Archivio del Tag ‘capitali’
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Geithner e il golpe 2011, Sapelli: nel mirino era Tremonti
Prima Alan Friedman, col suo libro nel quale Prodi, De Benedetti e lo stesso Monti ammettono che nel 2011 c’erano state “consultazioni”, anche da parte di Napolitano, per far fuori Berlusconi, il premier in carica. Ora la conferma arriva da Timothy Geithner, uomo di Wall Street dirottato a Washington come ministro del Tesoro di Obama: la Casa Bianca, scrive oggi Geithner, nel 2011 ricevette pressioni da parte di alcuni paesi europei per far cadere Berlusconi. Il “golpe”, insomma, c’è stato. «Non sono sorpreso», commenta l’uomo di Arcore. «È la conferma di ciò che ho sempre sostenuto, che c’è stata una precisa volontà di togliere di mezzo un premier democraticamente eletto che difendeva gli interessi del suo paese e contrastava quelli della Germania». Ma secondo Giulio Sapelli, docente di storia economica nell’università di Milano, la tecnocrazia europea targata Angela Merkel aveva qualcun altro nel mirino: Giulio Tremonti. Era lui l’uomo nero della Troika, il vero bersaglio dell’Ue, perché resisteva – in ogni modo possibile – ai diktat dell’austerity.Quella che oggi sgancia Geithner è una bomba: «Funzionari dell’Ue chiesero a Obama di far dimettere Berlusconi». Per prima cosa bisogna contestualizzare gli eventi, raccomanda Sapelli, intervistato da Fabio Franchini per “Il Sussidiario”. Geithner, ex ministro di Obama, nel 2014 scrive un libro dove racconta come a far cadere il governo Berlusconi non siano stati gli Usa, bensì la tecnocrazia europea dominata dai tedeschi. Motivo? «Perché l’Italia si era detta non favorevole a salvare la Grecia portando quote ulteriori di capitali rispetto a quelli che già versava al fondo della Comunità Economica Europea». Se Geithner dice questo, aggiunge Sapelli, «vuol dire che ora come ora i rapporti tra Germania e Usa sono lacerati, pessimi. Uno come lui che ha avuto responsabilità internazionali di altissimo livello (mentre oggi le ha nel mondo finanziario) e che scrive un libro con dentro cose di questo tipo…».Il vero obiettivo di Bruxelles era Tremonti, insiste Sapelli: era lui l’uomo da far cadere. «Consiglio di andare a sfogliare le appendici di “Uscita di sicurezza”, scritto dall’ex ministro dell’economia: contengono delle verità terribili. Tremonti ha continuato ad avvisare la Comunità Europea sull’arrivo imminente della crisi, invitando a perseguire politiche antideflazionistiche, che andavano però a contrastare le mire tedesche. Andava allontanato». L’Italia, o meglio Tremonti, vittima dunque di una vera e propria ritorsione? «Sì, ma anche della sua stessa debolezza politica». Secondo Sapelli, uno come Tremonti «avrebbe dovuto trovare il modo di dirle anche da ministro le cose che dice nel libro». Il fatto resta senza precedenti: nella “democratica” Europa «non era mai accaduto che un governo eletto fosse destituito così. Quell’esecutivo era sì traballante, ma non ancora sfiduciato dal Parlamento. Costituzionalmente parlando è una cosa gravissima».E la calamità dello spread? «Non ha alcun senso. Lo spread, come dimostrano i fatti di oggi, era un’invenzione: era tenuto volontariamente alto per creare una psicosi. Lo spread adesso è caduto mica per merito del governo Renzi, bensì perché i mercati dei paesi emergenti, che prima tiravano, stanno manifestando i primi sentori di una crisi». Alla vigilia del voto del 25 maggio, che conseguenze può avere una rivelazione di questa portata che svela queste trame? Geopolitica: gli americani oggi impegnati in Ucraina nel braccio di ferro contro Putin sanno benissimo che il libro di Geithner avrà un’enorme eco mediatica, quindi «hanno tutto l’interesse a destabilizzare la Merkel e i governi che la sostengono». Alla luce del retroscena di Geithner, il ruolo di Napolitano in quei convulsi mesi estivi e autunnali cambia o rimane invariato? Sapelli non ha dubbi: «Dico solo una cosa: riflettiamo sul viaggio della regina Elisabetta in Italia: chi è venuta a trovare la regina? il Papa e Napolitano. Ecco».Prima Alan Friedman, col suo libro nel quale Prodi, De Benedetti e lo stesso Monti ammettono che nel 2011 c’erano state “consultazioni”, anche da parte di Napolitano, per far fuori Berlusconi, il premier in carica. Ora la conferma arriva da Timothy Geithner, uomo di Wall Street dirottato a Washington come ministro del Tesoro di Obama: la Casa Bianca, scrive oggi Geithner, nel 2011 ricevette pressioni da parte di alcuni paesi europei per far cadere Berlusconi. Il “golpe”, insomma, c’è stato. «Non sono sorpreso», commenta l’uomo di Arcore. «È la conferma di ciò che ho sempre sostenuto, che c’è stata una precisa volontà di togliere di mezzo un premier democraticamente eletto che difendeva gli interessi del suo paese e contrastava quelli della Germania». Ma secondo Giulio Sapelli, docente di storia economica nell’università di Milano, la tecnocrazia europea targata Angela Merkel aveva qualcun altro nel mirino: Giulio Tremonti. Era lui l’uomo nero della Troika, il vero bersaglio dell’Ue, perché resisteva – in ogni modo possibile – ai diktat dell’austerity.
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Col dollaro sovrano, Usa in ripresa ed Eurozona in crisi
La crisi della periferia europea ha sortito un effetto boomerang per l’euro e per Berlino: tra il 2011 e il 2013 la quantità di euro nelle riserve delle banche centrali è scesa dal 25,1 al 24.2%. Nel 2007 la Germania è caduta da terza a quarta economia nel ranking mondiale. Invece, l’egemonia del dollaro è rimasta intatta, conservando il 64% del totale della valuta nelle riserve delle banche centrali. Così, gli Usa mantengono la supremazia economica globale, spiegano Ariel e Ulises Noyola Rodríguez. La crisi del debito sovrano europeo, iniziata nel 2010 dopo la crisi delle ipoteche “subprime” statunitensi del 2007-2008, ha rivelato la fragilità delle fondamenta economiche dell’Unione Europea, partita nel 2002 con l’euro come moneta unica. Lo sviluppo differente delle crisi – negli Usa e in Europa – rende manifesto «il carattere gerarchico dell’economia mondiale» e, con esso, «l’asimmetria di potere tra gli Stati capitalisti dominanti: Germania e Usa».Gli Stati Uniti, spiegano i due economisti in un’analisi ripresa da “Come Don Chisciotte”, godono di un sistema finanziario con una maggiore elasticità dinnanzi alle turbolenze dell’economia mondiale: la banca centrale statunitense «riproduce la sua posizione in cima alla piramide dei sistemi finanziari nazionali concentrando e centralizzando capitali attraverso il binomio “dollaro – Wall Street”, che rappresenta un meccanismo di dominazione finanziaria». La moneta sovrana – il dollaro – stravince il confronto, perché la Federal Reserve emette moneta su richiesta del governo, mentre l’euro – moneta senza Stato, per Stati senza più moneta propria – non può transitare direttamente dalla Bce ai governi dell’Eurozona. Così, la Fed ha espanso la sua base monetaria (denaro depositato in banche e in circolazione nell’economia reale) di un 400%, mentre la Bce soltanto di un 150%.La banca centrale europea, osservano i due analisti, prova a non pregiudicare la posizione dell’euro come moneta di riserva. «I programmi che ha lanciato includono la “sterilizzazione di liquidità” che la Fed non ha previsto, ovvero: il denaro che la Bce usa per comprare titoli finanziari lo recupera ritirandolo dalla propria base monetaria». Immettendo invece nuovo denaro nel circuito, la Fed ha permesso all’economia americana di «riprendersi più rapidamente rispetto al sistema finanziario europeo». Cifre: tra il 2007 e il 2013, il valore delle azioni delle 10 maggiori banche americane è aumentato di 2.000 miliardi, secondo la Federal Deposit Insurance Corporation, mentre le grandi banche europee, a giugno 2013, possedevano in azioni 660 milioni di euro in meno rispetto al 2009, secondo la Bce. Inoltre, il sistema finanziario europeo, essendo di natura bipolare – da un lato banche molto forti (Deutsche Bank, Commerzbank e Bnp Paribas) e dall’altro banche molto deboli nella periferia, «aumenta il rischio locale legato a possibili shock finanziari».Affinché si mantenga la “fiducia” nella valuta, la Troika europea fa rispettare il Patto di Stabilità, che obbliga gli Stati membri a non superare il limite del 3% del deficit e del 60% di debito pubblico in relazione al Pil. «Ad ogni modo – aggiungono Ariel e Ulises Noyola Rodríguez – l’applicazione di politiche di austerità ha portato al fatto che attualmente 11 paesi non rispettino il suddetto patto», ovvero Austria, Belgio, Cipro, Slovenia, Spagna, Francia, Finlandia, Grecia, Irlanda, Italia e Olanda. Viceversa, il debito pubblico di Washington (16.7 bilioni di dollari, oltre il 100% del Pil) «si sostiene attraverso il dollaro, che agisce come rifugio privilegiato degli “short-term capitals” del resto del mondo», cioè i capitali attraverso cui si vuole ottenere un plusvalore in meno di un anno. «De facto, il rischio di default statunitense scompare».Il male oscuro dell’Eurozona si chiama deflazione: denaro insufficiente in circolazione. A partire da ottobre 2013, osservano i due economisti, l’inflazione europea si trova sotto l’1%: meno della metà dell’obiettivo fissato dalla Bce, che è il 2%. A gennaio 2014 l’inflazione è calata ulteriormente fino allo 0.8% per poi scendere ancora (allo 0.7%) a febbraio. «Ciò ha messo in allerta Mario Draghi, presidente della Bce, che ha dichiarato che è possibile che la politica monetaria sia più espansiva e includa misure non convenzionali, possibilmente in stile Fed, anche se applicate in maniera selettiva in base ai paesi». La crisi morde: il credito registra la più grave caduta in vent’anni, la disoccupazione al 12% è un record storico, il cambio euro-dollaro (1,4 dollari per euro) ormai «minaccia il dinamismo delle esportazioni tedesche». E l’Institute for Economic Research, in tedesco “Ifo”, rivela che il livello di fiducia delle imprese tedesche sta cominciando a calare.Di fronte a una situazione così drammatica, rispetto a quale la “cura” del rigore non rappresenta certo una soluzione ma, al contrario, proprio la causa principale della sofferenza, oggi la rigidissima Bce non scarta più «la possibilità di stabilire tassi negativi nei depositi bancari per ribaltare la tendenza depressiva dell’economia», creata proprio dall’euro-deflazione. E persino il banchiere centrale tedesco Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, ora è favorevole a un’espansione monetaria (“quantitative easing”), se si cambia l’articolo 123 dello Statuto della Bce che proibisce di finanziare direttamente gli Stati. Moneta finalmente disponibile? Inversione di tendenza obbligatoria, o l’Eurozona collassa.La crisi della periferia europea ha sortito un effetto boomerang per l’euro e per Berlino: tra il 2011 e il 2013 la quantità di euro nelle riserve delle banche centrali è scesa dal 25,1 al 24.2%. Nel 2007 la Germania è caduta da terza a quarta economia nel ranking mondiale. Invece, l’egemonia del dollaro è rimasta intatta, conservando il 64% del totale della valuta nelle riserve delle banche centrali. Così, gli Usa mantengono la supremazia economica globale, spiegano Ariel e Ulises Noyola Rodríguez. La crisi del debito sovrano europeo, iniziata nel 2010 dopo la crisi delle ipoteche “subprime” statunitensi del 2007-2008, ha rivelato la fragilità delle fondamenta economiche dell’Unione Europea, partita nel 2002 con l’euro come moneta unica. Lo sviluppo differente delle crisi – negli Usa e in Europa – rende manifesto «il carattere gerarchico dell’economia mondiale» e, con esso, «l’asimmetria di potere tra gli Stati capitalisti dominanti: Germania e Usa».
