Archivio del Tag ‘capitalismo’
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Nuovo disordine mondiale, nei Brics torna lo Stato-azienda
La crisi non è solo finanziaria e coinvolge anche aspetti politici, sociali e militari in un gioco di rimandi continuo. Dunque, la sua soluzione non può prescindere dall’esame anche degli aspetti non strettamente finanziari, per capire cosa stiamo rischiando. La globalizzazione, in atto da un trentennio, associa strettamente gli sviluppi tecnologici ai progetti politici di un nuovo ordine mondiale. Tutto ciò è caratterizzato da una straordinaria velocità che modifica lo sviluppo delle dinamiche sociali, politiche, economiche, producendo interdipendenze molto più complesse del passato, al punto che c’è chi si spinge a parlare di “ipercomplessità”. La globalizzazione è stata proposta come l’estensione a tutto il mondo della modernizzazione. Una benefico tsunami che aumenta la ricchezza, produce convergenza economica, elimina l’arretratezza, spazza via dittature e diffonde democrazia e benessere. Il mondo occidentale ha costruito la sua identità recente intorno alla categoria di “modernizzazione” ed ha giustificato la sua proiezione espansionista con il compito di espandere la civiltà moderna in tutto il mondo.Questa stessa radice troviamo nel “progetto globalizzazione”, naturale sviluppo della modernizzazione, discorso esplicitato in particolare da Francis Fukuyama, la cui opera è il manifesto ideologico di quel progetto. Per Fukuyama, il modello sociale occidentale era il punto di arrivo non migliorabile cui la storia tende. Ne deriva, quindi, una visione del resto del mondo come “Occidente imperfetto” in via di rapida assimilazione al suo modello. Se quello di Fukuyama era il manifesto ideologico, Samuel Huntington ha scritto il manifesto politico di quel progetto. Con maggiore realismo, egli sostiene che modernizzazione non significa occidentalizzazione e che gli equilibri di potenza stanno mutando. Pertanto, sta emergendo un ordine mondiale fondato sul concetto di civiltà e la pretesa occidentale di rappresentare valori universali è destinata a scontrarsi con l’Islam e la Cina. La sopravvivenza dell’egemonia occidentale dipende dalla capacità degli occidentali di accettare la propria civiltà come qualcosa di peculiare ma non universale e di unirsi per rinnovarla e proteggerla dalle sfide degli altri.Dove Fukuyama sognava un mondo uniformato in un’unica grande democrazia liberal-capitalistica, Huntington pensa ad un mondo ancora diviso in modelli culturali diversi ed antagonistici, ma sotto la salda direzione imperiale americana. C’è un terzo manifesto, di natura economica, che riassume il progetto della globalizzazione: il cosiddetto Washington Consensus. L’espressione, formulata nel 1989 da John Williamson, definisce 10 direttive di politica economica destinate ai paesi in stato di crisi, e che costituiscono un pacchetto di riforme “standard” indicate dal Fmi e dalla Banca Mondiale (entrambi hanno sede a Washington): politica fiscale finalizzata al pareggio di bilancio, riaggiustamento della spesa pubblica, riforma del sistema tributario, adozione di tassi di interesse reali (cioè al netto dell’inflazione) positivi, tassi di cambio della moneta locale determinati dal mercato, liberalizzazione del commercio e delle importazioni, liberalizzazione degli investimenti esteri, privatizzazione delle aziende statali, deregulation e tutela del diritto di proprietà privata.Questa piattaforma neoliberista venne poi in gran parte assorbita dagli accordi di Marrakech (1994) che dettero vita all’organizzazione mondiale per il commercio (Wto). La globalizzazione economica prometteva il riequilibrio delle disuguaglianze mondiali ed, attraverso questa dinamica convergente, lo sviluppo economico avrebbe assicurato l’espansione della democrazia e l’abbattimento dei regimi autocratici. Naturalmente, tutto questo avrebbe comportato un “urto” culturale, ma lo shock da globalizzazione sarebbe stato ampiamente compensato dai vantaggi. In parte le promesse della globalizzazione si sono avverate: Cina e India, ad esempio, da economie rurali ed arretrate sono diventate potenze emergenti a forte vocazione manifatturiera. Ma le cose stanno andando in modo molto diverso da quello previsto e lo skock da globalizzazione si sta rivelando molto più duro e contraddittorio. Se è vero che si sono prodotte delle convergenze, è altrettanto vero che si sono prodotte nuove asimmetrie, se è vero che i flussi finanziari, migrativi, culturali, commerciali attraversano in continuazione le frontiere in un mondo sempre più integrato, è anche vero che si sono prodotte nuove linee di faglia più profonde del passato.Inoltre, la globalizzazione non ha affatto prodotto la “fine della povertà”. Emblematico, in questo senso, il caso indiano, dove l’enorme crescita economica convive con le sacche di estrema miseria di sempre. Il capitalismo post coloniale non produce alcuna convergenza sociale fra i diversi paesi perchè, più che mai, è “capitale senza nazione”: estrae da ogni parte plusvalore che accumula in quell’U-topos che è “Riccolandia”. Soprattutto, contrariamente alle aspettative, la globalizzazione neoliberista non ha prodotto quel “nuovo ordine mondiale” cui aspirava; semmai siamo di fronte ad un “nuovo disordine mondiale”. Il mondo è più integrato dal punto di vista economico e delle comunicazioni, ma lo è di meno dal punto di vista politico. Le culture tradizionali, che si era pensato destinate a scomparire presto, hanno resistito (Huntington aveva visto più lontano di Fukuyama) e, pur subendo l’urto della penetrazione culturale dell’Occidente, hanno prodotto sintesi impreviste.Uno dei bersagli del progetto neo liberista è stato l’ordinamento westfalico basato sulla sovranità degli Stati nazione: il governo del mondo sarebbe spettato ad una fitta rete di organismi sovranazionali (dall’Onu al Wto, dal Fmi alla Bm ed alla serie di intese continentali come la Ue, il Nafta, il Mercosur ecc.), dunque, lo Stato nazionale aveva sempre meno ragion d’essere. La ritirata dello Stato dall’economia era la sanzione di questa detronizzazione. Parve che lo Stato nazionale sarebbe stato ridotto ai minimi termini per sottrazione di poteri sia verso l’alto che verso il basso e ci fu chi vide il suo completo annullamento in un nuovo “Impero”, non identificabile con nessuno degli Stati nazione esistenti. In realtà, il deperimento della sovranità nazionale non era affatto omogeneo ed universale, perchè aveva una sua rilevantissima eccezione negli Usa, monopolisti della forza a livello internazionale. Almeno sulla carta, nemmeno una alleanza di tutti gli altri Stati del mondo avrebbe avuto possibilità di vittoria contro gli Usa.Diversamente da quello che teorizzavano Negri ed Hardt, gli Usa non erano subordinati ad alcuna altra istituzione: erano superiorem non recognoscens e, pertanto, pienamente sovrani. Anzi, unico vero sovrano nel nuovo ordine imperiale. Ma nel giro di una quindicina di anni le cose sono rapidamente mutate: le sostanziali sconfitte in Iraq e Afghanistan hanno dimostrato le fragilità di un esercito che, imbattibile in campo aperto, è inadeguato in uno scontro asimmetrico; nello stesso tempo, la crisi ha obbligato prima a contenere e dopo a ridurre la spesa militare americana, mentre cresce quella asiatica (soprattutto di Cina, India, Giappone, Viet Nam, Corea ecc.). Nello stesso tempo, il deperimento degli stati nazionali non è affatto proceduto omogeneamente in tutto il mondo ed, anzi, in paesi come la Cina, la Russia, l’India, il Brasile, l’Indonesia, il Sud Africa si è registrato un rafforzamento dei rispettivi Stati. E tutto questo sta aprendo un dibattito molto fitto: se Prem Shankar Jha ritiene che gli Stati nazione stiano effettivamente deperendo, ma solo per esse sostituiti dal “caos prossimo venturo”, Robert Cooper distingue fra paesi premoderni (al limite della disintegrazione, come la Somalia), paesi moderni (i paesi emergenti che perseguono i propri interessi nazionali attraverso lo strumento statuale) e paesi “post moderni” (Ue e Giappone che rinunciano a parti della sovranità statale per adeguarsi alle dinamiche della globalizzazione neoliberista), con gli Usa in posizione critica fra la seconda e la terza opzione.Soprattutto, la grande sorpresa è stato il protagonismo economico degli stati emergenti. India, Cina e paesi arabi hanno costituito fondi sovrani assai cospicui per centinaia di miliardi di dollari, inoltre fra le dieci maggiori compagnie mondiali per ricavi, quattro sono controllate dal relativo Stato: tre cinesi (Sinopec Group, China National Petroleum Corporation, State Grid) ed una giapponese (Japan Post Holding). In Brasile le società controllate dallo Stato sono il 38%, in Russia il 62% in Cina addirittura l’80%, e “The Economist” (da cui traiamo questi dati) è giunto a chiedersi se il modello emergente non sia un nuovo “capitalismo di Stato”. Lasciamo impregiudicata la questione se quella di capitalismo di stato sia la definizione migliore o se dovremmo parlare di “neopatrimonialismo” o cercare altre definizioni più aderenti alla tradizione cinese, quel che rileva è che sta emergendo un ordine economico opposto di quello voluto da Whashington Consensus.(Aldo Giannuli, “Il nuovo disordine mondiale”, dal blog di Giannuli del 18 agosto 2015).La crisi non è solo finanziaria e coinvolge anche aspetti politici, sociali e militari in un gioco di rimandi continuo. Dunque, la sua soluzione non può prescindere dall’esame anche degli aspetti non strettamente finanziari, per capire cosa stiamo rischiando. La globalizzazione, in atto da un trentennio, associa strettamente gli sviluppi tecnologici ai progetti politici di un nuovo ordine mondiale. Tutto ciò è caratterizzato da una straordinaria velocità che modifica lo sviluppo delle dinamiche sociali, politiche, economiche, producendo interdipendenze molto più complesse del passato, al punto che c’è chi si spinge a parlare di “ipercomplessità”. La globalizzazione è stata proposta come l’estensione a tutto il mondo della modernizzazione. Una benefico tsunami che aumenta la ricchezza, produce convergenza economica, elimina l’arretratezza, spazza via dittature e diffonde democrazia e benessere. Il mondo occidentale ha costruito la sua identità recente intorno alla categoria di “modernizzazione” ed ha giustificato la sua proiezione espansionista con il compito di espandere la civiltà moderna in tutto il mondo.
