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Casca il mondo, l’Italia sparisce. E nessuno dice la verità
“La guerra infinita”, “Il più grande crimine”, “Massoni”. Tre libri – italiani – senza precedenti nel mondo, quando uscirono. Nel primo, edito da Feltrinelli nel 2003, Giulietto Chiesa svelava la drammatica inconsistenza della versione ufficiale sull’11 Settembre, oggi conclamata: i tremila architetti e ingegneri dell’associazione 9/11 Thruth (e i pompieri di New York) dimostrano la “demolizione controllata” delle Torri Gemelle, certo non abbattute da aerei dirottati. Otto anni dopo, archiviato l’inferno dell’Iraq e neutralizzato il supertestimone Julian Assange, di fronte alla crisi finanziaria globale e alla micidiale austerity europea è stato Paolo Barnard ad afferrare il torno per le corna, con un instant-book diffuso sul web e ora pubblicato da Andromeda: il golpe tecnocratico dell’Eurozona riletto in chiave criminologica, dalle sue premesse (la svendita dell’Italia affidata a Prodi e Draghi) fino all’estrema conseguenza del devastante “economicidio” eseguito da Monti. Infine, nel 2014, è stato il massone progressista Gioele Magaldi ad aggiungere una spiegazione decisiva, facendo luce sul missing link che separa la cronaca dalla verità del potere: il ruolo delle superlogge sovranazionali, presentate per la prima volta con nomi e cognomi.Che fine hanno fatto, questi tre autori che il mainstream continua a ignorare? Due di loro – Chiesa e Magaldi – presidiano canali di informazione critica, mentre il terzo (Barnard) ha abbandonato anche il web, deluso dall’immobilismo italiano: cittadini ipnotizzati da un’offerta politica demenziale o cialtrona, come quella dei 5 Stelle, e “leoni da tastiera” incapaci di strutturarsi in opinione pubblica militante, in grado di impegnarsi politicamente per cambiare qualcosa. Giulietto Chiesa è passato per l’esperimento deludente della “Lista del Popolo” con Antonio Ingroia e ora segue da vicino Vox Italia, la formazione di Diego Fusaro. Soprattutto, anima le trasmissioni web di “Pandora Tv” e quelle nuovissime di “Contro Tv”, emittente fondata con Massimo Mazzucco, il cui esplosivo documentario “11 Settembre, inganno globale” fu trasmesso in prima serata nel 2006 su Canale 5 da “Matrix”, talkshow allora condotto da Mentana. Magaldi, dal canto suo, ha fondato il Movimento Roosevelt, entità trasversale meta-partitica: missione, inoculare il virus del risveglio democratico nei partiti italiani. E’ anche tra i promotori del “Partito che serve all’Italia”, piattaforma politica keynesiana, e partecipa a trasmissioni web-tv sui canali YouTube di “Border Nights” che ospitano lo stesso Mazzucco.A che punto è la notte? Difficile dirlo, data la nebbia che avvolge l’Italia: buio pesto, là fuori. A Palazzo Chigi siede il prestanome Giuseppe Conte, ottimamente relazionato con il Vaticano (nel frattempo divenuto socio di Lapo Elkann tramite il fondo Centurion basato a Malta), mentre le cosiddette Sardine fanno la guerra all’opposizione ignorando le eroiche imprese del governo più imbarazzante di sempre, attorno a cui ronzano statisti del calibro di Renzi, Di Maio e Zingaretti. L’Italia nel frattempo cade a pezzi: il crollo del viadotto Morandi e l’oscena vicenda del Tav Torino-Lione ne emblematizzano il declino, causa morte civile della politica, insieme all’agonia dell’Ilva, all’ignobile silenzio ufficiale sulla rete 5G, alla scandalosa gestione dell’obbligo vaccinale che nel 2019, per la prima volta, ha escluso 130.000 bambini da nidi e asili. Nel frattempo, la Exor di John Elkann si compra “Repubblica” e “L’Espresso”, cede ai francesi il timone dell’ex Fiat e non concede alcuna garanzia sul futuro degli stabilimenti italiani. In compenso ne aprirà uno in Marocco e si prepara a intascare altri 136 milioni di euro, stavolta dal governo Conte (che dichiara guerra al contante e ai micro-evasori, mentre la Fca continua a pagare le tasse in Olanda anziché in Italia).Argomenti caldi, sui media: gli sbarchi dei migranti e il malvagio Salvini. In compenso si lascia credere che il mondo verrà salvato da Greta Thunberg, cioè dai mega-investitori planetari alle spalle della ragazzina, Goldman Sachs e BlackRock in testa, che si apprestano a riverniciare di “green” i fondi-pensione da vendere a centinaia di milioni di persone, una torta da oltre 100 trilioni di dollari. Riassunto delle puntate precedenti? Non disponibile: i media non se ne occupano. Magari pontificano sulle altrui “fake news” sorvolando sulle proprie, ma si sono ben guardati dal recensire “La guerra infinita”, “Il più grande crimine” e “Massoni”, tre volumi risultati preziosissimi per gli italiani desiderosi di capire almeno qualcosa dello smisurato caos nel quale sembra finito il mondo, senza più distinzione tra destra e sinistra, buoni e cattivi, progressisti e conservatori. Si è appena celebrato l’anniversario della caduta del Muro di Berlino: poteva essere l’anno zero, l’avvento dell’epoca di pace sognata da Gorbaciov? Errore: Wall Street si gettò subito sulla Russia per spolparla, mentre alla Cina fu permesso di entrare nel grande giro mondiale del Wto ma in modo selvaggio, senza tutele per gli operai e per l’ambiente. Risultato: globalizzazione feroce e lavoratori occidentali nei guai, alle prese con la sciagura delle delocalizzazioni e la competizione impossibile con prodotti a bassissimo costo.Riassume Barnard: fu l’avvocato Lewis Powell, nel lontano 1971, a dettare il vademecum con cui l’élite “feudale” si sarebbe ripresa il pianeta, privatizzandolo. Con il libraccio “La crisi della democrazia” (di Gianni Agnelli la prefazione all’edizione italiana), la Trilaterale di Kissinger e soci spiegò che “l’eccesso di democrazia” si cura solo tagliando la democrazia. In Europa, gli oligarchi crearono un’Unione Europea concepita come il Sacro Romano Impero, fatta di sudditi da ridurre all’obbedienza. Bersaglio numero uno: gli Stati, pericolosi “competitor” del grande capitale. Vittima illustre: la ricchissima Italia dell’economia mista, supportata dall’Iri. Utili leggende fabbricate dal neoliberismo: il debito pubblico come malattia, come colpa (come se il governo avesse dovuto prima “risparmiare”, per poter poi finanziare le infrastrutture strategiche che permisero all’Italia del boom economico di uscire dall’età della pietra in cui l’aveva sprofondata la guerra fascista). Ora siamo agli sgoccioli: dopo la cura Monti il paese è a pezzi, ma i partiti pensano alle poltrone (e le Sardine a Salvini). Nel frattempo, la guerra – quella che Gorbaciov avrebbe voluto cancellare dalla faccia della Terra – è ridiventata una prassi ordinaria, fisiologica, a cui non si fa più neppure caso. Afghanistan e Iraq, Yemen, Somalia, Libia e Siria. Normalissimo, spararsi addosso per conto terzi: gli americani con le portaerei, i russi con i missili.Spiega Chiesa: l’11 Settembre fu creato a tavolino come casus belli per attuare il Pnac, il Piano per il Nuovo Secolo Americano redatto dai neocon, i signori del Deep State. Guerra planetaria, per terremotare l’economia e ridare fiato agli Stati Uniti, la superpotenza con il maggior debito estero del globo. A peggiorare ulteriormente il quadro provvede Magaldi: quei signori erano e sono massoni, che militano nelle superlogge reazionarie (che, attenzione: sono diffuse in tutto il pianeta, reclutando politici di ogni grande paese). Riletta così, la geopolitica si riduce a una serie di spaventosi regolamenti di conti, a guerre per bande. L’11 Settembre? E’ stata l’abominevole trovata di una Ur-Lodge terroristica, la Hathor Pentalpha dei Bush, per accelerare – manu militari, con la guerra innescata dal terrorismo “false flag” – questa folle globalizzazione neoliberista e mercantile, questa guerra mondiale dei super-ricchi contro il resto del mondo. I cocci, ovviamente, ci stanno cadendo addosso. C’è il sangue del terrorismo “domestico”, targato Al-Qaeda e poi Isis, e c’è lo sfacelo delle economie nazionali, dove neppure il Pil corrisponde più al benessere medio: più cresce, e più la maggioranza soffre, data la forbice ormai mostruosa tra produttori e rendita finanziaria.Era il 2010 quando Barnard cominciò a diffondere il suo contro-Vangelo sulla dominazione dell’euro, la moneta “privatizzata” per schiavizzare il 99% degli europei. Rimase lettera morta il clamoroso meeeting di economia promosso nel 2012 a Rimini con le migliori menti finaziarie dell’economia keynesiana. Inutile anche il viaggio di Warren Mosler in Italia, i consigli dispensati al governo romano. Tesi elementare: se si recupera sovranità monetaria si può tornare a investire nel mercato interno, battendo la crisi creata dalla globalizzazione. E i media nazionali? Silenzio, su tutta la linea. Non c’è pericolo che ai vari Floris, Formigli e Gruber venga in mente di sfiorare l’argomento: mutismo assoluto, anche ora che persino sua maestà Mario Draghi ha osato evocare la Modern Money Theory di Mosler. Da “La guerra infinita” sono passati 16 anni. Chi ha letto anche “Il più grande crimine”, e poi “Massoni”, si domanderà cosa mai potrà scuotere i dormienti, oggi lobotomizzati da Facebook, Twitter e WhatsApp. Si apre il 2020, e l’oscurità è fittissima. Julian Assange resta in prigione, anche se 80 medici raccomandano che sia ricoverato, essendo in pericolo di vita. L’Italia è in via di estinzione anche in Libia, ma quel che importa sono le regionali in Emilia. Qualcuno spieghi alle Sardine che l’Italia era un grande paese: c’èra giusto bisogno di innocue e appetitose Sardine per finire di divorarlo in santa pace.“La guerra infinita”, “Il più grande crimine”, “Massoni”. Tre libri – italiani – senza precedenti nel mondo, quando uscirono. Nel primo, edito da Feltrinelli nel 2003, Giulietto Chiesa svelava la drammatica inconsistenza della versione ufficiale sull’11 Settembre, oggi conclamata: i tremila architetti e ingegneri dell’associazione 9/11 Thruth (e i pompieri di New York) dimostrano la “demolizione controllata” delle Torri Gemelle, certo non abbattute da aerei dirottati. Otto anni dopo, archiviato l’inferno dell’Iraq e neutralizzato il supertestimone Julian Assange, di fronte alla crisi finanziaria globale e alla micidiale austerity europea è stato Paolo Barnard ad afferrare il torno per le corna, con un instant-book diffuso sul web e ora pubblicato da Andromeda: il golpe tecnocratico dell’Eurozona riletto in chiave criminologica, dalle sue premesse (la svendita dell’Italia affidata a Prodi e Draghi) fino all’estrema conseguenza del devastante “economicidio” eseguito da Monti. Infine, nel 2014, è stato il massone progressista Gioele Magaldi ad aggiungere una spiegazione decisiva, facendo luce sul missing link che separa la cronaca dalla verità del potere: il ruolo delle superlogge sovranazionali, presentate per la prima volta con nomi e cognomi.