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Renzi piace ai mercati? Ovvio: sta per svendere l’Italia
Improvvisamente sembra tutto chiaro. E’ più che un sospetto, e la mente corre al passato: i grandi gestori internazionali non hanno mai dimenticato, con riconoscenza, Romano Prodi, il leader della sinistra moderata che permise lo smantellamento dell’Iri e portò a buon fine le ambitissime privatizzazioni. «Si sa, in Italia certe cose può farle solo la sinistra». Privatizzazioni, ricorda Marcello Foa, che però «si risolsero in un eccellente affare per chi compra e in una fregatura per chi vende o nella sostituzione di monopoli pubblici con monopoli privati». Cose che capitano, ma fanno riflettere. E sorgere qualche dubbio: «Renzi è di sinistra, come Prodi. Come lui è graditissimo a Wall Street, ai grandi fondi come Blackrock, nella City. Ed è più deciso di Enrico Letta che a sua volta godeva di buone credenziali in quegli ambienti ma era troppo lento e prudente: nessuno, nel momento del bisogno, lo ha difeso. Vuoi vedere che la vera missione del mirabolante Matteo Renzi è quella di portare a termine le privatizzazioni, ovvero di svendere quel che resta di buono in Italia?».L’allarme, per Foa, è scattato poco dopo la nomina di Matteo Renzi a Palazzo Chigi. Fonte dell’avvertimento, un amico che lavora nella finanza: «E’ già la terza volta che una grande banca d’affari parla bene della Borsa di Milano e invita a investire nei titoli italiani. Stesso approccio, stesse argomentazioni: non so cosa stia succedendo». Foa controlla sui grandi giornali e sui principali siti web, ma non trova nulla, a parte qualche trafiletto sul “Sole 24 Ore”. «Poi, tra fine marzo e i primi di aprile, l’informazione riservata a pochi privilegiati del mondo bancario, diventa pubblica». I quotidiani iniziano a battere sullo stesso tasto. Inizia “Repubblica” il 26 marzo, con Federico Fubini che avverte: «I fondi pronti a comprare, ma è una fiducia a tempo: riformare spesa e burocrazia». E spiega: «Erano anni che l’Italia non raccoglieva un interesse simile sui mercati».Così, si scopre che pochi giorni prima si è svolto un summit alla Royal Bank of Scotland, nel cuore della City di Londra, tra investitori di primissimo piano: qualcosa come 300 fondi finanziari, che – in aggregato – rappresentano «istituzioni che controllano ogni giorno molte migliaia di miliardi di dollari sui mercati globali». Tra questi, colossi americani come Blackrock, Fidelity, Blackstone, hedge fund di punta come quello di George Soros o Glg, fondi pensione, banche, più l’antica aristrocrazia europea del risparmio gestito con Schroders. «Il 70% degli investitori raccolti ha sì detto che nei prossimi tre mesi “comprerà attivi italiani”». A ruota, il “Corriere della Sera” titola in prima pagina: “Capitali esteri a caccia d’Italia”. Fabrizio Massaro spiega che fondi Usa, arabi e cinesi puntano su Borsa e made in Italy. Nel mirino banche, industria manifatturiera, moda e turismo. E ancora: «Così Goldman Sachs vende il nuovo corso politico. Garzarelli, capoeconomista del colosso Usa: prezzi bassi e nuova stabilità. Rispetto alla Spagna avete fondamentali più solidi. Renzi? Per i mercati è un leader fuori dagli schemi». Anche il “Sole 24 Ore” abbandona il riserbo e titola: “Piazza affari fa il pieno di capitali esteri”.Nell’ultimo mese il tono non è cambiato, aggiunge Foa nel suo blog sul “Giornale”. «La grande finanza internazionale continua a credere all’Italia. E si scoprono altri dettagli interessanti». Ad esempio, che Matteo Renzi ha incontrato il Ceo di Blackrock, Larry Fink, il più grande fondo di investimento al mondo: «Un colosso da 4.300 miliardi di dollari che, se fosse uno Stato, sarebbe la quarta potenza al mondo dopo Usa, Cina e Giappone». Evento salutato da tutti. «Commenti positivi», informa “Radiocor”, mentre la “Repubblica” si entusiasma: «Il più grande fondo del mondo da Renzi, Blackrock crede nella ripresa italiana». Pian piano, continua Foa, il puzzle si compone. «In Italia, lo sappiamo benissimo, la situazione non è certo migliorata rispetto a qualche mese fa. Anzi, a giudicare dai disastrosi dati sulla disoccupazione e dalle cifre record del debito pubblico è persino peggiorata». Ma quei “mercati” – gli stessi che nel 2011 avevano gettato discredito sull’Italia usando arbitrariamente lo strumento dello spread, nonostante il nostro paese fosse uscito meglio di altri dalla crisi dei subprime – ora ignorano le cattive notizie. «L’Italia è diventata, brava, buona, promettente. Da premiare con la “fiducia”».«Non sono un economista – premette Foa – ma ho seguito da vicino tante crisi finanziarie: e questa, proprio, non me la bevo». Infatti, ad attrarre l’interesse dei grandi fondi, delle banche d’affari e delle multinazionali «non sono solo i valori relativamente bassi (ma neanche troppo) di Piazza Affari, c’è dell’altro». E questo “altro” sembra «strettamente connesso all’inaspettata e rapidissima ascesa a Palazzo Chigi di Matteo Renzi». Forse, una chiave la fornisce il “Corriere della Sera”, nell’articolo di Massaro sulla “caccia ai capitali esteri”. «L’acquisto di azioni a Piazza Affari – scrive – potrebbe essere solo un assaggio in vista di quella che si annuncia come la più grande operazione di privatizzazione degli ultimi anni». Parola del neoministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, super-falco neoliberista proveniente dall’Ocse e dalla casta tecnocratica al servizio dell’élite mondiale. E’ proprio Padoan, a Cernobbio, a svelare le carte: avanti tutta con le privatizzazioni, quelle che piacciono tanto ai “mercati”, così pieni di “fiducia” per l’Italia di Renzi.«L’attenzione del mercato è crescente e va sfruttata nel migliore dei modi», dichiara Padoan al “Corriere”. L’obiettivo della nuova ondata di privatizzazioni che si profila? E’ duplice: «Accrescere l’efficienza delle imprese privatizzate e ovviamente ridurre in modo consistente il debito pubblico». Il primo banco di prova potrebbero essere le Poste: «È stato avviato il processo di privatizzazione, è una sfida importante per il paese e verrà sottoposta al vaglio del mercato». Gran parte della fortuna politica del governo, scrive il “Corriere”, si gioca sul successo delle vendite di Stato: l’incasso per il Tesoro potrebbe arrivare a oltre 15 miliardi da Poste (il cui 40% da solo vale 4-5 miliardi), Fincantieri, Enac, Cdp Reti, Sace, Grandi Stazioni, St Microelectronics. «Per i fondi si tratta di comprare a prezzi favorevoli, per le banche d’affari di guadagnare sugli incarichi di vendita». Tutto questo, grazie a Matteo il rottamatore, il nuovo eroe dei “mercati” ammazza-paesi.Improvvisamente sembra tutto chiaro. E’ più che un sospetto, e la mente corre al passato: i grandi gestori internazionali non hanno mai dimenticato, con riconoscenza, Romano Prodi, il leader della sinistra moderata che permise lo smantellamento dell’Iri e portò a buon fine le ambitissime privatizzazioni. «Si sa, in Italia certe cose può farle solo la sinistra». Privatizzazioni, ricorda Marcello Foa, che però «si risolsero in un eccellente affare per chi compra e in una fregatura per chi vende o nella sostituzione di monopoli pubblici con monopoli privati». Cose che capitano, ma fanno riflettere. E sorgere qualche dubbio: «Renzi è di sinistra, come Prodi. Come lui è graditissimo a Wall Street, ai grandi fondi come Blackrock, nella City. Ed è più deciso di Enrico Letta che a sua volta godeva di buone credenziali in quegli ambienti ma era troppo lento e prudente: nessuno, nel momento del bisogno, lo ha difeso. Vuoi vedere che la vera missione del mirabolante Matteo Renzi è quella di portare a termine le privatizzazioni, ovvero di svendere quel che resta di buono in Italia?».