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Craig Roberts: macché Cina, il disastro è tutto americano
Nel Matrix dove vivono gli americani, niente è mai colpa loro. Ad esempio, l’attuale svalutazione di borsa Usa non è dovuta ad anni di eccessive iniezioni di liquidità da parte della Federal Reserve che hanno generato una bolla così gonfiata che il valore di appena sei stock, alcuni dei quali valutati a prezzi completamente sproporzionati rispetto ai loro utili reali, contava per più di tutti i guadagni in capitalizzazione di mercato quotati nel S&P500 prima dell’ondata di svalutazione attuale. Nella nostra esistenza-Matrix la svalutazione delle borse non è dovuta alle multinazionali che reinvestono profitti, o persino ricomprano a debito, i loro stessi titoli, allo scopo di creare una domanda artificiale per le loro quote azionarie (equity share). Il declino non si deve all’ultimo rapporto mensile sugli ordini di beni durevoli su base annua che sono in caduta almeno da 6 mesi consecutivi.La svalutazione borsistica non è dovuta a una economia debole in cui una decade di presunta ripresa economica il mercato immobiliare, sia per il patrimonio esistente che per nuove costruzioni, è in diminuzione rispettivamente del 63% e del 23%, riferito ai livelli del picco di luglio 2005. La svalutazione di borsa non è dovuta al collasso della mediana dei salari reali per famiglia, e di conseguenza, al crollo della domanda interna, risultato di due decenni di rilocalizzazione offshore degli impieghi della classe media e al loro parziale rimpiazzo con impieghi “Walmart” del tipo part-time a salario minimo e senza benefit e ammortizzatori sociali i quali non danno reddito sufficiente a formare nuove famiglie. No, figuriamoci, nessuno di questi fatti è responsabile. Il colpevole del crollo delle borse Usa è la Cina.Che ha fatto la Cina? E’accusata di avere leggermente svalutato la sua moneta. E perchè mai un lieve aggiustamento nel valore di scambio dello yuan col dollaro dovrebbe causare il declino delle borse Usa ed europee? Infatti non è possibile. Ma cosa gliene importa ai media prostituiti, loro mentono per vivere. Inoltre, non è stata nemmeno una svalutazione. Quando la Cina avviò la transizione dal comunismo al capitalismo, decise di agganciare il cambio della sua valuta al dollaro americano allo scopo di dimostrare che la sua valuta era buona quanto la valuta di riserva mondiale. Nel tempo ha consentito che la sua valuta si apprezzasse rispetto al dollaro. Ad esempio, nel 2006 1 dollaro valeva 8,1 yuan cinesi. Di recente, prima della presunta svalutazione, un dollaro oscillava tra 6,1 e 6,2 yuan. Dopo l’aggiustamento del suo tasso di cambio variabile adesso uno yuan sia cambia per 6,4 dollari. Mi pare chiaro che un cambiamento del valore dello yuan da 6,1/6,2 a 6,4 per dollaro non è abbastanza a determinare un crollo nei mercati borsistici Usa ed europei.Inoltre il cambiamento del tasso in rapporto al dollaro non rappresenta un cambiamento del tasso in rapporto alle valute degli altri partner commerciali non-Usa. Ciò che è accaduto, è che la Cina ha corretto, è che come risultato delle politiche di emissione monetaria tipo quantitative easing attualmente praticate dalle banche centrali europea e giapponese il dollaro si è apprezzato rispetto ad altre valute. Dal momento che lo yuan cinese è agganciato al dollaro, la valuta cinese si è di conseguenza apprezzata rispetto a quelle dei suoi partner commerciali europei ed asiatici. L’apprezzamento della valuta cinese (dovuta all’aggancio col dollaro) non è una buona cosa per l’export cinese, specie in un periodo di difficoltà economiche diffuse. La Cina ha appena alterato il suo aggancio al dollaro per rimuovere gli effetti negativi dell’apprezzamento della sua valuta in riferimento a quelle di molti partner commerciali.Come mai la stampa finanziaria non spiega tutto ciò? La stampa finanziaria occidentale sarebbe così incompetente da non sapere questo? Sì. O piuttosto è che l’America non può mai e poi mai essere responsabile se qualcosa va storto. Chi noi? Noi siamo innocenti, sono sempre quei maledetti cinesi! Pensiamo ad esempio alle orde di rifugiati dalle invasioni americane, dai bombardamenti su sette paesi esteri diversi, che stanno invadendo l’Europa. Il massiccio spostamento di gente mosso dalle stragi di popolazioni perpetrate dall’America in sette paesi, consentite dagli stessi europei, sta causando sgomento in Europa e un revival dei partiti d’estrema destra. Oggi, per esempio, i neonazi hanno zittito la cancelliere tedesca Merkel, che cercava di fare un discorso di compassione verso i rifugiati. Ovviamente la stessa Merkel è tra i responsabili del problema rifugiati che sta destabilizzando l’Europa. Senza la Germania come Stato fantoccio degli Stati Uniti, una non-entità senza sovranità reale, un non-paese, solo un vassallo, un avamposto dell’Impero, agli ordini diretti di Washington, senza simili appoggi l’America non potrebbe condurre le guerre illegali che stanno producendo le orde di rifugiati che stanno portando al limite la capacità dell’Europa di accettare rifugiati e favorendo partiti “neo-nazi”.La stampa corrotta Usa o europea presenta il problema dei rifugiati come totalmente avulso dai crimini di guerra americani contro sette paesi. Seriamente, ma perchè mai la gente dovrebbe scappare da paesi dove l’America gli sta portando “libertà e democrazia”? Da nessuna parte nei media occidentali, eccetto qualche sito di informazione alternativa resta un grammo di integrità. I media occidentali sono un “Ministero della verità” (Orwell) che opera a tempo pieno in supporto dell’esistenza artificiale che gli occidentali vivono dentro il Matrix dove gli occidentali sussistono privi di pensiero. Considerando la loro inettitudine ed inazione, sarebbe lo stesso se la gente occidentale non esistesse affatto. Ben più che solo qualche indice di borsa colllasserà sui polli occidentali e sui loro cervelli lavati.(Paul Craig Roberts, “Wall Street e Matrix, dov’è Neo quando abbiamo bisogno di lui?”, dal sito di Craig Roberts del 26 agosto 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Nel Matrix dove vivono gli americani, niente è mai colpa loro. Ad esempio, l’attuale svalutazione di borsa Usa non è dovuta ad anni di eccessive iniezioni di liquidità da parte della Federal Reserve che hanno generato una bolla così gonfiata che il valore di appena sei stock, alcuni dei quali valutati a prezzi completamente sproporzionati rispetto ai loro utili reali, contava per più di tutti i guadagni in capitalizzazione di mercato quotati nel S&P500 prima dell’ondata di svalutazione attuale. Nella nostra esistenza-Matrix la svalutazione delle borse non è dovuta alle multinazionali che reinvestono profitti, o persino ricomprano a debito, i loro stessi titoli, allo scopo di creare una domanda artificiale per le loro quote azionarie (equity share). Il declino non si deve all’ultimo rapporto mensile sugli ordini di beni durevoli su base annua che sono in caduta almeno da 6 mesi consecutivi.
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Perché il presidente Evo Morales si fa allacciare le scarpe
Stanno girando le immagini, riprese da uno smartphone, del presidente boliviano Evo Morales che si fa allacciare le scarpe da un uomo del suo staff, mentre lui continua a parlare coi suoi collaboratori. Le immagini sono state accolte da un coro di proteste e da una ridda di pubblicità prima del filmato. Stranamente, nessuno ha protestato per le pubblicità.Ma veniamo al punto. Dunque, un rappresentante del socialismo sudamericano, che dovrebbe predicare l’uguaglianza, si fa allacciare le scarpe come un regnante del cazzo? Le polemiche sono accesissime. La realtà è che un filmato non significa niente. Possiamo solo attenerci alle immagini, le interpretazioni non sono che un contorno. Le immagini sono queste: all’arrivo in un luogo non meglio precisato, atteso da una folla festante, il presidente parla con qualcuno, poi indica una scarpa al suo accompagnatore, il quale si china prontamente ad allacciargliela. Evo continua a parlare e, prima di andare incontro alla folla, guarda se il collaboratore gli abbia allacciato bene la scarpa. Le ipotesi potrebbero essere molte e ne faccio ben 12 esempi.1) Un uomo dello staff di Evo Morales, fan accanito del presidente, vuole a tutti i costi allacciargli le scarpe; lui, per sensibilità umana, accetta, come Cristo quando gli lavano i piedi. 2) È tardi, bisogna andare subito a fare un discorso pubblico di cui Evo discute coi suoi collaboratori. Come succede per Fantozzi, quando decide di prendere il tram al volo, ogni gesto è organizzato per non perdere neanche un secondo e così, mentre lui discute, uno va a predisporre il palco, un altro gli allaccia le scarpe. 3) Evo Morales ha un tremendo mal di schiena, non può chinarsi per nessun motivo a causa di fitte lancinanti, è imbottito di arnica, perciò prega un uomo del suo staff di allacciargli le scarpe. 4) Durante il viaggio, a Evo, si sono stracciati i pantaloni all’altezza del culo. Per evitare che girino filmati in cui fa una magra figura mentre le mutande rosse fanno capolino dalle sue braghe, l’intero staff decide che il presidente non si allacci le scarpe da solo. 5) Un’antica legge boliviana, che Morales vuole cancellare, impone al presidente di non allacciarsi le scarpe in pubblico.6) Ad allacciargli le scarpe non è uno del suo staff, ma un agente dell’opposizione camuffato, il quale compie il gesto a tradimento per fargli fare una figura barbina, d’accordo col tizio che, stranamente, è appostato proprio per riprendere la scena col suo cazzo di telefonino capitalista. 7) Stessa ipotesi del punto 6), con l’aggiunta che nemmeno Evo Morales è Evo Morales, ma bensì un sosia messo lì dall’opposizione, e quello non è il suo staff, ma l’intera opposizione. Il giorno prima gli alieni hanno rapito Evo Morales e ne hanno fatto un fighetto molliccio aristocratico, per via di alcuni loro esperimenti sulle metamorfosi. 9) Non è uno del suo staff ad allacciargli le scarpe, ma un agente della Cia che, con la scusa di quel gesto non richiesto, inserisce nelle sue scarpe una microspia. 10) La mafia sta ricattando Evo, che deve pagare un pizzo mensile, ogni volta che salta un pagamento la mafia gli fa fare una figura di merda.11) Avete presente quando di uno si dice: “Non è nemmeno capace di allacciarsi le scarpe”? È un cruccio dei suoi genitori, in una recente intervista, la madre, avrebbe dichiarato: «Ho solo un rammarico: quello di non essere riuscita ad insegnargli ad allacciarsi le scarpe». D’altronde, molti uomini si fanno annodare la cravatta dalle loro mogli e non per questo sono accusati di maschilismo. 12) Si tratta di un equivoco. Evo avrebbe detto al suo collaboratore: “Hai visto, che figata di scarpe rosse da 2 dollari e mezzo?”. Il collaboratore, talmente socialista che non ci sente dall’orecchio destro, avrebbe capito: “Allacciami le scarpe, schiavo di merda, o non ti do lo stipendio” e avrebbe eseguito timoroso. Ovviamente ci sono centinaia di altre ipotesi che io non ho preso in considerazione. Ma tutta questa vicenda ha uno sviluppo almeno in Italia, infatti sono convinto che moltissimi italiani se ne catafottessero della Bolivia e non avessero la minima idea di chi cazzo fosse il presidente boliviano, ora, grazie al fatto di poterlo infamare, molti italiani hanno imparato il suo nome. Come a dire: ne insegna più l’astio che la cultura.(Natalino Balasso, “Perché Evo Morales di fa allacciare le scarpe”, dalla pagina Facebook di Balasso, post del 26 agosto 2015).Stanno girando le immagini, riprese da uno smartphone, del presidente boliviano Evo Morales che si fa allacciare le scarpe da un uomo del suo staff, mentre lui continua a parlare coi suoi collaboratori. Le immagini sono state accolte da un coro di proteste e da una ridda di pubblicità prima del filmato. Stranamente, nessuno ha protestato per le pubblicità. Ma veniamo al punto. Dunque, un rappresentante del socialismo sudamericano, che dovrebbe predicare l’uguaglianza, si fa allacciare le scarpe come un regnante del cazzo? Le polemiche sono accesissime. La realtà è che un filmato non significa niente. Possiamo solo attenerci alle immagini, le interpretazioni non sono che un contorno. Le immagini sono queste: all’arrivo in un luogo non meglio precisato, atteso da una folla festante, il presidente parla con qualcuno, poi indica una scarpa al suo accompagnatore, il quale si china prontamente ad allacciargliela. Evo continua a parlare e, prima di andare incontro alla folla, guarda se il collaboratore gli abbia allacciato bene la scarpa. Le ipotesi potrebbero essere molte e ne faccio ben 12 esempi.