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Cacciari, il sangue di Soleimani e l’osceno silenzio europeo
Menzogne, sangue e colpevoli silenzi. E’ l’habitat nel quale prospera il verminaio terrorista alimentato sottobanco da un impero occidentale che non ha saputo svilupparsi, storicamente, se non spese di paesi terzi. E’ la tesi di giornalisti eretici come Paolo Barnard, corroborata da illustri colleghi come Seymour Hersh, Premio Pulitzer statunitense, spietato con i nostri media: se la stampa non avesse smesso di fare il proprio mestiere, sostiene, qualche politico – non codardo – avrebbe avuto modo di denunciare i crimini del potere mercuriale, costringendo l’establishment del terzo millennio a fare meno guerre e provocare meno massacri di vittime innocenti. Che poi la verità si annacqui negli opposti estremismi opportunistici e nel sostegno al terrorismo, fatale conseguenza di abusi criminali, non è che un aspetto della mattanza in corso, a rate, inaugurata dall’opaco maxi-attentato dell’11 Settembre a New York, di cui tuttora si tace la vera paternità presunta. Ma se si varca il Rubicone e si compie una violazione che non ha precdeenti nella storia, un attentato terroristico condotto con mezzi militari e apertamente rivendicato, allora si passa il segno.Fa impressione sentirlo dire in televisione dal filosofo Massimo Cacciari, solitamente prudente, ospite di Bianca Berlinguer il 7 gennaio 2020 insieme all’altrettanto compassato Paolo Mieli, parimenti preoccupato dall’inaudito omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani, assassinato senza preavviso in un paese neutrale e teoricamente sovrano, l’Iraq devastato dalle guerre americane. A spaventare Cacciari è innanzitutto la morte clinica della politica: senza nemmeno citare l’increscioso Salvini che tifa per i missili omicidi, auto-espellendosi dal club delle personalità pubbliche abilitate a occuparsi di noi, ciò che sconcerta è il vuoto pneumatico, culturale prima ancora che politico, che contraddistingue le cancellerie europee di fronte al pericolosissimo valzer di sangue innescato dal proditorio assassinio di Soleimani, eroe nazionale dell’Iran, le cui esequie in mondovisione hanno esibito nelle piazze il dolore di milioni di persone. Si ha un bel dire che il regime di Teheran non è certo un esempio di libertà e democrazia: la discussione si potrebbe svolgere alla pari quando l’Iran bombardasse l’Europa o l’America, ammazzando leader occidentali.Certo, se il mondo sembra sull’orlo dell’abisso, non bisogna dimenticare che – dietro le quinte – agiscono potentissime consorterie riservate, spesso tacitamente in accordo tra loro, pronte anche a sacrificare innocenti pur di incolparsi a vicenda e rafforzare nel modo più sleale il ferreo dominio sui rispettivi popoli, drogati di propaganda. Di fronte al suo omicidio così infame, imposto al mondo in modo pericoloso e oscenamente sfrontato, i media occidentali ripetono che Soleimani era una specie di terrorista, evitando di ricordare che proprio il comandante dei Pasdaran era il nemico numero unico del terrorismo targato Isis, da lui personalmente sgominato prima in Iraq e poi in Siria. Dove pensa di andare, un Occidente che si priva della minima dose vitale di verità? In nome di quale presunta superiorità democratica ritiene di prevalere sulla brutale teocrazia degli ayatollah, sulla “democratura” russa e sull’oligarchia cinese?Si abbia almeno la decenza di riconoscere che il generale Soleimani era innanzitutto un uomo del suo popolo, protesta – sempre alla televisione italiana, ospite di Barbara Palombelli – un intellettuale come Pietrangelo Buttafuoco, il solo a rammentare al gentile pubblico che l’Isis, il mostro che Soleimani ha sconfitto in Iraq e in Siria, era armato e protetto proprio da noi, Occidente democratico. Per la precisione, ha ricordato il saggista Gianfranco Carpeoro, a mettere in piedi l’inferno chiamato Isis è stata una Ur-Lodge supermassonica, la “Hathor Pentalpha”, creata nel 1980 dal clan Bush, reclutando prima Osama Bin Laden e poi il “califfo” Abu Bakr Al-Baghadi. Proprio la recente uccisione del macellaio Al-Baghdadi, uomo-chiave del Deep State statunitense, secondo Carpeoro avrebbe indotto la “Hathor” a premere su Trump, ricattandolo: se uccidi Soleimani, la passerai liscia al Senato per l’impeachment e avrai dalla tua parte, nella corsa per le presidenziali di novembre, anche l’ala repubblicana più reazionaria e naturalmente il potentissimo network sionista che i complottisti chiamano impropriamente “lobby ebraica”.Analisi, suggestioni e indizi che non raggiungono neppure lo 0,1% del pubblico, a cui viene raccontato che il generale Soleimani era “un feroce assassino”, senza mai specificare come, quando e dove si sarebbe esercitato nella sua diabolica specialità, così riprovevole e lontana mille miglia dalla soave, squisita e leggendaria gentilezza dei democraticissimi generali statunitensi e israeliani. Era attivo in Libano, Soleimani? Certo, ma lo erano anche i colleghi israelo-occidentali, che notoriamente in Libano ci vanno abitualmente come turisti. Era stato impegnato in Iraq, il generale iraniano, ed è noto a tutti che l’Iraq è da sempre nei cuori delle umanitarie democrazie occidentali, madrine dei diritti umani. Il bieco Soleimani era di casa pure in Siria, altro paese amatissimo dai democratici di Washington, Ankara, Riad e Tel Aviv. Per inciso: Siria, Libano e Iraq erano i paesi da cui gli impresari occidentali dell’Isis contavano di esportare i tagliagole in Iran, per abbattere finalmente l’odiato regime (sovrano) degli ayatollah. Paolo Barnard ha titolato un suo bestseller con la più scomoda delle domande: perché ci odiano? Tra le sue fonti: il numero due di Al-Qaeda in Egitto.E’ decisivo scoprire che il cuore nero e inconfessabile del jihadismo è l’invenzione perversa di un’élite occidentale criminale. Ma restando sulla superficie, questo non cambia il quadro, il bilancio finale: le nostre forze armate, impegnate in paesi islamici, hanno provocato centinaia di migliaia di morti e milioni di esuli. Perché ci odiano, dunque? Supporre che al nostro posto chiunque altro – Russia, Cina – si sarebbe comportato nello stesso modo, non è di grande consolazione. Alcuni incrollabili atlantisti, che vedono comunque negli Stati Uniti l’unica possibile fonte di riscatto democratico per il pianeta, sperano che il lume della ragione prenda possesso del governo imperiale della superpotenza prima che sia troppo tardi. Si illudono? Sono domande senza risposta, su cui pesa il vistoso smarrimento di Cacciari di fronte al vergognoso silenzio dell’Europa: com’è possibile, accusa, non prendere le distanze da un atto di terrorismo di Stato come quello compiuto dagli Usa ai danni dell’Iran?Lo stesso Cacciari, sempre in televisione, non si nasconde le possibili conseguenze: se gli Usa dovessero reagire alle ovvie rappresaglie iraniane bombardando Teheran, la potenza nucleare russa sarebbe costretta a intervenire. La chiamano: Terza Guerra Mondiale. Nessuno la vorrebbe, ma sembra avvicinarsi in modo terrificante, con sviluppi imprevedibili. Simone Santini, su “Megachip”, accosta la morte di Soleimani a quella dell’afghano Massud. Stessa dinamica e stessi mandanti, identico obiettivo: assassinare un leader autorevole, per far esplodere il caos e indebolire il paese finito nel mirino della potenza imperiale. La pakistana Benazir Bhutto accusò Bush e la Cia dell’omicidio Massud, candidandosi a ripulire il Pakistan, per poi rimarginare anche le ferite dell’Afghanistan: fu assassinata a sua volta, alla vigilia delle elezioni. Un conto però sono le autobombe, dice oggi Massimo Cacciari, e un altro è l’omicidio manu militari commesso impunemente, alla luce del sole. Non era mai accaduto prima, nella storia. E nessuno ha avuto il coraggio di protestare. Se stiamo zitti di fronte a questo, aggiunge Cacciari, cosa potrà accaderci, domani? Com’è possibile non capire che il sangue versato da Qasem Soleimani interroga personalmente ognuno di noi, prima ancora che i nostri impresentabili politici?(Giorgio Cattaneo, 8 gennaio 2020).Menzogne, sangue e colpevoli silenzi. E’ l’habitat nel quale prospera il verminaio terrorista alimentato sottobanco da un impero occidentale che non ha saputo svilupparsi, storicamente, se non a spese di paesi terzi. E’ la tesi di giornalisti eretici come Paolo Barnard, corroborata da illustri colleghi come Seymour Hersh, Premio Pulitzer statunitense, spietato con i nostri media: se la stampa non avesse smesso di fare il proprio mestiere, sostiene, qualche politico – non codardo – avrebbe avuto modo di denunciare i crimini del potere mercuriale, costringendo l’establishment del terzo millennio a fare meno guerre e provocare meno massacri di vittime innocenti. Che poi la verità si annacqui negli opposti estremismi opportunistici e nel sostegno al terrorismo, fatale conseguenza di abusi criminali, non è che un aspetto della mattanza in corso, a rate, inaugurata dall’opaco maxi-attentato dell’11 Settembre a New York, di cui tuttora si tace la vera paternità presunta. Ma se si varca il Rubicone e si compie una violazione che non ha precedenti nella storia, un attentato terroristico condotto con mezzi militari e apertamente rivendicato, allora si passa il segno.
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Soleimani come Massud: ucciso l’eroe, seppellirai la pace
Qassem Soleimani era certamente un militare, un duro, ma era anche uomo di Stato, un consigliere politico insostituibile per la “guida suprema” dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei: in quella veste «ha dimostrato di essere un uomo di stabilizzazione, un tessitore, al pari della sua risolutezza come guerriero». Attenzione: nel 2001, un paio di giorni prima dell’11 Settembre, il leggendario guerrigliero afghano Ahmad Shah Massud venne ucciso in un attentato. Chi lo fece (il signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar, agente dell’Isi – l’intelligence pakistana, braccio operativo della Cia) sapeva benissimo che da lì a poco l’Afghanistan sarebbe stato invaso. I killer di Massud non volevano tra i piedi un eroe nazionale che rappresentasse un punto di stabilità per quel paese. «Chi ha ucciso Soleimani sa bene cosa sta per succedere e ha inteso togliere di mezzo preventivamente un perno di stabilità per tutta la regione». E’ l’analisi che Simone Santini offre, dal blog “Megachip”, per leggere tra le righe del caos scatenato dall’infame agguato terroristico statunitense, in territorio iracheno, costato la vita al leader dei Pasdaran, eroe nazionale iraniano e liberatore della Siria grazie alla storica sconfitta impartita al’Isis, la sanguinosa formazione terrorista sunnita finanziata e protetta dall’Occidente.Da Santini, uno sguardo disincantato e prospettico sul nuovo pericoloso incendio mediorientale, scatenato – colpendo l’Iran – per minare il possibile rafforzamento dell’asse tra Teheran e Pechino (e magari Mosca) nel quadro della “nuova guerra fredda” in corso (o, se si preferisce, Terza Guerra Mondiale a puntate). Già tre anni fa, all’indomani della elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, Santini elencava i compiti che sarebbero stati affidatio all’amministrazione Trump. Primo: ripristinare e proteggere l’economia interna, ricostruendo le sue basi fondamentali. Ovvero: Stati Uniti rimessi in pista come motore produttivo, manifatturiero, verso la piena occupazione, mettendo fine alle delocalizzazioni selvagge. Poi: distensione con la Russia, ma senza cedere nulla di quanto conquistato nel frattempo. Tradotto: «Congelamento dello status quo, fine delle aggressioni, reciproco rispetto formale e collaborazione laddove gli interessi fossero convergenti». Cruciale il capitolo Cina, come si è visto: massima competizione commerciale ed economica con Pechino, «ma senza spingere al momento sull’acceleratore del confronto militare». Sul medio periodo, prevedeva Santini, «si dovrà alzare sempre più l’asticella della competizione globale e porre Pechino davanti ad una scelta strategica: accettare la supremazia americana in cambio di una parziale condivisione dei dividendi dell’Impero oppure il confronto militare, sempre più aggressivo».E intanto: «Concentrarsi nell’immediato sullo scacchiere mediorientale, lo scenario più urgente». Dunque: «Fine della sponsorizzazione del jihadismo sunnita, che ha esaurito in quell’area la sua funzione, e spinta verso la democratizzazione delle petromonarchie del Golfo, a partire dall’Arabia Saudita. Il nemico principale, tuttavia – sottolineava Santini tre anni fa – torna ad essere lo sciismo politico e i suoi alleati, il cosiddetto asse della resistenza, e il suo centro nevralgico, l’Iran». Le linee di faglia su cui si sarebbe mossa l’amministrazione americana erano dunque ben visibili da subito, conferma oggi l’analista di “Megachip”. «Questi tre anni di presidenza, turbolenti, ci hanno poi confermato quelle direttrici e consentito di approfondire taluni approcci». In particolare, per quanto riguarda il confronto con l’Iran, «Trump è apparso bilanciarsi tra le due fazioni principali dello Stato Profondo statunitense che, semplificando e banalizzando, si potrebbero così riassumere: la fazione realista, “il partito dell’assedio”, per cui il nemico va accerchiato, logorato, ma non colpito a fondo perché poi diventa molto difficile ricomporre i cocci di quel che si è rotto; la fazione idealista, messianica, “il partito della guerra”, per cui vale il motto “colpisci per primo, colpisci due volte, e sui cocci pisciaci sopra”».Tra