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I miliardari del futuro digitale e le nostre vite virtuali
Nel film “Her”, che ha appena vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale e che si svolge in un futuro prossimo, il personaggio principale, Theodore Twombly (Joaquin Phoenix) acquista un sistema operativo che funziona come un assistente totale, che si piega intuitivamente a qualsiasi esigenza o richiesta dell’utente. Theodore sceglie la voce femminile e con il suo smartphone passa le ore a chiacchierare con lei, finché non se ne innamora. La metafora è evidente e sottolinea la nostra sempre maggiore dipendenza dal mondo digitale, e la nostra immersione sempre più profonda in un universo smaterializzato. Ma se citiamo questo film non è solo per la sua moralità, ma perché i suoi personaggi vivono, come faremo domani, in un ambiente comunicativo ancora più iperconnesso. Con un’alta densità di tablet, smartphone, videogiochi di ultima generazione, schermi televisivi giganti e computer dialoganti attivati con la voce…La richiesta di dati e video ha raggiunto davvero livelli astronomici. Questo perché gli utenti sono sempre più agganciati nelle reti sociali. Facebook, ad esempio, ha già più di 1.300 milioni di utenti attivi in tutto il mondo, YouTube circa un miliardo, Twitter 750 milioni, WhatsApp 450 milioni. In tutto il mondo, gli utenti non sono più soddisfatti da un unico mezzo di comunicazione e reclamano il “quadruple play”, ossia l’accesso a Internet, Tv digitale, telefono fisso e mobile. E per soddisfare questa domanda insaziabile ci vogliono connessioni (di banda ultralarga) capaci di fornire l’enorme flusso di informazioni, espresse in centinaia di megabit al secondo. E qui sorge il problema. Dal punto di vista tecnico, le reti Adsl attuali – quelle che ci permettono di ricevere Internet in banda larga sui nostri smartphone – sono quasi già sature. Cosa fare? L’unica soluzione è passare attraverso il cavo, coassiale o in fibra ottica. Questa tecnologia assicura una qualità ottimale nella trasmissione dati e video a banda ultralarga, quasi senza limiti di portata.Era popolare nel 1980, ma fu accantonata perché richiede grandi opere costose (bisogna scavare e mettere sottoterra i cavi e portarli alla base degli edifici). Solo pochi operatori via cavo hanno continuato a investire sulla sua affidabilità e hanno pazientemente costruito una fitta rete cablata. La maggior parte degli altri preferivano la tecnologia Adsl, più economica (è sufficiente installare una rete di antenne) ma, come abbiamo detto, è quasi saturata. Pertanto, in questo momento, il movimento generale delle grandi società di telecomunicazioni (e degli speculatori dei fondi di capitale) è quello di cercare a tutti i costi la fusione con gli operatori via cavo le cui “vecchie” reti in fibra rappresentano, paradossalmente, il futuro delle autostrade della comunicazione.Questo contesto tecnologico e commerciale spiega la recente acquisizione, in Spagna, di Ono, il più grande operatore via cavo locale da parte della britannica Vodafone in cambio di 7,2 miliardi di euro. Quarto operatore spagnolo, Ono ha 1,1 milioni di linee mobili e 1,5 milioni di linee fisse, ma ciò che gli dà valore è la sua vasta rete cablata che raggiunge 7,2 milioni di famiglie. La quota del 60% in Ono era nelle mani dei fondi azionari internazionali che già sapevano, per le ragioni appena illustrate, che i giganti della telecomunicazione vogliono acquistare, a qualsiasi prezzo, agli operatori via cavo. Ovunque, i fondi-avvoltoio stanno comprando gli operatori via cavo indipendenti per poter ottenere guadagni significativi da rivendere a un qualche compratore dell’industria. Per esempio, in Spagna, i tre operatori via cavo regionali, Euskaltel, Telecable e R – sono stati oggetto di acquisti speculativi. Nel 2011 il fondo di private equity statunitense Carlyle Group ha acquistato l’85% dell’operatore asturiano via cavo Telecable.Nel 2012 il fondo italiano Investindustrial e quello americano Trilantic Capital Parners hanno rilevato il 48% dell’operatore basco Euskaltel. E il mese scorso il fondo britannico Cvc Capital Partners ha acquisito il 30% che gli mancava dell’operatore galiziano R, che controlla nella sua totalità. A volte le fusioni sono realizzate in senso inverso: è l’operatore via cavo che acquista una società di telecomunicazioni. È appena accaduto in Francia, dove l’azienda di cavi Numericable (cinque milioni di famiglie o aziende collegate) sta cercando di acquistare, per quasi 12 miliardi di euro, il terzo operatore di telefonia mobile francese, Sfr, proprietario di una rete di 57.000 chilometri di fibra ottica. Altre volte sono due cablo-operatori che decidono di fondersi. Sta succedendo in America, dove i due maggiori operatori via cavo, Comcast e Time Warner Cable (Twc), hanno deciso di unirsi. Insieme, questi due titani hanno oltre 30 milioni di abbonati, a cui procurano servizi di Internet a banda larga e di telefonia fissa e mobile.Le due aziende, ora socie, controllano anche un terzo della pay-tv. La loro mega-fusione verrebbe praticata sotto forma di un acquisto di Twc da parte di Comcast per la somma colossale di 45 miliardi di dollari (36 miliardi di euro). Il risultato sarà un mastodonte mediatico con un fatturato stimato in circa 87 miliardi di dollari (67 miliardi di euro). Una somma astronomica, come quella degli altri giganti di Internet, in particolare se confrontata con quella di alcuni gruppi mediatici di stampa scritta. Ad esempio, il fatturato del gruppo Prisa, il primo gruppo di comunicazione spagnolo, editore del quotidiano “El País” con una forte presenza in America Latina, è inferiore ai 3 miliardi di euro. Il “New York Times” fattura meno di 2 miliardi di euro. Il gruppo “Le Monde” non supera i 380 milioni di euro, e il “Guardian” neppure 250.In termini di solidità finanziaria, rispetto ai colossi delle telecomunicazioni, la stampa (anche con i siti web) pesa poco. E ogni volta meno. Ma rimane un fattore indispensabile di informazione e di denuncia. Particolarmente sugli abusi dei nuovi giganti delle telecomunicazioni quando spiano le nostre comunicazioni. Grazie alle rivelazioni di Edward Snowden e Glenn Greenwald, pubblicate dal quotidiano britannico “The Guardian”, abbiamo appreso che la maggior parte dei giganti di Internet erano – e sono tuttora – complici della National Security Agency (Nsa) per la realizzazione del suo programma illegale di spionaggio massivo delle comunicazioni e dell’utilizzo dei social network. Non siamo innocenti. Schiavi volontari, e pur sapendo di essere osservati, continuiamo ad alterarci con la droga digitale. Senza preoccuparci di quanto cresce la nostra dipendenza, consegnamo sempre più la sorveglianza delle nostre vite ai nuovi padroni della comunicazione. Continueremo così? Possiamo consentire di essere tutti sotto controllo?(Ignacio Ramonet, “Tutti sotto controllo”, intervento pubblicato da “Le Monde Diplomatique”, tradotto e ripreso da “Come Don Chisciotte” il 4 aprile 2014).Nel film “Her”, che ha appena vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale e che si svolge in un futuro prossimo, il personaggio principale, Theodore Twombly (Joaquin Phoenix) acquista un sistema operativo che funziona come un assistente totale, che si piega intuitivamente a qualsiasi esigenza o richiesta dell’utente. Theodore sceglie la voce femminile e con il suo smartphone passa le ore a chiacchierare con lei, finché non se ne innamora. La metafora è evidente e sottolinea la nostra sempre maggiore dipendenza dal mondo digitale, e la nostra immersione sempre più profonda in un universo smaterializzato. Ma se citiamo questo film non è solo per la sua moralità, ma perché i suoi personaggi vivono, come faremo domani, in un ambiente comunicativo ancora più iperconnesso. Con un’alta densità di tablet, smartphone, videogiochi di ultima generazione, schermi televisivi giganti e computer dialoganti attivati con la voce…
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Piano Manhattan: banche, guerra segreta contro Putin
«Questa non è un’altra guerra fredda: non c’è nessun plausibile equilibrio tra Russia e Occidente, e nessuna ideologia mistica da contrapporre». Quella in atto contro Mosca è una guerra economica, che gli Usa stanno preparando da 12 anni. Si chiama “Progetto Manhattan”, messo a punto da un dipartimento d’élite del Tesoro: una «bomba finanziaria al neutrone», progettata per «mettere la Russia in ginocchio senza sparare un colpo». La strategia si basa sul controllo egemonico del sistema bancario globale: si tratta di colpire le banche russe, con la collaborazione – convinta o riluttante – di tutti gli alleati degli Usa. «La resa dei conti per la finanza degli Stati Uniti con la Russia è più pericolosa di quello che sembra», avverte Ambrose Evans-Pritchard: la Russia è il più grande produttore mondiale di energia, ha un fatturato da duemila miliardi di dollari, dispone di eccellenti scienziati e mantiene in efficienza un arsenale nucleare di prim’ordine.Juan Zarate, il “cervello” del Tesoro che ha contribuito a ridisegnare la politica della Casa Bianca dopo l’11 Settembre, la definisce «un nuovo tipo di guerra, una specie di insurrezione finanziaria strisciante, con l’intento di incidere senza precedenti sulla linfa vitale finanziaria dei nostri nemici». Una strategia «più efficiente e sottile di qualsiasi altro confronto geopolitico del passato, ma non meno spietato e distruttivo», scrive nel suo libro “La guerra del Tesoro: lo scatenamento di una nuova era di guerra finanziaria”. Obiettivo: stringere il cappio intorno al collo della Russia di Vladimir Putin, chiudendo lentamente l’accesso al mercato per banche, le aziende gli enti statali russi, scrive Evans-Pritchard in un intervento sul “Telegraph” ripreso da “Come Don Chisciotte”. L’arma invisibile è una disposizione contenuta nel Patriot Act: se una banca si macchia di mancato rispetto delle norme previste – se viene accusata di riciclaggio di denaro o di sovvenzionare attività terroristiche o reati collaterali – diventa “radioattiva” e viene catturata nell’abbraccio mortale di Wall Street. Il suo valore crolla e gli azionisti fuggono.