Archivio del Tag ‘cantieri’
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I NoTav accusano i 5 Stelle: solo ciance, sulla Torino-Lione
«Non ci sono governi amici dei No Tav». Alberto Perino, voce storica del movimento che si oppone alla linea Torino-Lione, lo ripete da anni. A febbraio, però, quando i candidati del M5S furono presentati in val di Susa, aveva dato loro una chance: «L’unica forza politica che in questo momento può fare la differenza – aveva detto – è il Movimento 5 Stelle». Sono passati sei mesi, scrive Carlotta Rocci su “Repubblica”, e la rottura sembra definitiva. «I Sì Tav e Telt fanno i fatti, vanno avanti e lanciano gli appalti. I Cinque Stelle continuano a fare sterili proclami invece di fare atti amministrativi», si legge in un documento di fuoco che Perino ha fatto circolare negli ambienti NoTav. «E pensare che di cartucce da sparare ne avrebbero tantissime per bloccare gli ingranaggi della grande opera. Basta volerlo fare. Ma per non disturbare il manovratore (Telt e Lega) queste cose non non vengono fatte da chi è stato mandato a Roma per bloccare la Tav». Il commento arriva a poche ore dalle dichiarazioni del ministro delle infrastrutture Danilo Toninelli, che aveva commentato senza scomprsi il via libera del Cipe alle modifiche della delibera 30 sulla Torino-Lione di aprile. «Il testo è stato messo a punto dal governo precedente, nonostante la batosta elettorale appena presa che lo obbligava ad agire solo per gli affari correnti», aveva protestato Toninelli, senza però alzare la voce.«Ma state tranquilli», aveva aggiunto il ministro: «Non è nulla che possa influire in modo decisivo sull’analisi costi-benefici che finalmente stiamo conducendo in maniera seria e obiettiva». Ancora Toninelli: «Teniamo gli occhi aperti sul cantiere e, come detto, considereremo quale atto ostile ogni decisione che faccia avanzare la Tav senza una scelta politica del governo». Ed è su questo punto, scrive “Repubblica”, che si consuma la rottura. «I nostri tecnici hanno suggerito molti modi per fermare l’opera, ma loro niente», aggiunge Perino, sempre riferendosi ai 5 Stelle: «Attendono i risultati dell’analisi costi-benefici. Poi, quando questa sarà conclusa vedranno cosa fare, se saranno ancora al governo e se esisteranno ancora. In che mani ci siamo messi…». Tra l’incudine e il martello, ovvero tra il movimento NoTav e i ministri pentastellati al governo, sostiene Carlotta Rocci, ci sono gli esponenti del M5S valsusini come Francesca Frediani: «Siamo la prima forza politica del paese, finalmente al governo, ma l’opposizione al Tav resta la nostra bandiera», scrive la consigliera regionale. «La val Susa ha dimostrato di avere fiducia in noi e la responsabilità di questa fiducia è grande, soprattutto per i portavoce legati a questo territorio. Dal nostro ministro ci si aspetta un gesto formale, forte e deciso».«Questa rottura avrà ricadute non di poco conto, non solo in val Susa ma a livello nazionale», secondo Enzo Locatelli, segretario provinciale di Rifondazione Comunista (mini-partito che, quand’era guidato da Paolo Ferrero, si era schierato insieme a Beppe Grillo contro la Torino-Lione). Insieme a Nicoletta Dosio, segretaria valsusina di Rifondazione candidatasi con “Potere al Popolo”, Locatelli era stato criticato, a febbraio, da chi nel movimento NoTav aveva lanciato un appello al “voto utile”, evidentemente concentrato sui 5 Stelle. «Questa volta – osserva Locatelli – le critiche non provengono solo da Rifondazione Comunista o dalle variegate anime antagoniste del movimento No Tav, ma da chi fino a ieri era un accanito sostenitore di Grillo». E l’esponente di Rifondazione profetizza «un autunno caldo, in val di Susa», dove intanto nessuno ha ancora mai spiegato – dopo vent’anni di contestazioni – in cosa mai consisterebbe il vantaggio strategico della Torino-Lione e il suo significato economico. A oggi, numeri alla mano, se ne conosce solo il devastante impatto ambientale, urbanistico, idrogeologico e naturalmente finanziario, senza contare i rischi per salute in un territorio pieno di rocce amiantifere che sarebbe sconvolto, per decenni, da maxi-cantieri. Per cosa?