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Fame e cannibalismo: così divoriamo i figli dei poveri
Nel mese di luglio 2008 si è svolto a Coney Island il campionato del mondo dei divoratori di hot dog. Il giovane statunitense Joey Chestnut ha battuto in finale il giapponese Takeru Kobayashi e ha superato tutti i precedenti record mondiali inghiottendo 66 hot dog in 12 minuti, mandando in delirio i più di 50.000 spettatori presenti in diretta all’impresa. Come premio, il campione ha ricevuto un buono di 250 dollari di acquisti in un centro commerciale e un anno intero di hot dog gratis presso la catena Nathan’s. Oggi, mentre scrivo queste righe, si celebra il campionato mondiale dei perditori di peso. Ogni secondo cinque persone si disputano la finale – un haitiano, un somalo, un ruandese, un congolese, un afgano – e i cinque ottengono la vittoria. Il premio è la morte. L’appetito di Joey Chestnut non è niente paragonato a quello che ha divorato – chiamiamoli così – René, Sohad, Randia, Sevére e Samia.Ogni 12 minuti la povertà uccide tramite la fame 3.600 tra uomini, donne e bambini in tutto il mondo. O, il che è lo stesso: per ogni 5 hot dog a Coney Island 300 essere umani muoiono di inedia in Africa. Nel 1876 il vicere dell’India, lord Lytton, organizzò a Delhi il banchetto più costoso e sontuoso della storia per festeggiare l’assunzione della regina Vittoria a Imperatrice coloniale. Per una settimana 68.000 invitati non smisero di mangiare e bere; in quella settimana, secondo i calcoli di un giornalista dell’epoca, morirono di fame 100.000 sudditi indiani nel quadro di una carestia senza precedenti che falciò almeno 30 milioni di vite e che fu provocata e aggravata dal “libero commercio” imposto dall’Inghilterra. Mentre i colonialisti inglesi mangiavano pernici e agnelli, i sopravvissuti indiani mangiavano i loro stessi figli.La fame, lo sapppiamo, dissolve tutti i legami sociali e impone il cannibalismo. Bisogna avere davvero molta fame per mangiarsi con le lacrime agli occhi il cadavere di un vicino, ma bisogna avere moltissima fame per divorare allegramente 66 hot dog in 12 minuti. Confesso che, ogni volta che penso alle carestie, non mi viene in mente il ventre gonfio di René o il seno vuoto di Samia, ma la voracità applaudita di Joey Chestnut, quale simbolo pubblicitario di un’economia che non può permettersi nemmeno di calmare gli appetiti di chi è sazio. Chestnut non è un cannibale, no, ma in un certo senso si alimenta del dimagrimento degli etiopi, dei tailandesi e degli egiziani: la terza parte del raccolto mondiale di cereali serve ad ingrassare gli animali che noi occidentali ci mangiamo (1 chilo di carne a persona al giorno gli statunitensi, più di ½ chilo gli europei) e basterebbe a dar da mangiare alla terza parte dei 1.000 milioni di persone che, secondo la Fao, patiscono la fame nel mondo.Esagerare è misurare l’incommensurabile, è rendere appprendibile l’irrapresentabile. Esageriamo: Chestnut è un cannibale. Davanti alle 500.000 persone che lo applaudivano si è mangiato René, Randia, Sevére e Samia e altri 3.595 uomini, donne e bambini. Neppure Bokassa dimostrò mai tanto appetito. A Chestnut si può chiedere che mangi meno e anche che si opponga al suo governo, ma in realtà anche lui è solo un’altra vittima della fame. C’è la fame di quelli che non hanno niente e c’è la fame di quelli che non hanno mai abbastanza; la fame di quelli che vogliono qualcosa e la fame di quelli che vogliono sempre di più: più carne, più petrolio, più automobili, più cellulari, più immagini, più giochi e – anche una moralità superiore. La relazione tra le due insoddisfazioni è un sistema globale. Vogliamo un uomo libero e abbiamo una fame libera.Confesso che ogni volta che penso alla fame non mi viene in mente lo scheletro di Sohad né gli immensi occhi febbricitanti di Sevère, ma l’esercito degli Usa in Iraq e l’allegria depredatoria del Carrefour. Esagerare è rimpicciolire l’illimitato, è ridurre lo smisurato a scala umana. Esageriamo: il cannibalismo è, non più obbligatorio, ma elegante. Alcune poche menti privilegiate (da governi e da multinazionali) dedicano ogni loro sforzo a trovare il modo perchè a tutto il mondo, da tutte le parti, manchi qualcosa; perchè i i bambini di Haiti e della Sierra Leone soffrano la fame e si disperino per questo e perchè i consumatori occidentali – dopo aver divorato boschi, fiumi, minerali e animali (con le loro immagini) – si ritrovino affamati e se ne rallegrino.Il capitalismo toglie ai paesi poveri le loro risorse e, allo stesso tempo, le forze per resistere; il capitalismo dà, a noi occidentali, le merci e, allo stesso tempo, la fame necessaria per inghiottirle senza fermarci; la fame diventa così, da un lato e dall’altro, la disgrazia oggettiva di Africa, Asia e America Latina e la felicità soggettiva di un’umanità culturalmente e materialmente insostenibile e condannata alla distruzione. Sì, la carestia dissolve tutti i legami sociali e impone il cannibalismo. La povertà relativa ravviva l’ingegno, inventa soluzioni collettive, improvvisa solidarietà e crea reti sociali di resistenza. Ma, sotto una certa soglia, quando la fame minaccia la sopravvivenza, le trame si disfano e rimangono solo impulsi atomizzati, solitari, animali: individui puri opposti tra loro. Solo in questo senso – biologico e quasi zoologico – si può dire che le nostre società occidentali sono “individualiste”.Qualche volta ho espresso la regola della soddisfazione antropologica con la seguente formula: “Poco è abbastanza, molto è già insufficiente”. Sotto il “poco” c’è la fame e sono impossibili la coscienza, la resistenza e la solidarietà; sopra l’“abbastanza” c’è più fame e sono impossibili anche la coscienza, la resistenza e la solidarietà. “Troppo” vuole sempre “di più”. Abbiamo già superato questo punto, a partire dal quale l’unica cosa che abbiamo – non auto, non carne, non case, non immagini – è fame; e la nostra voracità, come quella di Joey Chestnut, si sta mangiando – mentre scrivo queste righe – non solo Sania e Sohadi e Sevère, tanto annebbiati e lontani, ma anche i suoi stessi figli.(Santiago Alba Rico, “Fame e cannibalismo”, estratto dal libro “Il naufragio dell’uomo”, ripreso da “Come Don Chisciotte” il 27 agosto 2015. Alba Rico è uno scrittore, saggista e filosofo spagnolo).Nel mese di luglio 2008 si è svolto a Coney Island il campionato del mondo dei divoratori di hot dog. Il giovane statunitense Joey Chestnut ha battuto in finale il giapponese Takeru Kobayashi e ha superato tutti i precedenti record mondiali inghiottendo 66 hot dog in 12 minuti, mandando in delirio i più di 50.000 spettatori presenti in diretta all’impresa. Come premio, il campione ha ricevuto un buono di 250 dollari di acquisti in un centro commerciale e un anno intero di hot dog gratis presso la catena Nathan’s. Oggi, mentre scrivo queste righe, si celebra il campionato mondiale dei perditori di peso. Ogni secondo cinque persone si disputano la finale – un haitiano, un somalo, un ruandese, un congolese, un afgano – e i cinque ottengono la vittoria. Il premio è la morte. L’appetito di Joey Chestnut non è niente paragonato a quello che ha divorato – chiamiamoli così – René, Sohad, Randia, Sevére e Samia.
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Escobar: a crollare non è la Cina, ma il delirio neoliberista
Le azioni sui mercati di Shanghai/Shenzhen hanno perso un roboante 150% nei 12 mesi prima di metà giugno. I piccoli investitori – che compongono circa l’80% del mercato – erano convinti che la festa non avrebbe mai avuto fine e spesso hanno richiesto grossi prestiti per spingere nel magna magna del “diventare ricchi è glorioso”. Una correzione è stata necessaria, scrive Pepe Escobar. Quelle azioni – che avevano raggiunto un picco dopo una crescita durata 7 anni – erano ovviamente ipervalutate. Sommate al fatto che tutti i dati mostrano un rallentamento dell’economia cinese, il risultato era facilmente prevedibile: Shanghai e Shenzhen hanno perso tutto ciò che avevano guadagnato nel 2015 – una vendita di massa globale studiata a tavolino. «Persino famosi miliardari hanno perso montagne di denaro in un batter di ciglia», annota Escobar su “Rt”, in una nota ripresa da “Come Don Chisciotte”. «Benvenuti nella nuova normalità cinese, o il nostro (miserabile) mondo nuovo».La secca correzione a Shanghai/Shenzhen è parte della fine di un ciclo, chiarisce Escobar: diciamo pure addio alla Cina che faceva affidamento su tassi di investimento pari al 45% del Pil, e diciamo addio anche alla insaziabile richiesta cinese di beni. Il problema dell’aggiustamento del modello economico cinese, osserva il giornalista, è direttamente connesso all’ininterrotto stato comatoso del disordine neoliberale, che si protrae fin dal 2007/2008. «Non serve essere Paul Krugman per sapere che la nuova normalità è un mercato globale anemico: una crisi profonda in tutti i mercati emergenti, la stagnazione con recessione dell’Europa e la “fabbrica del mondo” cinese che non riesce a vendere quanto faceva prima. Nel frattempo, l’ipervalutato dollaro Usa sta uccidendo le esportazioni statunitensi, scese del 3% nel solo primo semestre. Anche le importazioni sono calate del 2.2%, il che dimostra la riduzione del potere d’acquisto della classe media, dovuta alla corrosione strutturale dell’economia statunitense».Ovunque ci si volti, continua Escobar, tutto lo scenario strutturale grida alla crisi del disordine neoliberale: «Quando il motore turbo-capitalista cinese incontra problemi, si dimostra palesemente come il casinò della finanza mondiale non abbia alcun tipo di supporto da nessun altra parte». Infatti, più di 5 trilioni di dollari di denaro virtuale sono stati bruciati da quando Pechino ha (moderatamente) svalutato lo yuan l’11 di agosto – innescando la vendita di massa. «Ora la Fed potrebbe posticipare alla fine del 2015 l’innalzamento dei tassi d’interesse, per la prima volta in quasi 10 anni. Nessuno si azzarda a predire uno scenario di rosea crescita, considerando la forza del dollaro, lo yuan moderatamente svalutato e una continua discesa dei prezzi del greggio». Eppure, «contrariamente a quanto sostengono le previsioni/speranze dell’Occidente, la Cina non sta implodendo». Lo dimistrano le ultime analisi diffuse da Credit Suisse: «La Cina continua ad avere un surplus molto ‘in salute’, le sue riserve di capitali sono ancora parzialmente bloccate e le sue maggiori istituzioni finanziarie sono in larga parte di proprietà dello Stato».Questi fattori, aggiunge la banca svizzera, darebbero alle autorità monetarie di Pechino lo spazio di azione per creare liquidità nel sistema, in caso ce ne fosse bisogno. Ciò che accade è che «la crescita strutturale della Cina continuerà a rallentare nei prossimi anni». Non ci sarà un «innesco del crollo del credito», e quindi «il sistema finanziario e il regime di cambio potrebbero essere mantenuti relativamente stabili». Tuttavia, sperare che gli introiti e i guadagni delle imprese cinesi ritornino ai livelli di alcuni anni fa «non è realistico». Ma, essenzialmente, «la paura di un ripetersi del crollo dei mercati asiatici del 1997 o della crisi mondiale del 2008 non è giustificata». In conclusione, Credit Suisse invita a mantenere la calma: «Gli investitori dovrebbero concentrarsi maggiormente sulle azioni dei mercati cinesi e di Hong Kong che hanno forti micro-fondamentali e sono meno dipendenti dalla crescita economica cinese, ma che sono state affossate dalla recente debolezza dei mercati».Quindi, dal punto di vista di Pechino, tutto è abbastanza sotto controllo. «Ancora una volta: in termini globali, quest’ultima bolla del casinò della finanza non è nemmeno lontanamente paragonabile alla crisi finanziaria asiatica del 1997/1998. Piuttosto, continuano a persistere i segnali di una ininterrotta e ricorrente debolezza dei mercati considerata la nuova normalità, da affiancare al rifiuto categorico da parte di Wall Street di dare una forte regolamentazione alla finanza», scrive Escobar. La palla ora è nel campo della Fed: cosa fare riguardo lo tsunami delle valute straniere che fanno salire il dollaro, rendendo non competitiva l’industria statunitense? L’era delle banche centrali che stampano valuta virtuale a basso costo, per conferire “volatilità del mercato”, potrebbe non essere finita. «Le banche centrali adorano mandare al rialzo i prezzi dei mercati azionari per il beneficio dello 0.0001%, per cui aspettiamoci altre delusioni in futuro, con la certezza che tutto ciò che è solido evaporerà, insieme al sogno neoliberale».Le azioni sui mercati di Shanghai/Shenzhen hanno perso un roboante 150% nei 12 mesi prima di metà giugno. I piccoli investitori – che compongono circa l’80% del mercato – erano convinti che la festa non avrebbe mai avuto fine e spesso hanno richiesto grossi prestiti per spingere nel magna magna del “diventare ricchi è glorioso”. Una correzione è stata necessaria, scrive Pepe Escobar. Quelle azioni – che avevano raggiunto un picco dopo una crescita durata 7 anni – erano ovviamente ipervalutate. Sommate al fatto che tutti i dati mostrano un rallentamento dell’economia cinese, il risultato era facilmente prevedibile: Shanghai e Shenzhen hanno perso tutto ciò che avevano guadagnato nel 2015 – una vendita di massa globale studiata a tavolino. «Persino famosi miliardari hanno perso montagne di denaro in un batter di ciglia», annota Escobar su “Rt”, in una nota ripresa da “Come Don Chisciotte”. «Benvenuti nella nuova normalità cinese, o il nostro (miserabile) mondo nuovo».
