Archivio del Tag ‘catastrofe’
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Api a rischio estinzione, un insetticida ne uccide lo sperma
La natura sabotata dal “genocidio delle api”, in derastico calo negli ultimi decenni e in particolare negli ultimi anni. Ora si scopre che la colpa è anche di un potente insetticida recentemente introdotto, che disabiliterebbe le facoltà riproduttive degli insetti che presiedono largamente alla funzione strategica dell’impollinazione. Secondo una nuova ricerca, uno degli insetticidi più diffusi ha come effetto collaterale di uccidere una percentuale significativa dello sperma delle api, offrendo così una possibile spiegazione per la drastica diminuzione nella popolazione mondiale di api, scrive “Rt” in un post tradotto da Massimo Mazzucco su “Luogo Comune”. Un gruppo di scienziati svizzeri ha indagato su come una categoria di insetticidi neuro-attivi, chiamati “neonicotinoidi”, possa danneggiare le api. I risultati del loro lavoro sono stati pubblicati sul “Royal Society B’s journal Proceedings”. L’esperimento ha mostrato che i maschi delle api che consumavano polline trattato con neonicotinoidi producevano il 39% in meno di sperma di quelli che non erano stati esposti alle stesse sostanze.Secondo la ricerca, «il diffuso utilizzo profilattico dei neonicotinoidi potrebbe avere sottovalutato effetti contraccettivi sugli insetti, limitandone la capacità di conservazione». I ricercatori dell’università di Berna hanno commentato che «le funzioni riproduttive non sono state pienamente interrotte, ma è diventato chiaramente più difficile per le api regina concepire, accoppiandosi con maschi che hanno perso parte della loro forza virile». Al di là degli effetti negativi sullo sperma, prosegue “Russia Today”, anche la durata vitale delle api che sono state in contatto con l’insetticida si è ridotta da 22 a 15 giorni. Questo problema è stato attribuito al malfunzionamento del sistema immunitario. «Studi recenti – prosegue il report scientifico elvetico – hanno rivelato che i composti agrochimici sono in grado di invalidare la funzione immunitaria. È quindi possibile che i maschi esposti al neonicotinoidi abbiano visto ridurre le proprie capacità di detossificazione, riducendo così la durata della loro vita».Le colonie di insetti da pollinazione si stanno depopolando in Europa e Nord America, in un processo chiamato “sindrome dello spopolamento degli alveari”, nel quale la maggioranza delle api operaie abbandonano la regina e le altre api immature, nonostante ci sia per loro una grande abbondanza di cibo di cui nutrirsi, conclude il post di “Rt” tradotto da Mazzucco. «Questo disordine ha portato a significative perdite economiche, dal momento in cui le api ed altri insetti sono responsabili per la pollinazione di tre quarti delle coltivazioni mondiali». Traduzione economica piuttosto immediata, che rende l’idea delle dimensioni anche numeriche del problema: «Nel 2013 i contadini che devono affittare le api per l’impollinazione hanno dovuto affrontare un aumento di costi del 20% circa, dovuto alla scarsità di api».La natura sabotata dal “genocidio delle api”, in drastico calo negli ultimi decenni e in particolare negli ultimi anni. Ora si scopre che la colpa è anche di un potente insetticida recentemente introdotto, che disabiliterebbe le facoltà riproduttive degli insetti che presiedono largamente alla funzione strategica dell’impollinazione. Secondo una nuova ricerca, uno degli insetticidi più diffusi ha come effetto collaterale di uccidere una percentuale significativa dello sperma delle api, offrendo così una possibile spiegazione per la drastica diminuzione nella popolazione mondiale di api, scrive “Rt” in un post tradotto da Massimo Mazzucco su “Luogo Comune”. Un gruppo di scienziati svizzeri ha indagato su come una categoria di insetticidi neuro-attivi, chiamati “neonicotinoidi”, possa danneggiare le api. I risultati del loro lavoro sono stati pubblicati sul “Royal Society B’s journal Proceedings”. L’esperimento ha mostrato che i maschi delle api che consumavano polline trattato con neonicotinoidi producevano il 39% in meno di sperma di quelli che non erano stati esposti alle stesse sostanze.
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Mai sprecare una bella crisi: ecco cos’hanno in mente
“Draghi vuole un Nuovo Ordine Mondiale che i populisti ameranno odiare”: così “Bloomberg” all’indomani del Brexit. «Mai sprecare una bella crisi, e il Brexit lo è», scrive Maurizio Blondet: «I globalizzatori sono dunque all’attacco: mentre gli europeisti (che sembrano essere la cosca perdente) cercano di cavalcare la crisi per instaurare “più Europa”, Draghi e complici puntano al Nuovo Ordine Mondiale. Ciò sarà venduto al pubblico come “necessario coordinamento fra le banche centrali”, in seguito ad un collasso finanziario globale che è stato già (deliberatamente?) innescato». Per “Bloomberg”, oggi le banche centrali sono ancora «governate da leggi concepite in patria, che richiedono loro di perseguire certi scopi, a volte espliciti, in genere legati all’inflazione e alla disoccupazione». Per di più, «devono rispondere ai legislatori nazionali, eletti». Il che è un guaio per i banchieri globali, commenta Blondet sul suo blog. Ecco perché, ora, «gli obbiettivi a breve termine dovrebbero essere sostituiti dagli obbiettivi globali». E cioè: più recessione e più disoccupazione. «La crisi ci farà cadere dalla padella dell’euro alla brace della moneta globale governata contro gli interessi dei popoli».Brandon Smith, economista e blogger, sostiene che il Brexit sia stato un evento artificiale, per preparare deliberatamente il prossimo collasso, che indurrà tutti – media e i governi – a «implorare il governo unico mondiale». Idea non peregrina, continua Blondet: come se l’uscita del Regno Unito dalla Ue sia stata voluta da Buckingham Palace «per posizionare la City come centrale globale di negoziazione dello yuan». La valuta cinese, infatti, «farà parte del paniere di monete che costituirà la moneta globale digitale, una volta tramontato il dollaro». Pechino s’è affrettata ad esprimere il proposito di collaborare, con la sua Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), con la Banca Mondiale? E’ la prova, per Smith, che «i cinesi non hanno mai avuto l’intenzione di fare di fare della Aiib un contro-Fmi», dato che «i cinesi lavorano con i globalizzatori, non contro di essi». Sta cambiando tutto. Anche per questo, oggi, Tony Blair viene scaricato come criminale di guerra 12 anni dopo l’Iraq. «Allo stesso modo, l’Unione Europea viene abbandonata come un guscio vuoto». Persino Schaeuble dice: se alcuni Stati membri vogliono perseguire le loro politiche al di fuori delle istituzioni europee, che lo facciano pure. «Una Ue ridotta ad accordi fra governi, adesso gli va benissimo».«Se il progetto è quello indicato da Bloomberg – salto nella globalizzazione totalitaria – si capisce anche l’imprevista pugnalata di Draghi al Montepaschi, a cui ha richiesto, ordinato, di liberarsi di 10 miliardi di crediti inesigibili: certo con ciò ha precipitato il fallimento della banca (del Pd), e magari il collasso del sistema bancario italiano, il più fragile, e non può non averlo fatto apposta», scrive Blondet. «Con ciò ha decretato anche la disfatta di Matteo Renzi. Deliberatamente ha pugnalato alla schiena il giovine rottamatore, come già fece con il vecchio Berlusconi». Come Blair, Juncker e Schulz, «simili personaggi non servono più», se l’Ue si sbriciola in favore della globalizzazione definitiva. «Anche Matteo Renzi sarà dato in pasto alle folle inferocite, e ai suoi sicari di partito», con un’Italia precipitata «nel collasso del suo sistema bancario senza un governo funzionante, e magari – il che è lo stesso – con un governo grillino eletto a furor di popolo». “Mai sprecare una bella crisi”. Meglio aggravarla, piuttosto che alleviarla – così sospetta Brandon Smith. «Non a caso Soros continua a dire che sta per arrivare la catastrofe. Non a caso il Fondo Monetario e la Banca dei Regolamenti Internazionali hanno “lanciato l’allarme” prevedendo un crash colossale nel 2016». Previsioni di crisi difficilmente sballate, «perché sono loro che pongono le condizioni perché esplodano».“Draghi vuole un Nuovo Ordine Mondiale che i populisti ameranno odiare”: così “Bloomberg” all’indomani del Brexit. «Mai sprecare una bella crisi, e il Brexit lo è», scrive Maurizio Blondet: «I globalizzatori sono dunque all’attacco: mentre gli europeisti (che sembrano essere la cosca perdente) cercano di cavalcare la crisi per instaurare “più Europa”, Draghi e complici puntano al Nuovo Ordine Mondiale. Ciò sarà venduto al pubblico come “necessario coordinamento fra le banche centrali”, in seguito ad un collasso finanziario globale che è stato già (deliberatamente?) innescato». Per “Bloomberg”, oggi le banche centrali sono ancora «governate da leggi concepite in patria, che richiedono loro di perseguire certi scopi, a volte espliciti, in genere legati all’inflazione e alla disoccupazione». Per di più, «devono rispondere ai legislatori nazionali, eletti». Il che è un guaio per i banchieri globali, commenta Blondet sul suo blog. Ecco perché, ora, «gli obbiettivi a breve termine dovrebbero essere sostituiti dagli obbiettivi globali». E cioè: più recessione e più disoccupazione. «La crisi ci farà cadere dalla padella dell’euro alla brace della moneta globale governata contro gli interessi dei popoli».