«Non ci sono governi amici dei No Tav». Alberto Perino, voce storica del movimento che si oppone alla linea Torino-Lione, lo ripete da anni. A febbraio, però, quando i candidati del M5S furono presentati in val di Susa, aveva dato loro una chance: «L’unica forza politica che in questo momento può fare la differenza – aveva detto – è il Movimento 5 Stelle». Sono passati sei mesi, scrive Carlotta Rocci su “Repubblica”, e la rottura sembra definitiva. «I Sì Tav e Telt fanno i fatti, vanno avanti e lanciano gli appalti. I Cinque Stelle continuano a fare sterili proclami invece di fare atti amministrativi», si legge in un documento di fuoco che Perino ha fatto circolare negli ambienti NoTav. «E pensare che di cartucce da sparare ne avrebbero tantissime per bloccare gli ingranaggi della grande opera. Basta volerlo fare. Ma per non disturbare il manovratore (Telt e Lega) queste cose non non vengono fatte da chi è stato mandato a Roma per bloccare la Tav». Il commento arriva a poche ore dalle dichiarazioni del ministro delle infrastrutture Danilo Toninelli, che aveva commentato senza scomprsi il via libera del Cipe alle modifiche della delibera 30 sulla Torino-Lione di aprile. «Il testo è stato messo a punto dal governo precedente, nonostante la batosta elettorale appena presa che lo obbligava ad agire solo per gli affari correnti», aveva protestato Toninelli, senza però alzare la voce.
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Se anche Salvini si piega ai padroni del Tav Torino-Lione
Eresia. Fermare l’ecomostro Torino-Lione è come sostenere, nel 1600, che è la Terra a orbitare attorno al Sole. Se lo tolgano dalla testa, i 5 Stelle: rinunciare alla linea Tav progettata in valle di Susa (perfettamente inutile, secondo 680 tecnici dell’università italiana nonché per l’autorità elvetica che monitora il traffico alpino per conto dell’Ue) è semplicemente impensabile. Lo sostiene anche la Lega di Salvini, sottoposta a prevedibili, smisurate pressioni. A titolo personale, il leader del Carroccio frena i pentastellati e parla, a ruota libera ai microfoni di “Radio 24”, di fanta-penali da 10 miliardi. La tesi salviniana: fermare l’opera sarebbe più costoso che non farla. Peccato che la spesa – fonte, Parigi – si aggirerebbe sui 26 miliardi (stima prudente). E la stessa Commissione Europea fa sapere che l’Italia non rischierebbe una penale né l’esclusione dai finanziamenti per ulteriori progetti infrastrutturali: dovrebbe solo limitarsi a rimborsare le somme già stanziate, attorno al miliardo di euro. Possibile ragionarci sopra, impegnando la politica? No, assolutamente: il Tav Torino-Lione resta materia ideologica, dogma di fede. Religione, e del tipo meno tollerante. Al punto da evocare l’inferno ogni volta che spunta l’ombra di un eretico, salvo rifiutare sempre – in vent’anni – di spiegare, cifre alla mano, a cosa mai servirebbe il tronco ferroviario più inutile della storia, italiana ed europea.Il maledetto Tav valsusino è ormai materia di umorismo anche televisivo: per Enrico Mentana, direttore del Tg de La7, si tratterebbe di una linea “ad alta velocità per le merci”. E’ noto a tutti – forse non a Mentana, né al suo pubblico – che si tratta di un ossimoro piuttosto comico: le merci, per definizione, non possono viaggiare ad alta velcità. Negli Usa, cioè il miglior sistema logistico del pianeta, transitato a 60 miglia orarie: oltre quella soglia si mette a rischio la sicurezza dei convogli. Le merci hanno bisogno di puntualità, non di velocità, ma non c’è caso che i media mainstream – stranamente ignorantissimi, su questo aspetto – ne facciamo menzione. La favola della Torino-Lione come segmento strategico per “merci veloci” è nata quando il progetto iniziale, costruito per trasportare passeggeri, è stato reso obsoleto dall’avvento dei voli low cost. Quanto alle merci, sulla tratta Torino-Lione sono praticamente estinte: l’attuale linea internazionale Torino-Modane che già collega l’Italia alla Francia attraverso la valle di Susa via Traforo del Fréjus (appena riammodernato con 400 milioni di euro) ospita appena il 10% dei convogli che potrebbe veicolare: la sua capacità potrebbe aumentare del 900%.Non ci sono più merci, nel trasporto regionale fra Piemonte e Rhône-Alpes, né ve ne saranno secondo tutte le stime. Ma, anziché sfruttare la linea esistente, si pensa a costruire un inutile doppione, per giunta devastante sul piano finanziario e ambientale. Un boccone ricchissimo, però, per i consorzi che lo costruirebbero. Semplicemente sconcertante, anche se non sorprendente, il tenore della dichiarazioni a reti unificate trasmesse dai media all’indomani del ventilato stop ai cantieri da parte dei 5 Stelle. «Imprenditori sulle barricate», secondo la “Stampa”: gli industriali di Torino, con il presidente Dario Gallina, si dicono «allibiti» perché «bloccare la Tav sarebbe un gesto autolesionistico, una disgrazia». E per quale motivo? Mistero: il giornale, all’allibito Gallina, non lo domanda. Per il presidente di Confindustria Piemonte, Fabio Ravanelli, «le contraddittorie e irrituali dichiarazioni sul futuro della nuova linea Torino-Lione sorprendono e creano estrema inquietudine». Di nuovo: se la sente, l’esimio Ravanelli, di spiegare – ai lettori della “Stampa” – quale sarebbe il motivo di tanta inquietudine?Al quasi-lutto per la quasi-rinuncia all’alta velocità transalpina si associa il presidente di Api Torino, Corrado Alberto, che definisce «assurda, inaccettabile e demenziale» l’ipotesi dello stop ai cantieri. Spiegazioni? Nemmeno l’ombra. E i sindacati? Eccoli: contrari alla rinuncia alla Torino-Lione anche Cisl e Uil, che si schierano con i segretari Annamaria Furlan («Sarebbe una sciagura») e Carmelo Barbagallo («Non possiamo rinunciare»). Tace Susanna Camusso, ma si schierano contro il blocco dei cantieri anche gli edili della Fillea-Cgil. Qualcuno lo trova, il coraggio di spiegare a chi mai servirebbe, davvero, la linea Tav Torino-Lione? Macché. Il presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino (già a capo della Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria) chiede ai leghisti «di insorgere e bloccare questa deriva anti-piemontese, contraria agli interessi del Nord-Ovest e dell’intero paese». Il semi-segretario Pd, Maurizio Martina, parla di «follia che pagherà il paese intero». E Forza Italia? Con Mara Carfagna accusa il Movimento 5 Stelle di «buttare i soldi degli italiani». E per Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, la rinuncia alla Torino-Lione sarebbe «un passo indietro».Questa è l’Italia: un establishment che non ha esitato a criminalizzare la protesta contro la grande opera progettata in valle di Susa, senza mai degnarsi di fornire uno straccio di spiegazione credibile, capace di giustificare tanta tenacia nell’insistere su un maxi-progetto così controverso, ingombrante, costoso e doloroso, per il bilancio nazionale prima ancora che per il territorio. Passi l’insigne statista berlusconiana Mara Carfagna, passino la Meloni e l’ectoplama Maartina; passino i sindacalisti del 2018 di cui nessuno ricorda neppure i nomi; passino i ferrivecchi della Prima Repubblica come Chiamparino, miracolato dalla Seconda Repubblica come sindaco-fenomeno di Torino in mezzo allo sfacelo della partitocrazia di allora; ma il sovranista Salvini non doveva essere un politico di tutt’altra pasta, cioè schierato dalla parte del popolo? Nel suo piccolo, la valle di Susa è diventata un simbolo possibile per un’altra Italia, quella che – ad esempio – ha licenziato il fantasma di Monti e il suo ultimo erede, Matteo Renzi. Proconsoli