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Mazziati e contenti, come vuole l’industria della felicità
I padroni non vogliono dai loro subalterni solo quello che riescono a estorcere con il lavoro, ne pretendono anche l’anima. Poco importa se le condizioni lavorative stanno ormai retrocedendo a forme ottocentesche. Le scienze sociali, arruolate alle esigenze dell’impresa, da tempo rilevano come in tempi di crisi sia necessario che i lavoratori e i consumatori vendano la propria anima – e non solo la forza lavoro e i loro redditi – al mercato. Si chiama Happyness Industry, l’industria della felicità. Diffondere ottimismo nella società e sentimenti positivi dentro le imprese sta diventando uno strumento indispensabile per far ripartire l’economia in quei paesi a capitalismo avanzato che hanno subìto più duramente le torsioni dell’ultima fase della crisi capitalistica. E’ interessante quanto riporta su questo tema un ampio servizio de “La Repubblica”, che pure è un giornale di prima linea dentro questo meccanismo. Il saggio del sociologo britannico William Davis descrive come «le aziende oggi stanno investendo così tante risorse nel renderci felici che chi non si mostra entusiasta di tutto ciò viene visto come un sabotatore da tenere d’occhio».In alcune selezioni aziendali, ad esempio, se ne colpisce uno per educarne nove a mostrarsi felici del lavoro chiamati a svolgere. Chi fa il musone viene licenziato o non assunto. Non solo. E’ stata istituita la figura dirigenziale dell’addetto alla felicità dei dipendenti – lo Chief Happyness Officer – uno che deve saper fare squadra, mettere il naso nella loro vita privata e assicurare che il clima aziendale non accumuli in modo pericoloso focolai di malumore che possono diventare altro. Questa ennesima diavoleria di derivazione anglosassone è stata importata anche in Italia. Prima come forma della pubblicità e adesso come modello di governance da parte di Renzi e del suo stuolo di ladylike e goldenboys. A fare dell’ottimismo un veicolo pubblicitario, non a caso, è uno dei “prenditori amici” più ascoltati da Renzi: Oscar Farinetti. Suo era stato l’uso dello scrittore romagnolo Tonino Guerra per la pubblicità della sua Unieuro all’insegna dell’ottimismo. Ereditata dal padre Paolo Farinetti, la catena di elettrodomestici Unieuro è stata gestita dal figlio, Oscar appunto, dal 1978 al 2003. Poi fu venduta ad una società britannica. Gli slogan e gli spot sull’ottimismo iniziano nel 2001.Una volta che Renzi “è stato messo lì”, come ebbe a dire Marchionne, Farinetti è diventato quasi una musa ispiratrice del premier, il quale infatti se la prende con i gufi, i piagnoni, i pessimisti mentre lui ostenta con fare da piazzista risultati positivi smentiti dai fatti. In compenso realizza la tabella di marcia voluta da Confindustria e banche su ogni aspetto: dall’abolizione dell’articolo18 alla aziendalizzazione della scuola, dal decreto “Sblocca Italia” alla destrutturazione dell’amministrazione pubblica. Declinare in ogni conferenza stampa, Twitter o dichiarazione che «le cose stanno andando bene, cieco è solo chi non le vede» – potendo contare su un servilismo dei mass media che fa rimpiangere Berlusconi – è un modo di “fare produttività”. O almeno di comunicare che la produttività c’è anche se non si può vedere. Ma se poi la gente non ci crede perchè non vede? Scatta allora la demonizzazione e la malevolenza pubblica che addita chi osa dire le cose come stanno: disfattista, gufo, antitaliano. Un linguaggio che somiglia sempre più a quello del regime fascista. La felicità e l’ottimismo non devono più essere categoria dell’anima, ma comportamenti da omologare. Il bicchiere deve essere sempre visto come mezzo pieno, anche quando è quasi completamente vuoto.Vengono in mente le parole di una canzone resa nota da Dario Fo ed Enzo Jannacci: “E sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re; fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam!”. Oggi, purtroppo, molte lavoratrici e molti lavoratori resistono a questa arroganza padronale e governativa che non ha precedenti nel dopoguerra solo con lo “sciopero del cuore”. Accettano la situazione e, nella migliore delle ipotesi ricorrono alla “egreferenza”, cioè alla negazione della deferenza verso il padrone e i suoi pagliacci. Questi ultimi se ne sono accorti e sanno bene che quando si accumulano sentimenti ostili, anche se non manifesti, prima o poi possono ridiventare odio di classe e allora finisce la (loro) festa. Per questo hanno messo in moto gli scienziati sociali per imprigionare anche l’anima e non solo le condizioni di vita delle classi subalterne. La felicità, quando diventa fenomeno genuino e collettivo, non può essere messa in vendita come una merce, neanche nei divertimentifici artificiali o nelle politiche aziendali. Il rumore di fondo che ancora non diventa rabbia organizzata tra la nostra gente va coltivato e ben orientato. Dilatare questa contraddizione, trasformare lo sciopero del cuore in conflitto sociale, connetterlo e coordinarlo, rimane la convinta ragione di esistenza di questo giornale.(Sergio Cararo, “L’industria della felicità”, da “Contropiano” del 5 agosto 2015).I padroni non vogliono dai loro subalterni solo quello che riescono a estorcere con il lavoro, ne pretendono anche l’anima. Poco importa se le condizioni lavorative stanno ormai retrocedendo a forme ottocentesche. Le scienze sociali, arruolate alle esigenze dell’impresa, da tempo rilevano come in tempi di crisi sia necessario che i lavoratori e i consumatori vendano la propria anima – e non solo la forza lavoro e i loro redditi – al mercato. Si chiama Happyness Industry, l’industria della felicità. Diffondere ottimismo nella società e sentimenti positivi dentro le imprese sta diventando uno strumento indispensabile per far ripartire l’economia in quei paesi a capitalismo avanzato che hanno subìto più duramente le torsioni dell’ultima fase della crisi capitalistica. E’ interessante quanto riporta su questo tema un ampio servizio de “La Repubblica”, che pure è un giornale di prima linea dentro questo meccanismo. Il saggio del sociologo britannico William Davis descrive come «le aziende oggi stanno investendo così tante risorse nel renderci felici che chi non si mostra entusiasta di tutto ciò viene visto come un sabotatore da tenere d’occhio».