queste due posizioni “imperiali”, ne esistono tante altre, variegate e composite, e Trump è a cavallo di una di queste. «Nel gruppo di potere che lo ha portato alla Casa Bianca, ad esempio – scrive oggi Santini – ci sono quelli che vorrebbero concentrarsi esclusivamente sugli affari interni lasciando sullo sfondo il resto del pianeta, e le lobbies ultrasioniste il cui unico interesse è togliere di mezzo la Repubblica islamica iraniana». L’assassinio di Qasem Soleimani, secondo Santini, dimostra che il “partito della guerra” ha preso definitivamente il controllo della strategia nei confronti dell’Iran. «Se Trump abbia preso tale decisione o sia stato messo davanti al fatto compiuto sarà materia di dibattito per gli storici, ma non cambia la situazione», aggiunge l’analista. «In ogni caso, c’è chi ritiene prevalente l’ipotesi di una decisione diretta del presidente, soprattutto per scopi elettorali: creare un nemico esterno imminente lo aiuterebbe a tirarsi fuori dai guai interni, richiesta di impeachment e collaterali (va aggiunto che anche Israele è, di nuovo, in campagna elettorale, e questa tornata è esistenziale per Netanyahu ancor più che per Trump)». La tesi opposta è quella di un Trump che non vorrebbe lo scontro diretto, ma vi è spinto dai falchi del complesso militare-industriale. «Tutto più o meno plausibile», annota Santini: «Personalmente propendo per una ipotesi intermedia, rifacendomi anche ad un precedente storico», quello di Bill Clinton.Durante tutto il 1998, l’allora presidente vide montare in maniera virulenta lo scandalo Lewinsky, un sexgate che portò alla sua incriminazione per spergiuro ed ostacolo alla giustizia. «Clinton non aveva a cuore la crisi internazionale che si stava profilando all’orizzonte, il Kosovo: sapeva a malapena dove si trovasse». Poi, improvvisamente – continua Santini – nell’autunno inoltrato di quell’anno, «quando lo scandalo interno era al culmine, decise di mettere la crisi balcanica al centro della sua azione politica». Miracolo: «Altrettanto improvvisamente la crisi interna si sgonfiò». E la crisi del Kosovo, «da affare regionale, divenne affare globale». Si domanda Santini: «Furono molto bravi gli strateghi di Clinton a sviare l’attenzione o, piuttosto, il sexgate rivelò la sua vera natura?». Si trattò quindi di «uno strumento di pressione montato ad arte da alcuni centri di potere, per fare sì che il presidente, e alcuni altri centri di potere che egli rappresentava, portassero gli Stati Uniti in guerra». In altre parole: «Sventolando il Kosovo davanti a Clinton fu facile trovare un accordo win-win: tu ci dai la guerra e il sexgate finisce nel dimenticatoio». Mutatis mutandis, può essere accaduto lo stesso in questa fase tra Trump, i gruppi di potere del Deep State, l’impeachment e l’Iran.A questo punto, prosegue Santini nella sua analisi, si fa un gran discutere su quali potrebbero essere le future mosse degli iraniani: la preoccupazione di una escalation è fortissima e tangibile, visto che si temono ripercussioni drammatiche. «Alcuni analisti sostengono che gli Usa stiano scherzando col fuoco, che hanno commesso un errore fatale, che la politica estera statunitense è allo sbando, chiaro segnale del loro inarrestabile declino». Santini non è affatto d’accordo: «Ritengo invece che questa escalation, questa accelerazione di fase, sia stata lucidamente pianificata e perseguita». Infatti, le due conseguenze immediate che ha già prodotto «sono esattamente quelle che gli americani si attendevano». Tanto per cominciare, «l’Iran si è ritirato dall’accordo nucleare». Il governo di Rouhani-Zarif ha resistito fino all’ultimo: «Ha resistito alla denuncia unilaterale del trattato da parte americana, che lo rendeva di fatto vuoto, ha resistito alla imposizione di ulteriori pesantissime sanzioni che stanno avendo profondi effetti sulla società iraniana». I politici di Teheran «hanno più volte chiesto sostegno diplomatico agli immobili e tremebondi paesi europei, inutilmente».Ora, aggiunge Santini, «l’atto terroristico americano, una sorta di dichiarazione di guerra, ha colpito sotto la cintola la componente moderata del potere iraniano», che di fatto «non può più resistere alle pressioni della componente radicale senza esserne travolta sul piano interno». E così, «gli Stati Uniti hanno di nuovo lo strumento retorico e mediatico principe da brandire contro l’Iran e contro i riottosi alleati europei per giustificare le prossime aggressioni: la paura della bomba atomica in mano agli ayatollah (e poco importa se tale minaccia sia sempre stata inesistente, conta solo che venga percepita come tale)». La seconda conseguenza, poi, secondo Santini è molto sottile da interpretare: «Che il Parlamento iracheno abbia decretato la cacciata delle truppe straniere di occupazione dal paese potrebbe sembrare una sconfitta per gli americani, ma così non è». Il governo iracheno infatti è fragilissimo, di fatto dimissionario dopo le imponenti manifestazioni popolari contro corruzione e condizioni economiche dei mesi scorsi, represse a costo di centinaia di morti e migliaia di feriti, e che si sono interrotte solo in seguito alla promessa del premier Abdul-Mahdi di dimettersi. «Un governo in queste condizioni non ha la minima forza per imporre la decisione assunta contro gli Stati Uniti».L’Iraq si trova, oggettivamente, in una condizione di pre-guerra civile. «Se fossi uno stratega americano, o israeliano, farei il possibile per favorire tale drammatico esito», scrive Santini. Tutti nemici: iracheni contro curdi e sunniti contro sciiti, ma le divisioni interne travagliano le stesse componenti sciite. «Il mondo sciita non è monolitico», spiega Santini: «In particolare, la dottrina khomeinista ha prodotto al suo interno una profonda frattura di ordine religioso ma con importanti riflessi politici», dato che «religione e politica nell’Islam si intrecciano intimamente». In Iraq «esistono fazioni sciite radicali ma nazionaliste (la principale è quella che fa capo a Moqtada al Sadr) e fazioni sciite altrettanto radicali ma filo-iraniane (che si richiamano alla ideologia e organizzazione degli Hezbollah libanesi)». Gli sciiti nazionalisti iracheni – aggiunge Santini – mal sopportano (è un eufemismo) l’ascesa egemonica degli sciiti filo-iraniani in Iraq. Sicchè, lo scontro armato è all’ordine del giorno, visto che «questi partiti, gruppi e fazioni sono tutti strutturati in organizzazioni paramilitari». Dare la parola alle armi? «Sarebbe possibile se il paese sprofondasse nel caos», in una sorta di “tutti contro tutti” dagli esiti imprevedibili.In quel caso, conclude Santini, «l’Iran sarebbe risucchiato in questa guerra civile irachena e ne uscirebbe ulteriormente dissanguato». Dopo due guerre che hanno raso al suolo l’Iraq, emerge una verità di fondo: «Gli americani in questi lunghi anni di occupazione hanno dimostrato di non avere la forza militare sufficiente per imporre la loro egemonia, ma ce l’hanno a sufficienza per “controllare” una guerra civile, aperta o sotterranea, indefinitamente, finché fosse nel loro interesse». Ed ecco che, alla luce di questa analisi, risulta meno “folle” e incomprensibile l’efferata uccisione del grande tessitore carismatico Soleimani, che Santini – in modo davvero suggestivo – accosta alla fine, altrettanto atroce, che la longa manus terroristica degli Usa riservò al “leone del Panshir”, l’eroe nazionale afghano che (come il guerriero Soleimani) avrebbe avuto il prestigio, l’autorevolezza e la popolarità per imporre la pace, mettendo fine alle ingerenze internazionali nel suo tormentato paese. Ieri il comandante Massud, oggi il generale Soleimani: e i registi della morte provengono dalla medesima capitale, Washington.Qassem Soleimani era certamente un militare, un duro, ma era anche uomo di Stato, un consigliere politico insostituibile per la “guida suprema” dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei: in quella veste «ha dimostrato di essere un uomo di stabilizzazione, un tessitore, al pari della sua risolutezza come guerriero». Attenzione: nel 2001, un paio di giorni prima dell’11 Settembre, il leggendario guerrigliero afghano Ahmad Shah Massud venne ucciso in un attentato. Chi lo fece (il signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar, agente dell’Isi – l’intelligence pakistana, braccio operativo della Cia) sapeva benissimo che da lì a poco l’Afghanistan sarebbe stato invaso. I killer di Massud non volevano tra i piedi un eroe nazionale che rappresentasse un punto di stabilità per quel paese. «Chi ha ucciso Soleimani sa bene cosa sta per succedere e ha inteso togliere di mezzo preventivamente un perno di stabilità per tutta la regione». E’ l’analisi che Simone Santini offre, dal blog “Megachip“, per leggere tra le righe del caos scatenato dall’infame agguato terroristico statunitense, in territorio iracheno, costato la vita al leader dei Pasdaran, eroe nazionale iraniano e liberatore della Siria grazie alla storica sconfitta impartita al’Isis, la sanguinosa formazione terrorista sunnita finanziata e protetta dall’Occidente.
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Cabras a Salvini: per gli sciiti, Soleimani era come Garibaldi
Per rendersi conto – da italiani – dell’impatto morale e politico dell’assassinio deciso da Donald Trump e dai suoi falchi, potremmo paragonare il generale Qasem Soleimani alla forza iconica celebratissima di un Giuseppe Garibaldi, ma senza gli sbiadimenti e le annacquature dei secoli che passano. Un Garibaldi contemporaneo, dunque, con l’audacia propria del militare di razza, ma dotato anche di un’aura da predestinato – percepita a livello popolare in molti paesi – assimilabile a quella di un difensore della giustizia disinteressato, una sorta di Paolo Borsellino del mondo sciita. Per le caratteristiche dello sciismo contemporaneo – molto propenso ad attualizzare nella Storia di oggi le proprie tradizioni e la propria identità più profonda – un’altra figura eroica e martire diventa un’indispensabile termine di paragone: l’Imam Hussein. Il che crea una saldatura dalla forza inimmaginabile tra fede e passione politica rispetto alle inaridite passioni occidentali. Donald Trump non ha decapitato una forza. Nell’ascoltare il suo partito della guerra ha invece appiccato, come i suoi predecessori, un incendio che non saprà spegnere, perché circonda il Medio Oriente di basi militari ma non lo capisce.Un incendio che costerà lutti e caos, e che va fermato spegnendo anche le complicità dei mentecatti. Fra questi includo quel Salvini che si dimostra una volta di più un sovranista di cartone con l’anima del vassallo che si vende per un piatto di lenticchie ai padroni da lui cercati spasmodicamente, un irresponsabile impreparato che mette da subito in pericolo migliaia di militari italiani in Libano e in Iraq. Occorre risollevare la capacità di analisi, mettere da parte i sovranisti di cartone e i bacia-pantofole, e capire immediatamente qual è il nostro preminente interesse nazionale in un momento di così gravi tensioni internazionali. L’epoca del comando unilaterale ha superato ogni soglia di pericolo. Va evitata ogni escalation del conflitto, a partire dai rischi di guerra civile in Iraq e in tutta la Mezzaluna sciita. Potrà riuscirci solo un sistema di relazioni multilaterali che coinvolga tutte le capitali che contano, con cui parlare e da far parlare immediatamente.(Pino Cabras, “Capire la gravità di un omicidio politico. Mettiamo da parte i sovranisti di cartone”, da “Megachip” del 4 gennaio 2020. Storico collaboratore di Giulietto Chiesa, Cabras è stato eletto deputato nel 2018 con i 5 Stelle ed è membro della commissione affari esteri della Camera. Ha pubblicato svariati saggi, tra cui “Balducci e Berlinguer. Il principio della speranza”, edito da La Zisa nel 1995, nonché “Strategie per una guerra mondiale. Dall’11 settembre al delitto Bhutto”, pubblicato da Aìsara nel 2008. Insieme allo stesso Chiesa, per Ponte alle Grazie, nel 2012 ha pubblicato “Barack Obush. La liquidazione di Osama, l’intervento in Libia, la manipolazione delle rivolte arabe, la guerra all’Europa e alla Cina: colpi di coda di un impero in declino”. Veemente, lo scorso anno, la sua denuncia delle violenze scatenate a Caracas dai seguaci di Juan Guaidò, appoggiato dagli Usa, nel tentativo di rovesciare il presidente venezuelano Nicolas Maduro).Per rendersi conto – da italiani – dell’impatto morale e politico dell’assassinio deciso da Donald Trump e dai suoi falchi, potremmo paragonare il generale Qasem Soleimani alla forza iconica celebratissima di un Giuseppe Garibaldi, ma senza gli sbiadimenti e le annacquature dei secoli che passano. Un Garibaldi contemporaneo, dunque, con l’audacia propria del militare di razza, ma dotato anche di un’aura da predestinato – percepita a livello popolare in molti paesi – assimilabile a quella di un difensore della giustizia disinteressato, una sorta di Paolo Borsellino del mondo sciita. Per le caratteristiche dello sciismo contemporaneo – molto propenso ad attualizzare nella Storia di oggi le proprie tradizioni e la propria identità più profonda – un’altra figura eroica e martire diventa un’indispensabile termine di paragone: l’Imam Hussein. Il che crea una saldatura dalla forza inimmaginabile tra fede e passione politica rispetto alle inaridite passioni occidentali. Donald Trump non ha decapitato una forza. Nell’ascoltare il suo partito della guerra ha invece appiccato, come i suoi predecessori, un incendio che non saprà spegnere, perché circonda il Medio Oriente di basi militari ma non lo capisce.
