiccato decine di fantocci per opporsi «con fermezza al piano delle fasce fluviali previsto dalla Regione e ai vincoli idrogeologici che limitano lo sviluppo del territorio». Uno dei promotori spiegava: «Devono fare una scelta politica, con questi vincoli ci stanno condannando a morte. Tutte le attività rischiano di scomparire e non ci sarà uno sviluppo futuro per il nostro paese».Alle magnifiche sorti e progressive di Terralba ha però bussato il Rio Mogoro, un torrentello spesso asciutto che per un giorno è diventato l’Orinoco. Gli impiccatori di fantocci hanno maneggiato in modo molto imprudente i simboli. Parafrasando una vecchia storia, l’ultimo sviluppista è disposto a vendere la corda con la quale verrà impiccato. Adesso la ricostruzione, nel far girare denaro, farà bene al Pil. È forse cinico dirlo, ma dopo le catastrofi naturali, questo succede in molti casi. E, nel crescere, il Pil dimostrerà ancora una volta di non essere la misura corretta del vero benessere. Quel pezzo di società civile che rimuove in modo dissennato e cocciuto la vera natura del nostro suolo, quelle classi dirigenti la cui mentalità è intimamente modellata dalla stessa concezione del territorio, si trovano davanti a una scelta. La scelta non è “costruire oppure no”: è semmai cosa costruire senza consumare ancora di più il suolo, cosa costruire per salvaguardarlo nella sua integrità, fare manutenzione costante e piccoli interventi sulle infrastrutture che già ci sono, e finirla con le grandi opere e le eterne emergenze. Finirla con il fantoccio della crescita infinita. Magari così ci sarà più lavoro, e meno senno del poi.Gli hanno dato molti nomi: ciclone, Cleopatra, uragano, bomba d’acqua. La mia terra gli ha dato un tributo di vite umane. Il presidente della regione Ugo Cappellacci, pronto ad aggiornare l’elenco di piaghe descritte nel Libro dell’Esodo, gli ha dato la definizione di “piena millenaria”. La tempesta che ha rovesciato sui suoli sardi sei mesi d’acqua in appena mezza giornata ha saputo guadagnarsi così il primo posto nella borsa mediatica delle catastrofi, in Italia e nel mondo, prima di essere inevitabilmente sostituita da altre notizie. I lutti e i danni, tuttavia, non sono tutti dovuti al meteo cinico e baro. Questa devastazione deriva da un equivoco di fondo che la Sardegna di oggi e l’Italia sin dai tempi del Vajont si portano dietro: avere un suolo prevalentemente montagnoso e collinare, ma percepirsi come un paese di pianura, dove la pianura ha dimenticato per sempre tutta quella inutile materia fangosa e “prevalente” che sta a monte.
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Expo-guerra, il bazar galleggiante dell’Italia che affonda
Il nemico complotta contro l’Italia fino a farla crollare, ma la portaerei Cavour – ammiraglia della marina militare, costata 3,5 miliardi – non si dirige contro chi attenta alla vita e al futuro degli italiani, tramando per devastare l’economia, impoverire il paese e trascinarlo nella catastrofe sociale pianificata tra Bruxelles e Berlino, Wall Street e Francoforte. Al contrario, la grande nave trasformata in expò galleggiante del made in Italy bellico preferisce incrociare in acque lontane: «Si vanno a vendere altre armi ai paesi mediorientali e africani, dominati da oligarchie e caste militari, provocando un ulteriore aumento delle loro spese militari che comporterà un ulteriore aumento della povertà soprattutto in Africa», scrive il “Manifesto”. Scopo ufficiale della “campagna navale” organizzata dal governo Letta, è presentare il “sistema paese” in movimento e «rafforzare la presenza dell’Italia nelle aree geografiche