«Questa può essere una condanna a morte, anche se il creditore non svolge nessuna operazione negli Stati Uniti», annota Evans-Pritchard. «Le banche europee non hanno il coraggio di sfidare le autorità di regolamentazione Usa e rompono tutti i loro rapporti con la vittima». Così, finora, hanno fatto anche i cinesi: nel 2005 gli Usa colpirono il Banco Delta Asia (Bda) di Macao, accusandolo di essere stato un canale di pirateria commerciale verso la Corea del Nord. La Cina staccò la spina e il Bda fallì entro due settimane. Zarate, lo stratega della guerra finanziaria contro Mosca, sostiene che gli Usa potrebbero procedere anche da soli con le sanzioni, senza neppure attendere gli alleati europei. Il nuovo arsenale, continua Evans-Pritchard, è stato schierato contro l’Ucraina già nel 2002, quando gli Usa accusarono le banche di Kiev di riciclare i fondi della mafia russa, facendole capitolare.«Si sta facendo una guerra segreta su scala globale di lungo termine», conferma Zarate. EPutin sa esattamente che cosa possono fare gli Usa con le loro armi finanziarie. Secondo Zarate, la Casa Bianca di Obama ha aspettato anche troppo a lungo per fare sul serio, aggrappandosi alla speranza che Putin avrebbe smesso presto di infrangere le regole. Non sono bastati gli “avvertimenti” inviati alle banche russe che sostenevano il regime siriano. Per lo stratega di Washington, gli americani ora «dovrebbero togliersi i guanti: più aspettano, più dovranno muoversi pesantemente». Sempre secondo Zarate, potrebbe essere già troppo tardi per mantenere il controllo dell’Ucraina orientale, ma non troppo tardi per far pagare ai russi un prezzo molto caro. «Se il Tesoro degli Stati Uniti affermasse che tre banche russe sono coinvolte in preoccupanti operazioni di riciclaggio – dice – siamo sicuri che Ubs o Standard Chartered non ci rimetterebbero niente?».Questo potrebbe far emettere sanzioni progressive alle imprese della difesa russa e alle esportazioni di minerali e di energia: basterebbe una stretta su Gazprom, per far crollare tutto il sistema. Per Evans-Pritchard, invece, è meglio che alla Casa Bianca non si facciano illusioni: la Russia ha 470 miliardi di dollari di riserve estere, con le quali la banca centrale combatte la fuga dei capitali e difende il rublo. Il professor Harold James, di Princeton, ricorda la vigilia della Prima Guerra Mondiale: Gran Bretagna e Francia pensavanodi scatenare una guerra finanziaria per controllare la potenza tedesca. Ma attenzione: rompere gli equilibri che sostengono la finanza mondiale significa che niente potrà più contenerla. Le sanzioni? Rischiano solo di innescare reazioni a catena simili allo shock del 2008. «Lehman era solo un piccolo istituto, se lo dovessimo confrontare con le banche austriache, francesi e tedesche che sono oggi altamente esposte al sistema finanziario della Russia. Un congelamento dei beni russi – scrive James “Project Syndicate” – potrebbe essere catastrofico per i mercati finanziari europei, anzi per i mercati globali».Secondo Evans-Pritchard, è molto serio il rischio di una «replica asimmetrica» dal Cremlino: «Gli esperti russi di guerrra cibernetica sono tra i migliori, e fecero un giro di prova sull’Estonia nel 2007. Un fermo cibernetico di un sistema idrico dell’Illinois nel 2011 è stato attribuito a fonti russe. Non sappiamo se la Us Homeland Security possa essere in grado di contrastare un attacco in piena regola che preveda un blocco dei servizi alle reti elettriche, ai sistemi idrici, al controllo del traffico aereo o peggio ancora al New York Stock Exchange, o a Washington stessa». Se scoppiasse una guerra cibernetica oggi, «gli Stati Uniti perderebbero: siamo semplicemente un paese molto dipendente e vulnerabile», disse nel 2010 il capo del servizio di spionaggio Usa, Mike McConnell. E nel 2012 il segretario alla difesa Leon Panetta lanciò l’allerta per un possibile cyber-attack tipo Pearl-Harbour, capace di paralizzare tutti i sistemi di logistica e di erogazione dei servizi vitali.«Potrebbero bloccare la rete elettrica di vaste zone del paese, potrebbero far deragliare treni passeggeri o, ancor più pericolosamente, far deragliare treni carichi di sostanze chimiche letali», o addittura «contaminare la fornitura d’acqua nelle grandi città». Solo una boutade esagerata, quella di Panetta, magari per chiedere più fondi al Congresso? Evans-Pritchard resta prudente: non è saggio provocare la Russia in modo tanto grave e pericoloso. «Le sanzioni sono vecchie come il mondo, così come le lezioni salutari», conclude il notista del “Telegraph”, ricorrendo all’insegnamento dell’antica Grecia. «Pericle cercò di spaventare la città-stato di Megara nel 432 a.C. bloccando tutti i suoi commerci con i mercati dell’impero ateniese e cominciarono così le guerre del Pelopenneso che portarono la fanteria oplita di Sparta ad abbattersi su Atene e distruggere tutto. Il sistema economico della Grecia cadde in rovina e in balia della Persia. Quello fu un assaggio di asimmetria».«Questa non è un’altra guerra fredda: non c’è nessun plausibile equilibrio tra Russia e Occidente, e nessuna ideologia mistica da contrapporre». Quella in atto contro Mosca è una guerra economica, che gli Usa stanno preparando da 12 anni. Si chiama “Progetto Manhattan”, messo a punto da un dipartimento d’élite del Tesoro: una «bomba finanziaria al neutrone», progettata per «mettere la Russia in ginocchio senza sparare un colpo». La strategia si basa sul controllo egemonico del sistema bancario globale: si tratta di colpire le banche russe, con la collaborazione – convinta o riluttante – di tutti gli alleati degli Usa. «La resa dei conti per la finanza degli Stati Uniti con la Russia è più pericolosa di quello che sembra», avverte Ambrose Evans-Pritchard: la Russia è il più grande produttore mondiale di energia, ha un fatturato da duemila miliardi di dollari, dispone di eccellenti scienziati e mantiene in efficienza un arsenale nucleare di prim’ordine.
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Baranes: la finanza sta sabotando l’economia dell’umanità
Se stai facendo una riparazione domestica e ti si rompe il cacciavite che fai, cambi cacciavite o cambi casa? «Per compiacere i mercati abbiamo cambiato la nostra Costituzione, inserendovi il pareggio di bilancio. Il cacciavite non funzionava. Abbiamo cambiato casa». Secondo Andrea Baranes, la finanza «ci ha caricato sulle spalle un insostenibile fardello fatto di disoccupazione, precarietà, perdita di diritti» e «ci ha gettato nel fango di una recessione globale». E ora «lo stesso sistema finanziario ci dice che con questo fardello e in questo fango dobbiamo metterci a correre, perché altrimenti si arrabbia e ci toglie la fiducia». E’ una macchina mostruosa, che sfugge a ogni controllo: «Il totale di beni e i servizi importati ed esportati nel mondo ammonta a 20.000 miliardi di dollari all’anno. Le transazioni tra valute hanno superato i 5.000 miliardi di dollari al giorno: circola più denaro in soli 4 giorni sui mercati finanziari che in un intero anno nell’economia reale».Da trent’anni, scrive Baranes in una riflessione ripresa da “Micromega”, siamo immersi in un pensiero economico che si fonda sull’idea dell’efficienza dei mercati, da cui discende la necessità di rimuovere vincoli e controlli pubblici che possano ostacolarne il funzionamento. In realtà, «la finanza ha dimensioni decine di volte superiori all’economia di cui dovrebbe essere al servizio». Si sospetta che la quasi totalità delle operazioni finanziarie sia pura speculazione: «Nessun rapporto con l’economia reale, ma unicamente soldi che inseguono soldi per fare altri soldi». La seconda possibilità, ancora peggiore, è che «la finanza lavori con un’efficienza intorno al 1%». Non si tratta solo di risorse economiche, ma anche di risorse umane. I migliori studenti di economia, matematica, informatica e statistica sono attratti dagli alti stipendi verso i centri finanziari, «per creare prodotti sempre più complessi, incomprensibili e rischiosi».Avvertiva il Premio Nobel James Tobin già negli anni ‘80: «Stiamo gettando sempre più risorse, inclusa la crema della nostra gioventù, dentro attività finanziarie lontane dalla produzione di beni e servizi, attività che generano alte remunerazioni private, sproporzionate rispetto alla loro produttività sociale». Il sistema finanziario, dice Baranes, ha «moltiplicato i rischi» in modo esplosivo, sabotando l’economia, «all’esasperata ricerca del massimo profitto nel minor tempo possibile». La finanza? «Dovrebbe essere il mercato dei soldi, per fare incontrare chi ha un risparmio da investire con chi ne ha bisogno per le proprie attività». Oggi, invece, «abbiamo da un lato una montagna di denaro alla disperata ricerca di sbocchi di investimento, e dall’altro una montagna altrettanto alta di bisogni che non sono soddisfatti». Nonostante il vortice di trilioni in costante movimento, è praticamente impossibile ottenere un mutuo: piccole imprese e artigiani sono strangolati dalla mancanza di accesso al credito. La finanza non risolve problemi, crea solo disastri. Salvo poi tentare di incolpare il sistema pubblico: scuola, sanità e acqua potabile da privatizzare, facendo vincere il profitto. Se parliamo di bisogni essenziali dell’umanità, la finanza «ha dimostrato un’assoluta incapacità di operare nell’interesse generale».Se stai facendo una riparazione domestica e ti si rompe il cacciavite che fai, cambi casa o cambi cacciavite? «Per compiacere i mercati abbiamo cambiato la nostra Costituzione, inserendovi il pareggio di bilancio. Il cacciavite non funzionava. Abbiamo cambiato casa». Secondo Andrea Baranes, la finanza «ci ha caricato sulle spalle un insostenibile fardello fatto di disoccupazione, precarietà, perdita di diritti» e «ci ha gettato nel fango di una recessione globale». E ora «lo stesso sistema finanziario ci dice che con questo fardello e in questo fango dobbiamo metterci a correre, perché altrimenti si arrabbia e ci toglie la fiducia». E’ una macchina mostruosa, che sfugge a ogni controllo: «Il totale di beni e i servizi importati ed esportati nel mondo ammonta a 20.000 miliardi di dollari all’anno. Le transazioni tra valute hanno superato i 5.000 miliardi di dollari al giorno: circola più denaro in soli 4 giorni sui mercati finanziari che in un intero anno nell’economia reale».