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L’Iran e la Guerra di Israele, cui Rabin avrebbe posto fine
Che intenzioni hanno, esattamente, le divinità della guerra? Dove porterà l’assassinio dell’eroe nazionale iraniano Qasem Soleimani, trucidato dai droni di Trump il 2 gennaio del fatidico 2020? “Terremoto” è forse la parola più adatta a rappresentare il sanguinoso caos che ha come epicentro ancora una volta Israele, infiammando i suoi i vicini di casa. A essere colpito è il più potente di essi, la Persia, ma l’agguato mortale contro il leggendario capo dei Pasdaran – stratega della guerra di liberazione contro l’Isis in Siria – potrebbe giovare al regime di Teheran: la carta dell’orgoglio nazionale sarà usata per silenziare le proteste degli iraniani che invocano democrazia, esasperati anche dalla crisi economica prodotta dall’embargo filo-sionista americano. Speculazione politica spicciola anche negli Usa, infatti: il ricorso al patriottismo militarista è sventolato da un Trump in difficoltà, assediato dall’impeachment e proiettato verso le cruciali elezioni di novembre. Calcoli paralleli, fra Teheran e Washington, sulla pelle del generale Soleimani? Il raid terroristico statunitense, destinato a rinfocolare l’odio dei musulmani verso la superpotenza atlantica protettrice di Israele, ricorda in modo sinistro un altro fatale omicidio, lontano nel tempo: quello di Yitzhak Rabin, freddato il 4 novembre 1995 a Tel Aviv per aver finalmente stretto un vero accordo di pace coi palestinesi, destinato a disinnescare per sempre il Medio Oriente.Due anni prima, a Oslo, il progressista Rabin si era accordato con Arafat per gettare le basi, per la prima volta, di un patto che avrebbe portato alla nascita dello Stato di Palestina. Sarebbe stato la fine dell’alibi che per mezzo secolo aveva sorretto le peggiori oligarchie musulmane, sotterraneamente alleate delle oligarchie ebraiche del sionismo: la tensione permanente, per giustificare il rispettivo potere. Neutralizzato l’Egitto come paese leader del panarabismo storico, letteralmente distrutto l’Iraq di Saddam e invasa la Siria degli Assad, sono emerse in modo sempre più vistoso le due nuove potenze regionali, Ankara e Teheran. La Turchia di Erdogan salì alla ribalta nel 2010 denunciando il martirio di Gaza e l’aggressione alla Freedom Flotilla, carica di aiuti umanitari. L’Iran degli ayatollah si è proteso verso la maggioranza sciita degli iracheni, ben deciso a fortificare gli altri suoi caposaldi attorno a Israele, Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza. Ancora una volta, il fronte che si proclama anti-israeliano ha giocato in difesa: e proprio il generale Soleimani si era appena distinto, in Siria, accanto ai russi e ai libanesi di Hezbollah, per liberare il paese dalle milizie terroriste protette dall’Occidente. Quando infine la coalizione anti-Isis (iraniani e russi, siriani e curdi) ha sconfitto sul campo l’esercito dei tagliagole, lo stesso Trump si è preso il lusso di eliminare la pedina dell’intelligence atlantica, il “califfo” Al-Bahdadi, anch’esso (ufficialmente, almeno) ucciso con un raid dal cielo.La tragedia si colora di farsa non appena si dà un’occhiata all’Italia, dove la Rai si è rifiutata di trasmettere l’intervista di Monica Maggioni al presidente siriano Bashar Assad, la prima dopo un decennio di guerra. La notizia stava nelle accuse di Assad verso i protettori occulti dell’Isis, le potenze occidentali (Francia in primis) e i loro satelliti mediorientali, incluso Israele. Nel 2015, Matteo Renzi non osò schierare truppe italiane in Libia, nonostante la protezione promessa da Obama. Oggi, assente l’Italia, sarà la Turchia a dislocare 9.000 soldati a guardia di Tripoli, a due passi dai terminali strategici dell’Eni. Silenzio di tomba da Conte e Di Maio, stavolta persino battuti – se possibile – da Salvini, che non trova di meglio che esultare per l’assassinio del generale Soleimani, impegnato a sollevare gli iracheni contro il governo coloniale della superpotenza che ha distrutto l’Iraq, facendone il vivaio dell’Isis. Il film dell’orrore che stiamo vivendo, letteralmente esploso insieme alle Torri Gemelle l’11 settembre del 2001, non sarebbe nemmeno cominciato se, nell’autunno del ‘95, non fossero andati a segno i colpi del fanatico sionista Yigal Amir, colono ebreo di estrema destra, terrorizzato dall’idea che Israele potesse convivere, alla pari, con gli “scarafaggi” palestinesi. Con la sua Beretta, Amir esplose due colpi calibro 380: sparò alla schiena di Rabin, e di milioni di persone che speravano davvero nel miracolo della pace.Dieci anni prima, in una capitale del Nord Europa – la remotissima Stoccolma – aveva fatto la stessa fine il grande leader socialdemocratico Olof Palme, grande sostenitore della causa palestinese. Quei colpi di pistola – dalla Svezia a Tel Aviv – è come se avessero centrato il cuore del mondo, paralizzandolo per decenni. Fino ad allora, il terrorismo era stato qualcosa di vagamente collegabile a una guerra tra oppressi e oppressori: i Fedayin palestinesi colpivano obiettivi precisi, entità ritenute responsabili di crimini. Non erano stragisti mercenari come l’oscura manovalanza di Al-Qaeda e dell’Isis. Erano guerriglieri spesso orfani, con alle spalle una catena di sofferenze e lutti famigliari. Sia pure in modo sanguinoso, avevano contribuito a mobilitare la comunità internazionale verso una soluzione storica, che mettesse fine al disastro innescato da confini di carta, disegnati nel deserto dopo il crollo dell’Impero Ottomano e poi con la creazione in Palestina del solo Stato ebraico. La stessa popolazione di Israele è stata costretta a convivere con l’incubo permanente della strage. Oggi, gli impresari del terrore sono tornati all’opera: finito il lavoro in Siria, ricominciano dall’Iraq e dalla Libia mettendo nel mirino l’Iran. Rispetto a ieri, se non altro, nel Medio Oriente è ricomparsa la forza stabilizzatrice della Russia. Dove porteranno, ora, i nuovissimi incendi innescati nella regione? Sembra continuare un gioco antico: opposti estremismi, nemici apparenti e alleati sotterranei. Dalla politica, buio pesto. Solo ipocrisia, e sangue.Che intenzioni hanno, esattamente, le divinità della guerra? Dove porterà l’assassinio dell’eroe nazionale iraniano Qasem Soleimani, trucidato dai droni di Trump il 2 gennaio del fatidico 2020? “Terremoto” è forse la parola più adatta a rappresentare il sanguinoso caos che ha come epicentro ancora una volta Israele, infiammando i suoi i vicini di casa. A essere colpito è il più potente di essi, la Persia, ma l’agguato mortale contro il leggendario capo dei Pasdaran – stratega della guerra di liberazione contro l’Isis in Siria – potrebbe giovare al regime di Teheran: la carta dell’orgoglio nazionale sarà usata per silenziare le proteste degli iraniani che invocano democrazia, esasperati anche dalla crisi economica prodotta dall’embargo filo-sionista americano. Speculazione politica spicciola anche negli Usa: il ricorso al patriottismo militarista è sventolato da un Trump in difficoltà, assediato dall’impeachment e proiettato verso le cruciali elezioni di novembre. Calcoli paralleli, fra Teheran e Washington, sulla pelle del generale Soleimani? Il raid terroristico statunitense, destinato a rinfocolare l’odio dei musulmani verso la superpotenza atlantica protettrice di Israele, ricorda in modo sinistro un altro fatale omicidio, lontano nel tempo: quello di Yitzhak Rabin, freddato il 4 novembre 1995 a Tel Aviv per aver finalmente stretto un vero accordo di pace coi palestinesi, destinato a disinnescare per sempre il Medio Oriente.
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Sardine e Gretini distraggono l’Italia dallo sfacelo del paese
Tutta l’attenzione mediatica è concentrata su Sardine e gretini. Lo scopo è fin troppo evidente. Portare l’antifascismo e l’antirazzismo nelle piazze, in assenza di fascismo e di razzismo, per criticare chi al momento è all’opposizione. L’esperimento è politicamente interessante per la sua originalità. Poiché la maggioranza è politicamente insistente, non resta altro per difenderla che scendere in piazza… contro l’opposizione. Il fatto che Alitalia, ex-Ilva e Popolare di Bari siano in bancarotta, che la manovra economica di bilancio sia nel caos e così la ratifica del Trattato del “Fondo SalvaStati” tutto questo è di secondaria importanza. Il Pil italiano è sempre a crescita zero (+0,1% secondo le stime) e così l’inflazione, per cui il Pil in euro aumenta di solo 4 miliardi da un anno all’altro e anche solo un piccolo deficit del 2,1% (35 miliardi), fa aumentare il debito di 30 miliardi circa. Ma il problema dei “nuovi partigiani” è fermare la feroce bestia fascista. Un linguaggio di vero amore e di pace. Del resto possono contare sul fatto che nonostante questo governo sia non il vuoto, ma il sottovuoto spinto non accade nulla di tragico, a parte gli operai in cassa integrazione per Natale, ma di questo non frega un cazzo a nessuno.Lo “spread”, nonostante il pagliaccio di turno ogni tanto provi a fare allarmismo, si comporta bene perché i Btp la settimana scorsa sono saliti di 4 punti, più di ogni altro bond al mondo e la borsa italiana è salita del 18% da agosto, migliore Borsa al mondo. Nel mondo di oggi se il mercato finanziario tira i politici si sentono al sicuro e viceversa, basta vedere Trump che saluta ogni rialzo del Dow Jones. Nonostante quindi la produzione industriale stia di nuovo calando, l’andamento del Pil italiano sia il peggiore dell’Ocse, Alitalia, Ilva e Popolare di Bari siano da salvare e la manovra sia nel caos più totale, il governo galleggia. Bisogna ricordare che il governo Berlusconi nel 2011 aveva di fronte una situazione economica migliore di quella di oggi e lo stesso fu costretto a dimettersi solo perché le quotazioni dei Btp erano scese sui mercati di 20 o 30 punti (lo spread consiste appunto in questo calo dei prezzi dei Btp). Il mercato finanziario per ora è benigno per cui il governo può tirare a campare. L’incognita è il M5S perché più di metà dei suoi parlamentari sa che non verrà rieletto stando ai sondaggi e sta cominciando quindi un esodo verso Salvini, che può invece farli rieleggere.Se il M5S lascia tutta la politica economica nelle mani di Gualtieri e del Pd si suicida del tutto, lentamente magari perché appunto lo “spread” al momento è sotto controllo, ma il caos su Ilva, Popolare di Bari, Alitalia, sul Mes e su una manovra di bilancio fatta di piccole tasse lo logoreranno anche se è al governo. In effetti ci sono segni di irrequietudine tra i parlamentari, tra i quali ad esempio la maggioranza di loro ha firmato un disegno di legge promosso da Pino Cabras per introdurre una “moneta fiscale” sotto forma di “certificati di compensazione fiscale” (cioè detrazioni fiscale che si possono scambiare, come abbiamo illlustrato in precedenti articoli). L’importo non è indicato nel disegno di legge, lasciandolo decidere al ministro dell’economia, ma in tutte le elaborazioni, si parla da un minimo di 20 miliardi ad un massimo di 60 miliardi l’anno, quindi qualcosa di rilevante. Assieme a Cabras a sostenere la proposta c’erano, del M5S, Mario Turco (sottosegretario della Presidenza del Consiglio con delega alla programmazione economica) e Steni Di Piazza (sottosegretario del ministero del lavoro). Inutile dire che la proposta è interessante e potrebbe essere fatta oggetto di discussione anche dalla Lega, ora che Salvini pare vestire i panni del responsabile pronto al dialogo nell’interesse del paese. Ma c’è da fidarsi?In questi giorni sulla piattaforma “Rousseau” c’è stata una votazione per decidere un team di “facilitatori” che affiancheranno Di Maio sui vari temi. Il Movimento doveva completare la sua trasformazione in partito ed ecco quindi la sua segreteria. Il vice di Di Maio è una donna di Casaleggio, Enrica Sabatini. Sappiamo che il tutto ha poco senso, perché basta un “belin” di Grillo per far cadere tutto. Ma sappiamo anche che a Grillo interessa solo portare al Quirinale Romano Prodi, per fare un dispetto a Renzi. Del resto non gliene frega più un cazzo. Ma soffermiamoci su un punto. Per l’economia c’erano 3 team e ha vinto quello del senatore Presutto che propone di ridurre il debito pubblico come priorità, mentre il team che proponeva la “moneta fiscale”, del tutto in linea con il disegno di legge presentato dal M5s, è stato bocciato. Il punto è sempre lo stesso. Il M5S sostiene tutto e il contrario di tutto. Come si fa a proporre un “comitato di salvezza nazionale” in queste condizioni? Mille sono i rischi e con quale guadagno?(Paolo Becchi e Giovanni Zibordi, “Sardine, gretini e 5 Stelle allo sbando, e intanto il paese va a picco”, da “Libero” del 17 dicembre 2019; articolo ripreso dal blog di Becchi).Tutta l’attenzione mediatica è concentrata su Sardine e gretini. Lo scopo è fin troppo evidente. Portare l’antifascismo e l’antirazzismo nelle piazze, in assenza di fascismo e di razzismo, per criticare chi al momento è all’opposizione. L’esperimento è politicamente interessante per la sua originalità. Poiché la maggioranza è politicamente insistente, non resta altro per difenderla che scendere in piazza… contro l’opposizione. Il fatto che Alitalia, ex-Ilva e Popolare di Bari siano in bancarotta, che la manovra economica di bilancio sia nel caos e così la ratifica del Trattato del “Fondo SalvaStati” tutto questo è di secondaria importanza. Il Pil italiano è sempre a crescita zero (+0,1% secondo le stime) e così l’inflazione, per cui il Pil in euro aumenta di solo 4 miliardi da un anno all’altro e anche solo un piccolo deficit del 2,1% (35 miliardi), fa aumentare il debito di 30 miliardi circa. Ma il problema dei “nuovi partigiani” è fermare la feroce bestia fascista. Un linguaggio di vero amore e di pace. Del resto possono contare sul fatto che nonostante questo governo sia non il vuoto, ma il sottovuoto spinto non accade nulla di tragico, a parte gli operai in cassa integrazione per Natale, ma di questo non frega un cazzo a nessuno.