considerate strategiche per gli interessi nazionali», senza trascurare la consueta ipocrisia della «assistenza umanitaria alle popolazioni bisognose».Per il ministro Mauro, il bazar navigante – ribattezzato “crociera di morte” – non andrà a vendere armi di distruzione di massa al di fuori dalle convenzioni internazionali, ma resta una «missione di promozione» che incrocerà aree dove impazzano guerre e repressioni, come ad esempio Congo, Nigeria e Kenya, o terre «dove governi potenti finanziano guerre per procura», scrivono Manlio Dinucci e Tommaso Di Francesco, indicando paesi come l’Arabia Saudita impegnata in Siria, o il Barhein con la sua “primavera” cancellata dai militari. Regioni del mondo «dove le spese sociali vengono ridimensionate se non cancellate per sostenere la sicurezza interna e le frontiere, come in Angola e Mozambico». Oman, Dubai, Doha, Gibuti, Madagascar, Sudafrica, Ghana, Senegal, e poi su fino a Casablanca in Marocco, e poi Algeri. In navigazione fino al 7 aprile 2014. Costo: 20 milioni di euro, di cui 7 a carico dello Stato e 13 dei “partner dell’industria privata”. «Soldi ben spesi: potranno usare la portaerei, lunga 244 metri e larga 39, come una grande fiera espositiva itinerante», con stand per accogliere i clienti. Prezzo amico: 200.000 euro per ogni giorno di navigazione.La portaerei non venderà certo l’immagine turistica dell’Italia: gli “ambasciatori” del paese sono le industrie di Finmeccanica come Agusta-Westland (elicotteri da guerra), Oto Melara (cannoni), Selex Es (sistemi radar e di combattimento), Wass (siluri), Telespazio (satelliti), e poi Mbda, coi suoi missili Aspide, Aster, Teseo. Poi ci sono la Intermarine (vascelli militari) e Elt, che offre apparecchiature elettroniche per la guerra aerea, terrestre e navale, mentre Beretta mette in mostra le sue pistole, accanto agli stand di lusso che presentano gli aerei executive della Piaggio e della Blackshape. «Ogni cannone, ogni missile, ogni mitraglia venduta dai commessi viaggiatori della Cavour ai governi clienti – scrivono i giornalisti del “Manifesto” – significherà meno investimenti locali nel sociale e quindi altre migliaia di bisognosi, affamati e morti, soprattutto tra i bambini, per sottoalimentazione cronica e malattie che potrebbero essere curate». Ma niente paura, sulla nave «ci sono anche gli “operatori umanitari” pronti a soccorrere i disperati che abbiamo contribuito a creare con il traffico di armi, per dimostrare quanto l’Italia sia sensibile e pronta ad aiutare “le popolazioni bisognose”».Il nemico complotta contro l’Italia fino a farla crollare, ma la portaerei Cavour – ammiraglia della marina militare, costata 3,5 miliardi – non si dirige contro chi attenta alla vita e al futuro degli italiani, tramando per devastare l’economia, impoverire il paese e trascinarlo nella catastrofe sociale pianificata tra Bruxelles e Berlino, Wall Street e Francoforte. Al contrario, la grande nave trasformata in expò galleggiante del made in Italy bellico preferisce incrociare in acque lontane: «Si vanno a vendere altre armi ai paesi mediorientali e africani, dominati da oligarchie e caste militari, provocando un ulteriore aumento delle loro spese militari che comporterà un ulteriore aumento della povertà soprattutto in Africa», scrive il “Manifesto”. Scopo ufficiale della “campagna navale” organizzata dal governo Letta, è presentare il “sistema paese” in movimento e «rafforzare la presenza dell’Italia nelle aree geografiche considerate strategiche per gli interessi nazionali», senza trascurare la consueta ipocrisia della «assistenza umanitaria alle popolazioni bisognose».