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Cambiare economia, o addio a 60 milioni di posti di lavoro
Nei paesi più sviluppati del mondo, Usa e Ue, che da soli producono circa la metà del Pil globale, l’economia capitalistica ha imboccato da tempo un periodo di stagnazione che secondo molti esperti potrebbe durare anche cinquant’anni. In Usa, nel decennio degli anni 50 i trimestri in cui il Pil reale cresceva di almeno il 6 per cento l’anno sono stati 40. Negli anni 70 erano scesi a 25. Nei ’90, a meno di dieci. Infine nel periodo 2000-2013 sono stati in tutto tre. Sebbene sia difficile fare una stima aggregata del Pil dei paesi oggi membri della Ue, visto che in settant’anni hanno avuto storie politiche ed economiche diverse, si stima che l’andamento del Pil nella Ue sia stato all’incirca il medesimo. Al presente, un altro indicatore di stagnazione è il forte e prolungato rallentamento degli investimenti nell’economia reale. Essi rendono poco rispetto alle attività speculative svolte nel sistema finanziario, il quale peraltro all’economia reale non reca alcun beneficio (al punto che in realtà non ha nessun senso chiamarli “investimenti”).Risultato numero uno: si stima che circa il 70% dei capitali circolanti sia destinato alle seconde. Il capitalismo ha posto così le premesse per una sorta di suicidio al rallentatore. Mediante l’automazione ha ridotto drasticamente il numero dei produttori nell’economia reale (servizi compresi). Con la forsennata compressione dei salari reali, (in aggiunta alla riduzione dei produttori) ha ridotto il potere d’acquisto dei consumatori. Per investire l’impresa capitalistica deve poter stimare quanti sono quelli a cui venderà i suoi beni o servizi, e più o meno per quanto tempo. Nei nostri paesi si è messa in condizione di non poterlo più fare. La riduzione degli investimenti è anche dovuta al fatto che da decenni il capitalismo non inventa più nulla che possa diventare un consumo di massa. Al contrario di quanto asseriscono gli economisti neoclassici, il capitalismo non vive affatto di una continua innovazione endogena. Ha bisogno di robusti e ripetuti stimoli esterni.Negli anni 50 e 60 li hanno forniti, nei nostri paesi, i consumi di massa di auto, elettrodomestici, televisori. La diffusione in atto dei cellulari, dei tablets, dei Pc – tutti fabbricati in Asia – non ha avuto né potrà mai avere effetti paragonabili sulla crescita e sull’occupazione di un paese europeo. Inoltre tanto la produzione quanto il consumo dei beni e dei servizi proposti dall’attuale modello produttivo si fondano su energie tratte da risorse fossili, mentre gli scienziati del mondo intero avvertono che l’inversione dell’attacco all’ambiente, che presuppone una drastica riduzione di tali fonti energetiche, dovrebbe avvenire ormai entro breve tempo se si vuole evitare una catastrofe. In sintesi: l’idea di una ripresa paragonabile al passato – la famosa luce in fondo al tunnel – è una illusione priva di fondamento. E se mai dovesse verificarsi, sarebbe ancora peggio, perché avvicinerebbe il momento di un disastro ambientale irreversibile.Non basta. Il termine “automazione” si riferisce da cinquant’anni alla sostituzione di lavoro fisico da parte di macchine. Ma la microinformatica ha anche enormemente esteso sia le capacità delle macchine operatrici, sia le capacità dei computer di svolgere attività intellettuali che fino a pochi anni fa si sosteneva non fossero automatizzabili. Risultato numero tre: in Usa si stima che il 47 per cento degli attuali posti di lavoro, finora occupati da esseri umani a causa del loro contenuto intellettuale e professionale medio-alto, possano venire svolte entro pochi anni da una qualche combinazione di macchine, computer e programmi intelligenti. In altre parole potrebbero scomparire più di 60 milioni di posti di lavoro. Un processo analogo di sostituzione di esseri umani da parte dei computer è in corso anche in Europa. Una politica che non si occupi primariamente di questo problema, come avviene nella Ue e in modo ancor più marcato in Italia, non soltanto è da buttare per la sua inefficienza; è una minaccia per milioni di cittadini.Da quanto precede se ne trae che l’Italia dovrebbe progettare al più presto un piano pluriennale di transizione a un diverso modello produttivo, che abbia come caratteristiche principali l’essere fondato su progetti o settori ad alta intensità di lavoro; elevata qualificazione; tecnologie avanzate; consumi ridotti di energie fossili; elevata utilità pubblica; massima attenzione ai beni comuni. Esso dovrebbe inoltre prevedere il passaggio regolato di milioni di lavoratori dai settori in declino ai nuovi settori. Non è il caso per ora di inoltrarsi in un elenco di questi ultimi: si rimanda alla ragguardevole letteratura esistente sulla trasformazione industrial-ecologica dell’economia. Qui basti dire che il riassetto idrogeologico dell’intero territorio, il miglioramento del rendimento energetico delle abitazioni, gli interventi antisismici nelle zone più a rischio, la tutela dei beni culturali assorbirebbero da soli milioni di posti di lavoro. La complessità e l’ampiezza di un simile piano renderebbe necessario l’impiego delle migliori competenze tecniche ed economiche, pubbliche e private, di cui il paese disponga. E soltanto un governo totalmente rinnovato quanto a cultura politica e competenze professionali sarebbe capace di guidarne la realizzazione. Inutile aggiungere che un simile piano deve poter iniziare entro pochi mesi, per essere via via sviluppato e rettificato.(Luciano Gallino, estratto da “Europa: la crisi è strutturale, la soluzione è politica”, intervento pubblicato sul sito della Fiom-Cgil il 21 luglio 2015).Nei paesi più sviluppati del mondo, Usa e Ue, che da soli producono circa la metà del Pil globale, l’economia capitalistica ha imboccato da tempo un periodo di stagnazione che secondo molti esperti potrebbe durare anche cinquant’anni. In Usa, nel decennio degli anni 50 i trimestri in cui il Pil reale cresceva di almeno il 6 per cento l’anno sono stati 40. Negli anni 70 erano scesi a 25. Nei ’90, a meno di dieci. Infine nel periodo 2000-2013 sono stati in tutto tre. Sebbene sia difficile fare una stima aggregata del Pil dei paesi oggi membri della Ue, visto che in settant’anni hanno avuto storie politiche ed economiche diverse, si stima che l’andamento del Pil nella Ue sia stato all’incirca il medesimo. Al presente, un altro indicatore di stagnazione è il forte e prolungato rallentamento degli investimenti nell’economia reale. Essi rendono poco rispetto alle attività speculative svolte nel sistema finanziario, il quale peraltro all’economia reale non reca alcun beneficio (al punto che in realtà non ha nessun senso chiamarli “investimenti”).
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Giulietto Chiesa: è arrivata la bufera, a lungo annunciata
Alcuni mesi orsono, il giornalista e uomo politico Giulietto Chiesa ha pubblicato per i tipi di Piemme Edizioni il volume “E’ arrivata la bufera”. Quest’opera contiene la riproposizione del saggio intitolato “Invece della Catastrofe”, oltre ad un lungo articolo dedicato ai fatti parigini di inizio gennaio 2015, ovvero la strage presso la sede della redazione del periodico satirico Charlie Hebdo. A distanza di un anno e mezzo dalla prima pubblicazione, “Invece della catastrofe” torna dunque a proporsi quale indispensabile strumento cognitivo della modernità. Va colta prima di tutto una peculiarità di questo scritto: esso è inchiesta giornalistica, analisi, e proposta politica, che si pone l’obiettivo di abbracciare e racchiudere nel proprio sguardo partecipe la realtà nella sua globalità. A differenza di altri pur brillanti scritti di questi anni, il libro di Chiesa coglie nel loro stretto legame fenomeni quali il profilarsi di una crisi irreversibile dell’eco-sistema, l’agonia degli stati-nazione sotto la scure del debito di proprietà delle banche, il mutamento antropologico dell’uomo occidentale avulso, disancorato dalla realtà e schiavo dei moderni mezzi di comunicazione, lo spirare di nuovi venti di guerra da ovest, da quegli Stati Uniti d’America che non sanno accettare la perdita del ruolo di superpotenza in un nuovo mondo multi-polare.
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Berardi: ma crescita di cosa? Di lavoro non c’è più bisogno
Alla fine degli anni ‘70, dopo dieci anni di scioperi selvaggi, la direzione della Fiat convocò gli ingegneri perché introducessero modifiche tecniche utili a ridurre il lavoro necessario, e licenziare gli estremisti che avevano bloccato le catene di montaggio. Sarà per questo sarà per quello, fatto sta che la produttività aumentò di cinque volte nel periodo che sta fra il 1970 e il 2000. Detto altrimenti, nel 2000 un operaio poteva produrre quello per cui nel 1970 ne occorrevano cinque. Morale della favola: le lotte operaie servono fra l’altro a far venire gli ingegneri per aumentare la produttività e a ridurre il lavoro necessario. Vi pare una cosa buona o cattiva? A me pare una cosa buonissima se gli operai hanno la forza (e a quel tempo ce l’avevano, perbacco) di ridurre l’orario di lavoro a parità di salario. Una cosa pessima se i sindacati si oppongono all’innovazione e difendono il posto di lavoro senza capire che la tecnologia cambia tutto e di lavoro non ce n’è più bisogno.Quella volta purtroppo i sindacati credettero che la tecnologia fosse un nemico dal quale occorreva difendersi. Occuparono la fabbrica per difendere il posto di lavoro e il risultato prevedibilmente fu che gli operai persero tutto. Ma si poteva fare altrimenti?, chiederete voi. Certo che si poteva. Una piccola minoranza disse allora: “Lavorare meno per lavorare tutti”, e qualcuno più furbo disse addirittura: “Lavorare tutti per lavorare meno”. Furono attaccati come estremisti, e alcuni li arrestarono per associazione sovversiva. Nel 1983 nel paese più brutto del mondo c’era un governo infernale guidato da una signora cui piaceva la frusta. Aveva detto che la società non esiste (“there is no such thing as society”) per dire che ognuno è solo e deve combattere contro tutti gli altri col risultato che uno su mille può far la bella vita e scorrazzare in Rolls Royce, uno su cento può vivere decentemente e tutti gli altri debbono fare la vita di merda che più di merda non si può immaginare.Ma ritorniamo a noi, mica sono pagato per parlar male dell’Inghilterra. Un bel giorno la signora decise che di miniere non ce n’era più bisogno e neanche di minatori. Cosa fareste se la vita vi fosse andata così male da ritrovarvi a fare il minatore in un paese di merda dove in superficie piove sempre e c’è la Thatcher, e sottoterra è anche peggio? Non so voi, ma nel caso io facessi il minatore e qualcuno mi dicesse che non c’è più bisogno di miniere ringrazierei il cielo e chiederei un salario di cittadinanza. Non così Arthur Scargill, che era il capo di un sindacato che si chiamava “Union Miners”. Un sindacato glorioso che organizzò una lotta eroica contro i licenziamenti, come direbbe Ken Loach. So bene che c’è poco da fare gli spiritosi perché fu una tragedia per decine di migliaia di lavoratori e per le loro famiglie: naturalmente i minatori persero la lotta, il lavoro e il salario, ed era solo l’inizio. La disoccupazione è oggi in crescita in ogni paese d’Europa. Metà della popolazione giovanile non ha un salario, o ha un salario miserabile e precario, mentre i riformatori europei hanno imposto un rinvio dell’età pensionabile da 60 a 62, a 64, a 65, a 67. E poi?C’è qualcuno che possa spiegarmi secondo le regole della logica aristotelica il mistero secondo cui per curare la disoccupazione dilagante occorre perseguitare crudelmente i vecchi che lavorano costringendoli a boccheggiare sul bagnasciuga di una pensione che non arriva mai? Nessuno che sia sano di mente mi risponde, perché la risposta non si trova nelle regole della logica aristotelica, ma solo nelle regole della logica finanziaria che con la logica non c’entra niente ma c’entra moltissimo con la crudeltà. Se la logica finanziaria contraddice la logica punto e basta, cosa farebbe una persona dotata di senso comune? Riformerebbe la logica finanziaria per piegarla alla logica, no? Invece Giavazzi dice che la logica vada a farsi fottere perché noi siamo moderni (mica greci).