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Lo spettro dei Balcani e la rivoluzione da fare contro l’Ue
“L’inglese se n’è gghiuto e soli n’ha lasciati”. Non credevo nella Brexit, pensavo che solo un popolo di ubriachi poteva decidere una simile autolesionistica catastrofe. Dimenticavo che gli inglesi sono per l’appunto un popolo di ubriachi. Scherzo, naturalmente, dato che non credo nell’esistenza dei popoli. Ma credo nella lotta di classe, e la decisione degli operai inglesi di affondare definitivamente l’Unione Europea è un atto di disperazione che consegue alla violenza dell’attacco finanzista che da anni impoverisce i lavoratori di tutto il continente e anche di quell’isola del cazzo. La City si preparava a festeggiare l’ennesima vittoria della finanza, e invece l’hanno spuntata i proletari resi nazionalisti dalla disperazione (e dalla patetica arroganza imperialista bianca). Ma non possiamo liquidare come fasciste le motivazioni di coloro che vogliono uscire dalla trappola europea, visto che è ormai dimostratissimo che l’Unione Europea non è (e non è mai stato) altro che un dispositivo di impoverimento della società, precarizzazione del lavoro e concentrazione del potere nelle mani del sistema bancario.Gran parte di quelle motivazioni sono comprensibili, tant’è vero che la maggior parte dei “leave” proviene dalle aree operaie mentre le forze del finanzismo davano per certa la vittoria alla faccia di chi in nome dei “valori europei” si fa derubare il salario. Ma il problema non sta nelle motivazioni, il problema sta nelle conseguenze. L’Unione Europea non esiste più da tempo, almeno dal luglio del 2015, quando Syriza è stata umiliata e il popolo greco definitivamente sottomesso. Ci occorre forse un’Europa più politica come dicono ritualmente le sinistre al servizio delle banche? Sono anni che crediamo nella favoletta dell’Europa che deve diventare più politica e più democratica. Ci siamo caduti anche noi, mi spiace dirlo, ma non è mai stato vero. L’Unione europea è una trappola finanzista da Maastricht in poi.Un articolo di Paolo Rumiz (“Come i Balcani”) uscito il 23 su “La Repubblica” dice una cosa che a me pareva chiara da tempo: il futuro d’Europa è la Yugoslavia del 1992. Rumiz lo dice bene, solo che dimentica il ruolo che la Deutsche Bank svolse nello spingere gli yugoslavi verso la guerra civile (e Wojtyla fece la sua parte). Ora credo che dobbiamo dirlo senza tanti giri di parole: il futuro d’Europa è la guerra. Il suo presente è già la guerra contro i migranti che già è costata decine di migliaia di morti e innumerevoli violenze. Forse suona un po’ antico, ma per me resta vero che il capitalismo porta la guerra come la nube porta la tempesta. Cosa si fa in questi casi? Si ferma la guerra, si impongono gli interessi della società contro quelli della finanza? Naturalmente sì, quando questo è possibile. Ma oggi fermare la guerra non è più possibile perché la guerra è già in corso, anche se per il momento a morire sono centinaia di migliaia di migranti in un Mediterraneo in cui l’acqua salata ha sostituito lo Zyklon-B.I movimenti sono stati distrutti uno dopo l’altro. E allora?, allora si passa all’altra parte dell’adagio leniniano (segnalo per chi avesse qualche dubbio che non sono mai stato leninista e non intendo diventarlo). Si trasforma la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria. Cosa vuol dire? Non lo so, e nessuno può saperlo, oggi. Ma nei prossimi anni credo che dovremo ragionare solo su questo. Non su come salvare l’Unione Europea, che il diavolo se la porti. Non su come salvare la democrazia che non è mai esistita. Ma su come trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria. Pacifica e senz’armi, se possibile. Guerra dei saperi autonomi contro il comando e la privatizzazione. Ma insomma, non porto il lutto perché gli inglesi se ne vanno. Ho portato il lutto quando i greci sono stati costretti a rimanere a quelle condizioni (e adesso che ne sarà di loro?). Cent’anni dopo l’Ottobre, mi sembra che il nostro compito sia chiederci: cosa vuol dire Ottobre nell’epoca di Internet, del lavoro cognitivo e precario? Il precipizio che ci attende è il luogo in cui dobbiamo ragionare su questo.(Franco “Bifo” Berardi, “L’inglese se n’è gghiuto”, da “Alfabeta 2” del 28 giugno 2016).“L’inglese se n’è gghiuto e soli n’ha lasciati”. Non credevo nella Brexit, pensavo che solo un popolo di ubriachi poteva decidere una simile autolesionistica catastrofe. Dimenticavo che gli inglesi sono per l’appunto un popolo di ubriachi. Scherzo, naturalmente, dato che non credo nell’esistenza dei popoli. Ma credo nella lotta di classe, e la decisione degli operai inglesi di affondare definitivamente l’Unione Europea è un atto di disperazione che consegue alla violenza dell’attacco finanzista che da anni impoverisce i lavoratori di tutto il continente e anche di quell’isola del cazzo. La City si preparava a festeggiare l’ennesima vittoria della finanza, e invece l’hanno spuntata i proletari resi nazionalisti dalla disperazione (e dalla patetica arroganza imperialista bianca). Ma non possiamo liquidare come fasciste le motivazioni di coloro che vogliono uscire dalla trappola europea, visto che è ormai dimostratissimo che l’Unione Europea non è (e non è mai stato) altro che un dispositivo di impoverimento della società, precarizzazione del lavoro e concentrazione del potere nelle mani del sistema bancario.
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Roma e Torino sfrattano Renzi, l’Italia in cerca di un Piano-B
Non c’è ancora un Piano-B, ma intanto vanno bene anche i 5 Stelle per fermare il Pd che mette l’Italia alla frusta in ossequio ai diktat di Bruxelles. “Avviso di sfratto per Renzi”, titolano i giornali dopo i ballottaggi di Roma e Torino: cartellino rosso per la casta di potere allineata all’establishment del rigore europeista. «I verdetti di Roma e Torino raccontano una rivoluzione», scrive Massimo Gramellini sulla “Stampa”. «All’ombra dei volti rassicuranti di due giovani donne, Virginia Raggi e Chiara Appendino, nelle urne è andata in scena la rivolta contro l’Ancien Régime, incarnato proprio da quel Renzi che avrebbe dovuto rottamarlo». A guidarla, c’è «un inedito Terzo Stato, composto dai ceti che la crisi economica ha indebolito e che l’aristocrazia del centrosinistra ha escluso dalla gestione del potere». Per Giulietto Chiesa, «il fallimento di Renzi è politico, non amministrativo, e le conseguenze saranno lunghe e drammatiche». Nella “rivoluzione” in atto, i 5 Stelle sono indispensabili per abbattere gli yesmen, ma non bastano a costruire un’alternativa credibile per uscire dalla crisi ribaltando i presupposti dell’assetto politico-economico.Per la prima volta nella storia, annota Gramellini, la rabbia dei romani e dei torinesi si è manifestata attraverso il rifiuto di chiunque avesse un’esperienza pubblica consolidata: «Era tale il disgusto per i professionisti del ramo che l’acerbità delle due signore Cinquestelle è stata considerata una medaglia al valore». La rivolta esplosa nelle urne «parte dalla pancia e quindi non fa sconti né differenze», né a Roma tra le macerie di Mafia Capitale, né a Torino, dove lo stesso gruppo di interessi «era al potere da troppi decenni e aveva creato un groviglio inestricabile di rapporti amicali e familiari». Il crollo del Muro di Torino, largamente inatteso, fa impressione: i cittadini “licenziano” un vertice trasversale, politico a affaristico, che ha retto per 23 anni l’ex capitale della Fiat, l’unica grande città italiana a non aver conosciuto alternanze, negli ultimi decenni. Un “regime” che si credeva granitico, al punto da ripresentarsi agli elettori con un volto archeologico come quello di Fassino.Se al ballottaggio arrivano un renzista e un grillino, a vincere è il grillino, scrive ancora Gramellini: «Un’indicazione da brividi per i geni che hanno compicciato la nuova legge elettorale». Gli elettori di Berlusconi e Salvini hanno scelto di premiare «quello tra i due candidati che si collocava a maggiore distanza dall’establishment europeista e finanziario, oggi identificato col renzismo». Ed è questa, conclude l’editorialista, la sentenza clamorosa che le urne consegnano al dibattito politico: «Sorto in opposizione alla Casta, dopo due soli anni di governo il renzismo ha finito per diventarne il simbolo». In altre parole, «è fallito il racconto del giovane politico di professione arrivato da Firenze per bonificare il suo partito e poi l’intero sistema, coniugando l’innovazione con la meritocrazia». Per Grasmellini, la crisi del renzismo ha «una data di implosione ben precisa», cioè la cacciata di Marino, il “marziano a Roma” che era «il simbolo plastico di una diversità politica: quanto di più vicino alla “narrazione” renzista si potesse immaginare. L’averlo cacciato in malo modo, quasi irridendolo come un corpo estraneo, ha simultaneamente appiccicato ai suoi epuratori l’etichetta di Casta 2.0. Ha cioè reso il renzismo uguale a ciò che prometteva di cambiare, almeno agli occhi dell’elettore tradizionale di sinistra».Negli anni del bipolarismo estremo, l’elettore Pd veniva spinto a votare il candidato indigesto “turandosi il naso”, per sbarrare la strada all’avversario leghista o berlusconiano. Ma Raggi e Appendino «hanno facce e storie che non mettono paura a nessuno e contro di loro non poteva scattare il richiamo della foresta». Sullo sfondo, aggiunge Gramellini, «la crisi economica sta bruciando le carte della politica una dopo l’altra. Ci erano rimasti due jolly: il renzismo e il grillismo. Uno forse ce lo siamo giocati. Rimane l’ultimo, che per fortuna in Italia è sempre il penultimo». Tra quanti invece non hanno mai considerato “un jolly” il premier fiorentino, ma solo l’ultimo cavallo di Troia dei poteri forti, c’è Giulietto Chiesa, che teme che adesso Renzi farà il diavolo a quattro per recuperare il colpo: «Aspettiamoci mosse azzardate e colpi sotto la cintura. Soprattutto nel prossimo referendum di ottobre su Costituzione e Italicum». Il M5S ha raccolto il risultato di questa catastrofe, certo «giovandosi anche dell’assenza di una destra che è ormai anch’essa allo sfacelo». Un sistema di potere sta crollando, ma non c’è ancora un’alternativa praticabile. L’unica certezza è negativa: il quadro politico di ieri non vale più. «Lo stato del paese dice anche che il M5S, da solo, non sarà sufficiente».Non c’è ancora un Piano-B, ma intanto vanno bene anche i 5 Stelle per fermare il Pd che mette l’Italia alla frusta in ossequio ai diktat di Bruxelles. “Avviso di sfratto per Renzi”, titolano i giornali dopo i ballottaggi di Roma e Torino: cartellino rosso per la casta di potere allineata all’establishment del rigore europeista. «I verdetti di Roma e Torino raccontano una rivoluzione», scrive Massimo Gramellini sulla “Stampa”. «All’ombra dei volti rassicuranti di due giovani donne, Virginia Raggi e Chiara Appendino, nelle urne è andata in scena la rivolta contro l’Ancien Régime, incarnato proprio da quel Renzi che avrebbe dovuto rottamarlo». A guidarla, c’è «un inedito Terzo Stato, composto dai ceti che la crisi economica ha indebolito e che l’aristocrazia del centrosinistra ha escluso dalla gestione del potere». Per Giulietto Chiesa, «il fallimento di Renzi è politico, non amministrativo, e le conseguenze saranno lunghe e drammatiche». Nella “rivoluzione” in atto, i 5 Stelle sono indispensabili per abbattere gli yesmen, ma non bastano a costruire un’alternativa credibile per uscire dalla crisi ribaltando i presupposti dell’assetto politico-economico.