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Barnard a Grillo: non sei all’altezza dei tuoi parlamentari
Ieri io e Warren Mosler, il capo economista della ME-MMT, cioè l’economia salva vite e salva nazione di cui l’Italia ha disperato bisogno per non schiantarsi definitivamente, per non condannare i nostri giovani a 60 anni di nuova povertà, siamo stati ascoltati dalla Commissione Finanze della Camera a Roma. L’incontro è stato positivo anche se fortemente penalizzato dalle difficoltà di traduzione che hanno in qualche modo stemperato i contenuti dirompenti della ME-MMT che Warren portava in aula. Inaspettato l’interesse del Pd… il cui maggior rappresentante in Commissione ha voluto contatti stretti con Mosler per capire meglio. Il Pd! E’ proprio vero che esistono fenomeni che la scienza non saprà mai spiegare. Ma ok. A margine del suddetto evento, io e Warren Mosler siamo incappati in un gruppo di deputati del M5S, i quali hanno improvvisato una sorta di happening con noi al termine dei lavori parlamentari di quel giorno.Una quindicina di legislatori, giovani, in parte esperti di bilancio e finanza, si sono intrattenuti con i cervelli incollati a Mosler e a me fino alle nove di sera e oltre. Tralascio i contenuti tecnici della discussione perché non sono, qui, il punto. Io li ho guardati, ne ho fatto le risonanze magnetiche, quindi ben più che radiografati, e poi ho ripassato il tutto dal mio filtro di inflessibile cinismo e realismo. Parliamo, dopotutto, dei figli di Casaleggio e di Beppe Grillo, cioè di deputati di un partito azienda zeppo di seguaci acritici fino al fanatismo e che perde pezzi da tutte le parti, a tratti persino grottesco. Ma questi uomini di ieri erano un’altra cosa. Erano competenti, agguerriti, e vorrei, Dio mi sia testimone di quanto lo vorrei, dire che erano e sono una speranza per il Paese. Tutti gli assembramenti umani sono fatti di percentuali più o meno valide, questo è normale, ma se il M5S fosse fatto anche solo al 40% da legislatori come quelli che ho conosciuto ieri, avremmo un partito capace di cambiare la storia dell’Italia e dell’Europa. E qui parlo a te, Beppe Grillo.Non so quanti tuoi figli politici siano al livello di quelli con cui ho dialogato poco fa. Non lo sai neppure tu. Ma essi sono il tuo capitale. Gli altri sono numeri, che per carità servono, perché la manovalanza serve sempre in tutto, non potremmo fare senza, non costruiremmo neppure una casa senza la manovalanza, ma alla fine la Storia ci insegna che è sempre un gruppo ristretto che la cambia. E tu l’hai. Bene. Ma loro non hanno te. Beppe, tu non sei all’altezza dei tuoi deputati che io e Warren Mosler abbiamo incontrato ieri. Io ti ricordo da molti anni addietro, quando ci incrociavamo da Milena Gabanelli, o con Vermigli e Gherardo Colombo. Allora tu eri come i tuoi migliori di cui sopra. Poi cosa ti è successo? Il tuo è stato un declino impressionante, e tutto d’un colpo. Cosa sia passato fra te e Gian Roberto Casaleggio è un mistero, che forse sarà conosciuto un giorno, ma qui non importa. Di fatto Casaleggio ti ha rimpicciolito, scoordinato, deprezzato, e proprio sequestrato. Tu oggi non ci sei più, e i tuoi migliori in Parlamento sono soli.Io, la Me-Mmt, Warren e altri ci offriamo di aiutarli, se lo meritano, si meritano, questi tuoi migliori, di ergersi a Roma con l’autorevolezza di chi ha gli strumenti per cambiare l’Italia per la prima volta dopo la sua morte civica di quasi 40 anni fa. Ma tu non ci sei, non hai idee alla loro altezza, e anzi, ora tu e Casaleggio gli state mettendo imbarazzanti sciocchezze politiche e deliranti progetti internettiani fra le gambe, fra le ruote. Ma che fai, Grillo? Ma dove sei con la testa? I tuoi migliori sono soli, mi stai ascoltando? Sono soli. E ora mi rivolgo a voi che leggete queste parole, voi lettori. Come sarebbe se fra qualche ora Grillo rispondesse a questo post sul suo blog? Se magari stanotte mentre si corica pensasse a come tornare Beppe Grillo e a come tornare a essere un pari fra i suoi migliori? A come ritornare al loro fianco con la statura politica che loro si meritano. A come congedarsi da Gian Roberto Casleggio con un “grazie per tutto, ma non credo che tu e le tue idee aziendali siate ciò che i miei ragazzi necessitano per diventare statisti.” Statisti. Perché i giovani deputati di ieri ne avrebbero la stoffa. Ma sono soli.