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Della Luna: indipendentisti veneti e violenza di Stato
Pericolo indipendista? Non scherziamo, dice l’avvocato Marco Della Luna: «In Italia, le uniche organizzazioni capaci di condurre una vasta e metodica azione militare sono le mafie». Gli indipendentisti irlandesi che conquistarono la libertà nel 1922 dopo otto secoli di occupazione britannica «lo fecero con metodi che i veneti e i padani non sono assolutamente in grado di replicare né di digerire moralmente». Della Luna, sul suo blog, ricorda di aver personalmente conosciuto alcuni degli attivisti veneti ora arrestati con l’accusa di aver commesso reati eversivi: «Erano persone del tutto incapaci di violenza organizzata e metodica. Spirito marziale zero. Dissi loro che non è pensabile conquistare l’indipendenza con la forza, mancando la mentalità, il temperamento, la volontà di combattere realmente, indispensabili per l’auto-liberazione sul modello irlandese». Riformare lo Stato in senso democratico per vie legali? «E’ pure impossibile, perché il potere costituito non molla la gallina dalle uova d’oro. E aspettare poi che siano gli stranieri a liberarci, è semplicemente assurdo».Secondo Della Luna, ogni unione tra aree geografiche con diversi livelli di produttività «funziona male e tende a degenerare», perché «esclusi gli Usa, che scaricano i costi sul resto del mondo attraverso il dollaro», per tenere insieme le parti tendenzialmente divergenti lo Stato «deve trasferire reddito dalle aree più produttive a quelle meno produttive, col risultato di super-tassare le prime». Si finisce per tagliare fondi per l’investimento e l’innovazione e si provica una fuga di capitali, imprese e cervelli. Sicché, sempre secondo Della Luna, col tempo le aree “forti” si impoveriscono, e così non riescono neppure più a «sussidiare le aree meno produttive». In questo modo, anziché correggere il sistema, si incentivano e si stabilizzano «le caratteristiche disfunzionali delle aree meno produttive», cioè «sprechi, mafie, corruzione, parassitismo», favorendone la propagazione verso le aree “forti” attraverso l’emigrazione interna, «in Italia soprattutto attraverso il pubblico impiego».Per Della Luna, si genera «un livellamento al basso, un degrado civile, un impoverimento globale» che destabilizza il sistema-paese «quando lo Stato centrale non è più in grado di “comprare” il consenso o perlomeno la quiete mediante l’assistenzialismo», e dunque «si mette a consumare con le tasse e con le privatizzazioni il risparmio e le risorse». Si raschia il fondo del barile, esaurendo le riserve. «Aree di diversa produttività (e mentalità) abbisognano di bilanci, monete e politiche economiche separate», insiste Della Luna. «Questa è la ragione oggettiva per la quale, insieme all’Eurozona, anche l’Italia – come assemblato di aree eterogenee – funziona male». Problemi a cascata: «Funzionando male», gli aggregati disomogenei «per sopravvivere arrivano alla violenza», che nel caso dell’Eurozona è «la violenza distruttiva di regole finanziarie economicamente assurde e controproducenti, con la quali la Germania si difende dal pericolo della solidarietà coi paesi mediterranei», a cui nel nostro caso si aggiunge «la violenza famelica, cieca e distruttiva della casta italiana».Una casta che, «per procurarsi i soldi necessari a mantenere i suoi redditi e privilegi», ben sapendo di essere «in un paese che affonda», da un lato «si asservisce agli interessi tedeschi», e dall’altro lato «spreme ciecamente il Nord e soprattutto il Veneto (40 miliardi l’anno) mentre chiude uno o due occhi sugli sprechi e sull’evasione fiscale e contributiva delle regioni più sussidiate, incurante delle imprese che muoiono, degli imprenditori che si suicidano, dei flussi migratori di aziende, imprese e lavoratori». Questa, aggiunge Della Luna, «è violenza reale di ogni giorno, che distrugge e uccide, che annienta il futuro». Violenza «perpetrata attraverso il fisco e il braccio armato dello Stato contro i lavoratori e interi popoli produttivi da parte di gente spinta da una bramosia di denaro simile a quella degli eroinomani disposti ad ammazzare i genitori per trovare i soldi della dose quotidiana». L’avvocato la definisce «violenza organizzata, armata, legale, ingiusta. Violenza al potere. Violenza che col Parlamento si fa le leggi per blindarsi e assolversi. Ad oltranza».L’Italia, sostiene Della Luna, è «preda di 10 milioni di voti, mafiosi o clientelar-parassitari». Con questa base di partenza «non si potrà mai cambiare veramente». Le mafie, tra l’altro, «si rinforzano con l’immigrazione incontrollata», che «provoca una concorrenza sleale tra lavoratori nostrani e no: chi non lavora cerca assistenzialismo». Così, «il cancro aumenta vertiginosamente le sue metastasi: poi il malato (Italia) muore generando un mostro incontrollabile che si dirigerà spavaldamente verso una più evidente forma di tirannia».Della Luna è pessimista: per lui, l’unica via d’uscita da questo sistema oppressivo e concertato con le potenze economiche estere è la «secessione pacifica». Ovvero: «Andarsene, trasferirsi con beni e risparmi in qualche paese migliore, lasciando gli italiani ad arrangiarsi. Trasferirsi in gruppo, in modo organizzato, dopo aver concordato con le autorità dei paesi di destinazione condizioni favorevoli per una nuova vita».Pericolo indipendentista? Non scherziamo, dice l’avvocato Marco Della Luna: «In Italia, le uniche organizzazioni capaci di condurre una vasta e metodica azione militare sono le mafie». Gli indipendentisti irlandesi che conquistarono la libertà nel 1922 dopo otto secoli di occupazione britannica «lo fecero con metodi che i veneti e i padani non sono assolutamente in grado di replicare né di digerire moralmente». Della Luna, sul suo blog, ricorda di aver personalmente conosciuto alcuni degli attivisti veneti ora arrestati con l’accusa di aver commesso reati eversivi: «Erano persone del tutto incapaci di violenza organizzata e metodica. Spirito marziale zero. Dissi loro che non è pensabile conquistare l’indipendenza con la forza, mancando la mentalità, il temperamento, la volontà di combattere realmente, indispensabili per l’auto-liberazione sul modello irlandese». Riformare lo Stato in senso democratico per vie legali? «E’ pure impossibile, perché il potere costituito non molla la gallina dalle uova d’oro. E aspettare poi che siano gli stranieri a liberarci, è semplicemente assurdo».