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Jo Cox e i mostruosi impresari della morte provvidenziale
Alcuni giornali (“Il Sole 24 Ore”, il “Corriere”) fanno notare come l’assassinio della deputata laburista Jo Cox possa fare pendere la bilancia del voto referendario inglese dal lato del “Remain” piuttosto che da quello della Brexit. Deducono questa ipotesi dal fatto che oggi i famosi “mercati” invece che chiudere con clamorose perdite come nei giorni scorsi, hanno “limitato i danni”. I “mercati”, infatti, tifano perché la Gran Bretagna resti dentro l’Unione Europea e, evidentemente, questo fatto di sangue deve avere convinto speculatori e scommettitori che l’omicidio spingerà una parte significativa dell’elettorato, magari quello indeciso o astensionista, in questa direzione. E così, mentre mezza Europa ascoltava incredula la notizia della morte della deputata ed in Gran Bretagna si sospendeva la campagna referendaria per lutto e solidarietà verso la vittima, i “mercati” scommettevano, speculavano e ragionavano su quanto si poteva guadagnare dall’evento e per quanto tempo.Naturalmente non è una novità che i “mercati”, qualunque cosa di disgustoso accada sulla faccia della terra (terremoti, guerre, pestilenze, stragi, ecc.), continuino a “lavorare”, a fare affari, a scommettere sugli effetti che provocano quei disastri e a cercare di lucrarci. E siccome non è una novità non ci si dovrebbe stupire di questo cinismo da bisca clandestina.E infatti io non mi stupisco. Attiro solo l’attenzione su questo fatto che forse sfugge, tanto si dà per scontato: c’è una parte di società, una parte di mondo – si badi bene: potentissima e ormai in grado di decidere le sorti del resto della società e del resto del mondo – che è del tutto esente dal lutto, dalla solidarietà, dalla testimonianza o, almeno, dal silenzio rispettoso che, se non altro pubblicamente, dovrebbero essere dovuti alla sofferenza umana quando questa assume caratteristiche di catastrofi o di fatti particolarmente odiosi di interesse nazionale o internazionale.Questa parte di società è, invece, una zona franca. Inattaccabile sia dalla politica che dalle manifestazioni di piazza. Dai partiti come dai sindacati. Dai media come dalle grandi personalità pubbliche. Totalmente avulsa, perfino ipocritamente, dall’empatia e invece completamente assorbita dalla “simpatia” o “antipatia” verso uomini e cose che possono favorire o danneggiare le loro attività. È una zona mostruosa, per potere e per cinismo. E fino a che questa mostruosità, cioè i “mercati”, sarà svincolata da qualunque forma di umanità e da qualunque controllo politico che ne limiti (se nel caso anche a torto) il potere e l’influenza e anzi questa “zona franca” continui ad essere essa stessa padrona della politica e dell’umanità, forse non dovremo stupirci tanto se qualcuno ammazza qualcun altro urlando “Allah Akbar” o “Britain First”. Dovremo forse riflettere un poco di più su come sia possibile che qualcun altro faccia affari e lucri sugli assassini e sugli assassinati.(Turi Comito, “Jo Cox e la zona franca”, da “Megachip” del 17 giugno 2016).Alcuni giornali (“Il Sole 24 Ore”, il “Corriere”) fanno notare come l’assassinio della deputata laburista Jo Cox possa fare pendere la bilancia del voto referendario inglese dal lato del “Remain” piuttosto che da quello della Brexit. Deducono questa ipotesi dal fatto che oggi i famosi “mercati” invece che chiudere con clamorose perdite come nei giorni scorsi, hanno “limitato i danni”. I “mercati”, infatti, tifano perché la Gran Bretagna resti dentro l’Unione Europea e, evidentemente, questo fatto di sangue deve avere convinto speculatori e scommettitori che l’omicidio spingerà una parte significativa dell’elettorato, magari quello indeciso o astensionista, in questa direzione. E così, mentre mezza Europa ascoltava incredula la notizia della morte della deputata ed in Gran Bretagna si sospendeva la campagna referendaria per lutto e solidarietà verso la vittima, i “mercati” scommettevano, speculavano e ragionavano su quanto si poteva guadagnare dall’evento e per quanto tempo.