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Basta fango: se tutti i partiti si unissero per salvare il paese
Fango su fango, per produrre altro fango, lungo un desolato orizzonte di fango. Tutto è uguale a niente, ormai? Buio sul povero Giulio Regeni, massacrato in Egitto: anni di parole contro il truce regime del Cairo, e silenzio assordante sugli elusivi committenti di Giulio, le ambigue e reticenti agenzie di Cambridge che probabilmente lo mandarono al macello, a sua insaputa. Fango su fango, anche se si vuole inquadrare il martirio dei migranti: tutto sembra risolversi nell’insulso derby violento all’italiana, pro o contro Salvini, senza uno sputo di analisi sull’immane tragedia dell’Africa. Solo maschere, per questo piccolo avanspettacolo nutrito di personaggi come Carola Rackete e Greta Thunberg (perfetta, la svedese, per eludere – con il suo dogma climatico – il vero dramma dell’avvelenamento terrestre). A vincere è il fango, declinato ovunque. Fango sulla Russia, anche in salsa olimpionica: tutto si esaurisce negli ipotetici Russiagate, senza che nessuno si interroghi sul ruolo di Mosca, di Bruxelles, di Berlino e di Washington. I media fotografano una società che, anziché pensare, insulta. Fango su Trump, per le presunte intrusioni in Ucraina, dopo che il paese fu travolto da una rivoluzione colorata, progettata a tavolino e finita con la consegna del gas ucraino al figlio di Joe Biden, allora vice di Obama. Fango su tutti, a turno: sui siriani e gli iracheni, sui palestinesi, sui curdi.Fango e morte per i libici, gli yemeniti, gli stessi europei fatti a pezzi nelle piazze dal sedicente Isis, sotto il naso di polizie distratte. Fango e botte, per buon peso: sprangate in faccia ai manifestanti di Hong Kong e a quelli di Parigi. C’è chi la chiama terza guerra mondiale a rate, a puntate, a geometria variabile. Con tanto sangue, e soprattutto fango, a ogni latitudine. La piccola Italia (non così piccola, ma rimpicciolita dagli stregoni dell’Ue) diventa addirittura microscopica, nella fanghiglia della sua non-politica di ieri e di oggi. Non un partito vero, che pensi al domani: tutto è fermo alle elezioni del giorno dopo. Sondaggi, telegiornali, talkshow. Il non-governo attanagliato dal terrore del voto, l’opposizione che non va oltre l’ovvio disgusto per le non-decisioni dei prestanome che occupano i palazzi. La cosiddetta crisi morde sempre di più: acciaierie in panne e banche sull’orlo del tracollo, viadotti che si schiantano, fabbriche che chiudono, industrie che scappano all’estero per pagare meno (sia il lavoro che le tasse). Politica assente: massima irrisione, la non-protesta delle Sardine. Una beffa grottesca: festicciole e canzoni, al funerale dell’Italia.Uno spettacolo surreale, offerto al mondo che ci guarda, e che osserva la nostra incapacità strutturale di leggere la crisi, di riconoscerne i mandanti e gli esecutori. Attaccano Salvini, i dimostranti ipnotizzati dalla disinformazione: se la prendono con un micro-leader che domani forse non esisterà nemmeno più, e che comunque (questa la sua colpa) non ha ancora fatto assolutamente niente per restituire al paese una visione precisa, nonché una strategia su come uscire dall’oceano di fango nel quale sta affondando. Quel che non si perdona, alla Lega, è di essere l’unico partito a suo modo vitale, legittimato dal consenso? In effetti sembra fuori posto, questa Lega – prontamente assediata dalle inchieste – nell’Italia dell’anonimo e cardinalizio Conte, dell’esanime Zingaretti, della caricatura Renzi, degli zombie un po’ cialtroni che fino a ieri promettevano un mondo a 5 stelle. Altro? Macché. Fango per tutti, a reti unificate, senza sforzarsi di capire perché siamo finiti così in basso. Cos’è il debito pubblico? Cosa sono l’Eurozona, il Mes, la Brexit, il Fiscal Compact, il pareggio di bilancio? Cos’è davvero l’avanzo primario, che da quasi trent’anni fa sì che lo Stato prelevi dai cittadini, sotto forma di tasse, più di quanto il governo non spenda, per gli italiani, in termini di servizi?Economia, questa sconosciuta: deve provvedere Mario Draghi, nientemeno, a suggerire che la via d’uscita può essere dalla parte opposta, rispetto al plumbeo rigorismo della Bce. Proprio lui, Draghi, è come se dicesse: ci si salva facendo l’esatto contrario di quel che ho fatto io, in tutti questi anni, prima al Tesoro e poi a Bankitalia, quindi a Francoforte. Modern Money Theory: emissione illimitata di liquidità, a costo zero. Altro che super-tasse, altro che austerity imposta per volere divino. Deficit positivo: vuol dire soldi da investire, lavoro, consumi, economia (e alla fine, risanamento del bilancio). Il “nuovo” Draghi, keynesiano e sovranitario, potrebbe essere l’eroe perfetto, per le Sardine – per loro, e per chiunque aspiri a recuperare il senso delle cose, il contatto con la realtà (cos’è lo Stato e a cosa serve, come deve funzionare). “Prestatore di ultima istanza”: parole divenute antiche solo qui, in questa Europa nanizzata dall’Ue, dai trattati intangibili che la recintano, deprimendola. Atroce, storicamente, per un continente dove – tra Parigi e Londra – nacque la democrazia moderna, già incubata in modo larvale nel medioevo italiano dei Comuni, e poi evocata tra le barricate della Repubblica Romana. Mazzini e Garibaldi: non volevano forse una democrazia europea, di popoli fratelli? Sappiamo com’è andata: due guerre mondiali. Poi la pace tra le rovine, la ricostruzione, la prodigiosa rinascita nel Belpaese. Fino a quando, lassù, non s’è deciso che potesse bastare, e che dovessimo tornare a soffrire.Modern Money Theory: massima eresia. La sventola Draghi, e nessuno fiata. Nessuno lo intervista, lo interroga, lo incalza. Sarebbe la notizia del secolo, in teoria, in materia finanziaria. Certo, non è merce maneggevole per l’insultificio. Meglio il fango, certo: è tanto più comodo. Nel fango si sguazza un po’ tutti, perché non è difficile trovare il bersaglio adatto, visto il livello dello zoo politico. Sarebbe bello vedere un altro film. Gente che accetta di sedersi allo stesso tavolo, a discutere. Fine del tifo, della gara di rutti. Tema: rimettere insieme i frantumi. Unirsi, con un obbligo: cancellare la lavagna delle prossime elezioni, e mettersi a pensare. Trovare, insieme, il gusto del bicchiere mezzo pieno. Ce ne sarebbe, da studiare. Prima, però, converrebbe archiviare le bandiere. Si fa così, da sempre, quando si vuole la pace. Si mettono da parte i vecchi rancori, le liturgie rituali, le identità solo formali. Destra e sinistra: che senso hanno, oggi? Cos’ha fatto, di buono, il centrodestra di governo? E in cosa si è distinto, il centrosinistra, rispetto ai tagli sociali dell’era berlusconiana? Entrambe le fazioni hanno obbedito a diktat. L’hanno votata insieme, la legge Fornero. Hanno mostrato il medesimo rispetto reverenziale per lo sciagurato Patto di Stabilità, che in capo a dieci anni ha ridotto le strade dei paesi italiani a campi minati, dove si fa lo slalom tra le buche perché il Comune non ha i soldi per l’asfalto.Hanno ragione, le Sardine, a reclamare una diversa estetica, gentile e dialogante. Mancano il bersaglio, certo: sparano all’orso di cartone, senza avvedersi che il luna park è recintato come un lager, dove tutto è proibito. Siamo prigionieri, ecco il punto. Beninteso, prigionieri europei del terzo millennio: privilegiati, senza nessuna guerra in casa da settant’anni. Siamo persino liberi di parlare, di insultarci allegramente, di vomitare fango contro gli orsetti di cartone. Ma è tutto qui, quel che sappiamo fare? Non ci viene il sospetto che le nostre animose divisioni siano l’habitat perfetto, per chi vuole continuare a portarci via tutto? Nei decenni della sovranità relativa, monetaria, l’Italia divenne la quarta potenza industriale del pianeta. E questo, nonostante le sue piaghe: mafia, evasione fiscale di massa, corruzione dilagante della politica. Eppure il paese cresceva, tutti stavano meglio e sapevano che i figli avrebbero avuto ancora più opportunità. Il deficit aveva fatto da motore, e il mastodonte Iri era il volano di un’economia che trascinava migliaia di aziende. Poi hanno fatto a pezzi tutto, dando la colpa a noi: al debito delle cicale, alla mafia, agli evasori, ai politici corrotti.Con queste miserabili menzogne hanno eretto il recinto spinato dell’attuale luna park, su cui sventola la bandierina blu-stellata della cosiddetta Europa. Mafia, evasione, corruzione? Esattamente come prima. La differenza? Non possiamo più spendere. Il risultato è una specie di catastrofe: meno servizi, meno welfare, meno sanità, meno pensioni. Meno soldi, meno consumi, meno futuro, meno tutto. Rigore, tasse, delimitazioni assurde come la suprema frode del famigerato tetto del 3% alla spesa pubblica: pura invenzione di un’ideologia maligna, spacciata per norma scientifica, per legge economica. Balordo imbroglio, grazie al caos organizzato a tradimento. Dopo decenni di cospicue regalie statali, la grande industria se la svigna in Serbia, in Romania e in Polonia, dove le maestranze costano di meno. La Fiat scappa in Olanda, lasciando a secco il fisco del paese che l’ha coperta di miliardi per decenni. E che dire dell’inflessibile Germania? Trucca i suoi conti pubblici, facendo dimagrire il debito di Stato depennando quello delle Regioni e la spesa pensionistica. E noi in piazza, valorosamente, a intonare gli inni dell’antifascismo di un secolo fa, mentre i predoni del 2019 ridono degli italiani, ingenui incorreggibili.Che bello, se qualcuno mettesse in produzione l’altro film: quello che manca. Tutti seduti allo stesso tavolo. Di Maio e Renzi, Salvini e Zingaretti, la Meloni. Conferenza a reti unificate, per dire: signori, c’è un problema. Le regole vanno cambiate. Siamo tutti d’accordo, finalmente. Vogliamo salvare gli italiani, tornare alla democrazia reale dello Stato. Lanciare una democrazia continentale. Far nascere qualcosa che ancora non esiste: una Unione Europea, di gente che si aiuta. Bello e impossibile? Soltanto un sogno, un’utopia? Pure, proprio da lì si parte: sono i sogni a dissipare il fango. Il resto, poi, viene da sé. Di fronte a un orizzonte nuovo, chi mai perderebbe ancora tempo a vomitare insulti? Molto sta nel crederci, all’orizzonte amico. Serve qualcuno che innanzitutto lo disegni, faccia vedere quanto sarebbe attraente, e spieghi anche quali passi, esattamente, sarebbe necessario compiere, verso la meta. Prima, però, deve tornare il sole almeno nei pensieri: per metter fine al fango, alla paura, alla stupidità dell’odio. Sta a noi, la prima mossa: se scoppia la pace, si mette male per gli sfruttatori. Lo sanno bene, i padroni del luna park. Gli unici a non saperlo ancora, a quanto pare, siamo noi?(Giorgio Cattaneo, “Basta fango: se tutti i partiti italiani si unissero, per salvare il paese”, dal blog del Movimento Roosevelt del 18 dicembre 2019).Fango su fango, per produrre altro fango, lungo un desolato orizzonte di fango. Tutto è uguale a niente, ormai? Buio sul povero Giulio Regeni, massacrato in Egitto: anni di parole contro il truce regime del Cairo, e silenzio assordante sugli elusivi committenti di Giulio, le ambigue e reticenti agenzie di Cambridge che probabilmente lo mandarono al macello, a sua insaputa. Fango su fango, anche se si vuole inquadrare il martirio dei migranti: tutto sembra risolversi nell’insulso derby violento all’italiana, pro o contro Salvini, senza uno sputo di analisi sull’immane tragedia dell’Africa. Solo maschere, per questo piccolo avanspettacolo nutrito di personaggi come Carola Rackete e Greta Thunberg (perfetta, la svedese, per eludere – con il suo dogma climatico – il vero dramma dell’avvelenamento terrestre). A vincere è il fango, declinato ovunque. Fango sulla Russia, anche in salsa olimpionica: tutto si esaurisce negli ipotetici Russiagate, senza che nessuno si interroghi sul ruolo di Mosca, di Bruxelles, di Berlino e di Washington. I media fotografano una società che, anziché pensare, insulta. Fango su Trump, per le presunte intrusioni in Ucraina, dopo che il paese fu travolto da una rivoluzione colorata, progettata a tavolino e finita con la consegna del gas ucraino al figlio di Joe Biden, allora vice di Obama. Fango su tutti, a turno: sui siriani e gli iracheni, sui palestinesi, sui curdi.