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Renzi tassa le rendite finanziarie? Non servirà a nulla
Tassare le rendite finanziarie per sostenere provvedimenti anti-recessione? Intanto, premette Guglielmo Forges Davanzati, non è detto che le risorse derivanti dalla maggiorazione delle imposte sugli interessi obbligazionari e bancari bastino a coprire il taglio dell’Irap. Inoltre, in mercati finanziari globali pressoché senza regole, l’aumento della tassazione delle rendite attuata da un singolo Stato rischia di generare fughe di capitali, vanificando il recupero delle risorse. E mentre le imprese sono favorite dalla riduzione dell’Irap, la tassazione finanziaria può spingere le banche ad aumentare i tassi sui prestiti per recuperare margini di profitto, accrescendo ulteriormente le passività finanziarie delle imprese. Difficile aspettarsi un aumento di investimenti, e quindi di occupazione. In ogni caso quello di Renzi «resta un provvedimento minimale, che non agisce sulle cause profonde della crisi e che non modifica in modo strutturale i rapporti fra politica e finanza».Tutto comunciò con la Grande Depressione del 1929, quando venne introdotta negli Stati Uniti una normativa notevolmente stringente sull’attività bancaria come il “Glass-Steagal Act”, che stabilì la separazione fra banche commerciali (risparmi e finanziamenti a imprese e famiglie) e banche d’investimento (operazioni speculative sui mercati finanziari). Quella legge, ricorda Davanzati su “Micromega”, fissò un limite all’aumento dei tassi di interesse. «La “repressione finanziaria” – come fu definita – contribuì a generare il più lungo periodo di stabilità del capitalismo. Erano gli anni nei quali Roosevelt scriveva che “il pericolo rappresentato dalla finanza organizzata è pari a quello del crimine organizzato”». Poi, il “contrordine” negli anni ‘90 con Bill Clinton, che abolì il “Glass-Steagal Act”. Tesi: la finanza “buona” può aiutare l’economia. Ovvero: «Essendo gli agenti economici perfettamente razionali e perfettamente informati, acquistano titoli di imprese efficienti e vendono di titoli di imprese inefficienti, così che l’attività speculativa svolge la funzione di “premiare” gli operatori maggiormente produttivi e, operando di fatto una selezione darwiniana, “punire” gli operatori meno produttivi».Così, proprio a partire dagli anni ‘90 – legittimata dall’ipotesi dei mercati finanziari efficienti – la politica economica innanzitutto negli Usa dà spazio a un modello di riproduzione capitalistica caratterizzato da crescente “finanziarizzazione”. Risultato: se negli anni ‘80 il denaro “virtuale” della finanza valeva 3 volte il Pil, nel 2006 il suo valore era più che triplicato. «Ciò a dire che, nel momento in cui viene effettuato uno scambio nell’economia “reale”, si effettuano 10 transazioni nella sfera finanziaria». In tutti i paesi Ocse, a partire dagli Usa, il rapporto fra attività finanziarie detenute dai residenti in un paese e il corrispondente valore del Pil degli stessi anni è costantemente aumentato. La finanziarizzazione, aggiunge Davanzati, deriva dal combinato di misure di deregolamentazione della sfera finanziaria e di riduzione della quota dei salari sul Pil. Negli Usa, i salari reali medi nel settore privato si sono quasi dimezzati nel corso dell’ultimo ventennio.«E’ palese che, in questo contesto, le imprese tendono a disinvestire, dal momento che la produzione e la vendita di beni diventa sempre meno conveniente a ragione della caduta della domanda di beni di consumo e, per contro, trovano sempre più conveniente destinare quote crescenti dei profitti accumulati all’acquisto e alla vendita di titoli». La finanziarizzazione delle imprese «è causata dal peggioramento della distribuzione del reddito, ovvero dalla riduzione dei consumi conseguente alla riduzione dei salari». Del resto, se la speculazione diventa sempre più conveniente rispetto alla produzione di beni e servizi, le imprese – finanziarizzandosi – ottengono profitti in tempi più rapidi, dal momento che la produzione richiede tempo e che è invece possibile accedere ai mercati finanziari su scala globale in ogni momento. Riducendo i mercati di sbocco delle imprese, la contrazione della domanda ne riduce i profitti, generando aspettative negative sull’andamento dei profitti futuri. Questo induce le banche a ritenere sempre più probabile il rischio di insolvenza delle imprese e, dunque, a ridurre i finanziamenti erogati.Contrariamente alle previsioni, continua Davanzati, la speculazione si è rivelata tutt’altro che stabilizzante: al contrario, è proprio uno dei principali fattori all’origine della crisi in corso. Lo “sciame” dei piccoli risparmiatori resta in balia delle ondate emotive pilotate dai mercati finanziari, che in realtà «non sono altro che aggregazioni collusive composte da poche grandi istituzioni finanziarie (Goldman Sachs, Lloyds, innanzitutto)». Inoltre, «in un regime nel quale imprese e banche destinano quote crescenti dei profitti accumulati per attività speculative, gli investimenti si riducono, generando un circolo vizioso di caduta della domanda aggregata, riduzione dell’occupazione e dei profitti, ulteriore incentivo alla finanziarizzazione e riduzione del tasso di crescita». Morale: oogi, «agire con la leva fiscale per provare a contenere gli effetti perversi della finanziarizzazione appare inutile e per certi versi controproducente». La manovra di Renzi? Esigua, irrilevante, forse anche pericolosa.Tassare le rendite finanziarie per sostenere provvedimenti anti-recessione? Intanto, premette Guglielmo Forges Davanzati, non è detto che le risorse derivanti dalla maggiorazione delle imposte sugli interessi obbligazionari e bancari bastino a coprire il taglio dell’Irap. Inoltre, in mercati finanziari globali pressoché senza regole, l’aumento della tassazione delle rendite attuata da un singolo Stato rischia di generare fughe di capitali, vanificando il recupero delle risorse. E mentre le imprese sono favorite dalla riduzione dell’Irap, la tassazione finanziaria può spingere le banche ad aumentare i tassi sui prestiti per recuperare margini di profitto, accrescendo ulteriormente le passività finanziarie delle imprese. Difficile aspettarsi un aumento di investimenti, e quindi di occupazione. In ogni caso quello di Renzi «resta un provvedimento minimale, che non agisce sulle cause profonde della crisi e che non modifica in modo strutturale i rapporti fra politica e finanza».
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I carri armati di Pinochet e le “riforme” di Renzi
La rapidissima carriera di Matteo Renzi, vero e proprio “Manchurian candidate”, sta suscitando curiosità e dietrologie: “uomo degli amerikani”, burattino della Merkel, longa manus dei poteri forti. Al momento, i super-poteri nazionali lo tengono a guinzaglio corto, dice Sergio Cararo, secondo cui il modello di ascesa al potere di Renzi presenta tutte le caratteristiche del tycoon politico di stampo anglosassone: «Uomini che improvvisamente “esplodono” sulla scena mediatica e politica, che godono di cospicui finanziamenti e che rapidamente accedono alle stanze dei bottoni». Come Newton Gringrich, il repubblicano statunitense che per anni fu l’incubo di Clinton al Congresso. Il linguaggio “popolare” e banale di Renzi, così come il suo “pragmatismo deideologizzato”, ricorda però molto di più i politici britannici, come Blair e Cameron.«Le notizie raccolte fin qui fanno ritenere Renzi un clone del modello e degli interessi statunitensi», scrive Cararo su “Contropiano”, «ma è anche vero che Renzi le sue relazioni durature le ha costruite con anticipo anche con Frau Merkel e la Germania, perchè è dentro l’Unione Europea che vengono i margini e i paletti della sua azione politica e della sua carriera». Un uomo cerniera, dunque, tra interessi strategici delle due sponde dell’Atlantico che la competizione globale sta rendendo divaricanti, e con margini di manovra sempre più stretti. Se ne è accorto Enrico Letta all’ultimo G20, quando riuscì a schierare l’Italia a metà strada tra la guerra in Siria e l’opposizione alla guerra. «Un cerchiobottismo non più adeguato ai tempi di ferro e di fuoco che la crisi sta delineando».Matteo Renzi rischia dunque molto nella partita che ha deciso di giocare. «Gli uomini che lo hanno consigliato finora appartengono ad ambiti molto connessi con il capitale finanziario e gli interessi statunitensi». Tra questi, figure inquietanti come il super-falco Michael Ledeen sul fronte neoconservatore ma anche personaggi legati alle cordate “democratiche e laburiste” negli Usa e in Gran Bretagna. Scrive il “Sole 24 Ore”: «Matteo Renzi e il suo collaboratore Marco Carrai amano molto l’America», mettendo in luce relazioni come quella con Matt Browne, che fu uno dei più stretti collaboratori di Tony Blair in Gran Bretagna e ora fa parte del più vivace think tank neo-progressista americano assieme a John Podesta, l’ex braccio destro di Bill Clinton recentemente ingaggiato da Barack Obama come consigliere. Attraverso il filtro di Carrai, «Browne ha introdotto Renzi a Blair, al fratello dell’attuale leader del partito Labour britannico David Miliband e a molti democratici americani».“L’Espresso” ricostruisce così la figura di Carrai: «Da qualche anno colleziona partecipazioni azionarie e presidenze di municipalizzate, società e consigli di amministrazione: da quando nel 2009 l’amico Matteo è diventato sindaco non si è più fermato. Nel Ppi e poi nella Margherita Renzi è il segretario, Carrai è il braccio organizzativo. Insieme definiscono le liste, le candidature, i convegni». A Palazzo Vecchio, come consigliere, è entrato «con le preferenze assicurate da Comunione e liberazione e dalla Compagnia delle Opere, che in Toscana è presieduta da Paolo Carrai e da Leonardo Carrai, alla guida del Banco alimentare, altra opera ciellina: i cugini di Marco». Secondo “L’Espresso”, a Firenze «si costruisce un profilo cattolico e teo-con che promette bene». Carrai passa agli affari: Firenze Parcheggi (in quota a Mps), Cassa di Risparmio di Firenze (azionista di Banca Intesa), Aeroporti Firenze.Il fratello, Stefano Carrai, è in società con l’ex presidente della Fiat Paolo Fresco, tra i finanziatori della campagna per le primarie del 2012 di Renzi, insieme al finanziere di Algebris Davide Serra. «C’è anche Carrai – continua “L’Espresso” – quando Renzi banchetta con Tony Blair o quando va ad accreditarsi con lo staff di Obama alla convention democratica di Charlotte del 2012. E quando tre mesi fa il sindaco vola a sorpresa a Berlino per incontrare la cancelliera Angela Merkel, accanto a lui, ancora una volta, c’è il ragazzo di Greve, Carrai. Che nel silenzio accumula influenza e mette fuorigioco altri fedelissimi renziani. C’è chi ha visto la sua manina dietro la nomina di Antonella Mansi alla presidenza di Mps, osteggiata da altri seguaci del sindaco. Ma non c’è niente da fare: Carrai, per Renzi, è l’unico insostituibile. Per questo bisogna seguirlo, il Carrai, nella strada che porta alla conquista di Roma, nella posizione da cui da sempre si governa e si comanda davvero. All’ombra della luce».«Tutto lascia intravedere un linkage molto particolare tra Matteo Renzi e i circoli statunitensi e israeliani», dice Cararo. E il 22 febbraio, alla vigilia del voto di fiducia al Senato, il neo-premier ha avuto una conversazione telefonica con Angela Merkel. Al centro del colloquio, le relazioni tra Italia e Germania alla vigilia del vertice di Berlino del 17 marzo. Già nel luglio 2013, la cancelliera dichiarava: «Ho invitato il sindaco di Firenze Matteo Renzi perchè ho letto un’intervista su un giornale tedesco sui temi europei e le sfide italiane e l’ho trovata molto interessante». Secondo il blog “Senza Soste”, «i tempi, e gli esiti, degli incontri diplomatici vanno capiti come si fa per gli avvertimenti mafiosi. Anche in questo campo, come per il linguaggio di Cosa Nostra, chi conosce il contesto, i linguaggi e i codici deve saper far decantare il clamore degli avvenimenti per interpretare il significato di quanto accaduto». E ancora: «Sono finiti i tempi in cui ci volevano i carri armati di Pinochet per imporre una riforma liberista delle pensioni, che impoverisce la popolazione e tutela i capitali. Oggi sono sufficienti gli “impegni con l’Europa” assieme a qualche ascaro a casa che ci dice, a reti unificate, come “crescere” eliminando “gli sprechi”».La rapidissima carriera di Matteo Renzi, vero e proprio “Manchurian candidate”, sta suscitando curiosità e dietrologie: “uomo degli amerikani”, burattino della Merkel, longa manus dei poteri forti. Al momento, i super-poteri nazionali lo tengono a guinzaglio corto, dice Sergio Cararo, secondo cui il modello di ascesa al potere di Renzi presenta tutte le caratteristiche del tycoon politico di stampo anglosassone: «Uomini che improvvisamente “esplodono” sulla scena mediatica e politica, che godono di cospicui finanziamenti e che rapidamente accedono alle stanze dei bottoni». Come Newton Gringrich, il repubblicano statunitense che per anni fu l’incubo di Clinton al Congresso. Il linguaggio “popolare” e banale di Renzi, così come il suo “pragmatismo deideologizzato”, ricorda però molto di più i politici britannici, come Blair e Cameron.