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Barnard: ed ecco l’omicidio perfetto per fermare la Brexit
Citai quel terribile studio, anzi, appello, pubblicato dalla più prestigiosa rivista medica del mondo, il “The Lancet”, che gridava che la Ue della nomenklatura stava ammazzando al ritmo di un bombardamento della Seconda Guerra Mondiale, in Grecia. Vi ricordate i numeri? Migliaia di feti morti prematuri (aumento del 40%), aumento delle infezioni da Hiv del 3.000% (sì, tremila) a causa mancanza di siringhe nelle province, ammalati di tumore lasciati a urlare come cani senza morfina fino alla morte, la vita media retrocessa a livello degli anni ’40. E nessuno può calcolare quanti altri europei sono morti prematuramente a causa di questa catastrofe voluta a tavolino chiamata Maastricht & Eurozona, anche se il fatto che oggi l’11% degli italiani non si può più curare adeguatamente la dice lunga. Ieri è morta una splendida persona, la parlamentare inglese Jo Cox, donna dalle mille battaglie umanitarie ammazzata da un rivoltante pazzoide in strada. Si dice che l’uomo gridasse “Prima la Gran Bretagna!”, era ovviamente un fanatico pro Brexit, e la povera deputata era invece per rimanere nell’Unione. Sospendiamo per un attimo l’emotività e l’orrore per questo osceno incubo.Il fatto indubitabile è che l’opinione pubblica inglese ora con una probabilità vicina al 99% si sposterà verso il voto pro Ue, mentre gli ultimissimi sondaggi davano Brexit davanti. Anche perché la fanfara della nomenklatura strillerà a 8000 decibel che i pro Brexit sono una masnadsa di fascisti, hooligan, medievali nazionalisti, buffoni alla Farage, estremisti pericolosi ecc. Non finirà più di suonare da qui al 23 giugno. Credo – e spero tanto di sbagliarmi, ma no – che dovremo dire addio a Brexit, dire addio cioè alla più straordinaria opportunità della Storia di distruggere la nomenklatura di Bruxelles che, come detto sopra, uccide diecimila volte di più del bastardo cane assassino di Jo Cox. Sono senza parole. E giuro, e guardate che veramente lo scrivo con le dita che mi si stanno rattrappendo fino a spezzarmi le falangi, che non posso levarmi dalla testa l’idea che ho sempre ritenuto l’ultima idea che un giornalista vero debba mai intrattenere nel suo cervello, dopo aver esaurito ogni altra ricerca: il complotto.Cazzo, che caso, mi dice una parte della mia testa, Cameron a febbraio cospira con la mega azienda di private security Serco per far partire una campagna segreta di sputtanamento di Brexit. Tutta la nomenklatura dei peggiori ceffi di Bruxelles fa muro contro Brexit. I neo-nazi di Merkel-Schauble ragliano minacce di fuoco, ma tutto quello che ottengono è che i sondaggi volano sempre più verso il voto per uscire dalla Ue. Poi arriva la riunione del Bilderberg in Germania, e oplà, uno dei volti più belli e umanamente puliti del ‘Rimaniamo in Ue’ viene macellata a pochi giorni dal voto al grido di “Prima la Gran Bretagna!”. Oplà, eh? Ma io non sono un Blondet o un Mazzucco, io faccio un altro mestiere, il giornalista, e senza l’Edward Snowden del caso Cox io ficco il complotto nella spazzatura, e dico solo una cosa. Una morte ora rischia con altissime probabilità di permetterne altre decine di migliaia per decenni per ciò che ho scritto due paragrafi più sopra. Sono senza parole, I’m beyond words.(Paolo Barnard, “Un morto aiuterà a produrne altre decine di migliaia, goodbye Brexit?”, dal blog di Barnard del 17 giugno 2016).Citai quel terribile studio, anzi, appello, pubblicato dalla più prestigiosa rivista medica del mondo, il “The Lancet”, che gridava che la Ue della nomenklatura stava ammazzando al ritmo di un bombardamento della Seconda Guerra Mondiale, in Grecia. Vi ricordate i numeri? Migliaia di feti morti prematuri (aumento del 40%), aumento delle infezioni da Hiv del 3.000% (sì, tremila) a causa mancanza di siringhe nelle province, ammalati di tumore lasciati a urlare come cani senza morfina fino alla morte, la vita media retrocessa a livello degli anni ’40. E nessuno può calcolare quanti altri europei sono morti prematuramente a causa di questa catastrofe voluta a tavolino chiamata Maastricht & Eurozona, anche se il fatto che oggi l’11% degli italiani non si può più curare adeguatamente la dice lunga. Ieri è morta una splendida persona, la parlamentare inglese Jo Cox, donna dalle mille battaglie umanitarie ammazzata da un rivoltante pazzoide in strada. Si dice che l’uomo gridasse “Prima la Gran Bretagna!”, era ovviamente un fanatico pro Brexit, e la povera deputata era invece per rimanere nell’Unione. Sospendiamo per un attimo l’emotività e l’orrore per questo osceno incubo.
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Nessuno affronta davvero la crisi, così gli elettori non votano
Fino a ieri, la maggioranza votava per il meno peggio. Oggi, in assenza di vere alternative ai gestori della crisi, l’elettore medio non se la sente più di rassegnarsi all’impossibilità di soluzioni: quasi un cittadino su due, infatti, preferisce restare a casa piuttosto che accordare ancora una volta – a candidati deludenti – la solita mezza fiducia, concessa con estrema riluttanza. E’ il dato forse più sostanziale che emerge dalla tornata amministrativa del 5 giugno 2016, tra l’atteso successo dei 5 Stelle a Roma, il pareggio Sala-Parisi a Milano, la riconferma di De Magistris a Napoli, l’erosione del consenso di Fassino a Torino. La partita è gigantesca e si chiama crisi. Il primo orizzonte a oscurarsi è quello nazionale, precariamente presidiato da Matteo Renzi, ma in realtà lo spettacolo va in onda in mondovisione tra l’Europa del Brexit, il martirio a rate della Grecia, la guerra in Siria, i profughi, la devastazione economica indotta dal regime di austerity varato dall’Unione Europea attraverso l’Eurozona e le sue politiche volutamente recessive, a partire dalla prescrizione suicida del pareggio di bilancio.Nessuno, tra i principali candidati italiani delle amministrative, ha declinato in modo chiaro, a livello locale, l’opprimente quadro sovranazionale, da cui dipende anche la sofferenza quotidiana dei Comuni, a prescindere dal colore politico dei suoi amministratori di turno. Si preferisce affidarsi a storie più comode da raccontare, operazioni-trasparenza contro piccole cupole di potere, l’orgoglio degli sfidanti, la freschezza dei più giovani, l’entusiasmo degli esordienti contro il cinismo dei reggenti di lungo corso. Nulla, comunque, che abbia un’attinenza diretta e frontale col nocciolo del problema: e cioè la revoca – storica – di sovranità democratica, che condanna anche gli enti locali a fare i conti col poco che resta, tagliando servizi e spremendo i contribuenti a suon di imposte. Era il tema attorno a cui il “Movimento Roosevelt” creato da Gioele Magaldi aveva provato a lanciare, per Roma, la candidatura rivoluzionaria di un economista prestigioso ed “eretico” come il keynesiano Nino Galloni. Tesi: impossibile governare una città col vincolo del 3% sulla spesa, impossibile investire sul futuro e sul benessere collettivo se prima non si respingono al mittente tutti i diktat dell’Ue che, a cascata, dal governo centrale ricadono sui Comuni.Lo scenario post-elettorale resta dunque intermedio e transitorio, anche a prescindere dai ballottaggi: neppure dagli “spareggi”, infatti, potrà scaturire un’opzione alternativa di politica economica. In generale, si osserva un lento declino del gruppo oggi al potere – rappresentato dal Pd – che sconta le inevitabili difficoltà di un governo allineato a Bruxelles, cioè a Berlino. A Roma, a sparigliare le carte è ovviamente l’eredità del caso-Marino, in una città che comunque aveva vissuto una sostanziale alternanza, da Veltroni ad Alemanno – così come Milano, passata dalla Moratti a Pisapia. Torino resta un caso diverso, forse più interessante, perché dall’avvento del gruppo post-Pci, guidato da Castellani e poi Chiamparino, l’ex città Fiat era sempre rimasta compatta attorno alla sua compagine di potere, fino ad accettare un candidato come Fassino, proveniente dalla preistoria della Prima Repubblica. Ancora oggi Fassino arriva primo, ma – questa la novità – dovrà affrontare i rischi del ballottaggio. Non che la sfidante grillina intavoli un’alternativa strutturale, naturalmente: ancora una volta, il sistema euro-catastrofico non è in discussione. In compenso, si sgretola il fronte dei supremi guardiani di quel sistema, la ex sinistra cooptata dai super-poteri europei per far digerire agli italiani la grande crisi in programma, la fine dei diritti sociali, la disoccupazione come nuova normalità. Quel sistema sta franando, e lo dimostra la vastissima diserzione delle urne. Ma nessuna vera alternativa è ancora in campo.Fino a ieri, la maggioranza votava per il meno peggio. Oggi, in assenza di vere alternative ai gestori della crisi, l’elettore medio non se la sente più di rassegnarsi all’impossibilità di soluzioni: quasi un cittadino su due, infatti, preferisce restare a casa piuttosto che accordare ancora una volta – a candidati deludenti – la solita mezza fiducia, concessa con estrema riluttanza. E’ il dato forse più sostanziale che emerge dalla tornata amministrativa del 5 giugno 2016, tra l’atteso successo dei 5 Stelle a Roma, il pareggio Sala-Parisi a Milano, la riconferma di De Magistris a Napoli, l’erosione del consenso di Fassino a Torino. La partita è gigantesca e si chiama crisi. Il primo orizzonte a oscurarsi è quello nazionale, precariamente presidiato da Matteo Renzi, ma in realtà lo spettacolo va in onda in mondovisione tra l’Europa del Brexit, il martirio a rate della Grecia, la guerra in Siria, i profughi, la devastazione economica indotta dal regime di austerity varato dall’Unione Europea attraverso l’Eurozona e le sue politiche volutamente recessive, a partire dalla prescrizione suicida del pareggio di bilancio.