deboli, agli ordini di poteri fortissimi (come quelli che hanno finora imposto, senza mai spiegazioni, l’afflizione antidemocratica dell’ecomostro Tav). L’Italia che ha tifato per il governo gialloverde ora assiste a uno spettacolo allarmante: davvero anche il nuovo esecutivo si piegherà, come i precedenti, al diktat dei padrini della grande opera, ancora una volta imposta senza motivazioni documentate?Eresia. Fermare l’ecomostro Torino-Lione è come sostenere, nel 1600, che è la Terra a orbitare attorno al Sole. Se lo tolgano dalla testa, i 5 Stelle: rinunciare alla linea Tav progettata in valle di Susa (perfettamente inutile, secondo 680 tecnici dell’università italiana nonché per l’autorità elvetica che monitora il traffico alpino per conto dell’Ue) è semplicemente impensabile. Lo sostiene anche la Lega di Salvini, sottoposta a prevedibili, smisurate pressioni. A titolo personale, il leader del Carroccio frena i pentastellati e parla, a ruota libera ai microfoni di “Radio 24”, di fanta-penali da 10 miliardi. La tesi salviniana: fermare l’opera sarebbe più costoso che farla. Peccato che la spesa – fonte, Parigi – si aggirerebbe sui 26 miliardi (stima prudente). E la stessa Commissione Europea fa sapere che l’Italia non rischierebbe una penale né l’esclusione dai finanziamenti per ulteriori progetti infrastrutturali: dovrebbe solo limitarsi a rimborsare le somme già stanziate, attorno al miliardo di euro. Possibile ragionarci sopra, impegnando la politica? No, assolutamente: il Tav Torino-Lione resta materia ideologica, dogma di fede. Religione, e del tipo meno tollerante. Al punto da evocare l’inferno ogni volta che spunta l’ombra di un eretico, salvo rifiutare sempre – in vent’anni – di spiegare, cifre alla mano, a cosa mai servirebbe il tronco ferroviario più inutile della storia, italiana ed europea.
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Da Fassino a Salvini, il sovranismo nato nel 2005 in val Susa
Matteo Salvini si rassegni: dovrà davvero governare, ininterrottamente, per i prossimi trent’anni. Chi lo dice? La statistica. O meglio: la cronometrica precisione (a rovescio) delle famosissime previsioni-auspicio formulate da Piero Fassino. «Trent’anni di Salvini? Vediamo se gli darannoi i voti», ha detto l’ex dirigente del Pci-Pds, quindi ex ministro, ex capo dei Ds ed ex sindaco di Torino. Non gli era bastato, scrive Massimo Mazzucco, il celebre pronostico su Beppe Grillo, messo alla porta quando chiese – provocatoriamente – di partecipare alle inedite primarie del neonato Pd. «Grillo vuole governare? Fondi un suo partito – disse Fassino – e poi vediamo se prenderà i voti». Non pago, in qualità di primo cittadino torinese, lo stesso Fassino concesse una spassosa replica, rivolgendosi a Chiara Appendino, allora all’opposizione, portavoce a Torino della forza politica puntualmente fondata, nel frattempo, da Grillo: «Vuole governare lei? Si candidi come sindaca, e vedremo se la eleggono». La Appendino oggi siede al posto di Fassino, mentre gli uomini di Grillo governano l’Italia insieme a Salvini? C’è il rischio che lo facciano in eterno, dice Mazzucco sul blog “Luogo Comune”, stando all’ormai leggendaria chiaroveggenza fassiniana: «Ora, con il suo nuovo vaticinio – se la ride Mazzucco – Fassino ha appena regalato trent’anni di dominio politico a Matteo Salvini. Che uomo fantastico, questa “punta di diamante” del Pd».Tutto si può imputare, a Fassino, tranne la mancanza di schiettezza. Gran faticatore della politica, vissuta come missione palingenetica ai tempi eroici del Pci berlingueriano, Piero il Lungo – come lo ribattezzò Giampaolo Pansa – incarna bene le luci e le ombre, in versione sabauda, dell’ex sinistra incarnata dall’Elefante Rosso. Una sinistra rivoluzionaria solo a parole, ma in realtà prudentemente riformista, che visse il trauma della caduta del Muro di Berlino come la fine di un universo marmoreo e basato, per