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Renzi stai sereno, con l’euro il tuo governo è già morto
Tragica cosa per le persone di questo paese, non per ’sto egocentrico servo della finanza europea. Renzi fallirà come un cretino qualsiasi. Perché neppure può provarci. Non sto provocando, è che la sua è una missione impossibile. Se non fosse ’sto pupazzo pompato che è, se conoscesse l’Eurozona e la macroeconomia, non si sarebbe cacciato in questo pasticcio (e badate che sto dicendo che pure i suoi padroni speculatori ci smeneranno il muso, perché ’sto gioco di creare una moneta unica per distruggere mezza Europa e fare un gran banchetto si è già ritorto contro chi l’ha pensato. Gli speculatori ci hanno fatto un po’ di fortune per pochi anni, ma sta finendo). Per prima cosa Renzi si ritrova senza sovranità monetaria, quindi senza nessuna delle leve economiche fondamentali di cui deve godere un governo degno di questo nome, e di cui godono gli Usa, la Gran Bretagna, la Svezia o il Giappone.Non ha una banca centrale che possa controllare inflazione, prezzo del denaro, tassi d’interesse, né monetizzare la spesa decisa dal Parlamento. Renzi non possiede una moneta, e deve usare gli euro, da restituire con tassi non decisi da lui ai mercati di capitali internazionali. Dovrà dunque tassarci a morte sempre, per fare quanto appena detto. Dovrà quindi mentire all’Italia fingendo col gioco delle tre carte di spostare fondi e investimenti essenziali (lavoro, infrastrutture, crescita) da qui a lì, per poi rimangiarseli tutti con gli interessi. Dovrà rispettare il pareggio di bilancio, che peggiora ciò che ho appena scritto. Ovvero: chemiotassazione garantita, impossibilità di investire per le aziende e tagli alla spesa. Qui abbiamo la garanzia della decapitazione di speranze di posti di lavoro, salari, pensioni, modernizzazione del paese, sanità, risparmi privati, piano industriale, risanamento bancario, crescita del Pil e domanda aggregata. Potrei finire qui, ce n’è già a sufficienza, ma purtroppo…Renzi si ritroverà in una spirale di deficit negativi mortali, cioè di tutte quelle spese di Stato imposte dalla crisi dell’Eurozona ma che non risolvono nulla, non producono nulla e che aumentano il debito di Stato. Per prima cosa l’economia continuerà a contrarsi, come è già previsto per l’Italia dal Fmi, Bloomberg, Ocse, Commissione Ue, e quindi calerà sempre il gettito fiscale, che quindi va a ingrandire il debito. L’economia impantanata significa che il miliardo di ore di cassa integrazione rimarranno e aumenteranno, pompando di nuovo il debito. I fallimenti aziendali non caleranno, la curva dei prestiti bancari insolventi aumenterà e le banche italiane, che già sono in parte fallite, dovranno essere ri-salvate, a suon di denaro pubblico, e ancora il debito sale. Assieme ad esso salgono gli interessi da pagare, sempre spesa di Stato, ancora più debito. Ma stando in Eurozona, un debito che lievita è grave (con la lira non lo sarebbe) perché porta all’allarme delle agenzie di rating, che porta all’allarme dei mercati di capitali che prestano a Renzi gli euro, che porta a tassi più alti sui titoli di Stato, che porta a più debito.Che farà Draghi a ’sto punto? Si metterà a comprarci i titoli di Stato per far scendere i nostri tassi? Farà cioè la famosa Outright Monetary Transaction? Se lo fa, la Germania lo ammazza. Non lo farà. Renzi rimane nel letame. Renzi si ritrova con un’economia che si è contratta del 18% dalla fine degli anni ’90. Per riportarci a quel livello di vita, dovrebbe riuscire a far crescere l’Italia del 20%. No, calma, visto che oggi cresciamo dello 0,1% se va bene…. il 20% fa ridere. Renzi non è Roosevelt e non ha la sua testa. Poi abbiamo il problema della deflazione che sta aggredendo tutta l’Eurozona, con la Bce disperata perché non sa più che fare per fermare il crollo dei prezzi (deflazione = contrario di inflazione). E quel che è peggio, è che in un clima di crisi di queste proporzioni la gente corre a risparmiare disperatamente per il timore del domani (mica scemi), ma questo sottrae denaro in circolo, cosa che non solo affama tutta l’economia, ma peggiora la deflazione stessa. Vorrei che capiste che questo è uno dei mali economici peggiori e che c’è tutta la tecnocrazia europea che non sa più come fermarlo. Immaginatevi Renzi, il bulletto del Pd.Renzi, poi, fra otto mesi si ritroverà l’implosione del sistema creditizio europeo, quando i test dei regolamentatori dell’Eba inevitabilmente mostreranno che alcune delle maggiori banche sono irrecuperabili. Da qui il terremoto delle piccole-medio banche, fra cui quelle italiane sono quelle messe peggio d’Europa sia come buchi di bilancio che come capitale di copertura. Prometeia stima che solo per i prestiti insolventi le banche italiane siano scoperte per 150 miliardi di euro. E chi le salva? E con che soldi? No, Renzi, la sovranità monetaria non ce l’hai, non le puoi nazionalizzare. Che fai? Chiami Benigni?Ma Renzi almeno ha la carta delle privatizzazioni… Vendi il vendibile, incassa l’incassabile. Funziona? No. Non ha funzionato in nessun paese del mondo, meno che meno da noi quando proprio il centro sinistra si mise negli anni ’90 a svendere pezzi di beni di Stato a un ritmo talmente forsennato che fece il record europeo delle privatizzazioni nel 1999. Sapete di quanto ridussero il debito di Stato italiano? Di un maestoso 8%. E allora i prezzi contrattati per i beni pubblici da alienare erano, circa, decenti. Oggi, con l’Italia sprofondata dall’Eurozona in una svalutazione della sua economia da piangere, Roma deve svendere a prezzi stracciati qualsiasi cosa offra, con margini che saranno patetici. Renzi, farà la Thatcher dei poveri.E la disoccupazione? Sapete cosa costa all’Italia avere il 12% (fasullo, è molto di più) di disoccupati? Trecentosessanta miliardi all’anno perduti. E i giovani? Il 76% di loro è costretto alla flessibilità, con limiti invalicabili all’acquisto di una casa o al matrimonio. L’Eurozona fu pensata ed edificata proprio per ridurre il sud Europa a un serbatoio di lavoratori pagati alla kosovara ma in strutture moderne. Il futuro di questi ragazzi è ormai certo: stipendi dai 600 agli 800 euro per i più qualificati, al lavoro per investitori stranieri. Questo non è più un economicidio, è un olocausto economico e generazionale, che Renzi dovrà gestire sotto l’egida della Germania che già oggi sta affossando il resto d’Europa coi suoi diktat criminosi. Tradotto in termini specifici: il potere neomercantile della mega-industria tedesca, quello della Bundesbank, quello dei maggiori speculatori-rentiers del mondo, contro Renzino da Firenze.Matteo, tu fai fesso qualcun altro. Perché è vero che ignori il 70% di tutto questo, ma sul restante 30% sei pienamente d’accordo, da bravo leader del partito di destra finanziaria peggiore d’Italia, il Pd. Conclusione. Renzi non si rende conto di cosa lo aspetta, ma soprattutto del fatto che la catastrofe dell’economia italiana è un MACROPROBLEMA STRUTTURALE nell’Eurozona, e finché esisteranno i parametri economicidi dell’euro non esiste salvezza. Il governo Renzi è morto prima di nascere. Poi, sapete, uno si stufa di scrivere sempre le stesse cose.(Paolo Barnard, “L’Eurozona ha già ucciso il governo Renzi”, dal blog di Barnard del 18 febbraio 2014).Tragica cosa per le persone di questo paese, non per ’sto egocentrico servo della finanza europea. Renzi fallirà come un cretino qualsiasi. Perché neppure può provarci. Non sto provocando, è che la sua è una missione impossibile. Se non fosse ’sto pupazzo pompato che è, se conoscesse l’Eurozona e la macroeconomia, non si sarebbe cacciato in questo pasticcio (e badate che sto dicendo che pure i suoi padroni speculatori ci smeneranno il muso, perché ’sto gioco di creare una moneta unica per distruggere mezza Europa e fare un gran banchetto si è già ritorto contro chi l’ha pensato. Gli speculatori ci hanno fatto un po’ di fortune per pochi anni, ma sta finendo). Per prima cosa Renzi si ritrova senza sovranità monetaria, quindi senza nessuna delle leve economiche fondamentali di cui deve godere un governo degno di questo nome, e di cui godono gli Usa, la Gran Bretagna, la Svezia o il Giappone.