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Ilva: quel regalo di Prodi all’Ue che piegò l’industria italiana
Un’antologia di Spoon River della politica industriale: il paragone tra gli ultimi decenni dell’economia italiana e il celebre “cimitero” letterario rischia di diventare ancora più calzante se ad aggiungersi alla grande massa di settori strategici, centri produttivi di vitale importanza e campioni nazionali smantellati da scelte politiche scriteriate (specie le privatizzazioni selvagge), carenze nella definizione delle priorità strategiche e disastri dei gestori privati dovesse aggiungersi l’Ilva. La corsa frenetica a demolire l’economia mista imperniata nell’Istituto di Ricostruzione Industriale (Iri) è stata devastante. Lo ha fatto notare con durezza e nitida chiarezza il direttore del “Quotidiano del Sud” Roberto Napoletano in un recente editoriale: «La vecchia Stet dell’Iri ha ricostruito l’impero romano regalando all’Italia il primato mondiale delle telecomunicazioni e i segreti dell’industria del futuro globale. (…) La vecchia Italstat dell’Iri regala all’Italia un player globale delle costruzioni e delle grandi opere. Apre e chiude i cantieri, si percepisce il progetto paese dello Stato imprenditore, le due Italie sono riunificate con l’Autostrada del Sole costruita e inaugurata prima della scadenza prevista». Entrambe finiranno poi per naufragare dopo la fine dell’epoca d’oro dello Stato-imprenditore.Destino analogo a quello dell’acciaio: «La vecchia Finsider dell’Iri ha regalato all’Italia l’impianto che garantiva a tutti i paesi europei l’indipendenza nella disponibilità di una materia cruciale (l’acciaio) per lo sviluppo industriale. L’uscita dall’orbita pubblica è stata fatale». Il susseguirsi di caos giudiziari, problematiche amministrative e incertezze politiche, dai Riva a Arcelor Mittal, ha fatto il resto. E ora l’Italia rischia di ritrovarsi di fronte a una Caporetto industriale. La chiusura dell’Ilva, la perdita dell’1,5% del Pil legato all’acciaio, la distruzione di 10.700 posti di lavoro diretti e decine di migliaia indiretti per il contenzioso tra il governo Conte II e Arcelor-Mittal, compratore in ritiro dello stabilimento, per il problema dello “scudo penale” previsto dal piano firmato da Luigi Di Maio e ipotizzato prima di lui da Carlo Calenda, certificherebbe il fallimento della (non) strategia italiana dell’acciaio. Iniziata quando Romano Prodi decise di mettere in liquidazione Italsider e Finsider, nel corso del suo mandato da direttore dell’Iri e presidente del Consiglio, perché…ce lo chiedeva l’Europa. Perché l’Ue chiedeva che l’Italia, svenandosi, pagasse il prezzo dell’entrata nell’euro privandosi dei gioielli di famiglia. E iniziando una spirale decrescente che ha fatto venire meno la compatta integrazione di filiera e portato al degrado delle condizioni ambientali e lavorative in Ilva.I lavoratori dell’Ilva di Taranto, per troppo tempo, hanno dovuto scegliere tra due alternative: la trappola della povertà, ovvero l’abbandono di un posto di lavoro che tra standard ambientali insani e tumori dilaganti rappresentava comunque una delle poche opportunità occupazionali dell’area, o l’accettazione di una precarietà di condizioni disarmante e degradante. Un governo desideroso di fare davvero politica industriale dovrebbe in primo luogo vincolare la vendita dell’Ilva alla risoluzione di questa asimmetria. Tante sono le questioni su cui ci dovremmo interrogare: perché introdurre lo scudo penale per Arcelor Mittal senza condizionarlo a una sorta di “golden power” pubblico, ovvero monitorando strettamente il compratore imponendogli il rispetto di un serio piano ambientale, la transizione operativa e la tutela di standard definiti? Perché non proporre altro che un cambio repentino di legislazione che Arcelor ha potuto cogliere come palla al balzo per svincolarsi? Perché non aver fatto chiarezza sui contratti di affitto dell’ex Ilva stipulati anche dai commissari straordinari? Perché il Conte II ha questa smania di smantellare ciò che, pur confusamente, il Conte I aveva concluso senza proporre un piano di lungo periodo alternativo?La verità è che manca la politica, la vera visione strategica delle priorità del paese. Manca la volontà di indirizzare lo sviluppo dello Stato nei settori strategici, di tutelare l’occupazione e il futuro produttivo del paese. Lo vediamo in questi giorni: Fca e Peugeot vanno verso la conclusione di un’alleanza strategica in cui il governo italiano non ha saputo intervenire con il potere di persuasione morale, pensando che i cambi di residenza fiscale neghino la realtà, che impone di preservare il futuro del settore auto. Lo vediamo sui gasdotti, sulle trivelle, sui porti, su Alitalia, sui cantieri navali, sulle telecomunicazioni. Lo vediamo quando 10.700 persone rischiano il posto di lavoro e un polo tanto importante di evaporare come neve al sole: non sarebbe riduttivo pensare all’ipotesi di dimissioni del governo Conte in caso di chiusura dell’Ilva. È il deserto della politica. Di un sistema paese che ha smesso di pensarsi tale. E di una politica che pensa alla supremazia dei mercati e non a come intervenire, laddove necessario, per tutelare lavoro e produzione. Il padre della grande stagione dell’acciaio italiano, Oscar Sinigaglia, partì ragionando da un assunto semplice: senza acciaio non c’è industria. Sarebbe meglio che anche a Roma si iniziasse a capire un pensiero tanto basilare quanto vitale per un comparto chiave e, a cascata, per l’economia.(Andrea Muratore, “Quel regalo di Prodi all’Europa che piegò l’industria dell’Italia, dietro il disastro Ilva il vuoto si una seria politica industriale”, dall’inserto “InsideOver” de “Il Giornale” del 10 novembre 2019).Un’antologia di Spoon River della politica industriale: il paragone tra gli ultimi decenni dell’economia italiana e il celebre “cimitero” letterario rischia di diventare ancora più calzante se ad aggiungersi alla grande massa di settori strategici, centri produttivi di vitale importanza e campioni nazionali smantellati da scelte politiche scriteriate (specie le privatizzazioni selvagge), carenze nella definizione delle priorità strategiche e disastri dei gestori privati dovesse aggiungersi l’Ilva. La corsa frenetica a demolire l’economia mista imperniata nell’Istituto di Ricostruzione Industriale (Iri) è stata devastante. Lo ha fatto notare con durezza e nitida chiarezza il direttore del “Quotidiano del Sud” Roberto Napoletano in un recente editoriale: «La vecchia Stet dell’Iri ha ricostruito l’impero romano regalando all’Italia il primato mondiale delle telecomunicazioni e i segreti dell’industria del futuro globale. (…) La vecchia Italstat dell’Iri regala all’Italia un player globale delle costruzioni e delle grandi opere. Apre e chiude i cantieri, si percepisce il progetto paese dello Stato imprenditore, le due Italie sono riunificate con l’Autostrada del Sole costruita e inaugurata prima della scadenza prevista». Entrambe finiranno poi per naufragare dopo la fine dell’epoca d’oro dello Stato-imprenditore.
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Lo sfacelo della politica italiana e l’indegna fine dei 5 Stelle
Rumore di fondo: ogni giorno che passa, l’Armata Brancaleone del Conte-bis offre di sé un ritratto piuttosto penoso. Accuse, ripicche, insinuazioni e ricatti. Dopo la débacle in Umbria, il clima è ulteriormente peggiorato. Volano gli stracci tra i 5 Stelle, mentre l’incolore Pd zingarettiano si lecca le ferite senza nulla dire, pensare, proporre. Renzi (in versione mini-sciacallo) si gode lo spettacolo, gustandosi la faccia dello spaurito Speranza, ministro “di sinistra” di un esecutivo inesistente, abborracciato dai tecnocrati-canaglia di Bruxelles e tenuto in piedi da parlamentari terrorizzati dall’idea del voto anticipato. Sul funerale dell’Italia volteggia l’avvoltoio Mario Draghi, osannato dal gotha dell’euro-catastrofe, mentre Salvini (in tandem con Giorgia Meloni, miracolata dal voto umbro) già si proietta a colpi si selfie sulle regionali in Emilia. Nessuno di loro ha battuto ciglio per la svendita alla Francia dei resti umani della Fiat, operai residuali in balia degli affaroni non più italiani della dinastia Agnelli-Elkann. Silenti gli stessi sindacati-fantasma, anche di fronte al disperato taglieggiamento del governo ai danni del cittadino, vessato da grappoli di micro-tasse che servono a tenere in piedi un bilancio utile solo a rinviare di qualche mese la certificazione clinica del declino, imposto dalla sottomissione all’austerity perenne.L’ultima caccia alle streghe – tutta colpa dell’idraulico che lavora in nero, del ristorante che rifuta le carte di credito – aggiunge disagio al senso del ridicolo che grava sul paese, pietosamente alla mercé di qualsiasi forza esterna intenzionata a usare l’Italia come discount a prezzi stracciati. La liquidazione dell’Italia va avanti da almeno un quarto di secolo, si lamenta l’ex ministro socialista Formica: finita la cosiddetta Prima Repubblica, insieme ai partiti e a quel che restava delle loro ideologie sono sparite anche le idee su come progettare un futuro per la Penisola. Berlusconi e Prodi, poi Monti e i prestanome del Pd. Fallito sul nascere l’ambiguo tentativo gialloverde, si è tornati all’antico ma solo provvisoriamente, barcollando in modo precario sull’abisso. Emblema del momento presente, il non-premier Conte: non votato, non eletto, non schierato, non chiaro con gli italiani. Rumore di fondo: disgregazione, sfaldamento, diserzione. Renzi aspetta che Zingaretti si dissangui, Salvini attende la fine di Berlusconi. Nessuno ha spiegato che idea di paese ha in mente, quale visione di futuro, che tipo di collocazione per l’Italia, quale ruolo dello Stato nell’economia, che posizione assumere con l’Ue. Si procede a tentoni, tra voci di indagini e comparsate televisive, confidando nel supporto fokloristico delle opposte tifoserie, dall’ostilità calcistica per l’avversario.Lo sfacelo del Movimento 5 Stelle spiega, da solo, il disastro politico italiano. Dopo aver promesso di rimettere il cittadino al centro della scena, il partito-caserma fondato da Casaleggio e Grillo ha tradito militanti ed elettori, votando esattamente il contrario di quanto sbandierato per anni. Voltafaccia completo, su tutta la linea, sonoramente premiato col 7,4% rimediato a Perugia. I delusi bombardano Di Maio, come se Grillo non esistesse. Gli ottimisti scommettono ancora sulla base grillina, piena di buone intenzioni, ingannata dai perfidi dirigenti. Ma i 5 Stelle non hanno mai celebrato un congresso, eletto (davvero) i loro organi dirigenti, confrontato diverse opzioni sul tappeto. Hanno accettato, fin dall’inizio, che fosse il Capo ad avere l’ultima parola, sempre. E’ stato Grillo a imporre a Di Maio di allearsi con Renzi, dopo aver cestinato il 90% del programma dei 5 Stelle. Il MoVimento ora è in stato di disfacimento: doveva servire solo a tener buoni gli italiani, in attesa che il grande potere si riorganizzasse? In realtà, il caos regna anche ai piani alti: lo dimostra la paralisi della Commissione Europea. Macron e Merkel litigano, oggi. Ma non hanno di che preoccuparsi, riguardo all’Italia: il Movimento 5 Stelle ha mostrato loro che milioni di italiani possono davvero credere a storielle come il mitico “uno vale uno”. A metterli nel sacco c’è riuscito persino Beppe Grillo.Rumore di fondo: ogni giorno che passa, l’Armata Brancaleone del Conte-bis offre di sé un ritratto piuttosto penoso. Accuse, ripicche, insinuazioni e ricatti. Dopo la débacle in Umbria, il clima è ulteriormente peggiorato. Volano gli stracci tra i 5 Stelle, mentre l’incolore Pd zingarettiano si lecca le ferite senza nulla dire, pensare, proporre. Renzi (in versione mini-sciacallo) si gode lo spettacolo, gustandosi la faccia dello spaurito Speranza, ministro “di sinistra” di un esecutivo inesistente, abborracciato dai tecnocrati-canaglia di Bruxelles e tenuto in piedi da parlamentari terrorizzati dall’idea del voto anticipato. Sul funerale dell’Italia volteggia l’avvoltoio Mario Draghi, osannato dal gotha dell’euro-catastrofe, mentre Salvini (in tandem con Giorgia Meloni, miracolata dal voto umbro) già si proietta a colpi si selfie sulle regionali in Emilia. Nessuno di loro ha battuto ciglio per la svendita alla Francia dei resti umani della Fiat, operai residuali in balia degli affaroni non più italiani della dinastia Agnelli-Elkann. Silenti gli stessi sindacati-fantasma, anche di fronte al disperato taglieggiamento del governo ai danni del cittadino, vessato da grappoli di micro-tasse che servono a tenere in piedi un bilancio utile solo a rinviare di qualche mese la certificazione clinica del declino, imposto dalla sottomissione all’austerity perenne.