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Evans-Pritchard a Renzi: via dall’euro, se vuoi salvare l’Italia
«L’Italia deve scegliere tra l’euro e la sua sopravvivenza economica». Lo scrive sul “Telegraph” il noto editorialista finanziario Ambrose Evans-Pritchard. «Il tempo stringe per l’Italia, bloccata in una deflazione da debiti e alle prese con una crisi bancaria che non può affrontare con i vincoli dell’unione monetaria. Dal picco della crisi – prosegue Evans-Pritchard – come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, il prodotto interno lordo si è ridotto del 9% e la produzione industriale del 25%. Ogni anno la percentuale del debito rispetto al Pil sale: 121% nel 2011, 123 nel 2012, 129 nel 2013, 132,7 nel 2015. Lo stimolo della Banca Centrale Europea svanirà prima che l’Italia riuscirà a uscire dalla stagnazione e il Fondo Monetario Internazionale, infatti, prevede una crescita di appena l’1% quest’anno. La finestra globale si sta chiudendo». Per il giornalista, «c’e’ il rischio concreto che Matteo Renzi arrivi alla conclusione che l’unico modo per restare al potere sia presentarsi alle prossime elezioni con una piattaforma apertamente anti-euro». Attenzione: un recente sondaggio di Ipsos Mori rivela che il 48% degli italiani voterebbe contro l’Ue o contro l’euro, se ne avesse l’opportunità.Il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, cui è attribuito un consenso del 28%, «invoca il default e il ritorno alla lira», scrive Pritchard, in un articolo ripreso da “L’Antidiplomatico”. In più, «la Lega Nord di Matteo Salvini considera l’euro un crimine contro l’umanità». Stando ai fatti: il tasso di disoccupazione è all’11,4%, mentre quello della disoccupazione giovanile raggiunge il 65% in Calabria, il 56% in Sicilia, il 53% in Campania. «Il tasso di natalità è al minimo storico. L’istituto di ricerca Svimez parla di uno stato permanente di sottosviluppo nel Mezzogiorno». Negli anni Novanta, continua Evans-Pritchard, l’Italia registrava un ampio avanzo negli scambi commerciali con la Germania, prima che fossero fissati i tassi di cambio e quando si poteva ancora svalutare. «In quindici anni l’Italia ha perso rispetto alla Germania il 30% di competitività sul costo di lavoro per unità di prodotto: dal 2000 la produttività è diminuita del 5,9%». I vari governi che si sono succeduti sono ovviamente «criticabili». Ma, per il giornalista, «la questione più rilevante è che oggi il paese non riesce a uscire dalla trappola».«A questa miscela combustibile – prosegue Evans-Pritchard – si aggiunge la crisi bancaria, che rivela la disfunzionalità dell’unione monetaria e peggiora di giorno in giorno: prestiti “non performanti” per 360 miliardi di euro gravano sui bilanci delle banche. La vigilanza esercitata dalla Bce ha peggiorato le cose e il Fondo Atlante potrebbe attirare sempre più banche nel pantano, aumentando il rischio sistemico». L’Italia? «E’ nel peggiore dei mondi possibili: a causa delle regole dell’Ue, non può prendere iniziative in piena sovranità per stabilizzare il sistema bancario e non esiste ancora un’unione bancaria degna di questo nome che condivida gli oneri». Per l’editorialista britannico, «Renzi ha di fronte una dura scelta: o dice alle autorità europee di andare all’inferno o resta a guardare impotente che il sistema bancario imploda e il paese precipiti nell’insolvenza». E visto che l’Italia non è la Grecia, «non può accettare la sottomissione». Tant’è vero che «tra i poteri forti dell’industria italiana qualcuno ormai sussurra che l’uscita dall’euro potrebbe non essere così terribile». Anzi: «Sarebbe l’unico modo per evitare una catastrofica deindustrializzazione».«L’Italia deve scegliere tra l’euro e la sua sopravvivenza economica». Lo scrive sul “Telegraph” il noto editorialista finanziario Ambrose Evans-Pritchard. «Il tempo stringe per l’Italia, bloccata in una deflazione da debiti e alle prese con una crisi bancaria che non può affrontare con i vincoli dell’unione monetaria. Dal picco della crisi – prosegue Evans-Pritchard – come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, il prodotto interno lordo si è ridotto del 9% e la produzione industriale del 25%. Ogni anno la percentuale del debito rispetto al Pil sale: 121% nel 2011, 123 nel 2012, 129 nel 2013, 132,7 nel 2015. Lo stimolo della Banca Centrale Europea svanirà prima che l’Italia riuscirà a uscire dalla stagnazione e il Fondo Monetario Internazionale, infatti, prevede una crescita di appena l’1% quest’anno. La finestra globale si sta chiudendo». Per il giornalista, «c’e’ il rischio concreto che Matteo Renzi arrivi alla conclusione che l’unico modo per restare al potere sia presentarsi alle prossime elezioni con una piattaforma apertamente anti-euro». Attenzione: un recente sondaggio di Ipsos Mori rivela che il 48% degli italiani voterebbe contro l’Ue o contro l’euro, se ne avesse l’opportunità.
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Da Regeni all’Airbus: demolire l’Egitto che si oppone all’Isis
Cade nell’Egeo il volo Parigi-Cairo, ma il primo missile lanciato contro l’Egitto si chiamava Giulio Regeni: «Sprovveduto frequentatore di ambienti dello spionaggio e della provocazione angloamericana, non si è reso conto fino a che punto quegli ambienti ti possono trasformare da amico del giaguaro in utile idiota, utilizzandoti nel primo ruolo e sacrificandoti nel secondo». E così, scrive Fulvio Grimaldi, Regeni è diventato il trampolino da cui far piombare sull’Egitto un uragano di anatemi tale da renderlo definitivamente infrequentabile. «Metrojet russo, Egypt Air, Regeni, più un paesaggio egiziano percosso da folgori e schianti fatti in casa da coloro cui è stato detto che, più sconquassano e massacrano, più li si favorirà a tornare al potere nell’ultimo Stato nazionale arabo (insieme all’Algeria) non frantumato, o ridotto all’obbedienza neocolonialista e neoliberista». Risultato: il turismo che dal 20% delle entrate scende a zero e sprofonda il paese in una catastrofe economico-sociale da cui si calcola potrà sognare di risollevarsi unicamente vendendosi.Con l’abbattimento dell’aereo russo s’è già persa una bella quota di quel 20%, continua Grimaldi sul blog “Mondo Cane”. «Extra bonus, uomo avvisato mezzo salvato, con riferimento a Putin e Al Sisi che al Cairo avevano firmato ampi accordi commerciali, militari e di investimenti». Della “bomba a grappolo Regeni”, «tutti si ostinano a ignorare il torbido romanzo di formazione negli Usa dell’intelligence e l’approdo alla società di spionaggio Oxford Analytica, diretta da tre specialisti del terrorismo su vasta scala: Mc Coll, già capo dei servizi britannici, David Young, ex-galeotto per il complotto Watergate e John Negroponte, sterminatore di civili in Centroamerica e Iraq con i suoi squadroni della morte. Le ricadute dell’ordigno umano sono state un’altra fetta di turismo andata e, soprattutto, un gigantesco business Italia-Eni-Egitto, attorno al più grande giacimento di gas del Mediterraneo, messo a repentaglio, forse definitivamente».Addio gas all’Italia e alla Francia. «Diversamente dall’orrido Tap (Trans Adriatic Pipeline) imposto da Shell, Obama e Renzi, che devasterà le coste del Salento e degraderà la Puglia in hub energetico europeo, ma che parte dall’amerikano e filo-Erdogan Azerbaijan (ultimamente meritevole anche per l’aggressione al filo-russo Nagorno), quel gas egiziano, insieme all’altro arabo dall’Algeria, pure malvisto, ci avrebbe dato un sacco di soddisfazioni energetiche senza deturpare nulla, ma anche senza mano Usa sul rubinetto». Sicché, «dopo aver spento la musica al valzer Egitto-Italia, era arrivato in sala da ballo il castigamatti dell’Africa francofona, il restauratore della mai dimenticata FranceAfrique in Costa d’Avorio, Mali, Niger, Ciad, Rca e giù giù fino al Gabon e oltre. Ma se al clown da circo dell’orrore, Hollande, il diversivo neocolonialista dai disastri nella metropoli poteva essere consentito nella FranceAfrique (dopottutto si muoveva anche nel nome della Nato), il suo precipitarsi in Egitto a concordare con Al Sisi la sostituzione del partner francese a quello italiano costituiva invasione di campo».Intollerabile, l’attivismo francese in Egitto, per gli anglosassoni, «inventori e poi padrini dei Fratelli Musulmani e dei loro apprendisti stregoni Daish». Quanto al Cairo, il problema si chiama Abdel Fatah Al Sisi, il generale che sfrattò Mohamed Morsi su richiesta di 33 milioni di egiziani, dopo la rivoluzione del 2011 che aveva insediato i Fratelli Musulmani. Una rivolta «infiltrata e manipolata dai soliti esperti di “regime change” statunitensi perchè fingesse un superamento della dittatura di Mubaraq attraverso un regime di musulmani “moderati”». Alle presidenziali votò il 35% degli aventi diritto e solo il 17% si espresse per Morsi. «Vibranti furono le congratulazioni di Washington. L’intera amministrazione dello Stato fu occupata dai Fm. Gli assassini del presidente Sadat furono ricevuti da Morsi e messi a capo del Consiglio dei Diritti Umani. L’autore del famoso massacro di Luxor fu nominato governatore di quella provincia. Seguirono gli arresti degli oppositori laici di Mubaraq e i pogrom anticristiani. Tutte le maggiori imprese dello Stato vennero privatizzate e fu annunciata la possibile vendita del Canale di Suez al Qatar, una specie di Vaticano dei Fm, sponsor dell’Isis».Morsi, continua Grimaldi, inviò una delegazione ufficiale dal capo dell’Isis, Al Baghdadi, e ordinò alle forze armate di essere pronte ad attaccare la Siria, cosa che suscitò vivissime reazioni contrarie tra i militari. Morsi rimediò inviando “volontari” a supporto dei jihadisti. Questi e altri provvedimenti innescarono quella che sarebbe stata la più grande manifestazione di massa contro un presidente egiziano. I Fratelli Musulmani reagirono con le armi e per un mese