(Paolo Barnard, “Il grande capitale abbandonato da Beppe Grillo”, dal blog di Barnard del 14 novembre 2013).Ieri io e Warren Mosler, il capo economista della Me-Mmt, cioè l’economia salva vite e salva nazione di cui l’Italia ha disperato bisogno per non schiantarsi definitivamente, per non condannare i nostri giovani a 60 anni di nuova povertà, siamo stati ascoltati dalla Commissione Finanze della Camera a Roma. L’incontro è stato positivo anche se fortemente penalizzato dalle difficoltà di traduzione che hanno in qualche modo stemperato i contenuti dirompenti della Me-Mmt che Warren portava in aula. Inaspettato l’interesse del Pd… il cui maggior rappresentante in Commissione ha voluto contatti stretti con Mosler per capire meglio. Il Pd! E’ proprio vero che esistono fenomeni che la scienza non saprà mai spiegare. Ma ok. A margine del suddetto evento, io e Warren Mosler siamo incappati in un gruppo di deputati del M5S, i quali hanno improvvisato una sorta di happening con noi al termine dei lavori parlamentari di quel giorno.
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Pritchard: se resta nell’euro, nel 2014 l’Italia collassa
Enrico Letta aspetta che sia la Merkel a salvare l’Italia? Be’, buonanotte. Secondo Ambrose Evans-Pritchard, l’Italia sta scherzando col fuoco: avanti di questo passo, sotto la sferza dell’euro-rigore, il nostro paese rischia il collasso già nel 2014. Il problema? L’euro, ovviamente. E il regime di Bruxelles, che taglia lo Stato imponendo sacrifici con un unico orizzonte: la catastrofe. «Quello che serve in Europa oggi è uno shock economico sul modello dell’Abenomics», dice il columnist economico del “Telegraph”, indicando come modello il Giappone di Shinzo Abe. Sovranità monetaria e deficit positivo, per risollevare l’economia. «Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, insieme alla Francia devono smettere di fare finta di non avere un interesse in comune da tutelare». Attenzione: «Questi paesi hanno i voti necessari per forzare un cambiamento». In Francia, sarà risolutiva Marine Le Pen: magari non conquisterà l’Eliseo, ma costringerà i grandi partiti a cambiare agenda, imponendo loro di fare finalmente i conti con Bruxelles, Berlino e la Bce.Per l’Italia, il disastro è imminente: «Senza un cambio di strategia forte», si prevede lo tsunami già nel 2014. «Il paese ha un avanzo primario del 2,5% del Pil, e ciononostante il suo debito continua ad aumentare: il dramma dell’Italia non è morale, ma dipende dalla crisi deflattiva cui è costretta per la sua partecipazione alla zona euro», dice Pritchard nell’intervista concessa ad Alessandro Bianchi e ripresa da “Come Don Chisciotte”. «La politica è fatta di scelte e di coraggio. Fino ad oggi non si è agito per impedire che si dissolvesse il consenso politico dell’euro in Germania. Ma oggi c’è una minaccia più grande. E se Berlino non dovesse accettare le nuove politiche, può anche uscire dal sistema». Fuori dall’euro, dunque. «Il ritorno di Spagna, Italia e Francia ad una valuta debole è proprio quello di cui i paesi latini hanno bisogno. Del resto, la minaccia tedesca è un bluff e i paesi dell’Europa meridionale devono smascherarlo. L’ora del confronto è arrivata». E Letta? Non pervenuto. Pritchard l’ha incontrato a Londra. «Alla mia domanda sul perché non si facesse promotore di un cartello