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Formica: si torna a votare tra poco, lo sa anche Mattarella
L’esperimento dell’alleanza Pd-M5S è fallito ancora prima di nascere. Questo complica i piani di Zingaretti, Di Maio, Renzi. Sono tutti rottamati o rottamabili. Qualsiasi cosa dovesse nascere, da domani in poi, nascerà senza e contro di loro. L’assenza di pensiero ha reso le classi dirigenti burocrati di nomenklature in estinzione. Mattarella ha un giusto orientamento: dopo questo governo non c’è un altro incarico di governo sostitutivo. Ci sono le elezioni, che sono inevitabili in caso di crisi del Conte-2, che può ancora galleggiare qualche mese al massimo. Poi, i problemi interni e internazionali imporranno una guida politica che non sia carente di pensiero politico. Il problema è che il presidente della Repubblica, cioè la massima istituzione garante (che ha anche la forza morale per poterlo fare), deve decidersi a fare un quadro dello stato di salute del paese davanti al Parlamento. È il suo dovere costituzionale, non è una richiesta alla persona. Nel caso decidesse in tal senso, il paese sarà scosso; ma forze vitali nel paese ci sono, ciò che manca è il pensiero organizzato. Il Movimento 5 Stelle è nato morto, perché è nato senza pensiero politico, anche se apparentemente, con le elezioni del marzo 2018, aveva avuto una ventata favorevole.Quel risultato faceva leva sugli istinti anti-sistema che attraversavano il paese. Se il M5S era anti-sistema, vuol dire che non aveva il pensiero per sostituire il sistema con un altro sistema, perché nelle società moderne non si può essere anti-ordine per il disordine. Nessuna società moderna può accettare il disordine; tutt’al più un diverso ordine. La debolezza di questo governo non è che si fonda su una forza parlamentare del 33% che oggi non è più tale perché indebolita dalle urne; finalmente si è scoperto che non esisteva, come pensiero politico nel paese. È stata un’illusione. L’alleanza con una forza di sistema come il Pd? Il Pd si è trovato ad aver accettato dal 1994 in poi di nascondere il proprio pensiero, di non aggiornarlo; e non poteva non seguire la sorte delle forze che vedevano esaurirsi il proprio pensiero politico. Pensate al paradosso: dove il Pd sopravvive con una certa vivacità è legato al fatto che prende motivazioni esistenziali della destra reazionaria. Prendiamo il caso dell’immigrazione. Vi sembra che fosse pensabile, anche solo pochissimo tempo fa, che la Ocean Viking venisse tenuta 10 giorni in mare in attesa che ci fossero le elezioni in Umbria per poi farla attraccare a Pozzallo? È una cosa che non avrebbe fatto nessuna sinistra.Le forze vitali sono dovunque e in nessun luogo. Dovunque, dove c’è una persona pensante, e ce ne sono tante; in nessun luogo, perché non ci sono luoghi di coagulo. Ma il Big Bang crea il punto di aggregazione. È evidente a tutti questa necessità di un’operazione-verità, e le forze politiche non possono non cogliere questa esigenza di avere respiro sulle grandi questioni di politica economica, sociale, estera. Dov’è la politica economica di questo paese, che è un obbligo costituzionale avere, come prevede l’articolo 41 della nostra Carta? Ci si domanda: che ruolo potrebbe giocare Draghi? Noi abbiamo già una posizione istituzionale europea importante, di presidio e di osservazione, con Gentiloni nella Commissione Ue. Poi abbiamo una persona che ha guadagnato grande prestigio internazionale e ora è libero di esprimere giudizi di ordine sistemico. Il problema non è andare a ricercare una collocazione funzionale a Draghi, ma utilizzare un arbitraggio morale: può essere interrogato ed esprimere un parere su quello che si fa o non si fa per la costruzione dell’area geopolitica europea, visto che nei suoi 8 anni alla Bce ha cercato di mantenere l’essenziale della coesione europea.Il ruolo viene dopo, se si presenta la necessità. Ma il primo passo è rianimare il pensiero politico, visionario, di un paese: qual è la funzione dell’Italia nel mondo, piccola o grande non importa? Noi abbiamo avuto una funzione nel mondo fino a 20 anni fa. Oggi no, abbiamo cessato di produrre posizioni di iniziativa autonoma; lavoriamo solo sugli interstizi, sugli spazi residuali. Anziché avere una posizione autonoma attiva di costruzione di una linea europea, ci si è immiseriti nel tentativo di utilizzare gli spazi che i litigi altrui creano. Dombrovskis ha manifestato serie preoccupazioni sulla manovra del governo Conte-2. Dobbiamo aspettarci da qui a dicembre un pesante condizionamento della Ue? No. L’Italia ha scelto con questo governo una linea disciplinata alle decisioni dell’Europa. Il vero prodotto della mancanza di pensiero politico è che si sceglie di non avere margini di autonomia nel contrastare situazioni non favorevoli. È la nostra debolezza. Quando non si hanno una politica industriale, una politica economica, una politica estera e di difesa, giocando solo di rimessa su tutto, se la palla arriva, va bene, altrimenti si sta in mezzo al campo come un broccolo. Ma non è un problema solo di questo governo o di quello passato. È una situazione che dura da almeno vent’anni.Siamo al punto terminale di una lunga fase che ha visto l’istinto prevalere sul pensiero, la reazione sulla riflessione. È agli sgoccioli tutto quello che poteva produrre un sistema senza pensiero politico e di carattere generale, che da 25 anni si è riversato sulle istituzioni e sull’intero equilibrio del sistema politico italiano. Con quali effetti? Il disperdersi sugli aspetti più minuti di ciò che sta avvenendo, sia nell’attività di governo che nell’attività dei partiti, è fuorviante. C’è un distacco impressionante tra la valutazione delle questioni quotidiane minori nelle quali siamo immersi e le questioni di carattere generale, interne e internazionali. È successo qualcosa di politica estera molto più importante che stabilire se in Umbria si è spostato un gruppo sociale a favore di un altro gruppo sociale. In Gran Bretagna, dopo tre anni di guerriglia parlamentare in un paese investito dallo stesso male del populismo che ha colpito l’Europa, il Parlamento si è riappropriato della sua funzione e ha detto: andiamo alle urne e chiediamo al popolo se noi abbiamo forza politica nazionale tale da poter essere presenti nella nuova prospettiva che rende necessaria la ricomposizione di un ordine mondiale.Ciò che avverrà in Gran Bretagna, da oggi al 12 dicembre, interessa o non interessa l’Italia e l’Europa? In Gran Bretagna si voterà anche per il futuro non solo del nostro paese, ma dell’Europa. Le nostre forze politiche e le nostre istituzioni, invece di occuparsi del dettaglio se si dovranno tassare le sigarette o lo zucchero, seguiranno da vicino il dibattito politico e le elezioni inglesi? In Italia siamo al dettaglio di ciò che residua della nostra possibilità di influire sugli equilibri economico-sociali e ci dimentichiamo che il 90% delle nostre decisioni dipenderanno da ciò che succede fuori dal nostro paese. Siamo in presenza di una decadenza e di un immiserimento della nostra classe dirigente da paura. Il problema non è se noi giochiamo un ruolo di secondo o di terzo piano sulla scena mondiale, il problema è: abbiamo un nostro pensiero sul futuro dell’Europa? Le nostre istituzioni, sfornite del pensiero politico, sono diventate sterili. Non pulsa il cuore, non funziona il cervello; come possono funzionare le gambe e le braccia?(Rino Formica, dichiarazioni rilasciate a Marco Biscella per l’intervista “Qualche mese e poi si vota, lo sa anche Mattarella”, pubblicata da “Il Sussidiario” il 31 ottobre 2019. Spirito indipendente, socialista e più volte ministro nella cosiddetta Prima Repubblica, Formica è noto per l’acutezza delle sue analisi e per le previsioni regolarmente confermate dai fatti).L’esperimento dell’alleanza Pd-M5S è fallito ancora prima di nascere. Questo complica i piani di Zingaretti, Di Maio, Renzi. Sono tutti rottamati o rottamabili. Qualsiasi cosa dovesse nascere, da domani in poi, nascerà senza e contro di loro. L’assenza di pensiero ha reso le classi dirigenti burocrati di nomenklature in estinzione. Mattarella ha un giusto orientamento: dopo questo governo non c’è un altro incarico di governo sostitutivo. Ci sono le elezioni, che sono inevitabili in caso di crisi del Conte-2, che può ancora galleggiare qualche mese al massimo. Poi, i problemi interni e internazionali imporranno una guida politica che non sia carente di pensiero politico. Il problema è che il presidente della Repubblica, cioè la massima istituzione garante (che ha anche la forza morale per poterlo fare), deve decidersi a fare un quadro dello stato di salute del paese davanti al Parlamento. È il suo dovere costituzionale, non è una richiesta alla persona. Nel caso decidesse in tal senso, il paese sarà scosso; ma forze vitali nel paese ci sono, ciò che manca è il pensiero organizzato. Il Movimento 5 Stelle è nato morto, perché è nato senza pensiero politico, anche se apparentemente, con le elezioni del marzo 2018, aveva avuto una ventata favorevole.