si succedettero scontri sanguinosi. Il Qatar e la Turchia di Erdogan furono i primi a denunciare il “colpo di Stato”. La guerra civile fu evitata grazie alle elezioni, boicottate dagli islamisti, e in cui Al Sisi riportò il 96% dei voti. «Da quel momento inizia la campagna degli attentati terroristici. I media occidentali parlano di arresti e condanne di oppositori. Quasi sempre si tratta di Fm responsabili degli attentati con centinaia di vittime».Chi è Abdel Fatah Al Sisi? A dispetto del terrorismo islamista, con Al Sisi l’Egitto conosce una certa pace sociale: vengono liberati prigionieri politici e ricostruite le chiese copte bruciate. Ma l’economia è a pezzi, l’ostilità dell’Occidente e del Qatar provoca isolamento. «Tanto più che il Cairo si propone come autorevole mediatore nel conflitto libico e come forza effettivamente capace di debellare, con il legittimo governo di Tobruk (che aveva vinto le elezioni ed era aperto ai gheddafiani) e il generale Haftar, i mercenari Isis spediti dalla Turchia, beneaccetti dai Fratelli di Tripoli e dai tagliatori di teste di Misurata e finanziati dal Qatar. Solito pretesto per l’intervento Nato». E non è tutto: «Con l’aiuto della Cina, imperdonabile, l’Egitto raddoppia la capacità del Canale di Suez e quindi le entrare che ne derivano. Dovrebbe essere un segmento cruciale della nuova temutissima Via della Seta e dell’interscambio tra Africa e Cina. Nell’estate del 2015 l’Eni rivela la scoperta dell’enorme giacimento di gas e di altri idrocarburi nell’area marina di Zohr, che permetterebbe al Cairo di ricavarne l’equivalente di 5,5 miliardi di barili di petrolio.Anche per questo, contemporaneamente, dilaga il terrorismo dei Fratelli Musulmani: vengono uccisi il procuratore generale della Repubblica e altri alti funzionari e magistrati. Ne segue un’ondata di arresti che fa gridare in Occidente alla brutale repressione del nuovo Pinochet. Mohammed Hassanein Heikal, il più brillante e cosmopolita giornalista egiziano, già portavoce di Nasser e direttore del primo quotidiano egiziano, “Al Ahram”, sollecita Al Sisi a denunciare la macelleria saudita nello Yemen (e difatti le truppe egiziane verranno ritirate), di sostenere la resistenza del presidente siriano Assad e di cercare un riavvicinamento con l’Iran. «A 87 anni, Heikal, che anni fa avevo intervistato per il “Nouvel Observateur” scoprendovi uno dei più colti e appassionati intellettuali arabi incontrati in mezzo secolo, muore», racconta Grimaldi, «prima che Al Sisi possa portare avanti quel discorso».Nella notte dall’11 al 12 aprile, si viene a sapere che l’Egitto ha ceduto due isolotti nel Mar Rosso all’Arabia Saudita. Nelle stesse ore re Salman è al Cairo e annuncia investimenti per 25 miliardi di dollari. Sulle due isole, Tiran e Sanafir, si dovrebbe posare il grande ponte che, nei progetti sauditi ed egiziani, unirebbe le due coste del Golfo di Aqaba. Intanto gli Usa offrono rinnovate forniture d’armi. «Se non si riesce a far tornare Morsi, meglio provare a non lasciare campo aperto a russi, italiani, francesi, cinesi». La cessione delle isole provoca una serie di manifestazioni di protesta dei nazionalisti egiziani che si chiedono dove Al Sisi stia andando, tra Russia, Cina, Usa, Libia e Arabia Saudita. «La risposta sta nelle condizioni economiche in cui l’Egitto è stato ridotto da una guerra economica, terroristica e mediatica, partita appena il nuovo presidente è arrivato al potere e si è dichiarato ispirato da Nasser. La sua pare la mossa della disperazione prima che la società egiziana precipiti nel baratro e della nazione araba non rimangano che brandelli, spettri alitanti tra le rovine di Aleppo, nella polvere dell’ultima bomba Isis a Baghdad, tra le immagini di Gheddafi sepolte in cassetti segreti di case che non dimenticano».E mentre gli altri megafoni della demonizzazione dell’Egitto e del suo “Pinochet” si stavano acquietando, anche di fronte all’evidenza del carattere “schiumogeno” che le accuse contro gli inquirenti sul caso Regeni stavano rivelando, insieme alla «ambigua identità del giovanotto, rilevata da molta stampa estera», il “Manifesto” «accentuava il suo bombardamento di contumelie, congetture, illazioni, accuse senza fondamento», denuncia Grimaldi. «Personaggi da assegnare alle categorie degli utili idioti o degli amici del giaguaro, a seconda della percezione di ognuno, tra i quali un magistrato disertore e fallito politico come Ingroia, il compare di Sofri Manconi, vari dirittoumanisti di complemento, cantanti, nani e ballerine, invocavano sull’Egitto di Al Sisi i fulmini di Giove, Marte, Saturno, Urano, Diopadre, sanzioni, embargo, interventi Onu, magari, sotto sotto, bombe alla libica. Neanche uno di questa compagnia di giro cripto-Nato che si fosse chiesto cosa cazzo ci facesse Regeni con criminali come Young, Negroponte e McColl», conclude Grimaldi. «Non è solo malafede. E’ complicità con chi usa altri mezzi per distruggere l’Egitto. Complicità, in ogni caso, con chi è comunque peggio di Al Sisi».Cade nell’Egeo il volo Parigi-Cairo, ma il primo missile lanciato contro l’Egitto si chiamava Giulio Regeni: «Sprovveduto frequentatore di ambienti dello spionaggio e della provocazione angloamericana, non si è reso conto fino a che punto quegli ambienti ti possono trasformare da amico del giaguaro in utile idiota, utilizzandoti nel primo ruolo e sacrificandoti nel secondo». E così, scrive Fulvio Grimaldi, Regeni è diventato il trampolino da cui far piombare sull’Egitto un uragano di anatemi tale da renderlo definitivamente infrequentabile. «Metrojet russo, Egypt Air, Regeni, più un paesaggio egiziano percosso da folgori e schianti fatti in casa da coloro cui è stato detto che, più sconquassano e massacrano, più li si favorirà a tornare al potere nell’ultimo Stato nazionale arabo (insieme all’Algeria) non frantumato, o ridotto all’obbedienza neocolonialista e neoliberista». Risultato: il turismo che dal 20% delle entrate scende a zero e sprofonda il paese in una catastrofe economico-sociale da cui si calcola potrà sognare di risollevarsi unicamente vendendosi.
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Uccido bambini e progetto attentati, nel nome di Ishmael
L’omicidio rituale di un bambino precede sempre l’ammazzamento eccellente: lo anticipa, come un oscuro presagio. Prima, c’è il ritrovamento del piccolo ucciso. Poche ore dopo, ecco l’attentato. E gli inquirenti onesti, quelli che intuiscono la verità, vengono depistati e poi, sabotati, rimossi, liquidati. «Bravo, vedo che ha capito come funziona, quel sistema». Parola di Francesco Cossiga. All’altro capo del telefono, lo sbigottito Giuseppe Genna, autentico talento letterario, autore del thriller politico “Nel nome di Ishmael”. Un libro sconvolgente. Uscì nel 2001, ma sembra scritto ieri, anzi oggi, in quest’Europa tramortita dal terrorismo opaco firmato Isis, dietro cui si nascondono “menti raffinatissime”, con propensione a “firmare” le loro stragi secondo precisi codici esoterici, come nel caso delle mattanze di Parigi e Bruxelles, ispirate alle date cruciali dell’epopea dei Templari, fondamentale nel pantheon massonico. Tutto questo, in un mondo dal quale spariscono misteriosamente, ogni anno, migliaia di bambini. Un abisso di orrore, che collega terrorismo e potere, servizi segreti e super-élite, logge e sètte, geopolitica e oscure pratiche, basate sul valore magico attribuito ai sacrifici umani, a partire da quelli dei bambini.L’infanticidio? Simboleggia morte e rinascita. Chi progetta un attentato, se ne “propizia” il successo alla vigilia, massacrando un neonato nel modo più atroce. E’ la legge di Ishmael, la piovra da incubo che il libro di Genna disvela, pagina dopo pagina. La trama è quella – potente, incalzante – del noir, giocato in modo perfetto sulla storia parallela di due poliziotti italiani, a quarant’anni di distanza l’uno dall’altro. Il primo è l’ispettore David Montorsi, che scopre un minuscolo cadavere in un campo da rubgy alla periferia di Milano poco prima che, nei cieli dell’Oltrepo Pavese, esploda in volo l’areo di Enrico Mattei, il patron dell’Eni: l’uomo che, da ex partigiano, aveva osato sfidare l’America, in piena guerra fredda. Il secondo è un altro detective della questura milanese, Guido Lopez, impegnato a proteggere l’anziano Kissinger al forum di Cernobbio, poco dopo aver scoperto – nello stesso campo da rugby – il cadavere di un altro minore, spaventosamente seviziato.Proprio tra i vip planetari convenuti per Cernobbio, Genna fotografa un’epoca: «Bush e Gorbaciov, gli eroi del disgelo. Quello che era successo da dieci anni dipendeva da loro. Muro di Berlino, crollo della Russia, riforma dell’economia mondiale. Erano stati loro. Dopo di loro sarebbe stato l’impero del male: l’impero di Ishmael». Il libro di Genna è stato scritto prima ancora del G8 di Genova e dell’11 Settembre, i due eventi-chiave che hanno aperto il baratro della crisi, con la “guerra infinita” in mezzo mondo, la catastrofe finanziaria e il manifestarsi dell’élite neo-feudale globalizzata che ha raso al suolo quarant’anni di diritti sociali, in Occidente. Tredici anni dopo il thriller “Ishmael”, nel monumentale saggio “Massoni”, Gioele Magaldi rivela che lo stesso Gorbaciov fu affiliato alla superloggia segreta “Golden Eurasia”, mentre Bush padre aveva fondato la “Hathor Pentalpha”, definita “loggia del sangue e della vendetta”, molto più estremista (e feroce) della storica “Three Eyes”, ispiratrice dell’ultra-destra economica anglosassone, per decenni dominata da uno dei personaggi centrali del libro di Genna, Henry Kissinger.I grandi globalizzatori? Anche spietati, certo. Ma non solo: attorno a loro, aggiunge Genna, c’è una nebulosa inquietante, profonda e buia, che caratterizza il Dna dei loro “mandanti” più reconditi, i veri “invisibili”, i super-potenti, quelli che restano