con gli altri paesi dell’Europa in difficoltà per forzare questo cambiamento, il premier italiano mi ha risposto che secondo lui sarà Angela Merkel a mutare atteggiamento nel prossimo mandato e venire incontro alle esigenze del sud».Per l’analista inglese, «si tratta di un approccio assolutamente deludente», perché «come anche Hollande in Francia, Letta è un fervente credente del progetto di integrazione europea e non riesce ad accettare che l’attuale situazione sia un completo disastro». Chi agita la paura dell’uscita dall’euro dice che la svalutazione produrrebbe iper-inflazione, e questo metterebbe ko la nostra industria di fronte alla concorrenza della Cina. E’ vero esattamente il contrario, dice Pritchard: Pechino ha gioco facile col super-euro proprio perché mantiene lo yuan sottovalutato. La moneta europea è il nostro vero handicap: «L’euro è un’autentica maledizione per le esportazioni, che dipendono dai prezzi e dal tasso di cambio». Da quando vige la moneta della Bce, l’Europa ha perso rilevanti quote di mercato e l’export italiano è crollato. E a chi sostiene che un’uscita disordinata dall’euro produrrebbe iper-inflazione e impennate nei prezzi, Pritchard risponde che già ora i prezzi sono fuori controllo. Eppure, continuiamo a farci del male: in Italia il rapporto debito-Pil in soli due anni è schizzato dal 120 al 133%. E’ la trappola che sta portando il paese al collasso: «Il problema da combattere oggi è la deflazione, e non l’inflazione».Dalla stessa trappola, ricorda il giornalista del “Telegraph”, la Gran Bretagna uscì due volte – negli anni ’30 del Gold Standard e poi durante la crisi dello Sme nel ’91-92 – con lo stesso strumento: rafforzamento della sovranità monetaria e svalutazione per stimolare la ripresa. Il fantasma-inflazione? Smentito dai fatti: lo stimolo monetario ha prodotto nuova economia, senza alcun “impazzimento” dei prezzi. Per cui, «se dovesse lasciare l’euro, l’Italia dovrebbe optare per un grande stimolo monetario da parte della Banca d’Italia, una svalutazione ed una politica fiscale sotto controllo: questa combinazione garantirebbe al paese una transizione tranquilla e nessuna crisi fuori controllo». Ritorsioni da Berlino? «Niente di più falso», replica Pritchard: «Nel caso di un deprezzamento fuori controllo della lira, ad esempio, il più grande sconfitto sarebbe Berlino: le banche e le assicurazioni tedesche che hanno enormi investimenti in Italia sarebbero a rischio fallimento». Inoltre, «le industrie tedesche non potrebbero più competere con quelle italiane sui mercati globali». Quindi, la Bundesbank correrebbe ad acquisire sui mercati valutari internazionali le lire, i franchi, pesos o dracme per impedirne un crollo.«Si tratta di un punto molto importante da comprendere: nel caso in cui uno dei paesi meridionali dovesse decidere di lasciare il sistema in modo isolato, è nell’interesse dei paesi economici del nord Europa, in primis la Germania, impedire che la sua valuta sia fuori controllo e garantire una transizione lineare. Tutte le storie di terrore su eventuali disastri che leggiamo non hanno alcuna base economica». Lo sanno bene gli economisti di Parigi che ispirano la svolta sovranista di Marine Le Pen, che a partire dalle europee 2014 potrebbe dare la scossa necessaria all’inversione di rotta. «Il programma di Le Pen è chiaro: uscita immediata dall’euro – con il Tesoro francese che proporrà un accordo con i creditori tedeschi: se questi non l’accetteranno, la Francia tornerà lo stesso al franco e le perdite principali saranno per la Germania». Poi c’è la proposta di un referendum sull’Ue sul modello inglese proposto da Cameron. Prima reazione a Bruxelles: gli inglesi sarebbero “stupidi suicidi”. «Argomentazioni ridicole», afferma Pritchard: tutti sanno che, senza Londra (più l’Olanda e la Scandinavia), l’Ue sarebbe finita, e salterebbe