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Sapelli: Macron vuole “mangiarsi” l’Italia, grazie a Renzi
Sventato il “pericolo” gialloverde, ora il Conte-bis non serve più. E Macron potrebbe approfittarne per “prendersi l’Italia”, grazie all’amico Renzi, approfittando del caos politico nel quale versa l’Ue. Lo sostiene Giulio Sapelli, economista e storico, sondato da Marco Biscella per il “Sussidiario”. Tanto per cominciare, suona stonata la lettera della Commissione Europea che chiede chiarimenti al governo italiano sulla manovra 2020: fuoco amico contro un esecutivo allineato a Bruxelles? Il guaio, premette Sapelli, è che non si capisce più chi comandi, in questo momento, nell’Unione Europea: la Commissione von der Leyen è in stallo, al punto che «le trattative sulla Brexit le sta conducendo Juncker». Quanto ai francesi, «si sono messi contro tutti». Macron bloccato l’allargamento Ue a Macedonia e Albania. «C’è un’anarchia terribile», dice il professore, e quindi il Conte-bis è irrilevante. «Un tempo, uno sgarbo simile alla Germania, come quello fatto alla Commissione von der Leyen, non sarebbe mai stato possibile», precisa Sapelli. E la spaccatura a Bruxelles provoca «una caduta di credibilità enorme, di cui approfittebbero subito Cina e Stati Uniti».Secondo Sapelli, «i cinesi ci sguazzeranno, in questa carenza di potere». E così potranno perfezionare i loro rapporti con la Nuova Via della Seta, «su cui nessuno intende fare marcia indietro, a cominciare proprio dall’Italia». E Washington? «Gli Stati Uniti non esistono più: esistono due o tre Americhe, impegnate in una lotta spietata l’una contro le altre». Gli Usa, aggiunge il professore, non riescono più a esercitare la loro influenza stabilizzatrice. Gli Stati Uniti, dice, «sono grandi per potersi occupare del mondo, ma non grandi abbastanza per potersene occupare da soli». E quindi, «appena la potenza americana si è dimostrata non più grande come un tempo, si sono subito visti i riflessi sulle divisioni europee», che una volta «si risolvevano nell’ambasciata americana», e oggi non più. «Il problema dell’Europa non sono gli europei, ma gli Stati Uniti, che non riescono più a unire il gregge. Quindi, divisioni ed egoismi nazionali all’interno della Ue aumenteranno sempre di più». E oggi il problema numero uno, in Europa, si chiama Macron.Il presidente francese «è alle prese con grossi problemi interni», e ha davanti a sé «una campagna elettorale difficilissima con il suo pseudo-partito diviso, lacerato, a pezzi». Per Sapelli, il suo disegno troverà una via d’uscita gollista. Ovvero: «Fare il duro in Europa, non cooperare. E immaginiamoci un po’ cosa si appresta a fare la Francia in Italia». Allarme rosso: «Ora che sta per arrivare la stagione delle nomine ai vertici degli enti pubblici, la preoccupazione principale di Macron, muovendo quella macchina potente e perfetta che è la diplomazia francese, sarà di affermare la potenza della Francia nell’economia italiana». E non troverà ostacoli? «Renzi è sceso in campo per questo, per aiutare i francesi in questa posizione», sostiene Sapelli. «Situazioni che abbiamo già storicamente vissuto con il Risorgimento, con la Prima Guerra Mondiale: è una vecchia tiritera dei rapporti italo-francesi». Il professore allude anche al Trattato del Quirinale, impostato proprio sotto il governo Renzi: di quel trattato «non si sa nulla», e finora «è stato affidato a parti private: il Parlamento non ne ha mai avuto contezza».E dunque – domanda Biscella – che effetti avrà sulla politica italiana questa “comunione d’intenti” tra Macron e Renzi? «Macron si sente un re taumaturgo, invece Renzi è come un contadino che vuole farsi toccare dal re», risponde Sapelli. «Renzi è un elemento di disturbo che lavora per suoi fini, mira a disgregare i partiti. Che è la stessa operazione condotta da Macron per arrivare al potere: lui ha disgregato gollisti e socialisti, Renzi, se lo imita, vuole disgregare il Pd, e prima voleva rottamare tutti. Ma non essendo un re taumaturgo, ha poi dovuto fare un passo indietro». Secondo Sapelli, fino alla stagione delle nomine il governo non dovrà cadere. Poi, potrà succedere. Del resto, aggiunge, la creazione di “Italia Viva” è servita proprio a questo scopo. E il governo Conte-bis è a termine. «Renzi sa benissimo quanto è difficile che questo governo duri», sottolinea Sapelli.E la Germania? L’opposizione a 360° di Macron mette a rischio anche il Trattato di Aquisgrana firmato con la Merkel? «Assolutamente no», dice ancora Sapelli: «I legami fortissimi, culturali ed economici, tra Francia e Germania resistono. I due litigano continuamente, ma Berlino e Parigi sono una coppia, invece l’Italia non è fidanzata con nessuno. E’ una signora abbandonata a se stessa». Ma Conte non era il cocco dell’establishment euro-atlantico? «Parlare di un Conte accreditato presso l’establishment mondiale per aver partecipato a un G7 mi sembra un po’ esagerato», dice Sapelli, che non esclude una completa “riabilitazione” di Matteo Salvini. «Il destino di Salvini è nelle mani di Salvini, tutto dipende da cosa farà: se la Lega diventa quello che deve diventare, cioè una nuova Dc, una forza moderata, tutto potrebbe cambiare». Spiega Sapelli: «Le regioni più produttive dell’Italia, in larghissima parte rappresentate dalla Lega, hanno bisogno di un partito che sia ragionevole e riformista».Sventato il “pericolo” gialloverde, ora il Conte-bis non serve più. E Macron potrebbe approfittarne per “prendersi l’Italia”, grazie all’amico Renzi, approfittando del caos politico nel quale versa l’Ue. Lo sostiene Giulio Sapelli, economista e storico, sondato da Marco Biscella per il “Sussidiario”. Tanto per cominciare, suona stonata la lettera della Commissione Europea che chiede chiarimenti al governo italiano sulla manovra 2020: fuoco amico contro un esecutivo allineato a Bruxelles? Il guaio, premette Sapelli, è che non si capisce più chi comandi, in questo momento, nell’Unione Europea: la Commissione von der Leyen è in stallo, al punto che «le trattative sulla Brexit le sta conducendo Juncker». Quanto ai francesi, «si sono messi contro tutti». Macron bloccato l’allargamento Ue a Macedonia e Albania. «C’è un’anarchia terribile», dice il professore, e quindi il Conte-bis è irrilevante. «Un tempo, uno sgarbo simile alla Germania, come quello fatto alla Commissione von der Leyen, non sarebbe mai stato possibile», precisa Sapelli. E la spaccatura a Bruxelles provoca «una caduta di credibilità enorme, di cui approfitterebbero subito Cina e Stati Uniti».
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La cricca totalitaria delle bufale sul clima alterato dall’uomo
Il clima è sempre cambiato da un decennio all’altro. Ci sono state grandi oscillazioni durante gli anni ’30. Abbiamo avuto il “dust bowl” (serie di tempeste di sabbia) durante l’estate e nel 1936 un freddo record. Nel 1936 l’ondata di freddo del Nord America, che colpì anche il Giappone e la Cina, è ancora oggi una delle più intense mai registrate nella storia. Non possiamo dare la colpa di quanto avvenne alle mamme che portavano in macchina i ragazzini a giocare a calcio, bruciando combustibili fossili. Le automobili erano ancora un lusso negli anni ’30. Semplicemente, non esiste alcuna prova di cambiamenti climatici causati dall’uomo. Nessuno è disposto a denunciare questa assurdità semplicemente mostrando le marcate oscillazioni di temperatura registrate nei secoli. Si tratta di un segreto ben celato, ma il 95% dei modelli climatici che, come ci viene detto, provano il legame tra le emissioni umane di CO2 e il catastrofico riscaldamento globale si sono rivelati, dopo circa due decenni di stasi nelle temperature, sbagliati. Non dovrebbe sorprendere. Ci siamo dovuti sorbire le stramberie dei catastrofisti climatici per circa 50 anni. Nel gennaio 1970, la rivista “Life”, basandosi su “solide prove scientifiche”, sosteneva che entro il 1985 l’inquinamento atmosferico avrebbe ridotto della metà la luce del Sole che raggiunge la Terra.Di fatto, in quel periodo, la luce del Sole è diminuita tra il 3 e il 5%. In un discorso del 1971, Paul Ehrlich dichiarava: «Se fossi un giocatore d’azzardo, scommetterei che l’Inghilterra non esisterà più nel 2000». Spostiamoci velocemente al mese di marzo 2000 e a David Viner, scienziato ricercatore esperto presso l’Unità di Ricerca Climatica dell’Università East Anglia, che dichiarò a “The Independent”: «Le nevicate sono ormai una cosa che appartiene al passato». Nel dicembre 2010 il “Mail” online riferiva del «dicembre più freddo mai registrato, con temperature scese a meno 10 °C portando il caos in tutta la Gran Bretagna». Anche noi australiani abbiamo avuto le nostre previsioni sbagliate. Forse la più assurda è stata la dichiarazione dell’allarmista climatico Tim Flannery del 2005: «Se i tabulati del computer sono corretti, le attuali condizioni di siccità diventeranno permanenti nell’Australia dell’Est». Le precipitazioni successive e le gravi inondazioni hanno mostrato che i tabulati, o le sue analisi, erano sbagliati. Ci siamo bevuti una previsione sbagliata dopo l’altra. Inoltre, il gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc) è stato ripetutamente colto in flagrante per false rappresentazioni della realtà e metodi scadenti.Gli uffici metereologici sembrano aver dato una “aggiustatina” ai dati per adattarsi alla narrazione prevalente. L’affermazione della Nasa che il 2014 è stato l’anno più caldo mai registrato è stata rivista, dopo che era stata messa in discussione, a una probabilità di appena il 38%. Gli eventi meteorologici estremi, che una volta erano imputati al riscaldamento globale, non lo sono più, dal momento che la loro frequenza e intensità sono in diminuzione. E allora perché, vista la mancanza di prove, le Nazioni Unite insistono perché il mondo spenda centinaia di miliardi di dollari all’anno in futili politiche che hanno come obiettivo i cambiamenti climatici? Forse Christiana Figueres, segretario esecutivo della struttura dell’Onu del cambiamento climatico, ha la risposta? Lo scorso febbraio, la Figueres ha detto a Bruxelles: «È la prima volta nella storia dell’umanità che ci stiamo ponendo il compito di cambiare intenzionalmente, entro un determinato periodo di tempo, il modello di sviluppo economico che regna da almeno 150 anni dalla rivoluzione industriale». In altre parole, la vera agenda si concentra sull’autorità politica. Il riscaldamento globale è solo l’amo.Abbiamo anche avuto modo di ascoltare la Figueres affermare che la democrazia è un sistema di governo scadente per combattere il cambiamento climatico. La Cina comunista, ha detto, è il modello migliore. Non stiamo parlando di fatti o di logica. Parliamo di un nuovo ordine mondiale sotto il controllo dell’Onu. Quest’ordine si oppone al capitalismo e alla libertà e ha fatto del catastrofismo ambientale un argomento familiare per raggiungere il suo obiettivo. La Figueres dice che, al contrario della Rivoluzione Industriale, «quella che sta avvenendo è una trasformazione centralizzata». Dal suo punto di vista, la divisione nelle opinioni sul riscaldamento globale negli Usa è «molto deleteria». Naturalmente. Nel suo mondo autoritario, non è ammesso spazio per la discussione o il disaccordo. Capiamoci, il cambiamento climatico è il campo di una battaglia che i totalitaristi e i loro accoliti non possono perdere. Come dice Timothy Wirth, presidente della Fondazione Onu: «Anche se la teoria (del cambiamento climatico) è sbagliata, faremo la cosa giusta in termini di politica economica e ambientale».Dopo aver guadagnato così tanto terreno, gli eco-catastrofisti non ne cederanno un centimetro. Dopo tutto, hanno messo le mani sull’Onu e hanno a disposizione tanti soldi. Hanno un alleato enormemente potente alla Casa Bianca. Hanno arruolato con successo accademici conformisti e media mainstream obbedienti e ingenui (la “Abc” e “Fairfax” in Australia) per far loro portare avanti la narrazione a discapito delle prove. Continueranno a dipingere il movimento sul cambiamento climatico come nato dal consenso spontaneo e indipendente di scienziati, politici e cittadini preoccupati, che credono che l’attività umana sia “in maniera estremamente probabile” la causa dominante del riscaldamento globale (“in maniera estremamente probabile” è un termine scientifico?). E continueranno a mobilitare l’opinione pubblica, utilizzando la paura e gli appelli alla moralità. Il sostegno dell’Onu verrà assicurato attraverso la promessa di redistribuzione di ricchezza dall’Occidente, anche se le sue prescrizioni di politica anti-crescita prolungheranno inutilmente la povertà, la fame, le malattie e l’analfabetismo nei paesi più poveri del mondo.La Figueres ha dichiarato a un recente summit sul clima a Melbourne che lei «contava veramente sulla leadership dell’Australia» perché si assicurasse che gran parte del carbone rimanesse nel suolo. Speriamo che, come il primo ministro indiano Narendra Modi, Tony Abbot non la ascolti. L’India conosce l’importanza dell’energia a basso costo e si prevede che superi la Cina come il leader mondiale di importazione di carbone. Persino la Germania si accinge a mettere in marcia il maggior numero di centrali elettriche a carbone degli ultimi 20 anni. Esiste la possibilità concreta che Figueres e coloro che condividono la sua ambizione di un potere centralizzato riusciranno nel loro intento. Mentre si avvicina la conferenza Onu di dicembre sul cambiamento climatico, verrà messa pressione sull’Australia perché firmi ulteriori trattati sul cambiamento climatico, che distruggeranno posti di lavoro. Resistere sarà politicamente difficile. Ma resistere dovremmo. Stiamo già pagando un inutile prezzo sociale ed economico per gesti vuoti. Quando è troppo, è troppo.(Martin Armstrong, “Quando gli ambientalisti ignorano la storia”, articolo apparso su “Weekend Australian” il 30 settembre 2019 e ripreso da “Voci dall’Estero”).Il clima è sempre cambiato da un decennio all’altro. Ci sono state grandi oscillazioni durante gli anni ’30. Abbiamo avuto il “dust bowl” (serie di tempeste di sabbia) durante l’estate e nel 1936 un freddo record. Nel 1936 l’ondata di freddo del Nord America, che colpì anche il Giappone e la Cina, è ancora oggi una delle più intense mai registrate nella storia. Non possiamo dare la colpa di quanto avvenne alle mamme che portavano in macchina i ragazzini a giocare a calcio, bruciando combustibili fossili. Le automobili erano ancora un lusso negli anni ’30. Semplicemente, non esiste alcuna prova di cambiamenti climatici causati dall’uomo. Nessuno è disposto a denunciare questa assurdità semplicemente mostrando le marcate oscillazioni di temperatura registrate nei secoli. Si tratta di un segreto ben celato, ma il 95% dei modelli climatici che, come ci viene detto, provano il legame tra le emissioni umane di CO2 e il catastrofico riscaldamento globale si sono rivelati, dopo circa due decenni di stasi nelle temperature, sbagliati. Non dovrebbe sorprendere. Ci siamo dovuti sorbire le stramberie dei catastrofisti climatici per circa 50 anni. Nel gennaio 1970, la rivista “Life”, basandosi su “solide prove scientifiche”, sosteneva che entro il 1985 l’inquinamento atmosferico avrebbe ridotto della metà la luce del Sole che raggiunge la Terra.