al loro posto anche quando i loro politici sono tramontati. Il volto oscuro dell’élite: qualcosa di barbarico, anche. Una “chiesa” di dominatori sanguinari che – all’occorrenza – si procurano bambini da “sacrificare”. «Veramente profetico, Genna, per ammissione dello stesso Cossiga», racconta l’ex avvocato Paolo Franceschetti, indagatore dei peggiori misteri irrisolti della cronaca italiana, dal Mostro di Firenze alle Bestie di Satana fino alla strana uccisione del piccolo Samuele Lorenzi a Cogne. Un intreccio di poteri occulti, istituzioni infedeli e servizi deviati, attorno a cui fioriscono rituali magici e codici simbolici attorno a crimini che sembrano assurdi, senza un movente.E’ l’inferno che Genna chiama, semplicemente, “Ishmael”. Nel romanzo lo descrive come un vero e proprio cancro, inoculato dall’élite-ombra statunitense al tempo della sfida con l’Urss, scegliendo proprio l’Italia come fronte strategico da cui poi ingabbiare l’intera Europa. Per questo è così decisivo l’attentato a Mattei, fatto passare per incidente aereo. E sono pagine di altissima intensità quelle che Genna dedica al grande leader del riscatto italiano del dopoguerra. «Sappiamo di esserci, ma non ci siamo, a tutti gli effetti. L’Italia è questo qualcosa oltre il corpo e la mente, e la guerra che lui sta facendo è la costruzione di una salvezza», per proteggere il paese dal «regno arido, sormontato da potenze e da angeli oscuri», che è a tutti gli effetti l’America. «Bisogna salvare l’uomo, poiché l’uomo è pronto a divenire un americano e l’americano è pronto ad annullarsi. Annullata l’America, sarà annullata l’umanità. L’Italia, perciò, è l’idea della salvezza che è presente qui e sempre, ora, tra uomo e uomo, tra l’uomo e l’America».Contro questa salvezza combatte “Ishmael”, facendo esplodere l’aereo del ribelle italiano, il condottiero spericolato e sognatore. Ma poi, la piovra – che si insinua fin dentro le questure e la magistratura del Belpaese, sotto l’occhiuta regia di autentici mostri di cinismo come Kissinger – pian piano sfugge al controllo dei suoi stessi creatori fino a metterli in pericolo, verso l’instaurazione totalitaria del “tempo di Ishmael”, la nuova epoca – questa – in cui non ci sarà più alcuna certezza, cadranno leggi e autorità, tutto il pianeta sarà preda di un’oligarchia potentissima e invisibile, inafferrabile, sempre pronta – all’occorrenza – a usare il terrorismo e l’omicidio, spesso facendo precedere gli attentati da agghiaccianti ritrovamenti di bambini rapiti dai pedofili, quindi abusati e martoriati dai neo-satanisti dell’élite-fantasma.Una sequenza di morte, invariabilmente preceduta dal macabro rinvenimento della baby-vittima sacrificale. Nella “cronologia delle operazioni della rete Ishmael”, nell’appendice della fiction di Genna, trovano posto industriali, banchieri e tanti politici, uccisi o sfiorati dalla morte: il tedesco Adenauer e lo stesso De Gaulle, lo spagnolo Luis Carrero Blanco, e naturalmente Aldo Moro. Ci sono due Papi: Albino Luciani, morto, e Karol Wojtyla, ferito. E poi Roberto Calvi, Olof Palme, il craxiano Gabriele Cagliari. E ministri francesi, finanzieri di Stato tedeschi, la stessa Lady Diana. Cronometrico, nelle ore precedenti, il ritrovamento – non lontano – di un piccolo, a volte un neonato, ferocemente “sacrificato”. E’ la legge di Ishmael, scriveva Genna, quando ancora non era comparso un nome tanto simile, così ingannevolmente mediorientale: Isis.(Il libro: Giuseppe Genna, “Nel nome di Ishmael”, Mondadori, 486 pagine, euro 10,50).L’omicidio rituale di un bambino precede sempre l’ammazzamento eccellente: lo anticipa, come un oscuro presagio. Prima, c’è il ritrovamento del piccolo ucciso. Poche ore dopo, ecco l’attentato. E gli inquirenti onesti, quelli che intuiscono la verità, vengono depistati e poi sabotati, rimossi, liquidati. «Bravo, vedo che ha capito come funziona, quel sistema». Parola di Francesco Cossiga. All’altro capo del telefono, lo sbigottito Giuseppe Genna, autentico talento letterario, autore del thriller politico “Nel nome di Ishmael”. Un libro sconvolgente. Uscì nel 2001, ma sembra scritto ieri, anzi oggi, in quest’Europa tramortita dal terrorismo opaco firmato Isis, dietro cui si nascondono “menti raffinatissime”, con propensione a “firmare” le loro stragi secondo precisi codici esoterici, come nel caso delle mattanze di Parigi e Bruxelles, ispirate alle date cruciali dell’epopea dei Templari, fondamentale nel pantheon massonico. Tutto questo, in un mondo dal quale spariscono misteriosamente, ogni anno, migliaia di bambini. Un abisso di orrore, che collega terrorismo e potere, servizi segreti e super-élite, logge e sètte, geopolitica e oscure pratiche, basate sul valore magico attribuito ai sacrifici umani, a partire da quelli dei bambini.
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Inferno di fuoco nel Canada devastato dalle trivellazioni
Fort Mc Murray, Canada. L’epicentro delle estrazioni di bitume del paese. La capitale delle Tar Sands dello stato dell’Alberta. La località con maggiore concentrazione di raffinerie e di impianti emissivi di CO2. Fort Mc Murray è vittima del suo stesso trivellare. La città è infatti sommersa da fiamme devastanti che hanno lasciato dietro ceneri, devastazione e paura, dovute principalmente ai cambiamenti climatici. È il cerchio che si chiude. In questo inizio di maggio 2016 a Fort Mc Murray le temperature sono più elevate del normale, la vegetazione è secca, non piove da tanto, e così il numero di incendi aumenta a dismisura. Sono 330 per quest’anno, il doppio del normale. In più, la stagione calda in cui aspettarsi incendi si è allungata di molto, dal 1° maggio di ogni anno, come era nel 1979, al 1° marzo, come è stato quest’anno. Già nel 2015 ci fu una lunga e inaspettata siccità. Lo Stato dovette dichiarare lo stato di “emergenza agricola” perché mancava l’acqua per le irrigazioni.Anche l’inverno in Alberta è stato caldo come non mai, con basse precipitazioni nevose. Al tutto va ad aggiungersi la perturbazione El Nino che ha accentuato l’aridità. Ai primi di maggio la temperatura è stata anche di 33 gradi centigradi, mentre in media è di 14 gradi centigradi. Il professor Mike Flannigan, dell’Università dell’Alberta, conferma che in larga parte gli incendi sono dovuti ai cambiamenti climatici. «This is consistent with what we expect from human-caused climate change affecting our fire regime», ha detto. E non sono falò di poca durata, è una settimana e più che la situazione è fuori controllo. La città di Fort McMurray ha quasi 90.000 abitanti, una superficie di circa 850 chilometri quadrati ed è stata interamente evacutata. La maggior parte dei residenti ha trovato riparo ad Edmonton, la capitale dello stato. Le fiamme si sono propagate in fretta e la gente non ha avuto il tempo di prepararsi per abbandonare la città.A un certo punto anche l’autostrada era avvolta da fiammate, giunte anche ad ottanta metri di altezza. Alcune persone sono state portate via in elicottero. Si teme adesso che le fiamme possano anche arrivare all’infrastruttura petrolifera alla periferita della città. Intanto sono andate distrutte 1.600 case. Interi quartieri sono stati rasi al suolo. La foresta arde. Il cielo è arancione, nero, grigio. Non più azzurro. L’aeroporto è stato messo in salvo solo grazie a una massiccia presenza di vigili del fuoco. Il fuoco ha divorato più di mille chilometri quadrati. I residenti parlano di scene di guerra. Le autorità sanno però che senza l’aiuto di madre natura, le fiamme saranno inarrestabili: semplicemente l’estensione territoriale dell’incendio è troppo grande e i venti troppo forti. Le fiamme continuano a mangiare tutto ciò che trovano, anzi sono riuscite a saltare fiumi, strade e altre barriere. Se non arriva la pioggia ci sarà ben poco da fare: i centocinquanta elicotteri e velivoli usati finora sono assolutamente insufficienti.Non piove da due mesi a Fort Mc Murray. Secondo le autorità ci vorranno mesi per completamente estinguere il fuoco. Intanto la Nasa parla di un marzo 2016 di caldo record, dopo un 2014, un 2015 e un gennaio e febbraio 2016 da caldo record. Che dire. È evidente che è tutto parte della stessa narrativa. Quello che succede a Fort Mc Murray è soltanto l’antipasto di quello che ci aspetta: eventi naturali che diventano estremi a causa dei cambiamenti climatici dovuti principalmente all’uso di fonti fossili. In questo caso sono incendi, ma sono stati e saranno uragani, allagamenti, piogge torrenziali, scioglimenti di ghiacciai. È la natura che segue le sue leggi. Noi le diamo le condizioni iniziali, lei fa quello che deve fare. È solo che qui è ironico perché questa devastazione accade proprio nel cuore del problema: nella culla del petrolio canadese.(Maria Rita D’Orsogna, “L’inferno di Fort Mc Murray”, da “Comune-Info” del 10 maggio 2016).Fort Mc Murray, Canada. L’epicentro delle estrazioni di bitume del paese. La capitale delle Tar Sands dello stato dell’Alberta. La località con maggiore concentrazione di raffinerie e di impianti emissivi di CO2. Fort Mc Murray è vittima del suo stesso trivellare. La città è infatti sommersa da fiamme devastanti che hanno lasciato dietro ceneri, devastazione e paura, dovute principalmente ai cambiamenti climatici. È il cerchio che si chiude. In questo inizio di maggio 2016 a Fort Mc Murray le temperature sono più elevate del normale, la vegetazione è secca, non piove da tanto, e così il numero di incendi aumenta a dismisura. Sono 330 per quest’anno, il doppio del normale. In più, la stagione calda in cui aspettarsi incendi si è allungata di molto, dal 1° maggio di ogni anno, come era nel 1979, al 1° marzo, come è stato quest’anno. Già nel 2015 ci fu una lunga e inaspettata siccità. Lo Stato dovette dichiarare lo stato di “emergenza agricola” perché mancava l’acqua per le irrigazioni.