anche l’equilibrio tra Francia e Germania. «La decisione inglese è un enorme avviso a Bruxelles: l’integrazione è andata troppo oltre il volere popolare e le popolazioni vogliono indietro alcuni poteri».La Costituzione europea, continua Pritchard, è stata rigettata dai referendum in Francia e in Olanda. Trattati imposti contro la volontà popolare? «Questa fase in cui si procede senza consultare i cittadini è finita. Questo tipo di arroganza è finito». Problema fondamentale: la confisca della politica economica nazionale. A imporre le tasse e i tagli alla spesa non può essere un organismo non eletto democraticamente. «Non è un caso che la guerra civile inglese sia iniziata nel 1640 quando il re ha cercato di togliere questi poteri al Parlamento o che la rivoluzione americana sia scoppiata quando questo potere è stato tolto da Londra a stati come Virginia o il Massachusetts». Quello che sta facendo Bruxelles è «pericoloso e antidemocratico». L’alibi è la salvezza dell’euro? «E’ ridicolo. La federazione deve essere subordinata ai grandi ideali che plasmano una società e non alla salvezza di una moneta. I paesi devono tornare alla realtà sociale al più presto e non devono pensare a strumenti di ingegneria finanziaria per far funzionare qualcosa che non può funzionare».Con buona pace degli eurocrati alla Enrico Letta, l’orizzonte decisivo è quello delle europee 2014, col previsto boom degli euroscettici. «Oggi il pericolo maggiore per i paesi dell’Europa meridionale si chiama crisi deflattiva», cioè: mancanza di liquidità, tagli alla spesa, asfissia dell’economia. La recessione «potrebbe presto trasformarsi in una depressione economica, in grado di rendere fuori controllo la traiettoria debito-Pil: è un potenziale disastro». In questo contesto, per il giornalista inglese, la politica si deve porre l’obiettivo del ritorno di una serie di poteri sovrani delegati a Bruxelles. Le elezioni del maggio prossimo? «Saranno un evento potenzialmente epocale: i partiti scettici dell’attuale architettura istituzionale potrebbero essere i primi in diversi paesi – l’Ukip in Gran Bretagna, il Fronte Nazionale in Francia, il Movimento 5 Stelle in Italia, Syriza in Grecia». Parleranno i popoli: gli elettori potranno «esprimere la loro irritazione e frustrazione contro le scelte da Bruxelles». Così, «un blocco politico importante potrà distruggere questo “mito artificiale” che si è costruito: l’Ue non sarà più la stessa e sarà costretta ad essere meno ambiziosa e comprendere che molte delle sue prerogative devono tornare agli Stati nazionali». In altre parole: «I governi di Italia, Spagna e Francia devono riprendere il pieno controllo delle vite dei loro cittadini e non pensare all’allargamento all’Ucraina o alla Turchia. Si tratta dell’ultima battaglia».Enrico Letta aspetta che sia la Merkel a salvare l’Italia? Be’, buonanotte. Secondo Ambrose Evans-Pritchard, l’Italia sta scherzando col fuoco: avanti di questo passo, sotto la sferza dell’euro-rigore, il nostro paese rischia il collasso già nel 2014. Il problema? L’euro, ovviamente, e il regime di Bruxelles, che taglia lo Stato imponendo sacrifici con un unico orizzonte: la catastrofe. «Quello che serve in Europa oggi è uno shock economico sul modello dell’Abenomics», dice il columnist economico del “Telegraph”, indicando come modello il Giappone di Shinzo Abe. Sovranità monetaria e deficit positivo, per risollevare l’economia. «Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, insieme alla Francia devono smettere di fare finta di non avere un interesse in comune da tutelare». Attenzione: «Questi paesi hanno i voti necessari per forzare un cambiamento». In Francia, sarà risolutiva Marine Le Pen: magari non conquisterà l’Eliseo, ma costringerà i grandi partiti a cambiare agenda, imponendo loro di fare finalmente i conti con Bruxelles, Berlino e la Bce.