“Animal Kingdom” è il nome di un’azienda di Saint Denis che vende ranocchie e cibi per cani. “Candelia” vende mobili per ufficio. Sembrano aziende normali ma non lo sono affatto, perché l’intero business di queste aziende è finto: finti i clienti che telefonano, finti i prodotti che nessuno produce, finta perfino la banca cui le “fake companies” chiedono falsi crediti. Come racconta un articolo del “New York Times” del 29 maggio, da cui si deduce che il capitalismo è affetto da demenza senile, in Francia ci sono un centinaio di aziende finte, e pare che in Europa se ne contino migliaia. Milioni di persone non hanno un salario e milioni perderanno il lavoro nei prossimi anni per una ragione molto semplice: di lavoro non ce n’è più bisogno. Informatica, intelligenza artificiale, robotica rendono possibile la produzione di quel che ci serve con l’impiego di una quantità sempre più piccola di lavoro umano. Questo fatto è evidente a chiunque ragioni e legga le statistiche, ma nessuno può dirlo: è il tabù più tabù che ci sia, perché l’intero edificio della società in cui viviamo si fonda sulla premessa che chi non lavora non mangia.Una premessa imbecille, una superstizione, un’abitudine culturale dalla quale occorrerebbe liberarsi. Eppure economisti e governanti, invece di trovare una via d’uscita dal paradosso in cui ci porta la superstizione del lavoro salariato, insistono nel promettere la ripresa dell’occupazione e della crescita. E siccome la ripresa è finta, qualcuno ha avuto questa idea demente di creare aziende in cui si finge di lavorare per non perdere l’abitudine e la fiducia nel futuro, poiché i disoccupati di lungo corso (il 52,6% dei disoccupati dell’Eurozona sono senza lavoro da più di un anno) rischiano di perdere la fede oltre al salario. Ma torniamo al punto. Dice il giovane presidente del Consiglio che il reddito di cittadinanza è una cosa per furbi perché in questo paese chi lavora duro ce la può fare. Forse qualcuno sì, non me la sento di escluderlo, ma qui stiamo parlando di ventotto milioni di disoccupati europei. E a me risulta che la disoccupazione non è destinata a diminuire ma ad aumentare, e ti dico perché. Perché di tutto quel lavoro (duro o morbido non importa) non ce n’è più bisogno.Lo dice qualcuno che è più moderno di Renzi e di Giavazzi messi insieme, credete a me. Lo dice un giovanotto dotato intellettualmente che si chiama Larry Page. In un’intervista pubblicata da “Computer World” nell’ottobre del 2014 questo tizio, che dirige la più grande azienda di tutti i tempi, dice che Google investe massicciamente in direzione della robotica. E sai che fa la robotica? Rende il lavoro inutile, questo fa. Larry Page aggiunge che secondo lui solamente dei pazzi possono pensare di continuare a lavorare quaranta ore alla settimana. Si stringe nelle spalle e dice: Renzi, lavorare duro d’accordo, ma per fare che? Il Foreign Office nel suo Report dell’anno scorso diceva che il 45% dei lavori con cui oggi la gente si guadagna da vivere potrebbe scomparire domattina perché non ce n’è più bisogno. Caro Renzi, qui si tratta di cose serie, lascia fare ai grandi e torna a giocare con i videogame: occorre immediatamente un reddito di cittadinanza che liberi la gente dall’ossessione idiota del lavoro.La situazione infatti è tanto grave e tanto imprevista, che occorre un’invenzione scientifica che non è alla portata degli economisti. Ti sei mai chiesto cosa sia una scienza? Diciamo, per non farla troppo lunga, che è una forma di conoscenza libera da ogni dogma, capace di estrapolare leggi generali dall’osservazione di fenomeni empirici, capace di prevedere quello che accadrà sulla base dell’esperienza del passato, e per finire capace di comprendere fenomeni così radicalmente innovativi da mutare gli stessi paradigmi su cui la stessa scienza si fonda. Direi allora che l’economia non ha niente a che fare con la scienza. Gli economisti sono ossessionati da nozioni dogmatiche come crescita, competizione e prodotto nazionale lordo. Dicono che la realtà è in crisi ogni qualvolta non corrisponde ai loro dogmi, e sono incapaci di prevedere quel che accadrà domani, come ha dimostrato l’esperienza delle crisi degli ultimi cento anni.Gli economisti per giunta sono incapaci di ricavare leggi dall’osservazione della realtà, in quanto preferiscono che la realtà sia in armonia con i loro dogmi, e incapaci di riconoscere quando mutamenti della realtà richiedono un cambiamento di paradigma. Lungi dall’essere una scienza, l’economia è una tecnica la cui funzione è piegare la realtà multiforme agli interessi di chi paga lo stipendio degli economisti. Dunque sta ad ascoltarmi: non c’è più bisogno di Giavazzi, di tutti quei tristi personaggi che vogliono convincerti che l’occupazione presto riprenderà e la crescita anche. Lavoriamo meno per un reddito di cittadinanza, curiamoci la salute andiamo al cinema, insegniamo matematica e facciamo quel milione di cose utili che non sono lavoro e non hanno bisogno di scambiarsi con salario. Perché, sai che ti dico: di lavoro non ce n’è più bisogno.(Franco Berardi, “Di lavoro non ce n’è più bisogno”, dal numero di luglio della nuova edizione di “Linus”, ripreso da “Megachip” il 27 luglio 2015).Alla fine degli anni ‘70, dopo dieci anni di scioperi selvaggi, la direzione della Fiat convocò gli ingegneri perché introducessero modifiche tecniche utili a ridurre il lavoro necessario, e licenziare gli estremisti che avevano bloccato le catene di montaggio. Sarà per questo sarà per quello, fatto sta che la produttività aumentò di cinque volte nel periodo che sta fra il 1970 e il 2000. Detto altrimenti, nel 2000 un operaio poteva produrre quello per cui nel 1970 ne occorrevano cinque. Morale della favola: le lotte operaie servono fra l’altro a far venire gli ingegneri per aumentare la produttività e a ridurre il lavoro necessario. Vi pare una cosa buona o cattiva? A me pare una cosa buonissima se gli operai hanno la forza (e a quel tempo ce l’avevano, perbacco) di ridurre l’orario di lavoro a parità di salario. Una cosa pessima se i sindacati si oppongono all’innovazione e difendono il posto di lavoro senza capire che la tecnologia cambia tutto e di lavoro non ce n’è più bisogno.
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Germania, il boia che fa la vittima (e mente ai tedeschi)
Uno dei più frequenti e stupefacenti fenomeni della storia umana è la prevaricazione esercitata sentendosi vittime: «Vittime si sentono gli israeliani che rinchiudono i palestinesi in una prigione a cielo aperto, vittime del terrorismo palestinese, vittime dell’insicurezza, vittime dell’ostilità araba. Vittime si sentono i razzisti italiani che rinchiudono i richiedenti asilo in lager inumani: vittime dell’invasione di immigrati clandestini, di rifugiati che minaccerebbero la loro sicurezza, le loro vite, il loro benessere». Vittime, scrive Marco d’Eramo, si sentono i tedeschi delle “sanguisughe greche” che stanno succhiando il benessere così duramente conquistato. «Perché non c’è dubbio che a leggere gli economisti tedeschi, la crisi greca sembra una truffa fraudolenta attuata da fannulloni, incapaci, disonesti meridionali che vanificano l’alacre, parca, industriosa morigeratezza dei paesi dell’Europa del nord».E’ quasi surreale la rabbia che traspira dai media tedeschi nei confronti di Atene, scrive d’Eramo su “Micromega”: «In un paese che è costretto a vendersi tutto, persino le isole, leggere che sono i greci che stanno derubando i tedeschi sembra di sognare a occhi aperti». Il vittimismo tedesco? «E’ forse l’aspetto più preoccupante nell’attuale vicenda europea». Dopo 70 anni si ripropone in Europa una questione che sembrava essere stata risolta per sempre: «Forse gli storici ricorderanno il luglio 2015 non solo come il mese in cui fu affossato il progetto europeo, ma soprattutto come il momento in cui riemerse con forza la questione tedesca, dove l’aggettivo “tedesco” non riguarda i singoli cittadini della Germania, ma designa lo Stato e il governo politico ed economico tedesco, la classe dominante tedesca». Grazie alle loro dimensioni schiaccianti, gli Stati Uniti «avevano costretto sia le élites francesi, sia quelle tedesche a rendersi conto di “non fare il peso”, di essere gattini in un mondo di elefanti, e avevano così liberato noi europei dall’insopportabile prospettiva di altri tre secoli di guerre franco-tedesche».D’Eramo ricorda che la Germania unita è una costruzione statale recentissima nel panorama europeo, persino più giovane della stessa Italia unita. E fin dalla sua riunificazione, nel 1866, la Germania ha posto all’Europa un “problema tedesco”: in 79 anni, prima di essere ridivisa di nuovo, aveva scatenato due guerre europee (con l’Austria nel 1866 e con la Francia nel 1870) e due guerre mondiali (nel 1914 e nel 1939): una media di una guerra ogni 19 anni; solo lo Stato d’Israele (anch’esso una creazione recentissima) si sta dando da fare per battere questo record, con cinque guerre e varie guerricciole in 66 anni: a confronto, gli Usa stanno a 11-12 guerre in 241 anni, un conflitto ogni ventennio. Che la Germania rappresentasse ben altro problema, lo riassume la battuta attribuita allo scrittore francese François Mauriac: «Amo talmente tanto la Germania che sono felice che ce ne siano due».Quasi a confermare le parole di Mauriac, aggiunge d’Eramo, appena dopo la riunificazione nel 1989, alcuni segnali avevano suscitato inquietudine: il ruolo della nuova Germania unita nel favorire la dissoluzione della Jugoslavia e quindi nel suscitare il susseguente conflitto e la fretta nell’annettere all’Unione Europea i paesi dell’Est. «Una fretta che ha provocato non pochi scompensi e problemi di dissonanza politica», nonché «una certa megalomania imperiale nei piani di ricostruzione di Berlino capitale», segnali spesso scambiati per «prodotti da un’euforia che si sperava transitoria». Inutile sperare nella memoria collettiva, continua d’Eramo: nonostante Hiroshima e Nagasaki, più della metà dei giovani nipponici ignora che vi sia mai stato un conflitto tra Giappone e Stati Uniti. E il modo in cui gli stessi italiani trattano gli immigrati «è totalmente immemore delle umiliazioni, discriminazioni, persino dei linciaggi subiti dagli immigrati italiani nell’ultimo secolo e mezzo (e sono stati complessivamente decine di milioni)». Per non parlare del modo in cui «gli israeliani abusano del proprio potere militare», un fatto letteralmente «incompatibile con la memoria delle angherie subite per millenni dal popolo ebraico».Perciò quando si parla di questione tedesca, «non è in gioco un ipotetico, improbabile carattere etnico collettivo di supposta “teutonica” arroganza autoritaria, bensì di un atteggiamento proprio della classe dominante che sembra discendere in linea diretta dagli Junker prussiani perché, come loro, accompagna con una violenta svolta conservatrice ogni sua spinta espansionistica». Tralasciando il paragone con il Terzo Reich, «perché proprio l’enormità delle devastazioni prodotte dal nazismo, e dunque proprio l’improponibilità del confronto, in un certo senso “assolve” la Germania attuale da ogni responsabilità», è più utile ricordare la Germania bismarkiana e guglielmina, «innanzitutto perché proprio quell’esperienza ha plasmato la nascita dell’euro». Una moneta unica europea (prima lo Sme, poi l’Ecu, infine l’euro) «fu la condizione che il presidente francese François Mitterrand impose per acconsentire alla riunificazione tedesca, come strumento per imbrigliare lo strapotere prevedibile di una Germania unita».L’euro, continua d’Eramo, fu quindi vissuto dalla classe dominante tedesca come l’ultimo diktat esercitato dalle potenze vincitrici mezzo secolo dopo la disfatta della Seconda Guerra Mondiale. Ancora tre anni fa, l’ex socialdemocratico ed ex membro del direttorio della Deutsche Bundesbank, Thilo Sarrazin, scriveva un libro dal titolo significativo: “L’Europa non ha bisogno dell’euro: come i nostri pii desideri politici ci hanno condotto alla crisi”. Sarrazin scriveva esplicitamente che la Germania si è lasciata trascinare «nell’euro e nell’unità europea a causa del senso di colpa per la seconda guerra mondiale» (in tedesco, “colpa” e “debito” sono espressi dallo stesso vocabolo: “die Schuld”). «I fautori (dell’euro e degli eurobonds) sono spinti dal riflesso squisitamente tedesco per cui la penitenza per l’Olocausto e la guerra mondiale è davvero conclusa solo quando noi affidiamo tutti i nostri averi e il nostro denaro in mani europee», scriveva Sarrazin. Quindi, osserva d’Eramo, «viene descritto come strumento dell’oppressione e umiliazione subite dai tedeschi quell’euro che in realtà si è rivelato per la Germania il suo più importante strumento di dominio, controllo e sopraffazione».