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Democratizzare l’Ue? Idea morta col tradimento di Tsipras
In Austria il “Partito della libertà” (Fpo) ha ottenuto uno strepitoso risultato elettorale. Il suo candidato per la carica di Presidente Norbert Hofer ha raccolto il 35,1% dei suffragi, staccando di gran lunga gli sciapi candidati proposti dai partiti etero-diretti dal politburo di Bruxelles, popolari e socialisti in testa. Al ballottaggio il candidato del partito che fu di Jorg Haider dovrà vedersela con il verde Alexander Van der Bellen, fermo al 21,3% dei consensi. E’ molto probabile che il prossimo presidente austriaco sia quindi un acceso nemico dei nazisti tecnocratici che ora devastano il Vecchio Continente secondo le linee dettate dal duo Obama-Merkel. L’Austria è l’ennesima nazione nella quale i cittadini esprimono democraticamente e nelle urne sdegno e indignazione per le pietose condizioni nelle quali versa l’Europa, tenuta in ostaggio da una masnada di impuniti e terrificanti personaggi sprovvisti di qualsivoglia legittimazione dal basso. Ogni volta i pifferai al servizio del sistema ricorrono alle stesse logore immagini per demonizzare l’avanzata dei partiti non funzionali al rafforzamento della dittatura in atto, sempre diffamati e attaccati in automatico poiché presuntivamente “xenofobi e populisti”.Da Farage in Inghilterra a Marine Le Pen in Francia, da Iglesias in Spagna a Kaczinski in Polonia, da Tsipras in Grecia alla coppia Salvini/Grillo in Italia, dovunque si voti la musica non cambia: o vincono i servi di Mario Draghi (orwellianamente “moderati” e “responsabili”), o i giornali di regime cominciano a lanciare in tutte le lingue del mondo strali contro “l’avanzare del populismo”. Si tratta di un disco che, oggettivamente, ha stancato alquanto. Come avevamo previsto con un certo anticipo, la piroetta con la quale Tsipras si è infine piegato agli ordini piovuti dall’alto ha ucciso nella culla la possibilità di salvare l’Europa “da sinistra”. Alla prova dei fatti le “sinistre alternative”, incapaci di mettere in discussione la moneta unica, finiscono con il legittimare la prosecuzione della status quo. Cosa è cambiato con “Syriza” al potere? Nulla. Rigore, austerità e privatizzazioni continuano a farla da padroni, mentre le condizioni di vita della povera gente diventano di giorno in giorno più drammatiche.Di fronte ad una evidenza tanto tragica, tutti quelli che non intendono rassegnarsi a vivere per sempre sotto il tallone di un manipolo di burocrati autoreferenziali al servizio del binomio Alta Loggia/Alta Finanza, non possono far altro che guardare a quelle forze che offrono il grimaldello della “difesa dell’identità” per smontare il mostro luciferino e mondialista ora dominante. L’avanzare di partiti di “estrema destra”, così bollati da un mainstream servile e senza fantasia, sono diretta conseguenza di due certezze oramai metabolizzate da una fetta rilevante di opinione pubblica continentale: 1) la Ue attuale è una dittatura feroce di stampo tecnonazista; 2) le forze di sinistra “alternativa” non sono in grado di liberare i popoli dalla schiavitù dell’euro. Cosa faranno “gli occulti manovratori” per contenere questa nuova marea montante? Proveranno a metterci il cappello sopra. Fino a quando sarà possibile gestire i diversi parlamenti nazionali architettando da nord a sud governi di “grande coalizione”, le forze cosiddette “antisistema” continueranno ad essere mediaticamente demonizzate e bastonate; quando i “padroni del vapore” si accorgeranno però di avere finito le cartucce di carta, ovvero quando capiranno che la propaganda, per quanto incessante, produce infine risultati perfino controproducenti, avrà allora inizio il piano B.E cosa prevede il piano B? Prevede la “normalizzazione” di quelle stesse realtà prima violentemente colpite, da dipingere ora come “finalmente incanalate sulla via della maturità politica e della responsabilità, qualità indispensabili per aspirare al governo del Paese”. Che tradotto significa: obbedite pure voi come obbedivano i burattini di prima, divenuti inservibili e perciò scaricati, e così vedrete che tutti ne trarremo gli opportuni vantaggi. Questo tipo di tattica, in Italia, è già partita. Avete notato come i media controllati dai “soliti noti” comincino a veicolare una immagine rassicurante di Luigi Di Maio, già incoronato a reti unificate come sicuro candidato premier del Movimento 5 Stelle? E avete notato come il “Corriere della Sera” di oggi, a pagina 4, definisca “pacato” Norbert Hofer, probabile presidente dell’Austria che verrà? “Pacato” somiglia molto a “moderato”, termiche che nella neolingua usata dai “maghi neri” nascosti nella cabina di comando rappresenta il non plus ultra dell’affidabilità. “Se non puoi batterli, fatteli amici”, recita un vecchio adagio. Questo schema, se applicato con successo, contempla un solo sconfitto: il popolo, da ingannare sempre e comunque senza soluzione di continuità.Se la memoria avesse un valore, i nuovi politici rampanti scanserebbero come veleno le lusinghe di quelli che prima li calunniavano; così come gli stagionati politicanti, mollati poi come vecchie calzette per fare spazio a più verdi maggiordomi, coltiverebbero un sano senso di rivalsa da indirizzare contro gli inamovibili burattinai anziché puntare il dito nei confronti dei nuovi burattini. Semmai dovesse accadere una cosa del genere – semmai cioè si saldassero le ragioni di vecchie e nuove classi dirigenti allo scopo di respingere gli assalti dei soliti perfidi manipolatori – la politica tornerebbe ad esercitare quel primato che le spetta, lasciando per una volta con le pive nel sacco i plutocrati che, gestendo “gli opposti” con metodo e costanza, restano sempre a galla.(Francesco Maria Toscano, “L’idea di democratizzare l’Europa è morta con il tradimento di Tsipras, passa per la riscoperta delle singole identità nazionali la sconfitta dei tecno-nazisti di Bruxelles?”, dal blog “Il Moralista” del 26 aprile 2016).In Austria il “Partito della libertà” (Fpo) ha ottenuto uno strepitoso risultato elettorale. Il suo candidato per la carica di presidente Norbert Hofer ha raccolto il 35,1% dei suffragi, staccando di gran lunga gli sciapi candidati proposti dai partiti etero-diretti dal politburo di Bruxelles, popolari e socialisti in testa. Al ballottaggio il candidato del partito che fu di Jorg Haider dovrà vedersela con il verde Alexander Van der Bellen, fermo al 21,3% dei consensi. E’ molto probabile che il prossimo presidente austriaco sia quindi un acceso nemico dei nazisti tecnocratici che ora devastano il Vecchio Continente secondo le linee dettate dal duo Obama-Merkel. L’Austria è l’ennesima nazione nella quale i cittadini esprimono democraticamente e nelle urne sdegno e indignazione per le pietose condizioni nelle quali versa l’Europa, tenuta in ostaggio da una masnada di impuniti e terrificanti personaggi sprovvisti di qualsivoglia legittimazione dal basso. Ogni volta i pifferai al servizio del sistema ricorrono alle stesse logore immagini per demonizzare l’avanzata dei partiti non funzionali al rafforzamento della dittatura in atto, sempre diffamati e attaccati in automatico poiché presuntivamente “xenofobi e populisti”.