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Odifreddi: nepotismo e squallore, la Madia ministro
Alle elezioni del 2008, Walter Veltroni usa le prerogative del Porcellum per candidare capolista alla Camera per il Pd nella XV circoscrizione del Lazio la sconosciuta ventisettenne Marianna Madia. Alla conferenza stampa di presentazione, agli attoniti giornalisti la signorina dichiara gigionescamente di «portare in dote la propria inesperienza». In realtà è una raccomandata di ferro, con un pedigree lungo come il catalogo del Don Giovanni. E’ pronipote di Titta Madia, deputato del Regno con Mussolini, e della Repubblica con Almirante. E’ figlia di un amico di Veltroni, giornalista Rai e attore. E’ fidanzata del figlio di Giorgio Napolitano. E’ stagista al centro studi Ariel di Enrico Letta. La sua candidatura è dunque espressione del più antico e squallido nepotismo, mascherato da novità giovanilista e femminista. E fa scandalo per il favoritismo, come dovrebbe.In Parlamento la Madia brilla come una delle 22 stelle del Pd che non partecipano, con assenze ingiustificate, al voto sullo scudo fiscale proposto da Berlusconi, che passa per 20 voti: dunque, è direttamente responsabile per la mancata caduta del governo, che aveva posto la fiducia sul decreto legge. Di nuovo fa scandalo, questa volta per l’assenteismo. La sua scusa: stava andando in Brasile per una visita medica, come una qualunque figlia di papà. Invece di essere cacciata a pedate, viene ripresentata col Porcellum anche alle elezioni del 2013. Ma poi arriva il grande Rottamatore, e la sua sorte dovrebbe essere segnata. Invece, entra nella segreteria del partito dopo l’elezione a segretario di Renzi, e ora viene addirittura catapultata da lui nel suo governo: ministra della Semplificazione, ovviamente, visto che più semplice la vita per lei non avrebbe potuto essere.Altro che rottamazione: l’era Renzi inizia all’insegna del riciclo dei rottami, nella miglior tradizione democristiana. La riciclata ora rispolvererà l’argomento che aveva già usato fin dalla sua prima discesa paracadutata in campo: «Non preoccupatevi di come sono arrivata qui, giudicatemi per cosa farò». Ottimo argomento, lo stesso usato dal riciclatore che dice: «Non preoccupatevi di come ho ottenuto i miei capitali, giudicatemi per come li investo». Se qualcuno ancora sperava di liberarsi dai rottami e dai riciclatori, è servito. L’Italia, nel frattempo, continui ad arrangiarsi.(Piergiorgio Odifreddi, “La Madia ministro? Vergogna!”, inervento pubblicato nel blog di Odifreddi su “Repubblica” e ripreso da “Micromega” il 22 febbraio 2014).Alle elezioni del 2008, Walter Veltroni usa le prerogative del Porcellum per candidare capolista alla Camera per il Pd nella XV circoscrizione del Lazio la sconosciuta ventisettenne Marianna Madia. Alla conferenza stampa di presentazione, agli attoniti giornalisti la signorina dichiara gigionescamente di «portare in dote la propria inesperienza». In realtà è una raccomandata di ferro, con un pedigree lungo come il catalogo del Don Giovanni. E’ pronipote di Titta Madia, deputato del Regno con Mussolini, e della Repubblica con Almirante. E’ figlia di un amico di Veltroni, giornalista Rai e attore. E’ fidanzata del figlio di Giorgio Napolitano. E’ stagista al centro studi Ariel di Enrico Letta. La sua candidatura è dunque espressione del più antico e squallido nepotismo, mascherato da novità giovanilista e femminista. E fa scandalo per il favoritismo, come dovrebbe.
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Democrazia superflua, nel regime dei signori del Ttip
Un trattato-capestro, da imporre a un’Europa disperata perché devastata dalla crisi. E’ questa la premessa su cui sia gli Usa che l’Unione Europea sperano di concludere entro due anni i negoziati segreti per il Trattato Transatlantico. Obiettivo: assoggettare i governi, per legge, ai diktat delle multinazionali, con un liberismo ancora più sfrenato di quello del Wto. Vantaggi smisurati, però, solo per le grandi multinazionali: i rari studi dedicati alle conseguenze del Ttip non dicono nulla sulle sue reali ricadute sociali ed economiche. Si narra che il trattato darà alla popolazione del mercato transatlantico un aumento di ricchezza di 3 centesimi pro-capite al giorno «a partire dal 2029», mentre si valuta di appena lo 0,06% l’aumento del Pil in Europa e negli Usa con l’entrata in vigore del Ttip. Un risultato ridicolo, per chi ripete il libero scambio «dinamizza» la crescita economica. Teoria regolarmente confutata dai fatti: la quinta versione dell’iPhone di Apple ha generato negli Stati Uniti una crescita del Pil otto volte più importante.Il boccone grosso del Trattato, infatti, è un altro: costringere gli Stati a farsi da parte, lasciando che a dettar legge – ufficialmente – siano i colossi dell’economia mondiale, a cominciare da quelli della finanza. Appena cinque anni dopo l’esplosione della crisi dei subprime, americani ed europei sono d’accordo sul fatto che le velleità di regolamentazione dell’industria finanziaria hanno fatto il loro tempo: il quadro che vogliono delineare, attraverso il nuovo Trattato Transatlantico, il devastante dispositivo legale destinato a sconvolgere lo scenario europeo e la residua libertà dei nostri Stati, prevede di eliminare tutti gli ostacoli in materia di investimenti a rischio. Vogliono impedire ai governi di controllare il volume, la natura e l’origine dei prodotti finanziari messi sul mercato, cancellando ogni tipo di regolamentazione. Secondo Lori Wallach, che dirige il Public Citizen’s Global Trade Watch di Washington, questo «stravagante ritorno alle vecchie idee thatcheriane» risponde ai desideri dell’associazione delle banche tedesche, inquieta per la timida riforma di Wall Street adottata dopo il 2008.La Deutsche Bank ora vuole «farla finita con la regolamentazione Volcker», chiave di volta della riforma di Wall street, che a suo avviso sovraccarica un «peso troppo grave sulle banche non statunitensi». Quello della Deutsche Bank, scrive Lori Wallach su “Le Monde Diplomatique”, è il volto feroce della finanza europea, quella dell’euro-regime, pienamente allinenata con quella statunitense. Fa eco Insurance Europe, punta di lancia delle società assicurative europee: la compagnia auspica che il Ttip, il Trattato Transatlantico che si sta chiudendo lontano dai riflettori, «sopprima» le garanzie collaterali che dissuadono il settore dall’avventurarsi negli investimenti ad alto rischio. Quanto al Forum dei Servizi Europei, l’organizzazione padronale di cui fa parte la Deutsche Bank, si agita dietro le quinte affinché le autorità di controllo statunitensi cessino di ficcare il naso negli affari delle grandi banche straniere operanti sul loro territorio.«Da parte degli Usa – aggiunge la Wallach – si spera soprattutto che il Ttip affossi davvero il progetto europeo di tassare le transazioni finanziarie». La Commissione Europea, ovviamente, darà il via libera: infatti si è già affrettata a giudicare «non conforme alle regole del Wto» la tassa sulle rendite finanziarie. E dato che lo stesso Fmi si oppone a qualunque forma di controllo sui movimenti di capitali, ormai negli Stati Uniti la debole “Tobin tax” non preoccupa più nessuno. Ma le sirene della deregolamentazione non si fanno ascoltare solo nell’industria finanziaria. Il Ttip intende aprire alla concorrenza tutti i settori «invisibili» e di interesse generale. Gli Stati firmatari si vedranno costretti non soltanto a sottomettere i loro servizi pubblici alla logica del mercato, ma anche a rinunciare a qualunque intervento sui fornitori stranieri di servizi che ambiscono ai loro mercati. I margini politici di manovra in materia di sanità, energia, educazione, acqua e trasporti si ridurrebbero progressivamente. La febbre commerciale non risparmia nemmeno l’immigrazione, poiché gli istigatori del Ttip si arrogano il potere di stabilire una politica comune alle frontiere – senza dubbio per facilitare l’ingresso di un bene o un servizio da vendere, a svantaggio degli altri.A Washington, si crede che i dirigenti europei siano «pronti a qualunque cosa, pur di ravvivare una crescita economica moribonda, anche a costo di rinnegare il loro patto sociale». L’argomento dei promotori del Ttip, secondo cui il libero scambio deregolamentato faciliterebbe i commerci e sarebbe dunque creatore di impieghi, apparentemente ha maggior peso del timore di uno scisma sociale. Le barriere doganali che sussistono ancora tra l’Europa e gli Stati Uniti sono tuttavia già «abbastanza basse», come riconosce il rappresentante statunitense al commercio. I fautori del Ttip ammettono che il loro principale obiettivo non è quello di alleggerire i vincoli doganali, comunque insignificanti, ma di imporre «l’eliminazione, la riduzione e la prevenzione di politiche nazionali superflue», dal momento che viene considerato “superfluo” «tutto ciò che rallenta la circolazione delle merci, come la regolazione della finanza, la lotta contro il riscaldamento climatico o l’esercizio della democrazia».Pressoché tutti gli studi sul Ttip sono stati finanziati da istituzioni favorevoli al libero scambio o da organizzazioni imprenditoriali: per questo, osserva ancora Lori Wallach, «i costi sociali del trattato non appaiono mai, così come le sue vittime dirette, che potrebbero tuttavia ammontare a centinaia di milioni». Ma i giochi non sono ancora conclusi. E, come hanno mostrato le disavventure di analoghi trattati e alcuni cicli negoziali del Wto, «l’utilizzo del “commercio” come cavallo di Troia per smantellare le protezioni sociali e instaurare una giunta di incaricati d’affari, in passato ha fallito a più riprese». Nulla ci dice che non possa succedere anche stavolta, a patto però che – a partire dalle elezioni europee del prossimo maggio – la politica si svegli. Nel frattempo, anche in Italia, nessun leader di partito, in nessun telegiornale o talkshow, ha mai menzionato neppure per sbaglio il problema, cioè il nodo strategico su cui si gioca il nostro futuro.Un trattato-capestro, da imporre a un’Europa disperata perché devastata dalla crisi. E’ questa la premessa su cui sia gli Usa che l’Unione Europea sperano di concludere entro due anni i negoziati segreti per il Trattato Transatlantico. Obiettivo: assoggettare i governi, per legge, ai diktat delle multinazionali, con un liberismo ancora più sfrenato di quello del Wto. Vantaggi smisurati, però, solo per le grandi multinazionali: i rari studi dedicati alle conseguenze del Ttip non dicono nulla sulle sue reali ricadute sociali ed economiche. Si narra che il trattato darà alla popolazione del mercato transatlantico un aumento di ricchezza di 3 centesimi pro-capite al giorno «a partire dal 2029», mentre si valuta di appena lo 0,06% l’aumento del Pil in Europa e negli Usa con l’entrata in vigore del Ttip. Un risultato ridicolo, per chi ripete il libero scambio «dinamizza» la crescita economica. Teoria regolarmente confutata dai fatti: la quinta versione dell’iPhone di Apple ha generato negli Stati Uniti una crescita del Pil otto volte più importante.