È l’euro, infatti, che ha permesso la metamorfosi del progetto europeo «dal perseguimento di una Germania europea all’instaurazione (destinata al fallimento) di un’Europa tedesca». Intanto, perché «nel XX secolo il progetto di unificazione europea ha preso a ricalcare in modo sempre più pedissequo il processo di unificazione tedesca nel XIX secolo: primo passo un’unione doganale col mercato comune europeo, sulle orme dello Zollverein del 1834 tra 38 stati della Confederazione tedesca, ognuno con diritto di veto». Poi, una nuova unione doganale come quella stabilita nel 1866 (dopo la guerra austro-prussiana), ma in cui i singoli Stati membri non avevano più diritto di veto, e con un nucleo forte costituito dai 22 paesi della Confederazione tedesca del nord che si erano dotati di un Parlamento comune con però poteri limitatissimi rispetto al Consiglio federale che rappresentava gli Stati. «Per continuare il paragone, il Consiglio federale era l’equivalente della Commissione Europea, mentre il Reichstag corrispondeva all’Europarlamento e la distinzione tra Confederazione tedesca del nord e area-Zollverein corrispondeva all’Europa a due velocità, con l’Eurozona dei 17 rispetto all’Unione europea dei 27 membri».La similitudine finisce qui perché, dopo soli cinque anni, nel 1871 la Confederazione tedesca fu assorbita dalla Prussia e inglobata nell’impero tedesco. «Ma in realtà non finisce qui – sottolinea d’Eramo – perché in Europa la Germania vede se stessa sempre più nella funzione e nello status che aveva avuto la Prussia nell’unificazione della Germania». Naturalmente la deriva antidemocratica e autoritaria del progetto euro non può essere ascritta alla sola Germania: «La sua data d’inizio va cercata nel referendum sulla Costituzione europea bocciato nel 2005 dai francesi e dagli olandesi. Fu a partire da allora che si allontanò la prospettiva di un’unione politica e quindi di un possibile controllo democratico sulle scelte di Bruxelles». Ovvio, poi, che ciascuno cerchi di sfruttare a proprio vantaggio le circostanze: così, la crisi economica è stata vista «come un’opportunità (e usata come tale) per perseguire i propri scopi politici e finanziari». I poteri finanziari di tutto il pianeta «hanno sfruttato (con successo) la crisi per sottrarre ai lavoratori conquiste che avevano richiesto secoli di lotta per essere ottenute».La stessa Cina ha sfruttato la recessione atlantica per affermare definitivamente il proprio status di officina del mondo. E la Germania «ha usato la crisi per sottrarre alla Francia una bella fetta di sovranità nazionale, con l’ironico risultato che l’euro pensato per imbrigliare Berlino ha finito per imprigionare Parigi», al punto che «in questo scontro, la Grecia è solo un birillo sul tavolo da biliardo». Dalla riunificazione in poi, «la classe dominante tedesca ha pensato sempre meno in termini di Europa e sempre più in termini di Germania». Tanto che, a tutt’oggi, come scrive sul “Financial Times” Wolfgang Münchau, l’euro ha funzionato bene praticamente per la sola Germania (in misura minore per l’Austria e l’Olanda, anche se adesso l’Olanda è in crisi). Ma l’euro è stato disastroso per l’Italia e sta rivelandosi letale per la stessa Francia; intanto la Finlandia è in piena recessione, Spagna e Portogallo sono più poveri di sette anni fa, mentre della Grecia non è nemmeno il caso di parlare. Eppure, «ancora una volta la narrazione prevalente in Germania è il contrario della realtà: l’euro viene visto come un regime di cui Berlino deve sopportare tutti i costi, da buona formica nordica che paga per tutte le cicale meridionali».La verità è opposta: è proprio l’euro ad aver garantito «la possibilità di esportate i prodotti tedeschi nell’Eurozona: un ritorno al marco, e la sua conseguente rivalutazione, farebbero immediatamente crollare le esportazioni tedesche nel mondo». Ed è questa, insiste d’Eramo, la maggiore responsabilità storica delle élites tedesche: «Quella di aver consentito, incoraggiato e infine imposto alla stragrande maggioranza della popolazione tedesca una visione della storia che niente ha a che vedere con la realtà e che favorisce tutti gli stereotipi più nazionalisti, xenofobi e persino razzisti». Per cui «assistiamo a una commedia del potere, al gioco delle parti di una classe dominante che si dice costretta a esigere dalla Grecia insane misure di austerità, perché altrimenti perderebbe i favori di un’opinione pubblica che questa stessa classe dominante ha plasmato nello stampo più reazionario; che è costretta a esercitare una dittatura del capitalismo per ragioni democratiche, perché altrimenti perderebbe il consenso popolare». Il risultato è «l’evoluzione della Spd tedesca che, dopo aver cacciato Sarrazin, adotta oggi con il socialdemocratico vicepremier Sigmar Gabriel tutta la visione del mondo di Sarrazin, con tutte le sue conseguenze politiche».Quanto sia distante la narrazione che la Germania racconta a se stessa della crisi greca e della gestione da parte della Troika, secondo d’Eramo risulta lampante dalla folle vicenda dei panettieri greci, costretti a cambiare il sistema di vendita del pane. «A prima vista può sembrare ridicolo che in un disastro economico come quello greco, i paesi creditori si ostinino a esigere misure urgenti come la liberalizzazione della vendita del pane non solo presso i fornai ma perché no anche nei saloni di bellezza, e che considerino l’equiparazione dell’Iva sul pane nelle panetterie e nei supermercati (che finora pagavano di più per salvaguardare il piccolo commercio). Ma il ridicolo si trasforma in grottesco quando la Troika impone in modo ultimativo il diktat sul peso delle pagnotte: finora nei negozi greci si vendevano forme o da un chilo o da mezzo. Ora sarà obbligatorio venderne in pezzature diverse e graduali». Ma che gliene può fregare ai creditori del peso della pagnotta greca? Quattro anni fa, d’Eramo aveva iniziato un editoriale del “Manifesto” con una frase che gli provocò indignate reazioni da parte dei suoi amici tedeschi: “Dove non era giunta la Wehrmacht, è arrivata la Bundesbank” (si riferiva per esempio a Lisbona e a Madrid). «Rispetto ad allora, c’è da aggiungere che neanche i generali prussiani si sarebbero mai sognati di legiferare sulla pezzatura delle pagnotte in terra d’occupazione».Uno dei più frequenti e stupefacenti fenomeni della storia umana è la prevaricazione esercitata sentendosi vittime: «Vittime si sentono gli israeliani che rinchiudono i palestinesi in una prigione a cielo aperto, vittime del terrorismo palestinese, vittime dell’insicurezza, vittime dell’ostilità araba. Vittime si sentono i razzisti italiani che rinchiudono i richiedenti asilo in lager inumani: vittime dell’invasione di immigrati clandestini, di rifugiati che minaccerebbero la loro sicurezza, le loro vite, il loro benessere». Vittime, scrive Marco d’Eramo, si sentono i tedeschi delle “sanguisughe greche” che stanno succhiando il benessere così duramente conquistato. «Perché non c’è dubbio che a leggere gli economisti tedeschi, la crisi greca sembra una truffa fraudolenta attuata da fannulloni, incapaci, disonesti meridionali che vanificano l’alacre, parca, industriosa morigeratezza dei paesi dell’Europa del nord».
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Il Guardian: l’ignobile Schäuble già rovinò la Germania Est
Per capire le richieste di Wolfgang Schäuble nei colloqui di salvataggio, dovete guardare a ciò che ha inflitto al suo paese quando si è riunificato. Ogni dramma ha bisogno di un grande cattivo, e nell’ultimo atto della crisi greca Wolfgang Schäuble, il 72-enne ministro delle finanze tedesco, è emerso come straordinario villain: i critici lo vedono come un tecnocrate spietato che ha usato modi pesanti su un intero paese e ora ha intenzione di spogliarlo del suo patrimonio. Una parte dell’accordo di salvataggio, in particolare, ha scandalizzato molti europei: la proposta di creazione di un fondo progettato per selezionare accuratamente beni pubblici greci del valore di 50 miliardi di euro e privatizzarli per pagare i debiti del paese. Ma la chiave per comprendere la strategia della Germania è che per Schäuble non c’è nulla di nuovo in tutto questo. Venticinque anni fa, durante l’estate del 1990, Schäuble guidava la delegazione della Germania Ovest che stava negoziando i termini dell’unificazione con la Germania Est ex-comunista.Dottore in legge, era ministro degli interni della Germania Ovest e uno dei più stretti consiglieri del Cancelliere Helmut Kohl, il ragazzo a cui rivolgersi ogni volta che le cose diventavano difficili. La situazione nella ex Rdt non era troppo dissimile da quella della Grecia quando Syriza è salita al potere: i tedeschi dell’est avevano appena tenuto le prime elezioni libere nella loro storia, solo pochi mesi dopo la caduta del Muro di Berlino, e alcuni dei delegati di Berlino Est sognavano un nuovo sistema politico, una “terza via” tra l’economia di mercato dell’ovest e il sistema socialista dell’est – nel frattempo non avevano più alcuna idea di come pagare le bollette. I tedeschi occidentali, dall’altra parte del tavolo, avevano slancio, denaro e un piano: tutto quanto di proprietà dello stato della Germania Est doveva essere assorbito dal sistema tedesco-occidentale e poi rapidamente venduto ad investitori privati per recuperare una parte dei soldi di cui la Germania orientale avrebbe avuto bisogno negli anni a venire. In altre parole: Schäuble e la sua squadra volevano garanzie.A quel tempo quasi tutte le società, i negozi o le stazioni di benzina ex-comuniste erano di proprietà della Treuhand, un’agenzia di fiducia – un’istituzione originariamente pensata da un gruppo di dissidenti della Germania Est per fermare la vendita delle imprese statali alle banche e alle società della Germania Ovest da parte di quadri comunisti corrotti. La missione della Treuhand: trasformare tutti i grandi conglomerati, le aziende e i piccoli negozi in aziende private, in modo che potessero essere parte di un’economia di mercato. A Schäuble e alla sua squadra non interessava che i dissidenti avessero pianificato di distribuire azioni di queste società, emesse dalla Treuhand, ai tedeschi dell’Est – un concetto che per inciso ha portato alla nascita degli oligarchi in Russia. Ma piaceva loro l’idea di un fondo di garanzia, perché operava al di fuori del governo: sebbene tecnicamente supervisionato dal ministero delle finanze, la Treuhand era percepita dall’opinione pubblica come un organismo indipendente. Anche prima che la Germania si fondesse in un unico Stato nell’ottobre 1990, la Treuhand era saldamente nelle mani della Germania Ovest.Lo scopo dei negoziatori della Germania Ovest era privatizzare quante più aziende possibili, il più presto possibile – e se oggi si chiedesse della Treuhand alla maggior parte dei tedeschi, direbbero che ha raggiunto tale obiettivo. Non lo ha fatto in un modo che è piaciuto al popolo della Germania orientale, dove la Treuhand venne rapidamente conosciuta come la faccia violenta del capitalismo. Nello spiegare la trasformazione dell’economia ai traumatizzati tedeschi orientali, che si sentivano sopraffatti da questa strana nuova agenzia, fece un lavoro tremendo. A peggiorare le cose, la Treuhand divenne un ricettacolo di corruzione. L’agenzia si è presa tutta la colpa per la situazione desolante nella Germania dell’Est. Kohl e il partito di Schäuble, il conservatore Cdu, sono stati rieletti per gli anni a venire, mentre altri hanno pagato il prezzo: uno dei presidenti della Treuhand, Detlev Karsten Rohwedder, fu assassinato da terroristi di sinistra. (Anche Schäuble è stato vittima di un attentato che lo ha lasciato permanentemente su una sedia a rotelle, dopo solo pochi giorni dalla riunificazione tedesca – ma le motivazioni del suo aggressore paranoico erano estranee agli eventi politici). Ma la realtà di ciò che ha fatto la Treuhand è diversa dalla percezione popolare – e questo dovrebbe essere un monito sia per Schäuble che per il resto d’Europa.La vendita del patrimonio della Germania Est per il massimo profitto si è rivelata più difficile di quanto immaginato. Quasi tutti i beni di valore reale – le banche, il settore energetico – erano già state accaparrate dalle società tedesco-occidentale. Pochi giorni dopo l’introduzione del marco tedesco-occidentale, l’economia dell’est collassò. Come la Grecia, essa richiese un massiccio programma di salvataggio organizzato dal governo di Schäuble, ma in segreto: si misero da parte 100 miliardi di marchi per mantenere l’economia della vecchia Germania orientale a galla, una cifra che è diventato pubblica solo anni dopo. Con il costo del lavoro e delle forniture che sfondarono il soffitto [a causa della parità decisa a tavolino tra marco-orientale e marco-occidentale per l’unione monetaria tra le due Germanie, entrata in vigore il 1 luglio 1990, NdT], la già stressata economia della Germania Est andò in caduta libera e la Treuhand non ebbe alcuna possibilità di vendere molte delle sue imprese. Dopo un paio di mesi cominciò a chiudere intere aziende, licenziando migliaia di lavoratori. Alla fine la Treuhand non generò affatto alcun provento per il governo tedesco: raggranellò a malapena 34 miliardi di euro per tutte le società dell’est messe insieme, perdendo 105 miliardi di euro.In realtà, la Treuhand non è diventata soltanto uno strumento per la privatizzazione, ma una holding quasi-socialista. Perse miliardi di marchi, perché continuò a pagare i salari di molti lavoratori dell’est e tenne in vita alcune fabbriche non redditizie – un aspetto positivo di solito annegato nella denigrazione dell’agenzia [la denigrazione della Treuhand nasce anche dal fatto che, in aggiunta ai molteplici episodi di corruzione e alla brutale liquidazione dell’economia tedesco-orientale, l’agenzia chiuse, liquidò o svendette ad aziende tedesco-occidentali anche aziende tedesco-orientali che erano più competitive o di dimensioni ben maggiori rispetto alle controparti occidentali, nell’intento di uccidere sul nascere la potenziale concorrenza delle aziende tedesco-orientali per assicurare al capitale tedesco-occidentale lo sbocco sui mercati dei paesi ex-comunisti legati alla Germania Est – si veda il già citato “Anschluss, l’annessione” di Vladimiro Giacchè, NdT]. Poiché Kohl e, durante l’estate del 1990, Schäuble, non erano economisti di Chicago appassionati di esperimenti radicali, ma politici che volevano essere rieletti, hanno pompato milioni in un’economia in fallimento. Questo è il punto dove finisce il parallelo con la Grecia: c’erano dei limiti politici all’austerità che un governo poteva imporre al suo stesso popolo.La lezione appresa da Schäuble – che adesso è in grado di influenzare le sue decisioni – è che se si recita la parte del neoliberista puro di cuore si può ancora avere una via di fuga con decisioni che dal punto di vista economico non hanno del tutto senso. Se Schäuble sta agendo duramente con la Grecia in questo momento, è perché il suo elettorato vuole che agisca a quel modo; non è tanto che non si preoccupa per il popolo greco, è che lui vuole far credere alla gente che non gli importa, perché ne vede il vantaggio politico. Ma Schäuble dovrebbe aver imparato dalla storia che il gioco d’azzardo della Treuhand ha avuto conseguenze psicologiche catastrofiche. Anche se l’agenzia è stata gestita da tedeschi, che parlavano tedesco, è stata tuttavia vista da molti nell’est come una forza di occupazione. L’idea di Schäuble di paesi stranieri che controllano il patrimonio greco e lo trasferiscono all’estero è un concetto ancora più umiliante per qualsiasi paese. Schäuble si presenta come un ragioniere duro e sobrio. In realtà è soltanto un politico ordinario che ripete vecchi errori.(Dirk Laabs, “Per capire la durezza della Germania verso la Grecia, bisogna guardare a 25 anni fa”, dal “Guardian” del 17 luglio 2015, tradotto da “Voci dall’Estero”).Per capire le richieste di Wolfgang Schäuble nei colloqui di salvataggio, dovete guardare a ciò che ha inflitto al suo paese quando si è riunificato. Ogni dramma ha bisogno di un grande cattivo, e nell’ultimo atto della crisi greca Wolfgang Schäuble, il 72-enne ministro delle finanze tedesco, è emerso come straordinario villain: i critici lo vedono come un tecnocrate spietato che ha usato modi pesanti su un intero paese e ora ha intenzione di spogliarlo del suo patrimonio. Una parte dell’accordo di salvataggio, in particolare, ha scandalizzato molti europei: la proposta di creazione di un fondo progettato per selezionare accuratamente beni pubblici greci del valore di 50 miliardi di euro e privatizzarli per pagare i debiti del paese. Ma la chiave per comprendere la strategia della Germania è che per Schäuble non c’è nulla di nuovo in tutto questo. Venticinque anni fa, durante l’estate del 1990, Schäuble guidava la delegazione della Germania Ovest che stava negoziando i termini dell’unificazione con la Germania Est ex-comunista.
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Della Luna: Germania criminale, utile idiota dello Zio Sam
“Erneut zerstört eine deutsche Regierung Europa”, ossia “Nuovamente un governo tedesco distrugge l’Europa”, titolava ieri in prima pagina “Handelsblatt”, omologo tedesco de “Il Sole 24 Ore”, nella sua edizione online (il primo fu il governo Bethmann-Hollweg nel 1914-18, il secondo il governo Hitler nel 1938-45, il terzo il governo Merkel, oggi); e mette in bella mostra gli elmi chiodati del II Reich che distrusse l’Europa (e consentì l’egemonia degli Usa) scatenando la I Guerra Mondiale, e scatenandola nel modo più sporco: l’invasione del Belgio neutrale, le stragi di civili innocenti, la distruzione gratuita di centri urbani, l’uso massiccio dei gas mortali. Un altro articolo definisce il ministro delle finanze Schäuble “Il seppellitore (Totengräber) dell’Europa”. A intendere: nella vicenda greca, la Germania ha dimostrato che l’Unione Europea non ha una politica propria, è solo una facciata e uno strumento per i suoi interessi egoistici, nazionalistici e imperialistici rispetto agli altri paesi europei. Adesso che tutti lo vedono, l’illusione idealistica e sentimentale dell’unificazione europea, la retorica dei “padri fondatori” e tutte le altre corbellerie appaiono per quel che sono sempre state: camuffamenti.Tsipras, il doppiogiochista bifronte, ha tradito sia il mandato elettorale che quello referendario del suo popolo, finendo per imporgli condizioni addirittura più schiaccianti di quelle inizialmente richieste dalla Germania, per fare lo sporco gioco di questa, condannando la Grecia a misure incompatibili col risanamento, perché aumentare le tasse sui redditi e l’Iva a un’industria già agonizzante significa voler ammazzare l’economia e peggiorare quindi il rapporto deficit/Pil. E licenziamenti massicci con una disoccupazione al 25% sono un suicidio sociale. L’insostenibilità del debito pubblico greco si ripresenterà entro l’anno, aggravata dal calo della produzione e dell’occupazione. Qual è dunque l’obiettivo di Berlino (e quindi del governo fantoccio di Bruxelles)? Disastrare la Grecia per impadronirsi, o far sì che i capitalisti finanziari franco-tedeschi si impadroniscano dei beni pubblici che il traditore Tsipras col suo Parlamento di nominati (come quello italiano) metterà nel fondo di garanzia da 50 miliardi. E far man bassa nelle privatizzazioni che Atene sarà forzata ad eseguire col peggiorare programmato della sua crisi debitoria.La Grecia ha avuto diversi traditori prima di Alexis Tsipras, a cominciare dal famoso Efialte, che insegnò ai persiani di Serse un sentiero segreto attraverso i monti per prendere alle spalle i difensori delle Termopili. I difensori delle Termopili sono sempre giustamente commemorati e celebrati, mentre Efialte è passato come lo sterco dei muli di Serse. Il governo Merkel, venendo alla luce come il padrone incontrastato e il vero manovratore delle istituzioni europee, ha distrutto l’Europa, o meglio l’illusione del processo di unificazione europea. Ormai il re è nudo, cioè tutti vedono che l’apparato detto “Unione Europea” è una macchina di sottomissione in mano al governo e alla finanza germanici, che non ci sono né democrazia né eguaglianza né solidarietà né giustizia né sane ricette economiche né un progetto costruttivo, ma solo il progetto tedesco di indebitare, indebolire e spadroneggiare in una Lebensraum in via di conquista. Razziare gli assets pregiati e far lavorare la gente in condizione di servitù, senza garanzie e senza progetti di vita, solo per pagare interessi su pretesi debiti contratti in cambio di denaro contabile, generato a costo zero da bancari-usurai.L’opinione pubblica tedesca se ne frega, se la mortalità infantile in Grecia sale del 45%. L’imperialismo genocida tipicamente tedesco riemerge periodicamente per guidare alla vittoria i cancellieri “forti”. I quali sinora hanno poi sempre perso, perché si sono messi contro il mondo. Il problema è però chi sta dietro Berlino e la sua campagna di conquiste: quale potenza consente alla Germania di imporre tutto ciò che vuole senza nemmeno negoziare, ma piegando e umiliando chi osa opporsi? Necessariamente una potenza che dispone di superiori forze non solo economiche, ma anche militari: gli Usa, o meglio la power élite che governa Washington, ai cui disegni globali la Germania, con le sue caratteristiche di efficienza e amoralità, è strumentale. Fu grazie alla I Guerra Mondiale scatenata dalla Germania, alle distruzioni e ai debiti che essa produsse, che gli Usa soppiantarono l’Impero britannico e le potenze europee. Fu grazie ai finanziamenti delle banche e della grande industria americana, che Hitler ricostruì e riarmò la Germania. E fu grazie alla II Guerra Mondiale, che Wall Street impose al mondo il suo ordine monetario, anche col Piano Marshall e la ricostruzione.Storicamente, la Germania è uno strumento con cui lo zio Sam sottomette l’Europa. Anche in questi giorni, dietro il bailamme della crisi greca, sta ottenendo il voto favorevole del Parlamento Europeo al Ttip. Già l’Italia, come la Grecia, ha avuto ed ha governi imposti da Berlino, ma guidati da personaggi della banca americana Goldman Sachs, per fare gli interessi stranieri. Governi che hanno massacrato questo paese, i cui conti reggono oggi solo perché il Qe di Draghi li sostiene, abbassando lo spread; ma quando il Qe finirà, il debito italiano rischia seriamente una crisi di sostenibilità come quello greco. Oggi Brunetta dice «io e Forza Italia non cederemo mai la sovranità a Schaeuble», ma fino a due anni fa hanno votato tutto quello che serviva per cederla!(Marco Della Luna, estratti da “Merkel e Serse, conquistare la Grecia”, dal blog di Della Luna del 14 luglio 2015).“Erneut zerstört eine deutsche Regierung Europa”, ossia “Nuovamente un governo tedesco distrugge l’Europa”, titolava ieri in prima pagina “Handelsblatt”, omologo tedesco de “Il Sole 24 Ore”, nella sua edizione online (il primo fu il governo Bethmann-Hollweg nel 1914-18, il secondo il governo Hitler nel 1938-45, il terzo il governo Merkel, oggi); e mette in bella mostra gli elmi chiodati del II Reich che distrusse l’Europa (e consentì l’egemonia degli Usa) scatenando la I Guerra Mondiale, e scatenandola nel modo più sporco: l’invasione del Belgio neutrale, le stragi di civili innocenti, la distruzione gratuita di centri urbani, l’uso massiccio dei gas mortali. Un altro articolo definisce il ministro delle finanze Schäuble “Il seppellitore (Totengräber) dell’Europa”. A intendere: nella vicenda greca, la Germania ha dimostrato che l’Unione Europea non ha una politica propria, è solo una facciata e uno strumento per i suoi interessi egoistici, nazionalistici e imperialistici rispetto agli altri paesi europei. Adesso che tutti lo vedono, l’illusione idealistica e sentimentale dell’unificazione europea, la retorica dei “padri fondatori” e tutte le altre corbellerie appaiono per quel che sono sempre state: camuffamenti.