settant’anni, sull’indicibile tradimento di una grande promessa. Più di ogni altra città Italia, forse, proprio Torino ha rivelato la natura doppia di quello che fu il partito di Togliatti: orizzonti quasi onirici di riscatto sociale per il Quarto Stato ma, al tempo stesso, estremo pragmatismo nell’azione di governo, attraverso l’inedita alleanza di potere – non dichiarata – con il vertice industriale e finanziario dell’ex capitale Fiat, alle prese col declino operaio e l’incerta riconversione post-industriale. Negli anni più sguaiati del berlusconismo, con Roma e Milano trasformate in trincee mediatiche per scatenare la caccia all’immigrato clandestino presentato come pericoloso criminale, Torino ha brillato per misura, equilibrio e capacità di integrazione, smussando gli spigoli e investendo al meglio nelle strategie di convivenza: la città di Fassino e Chiamparino, che nell’immediato dopoguerra esibiva cartelli-vergogna del tipo “non si affittano case ai meridionali”, è diventata la metropoli italiana probabilmente più tollerante e con meno problemi di micro-criminalità, proprio grazie alle politiche sociali sapientemente messe in atto dagli esponenti del futuro Pd.A cancellare però l’illusione che il consenso politico possa essere eterno, anche quando motivato da solide ragioni come la buona amministrazione di una grande città, ha provveduto un territorio periferico ma contiguo, la valle di Susa, da sempre “seconda casa” dei torinesi che amano la montagna e lo sci. Spaventata dal progetto di una maxi-opera faraonica come la linea Tav Torino-Lione, potenzialmente devastante e classificata come desolatamente inutile dai massimi esperti dell’università italiana, la valle di Susa – una comunità di quasi centomila abitanti, orientata a sinistra anche in virtù della sua tradizione antifascista – si è sentita letteralmente tradita dai suoi storici rappresentanti politici. Gli uomini del centrosinistra rimasero risolutamente sordi di fronte alla protesta popolare esplosa nel 2005 in forma di esemplare rivolta nonviolenta, capitanata dai sindaci in fascia tricolore: una quasi-sommossa, che riuscì a fermare per ben cinque anni l’avvio dei cantieri. Per la valle di Susa, dalla sponda prodiana, si spesero comunisti come Paolo Ferrero e verdi come Edo Ronchi – ma non Sergio Chiamparino, passato disinvoltamente dalla guida di Torino a quella della Compagnia di San Paolo, potente fondazione bancaria, per poi tornare tranquillamente alla politica nei panni di presidente della Regione Piemonte, come se finanza e democrazia oggi non rappresentassero un bionomio stridente.Dalla parte dei valsusini si è invece schierato in modo nettissimo Beppe Grillo, protagonista di interventi decisivi – a livello politico – per rinfrancare la popolazione, con la promessa che non sarebbe più stata abbandonata al suo destino di paura, angoscia e rabbia. E’ come se il Movimento 5 Stelle avesse conquistato Torino partendo proprio dalla negletta valle di Susa, territorio accanitamente emarginato e isolato, infine anche criminalizzato. Con almeno dieci anni di anticipo sul resto del paese, proprio la valle di Susa – nel 2005 – sperimentò sulla propria pelle il crollo della vecchia politica fondata sulla presunta dicotomia destra-sinistra. Fu chiaro, ai valsusini, che si imponeva un’altra visione del mondo: da una parte la democrazia, cioè il rispetto della sovranità popolare, e dall’altra le oscure ragioni di un’oligarchia finanziaria che, in vent’anni, non ha ancora avuto modo di spiegare chiaramente a cosa mai servirebbe, davvero, quell’ipotetico super-treno che forse al Pd è già costato anche la clamorosa perdita di Torino. Inutilmente, i valsusini si erano rivolti – in prima battuta – proprio a Piero Fassino, figlio di un comandante partigiano della valle. Ma quando Fassino salì in montagna a commemorare i caduti, tra cui gli uomini di suo padre, gli esponenti locali del Pd lo rampognarono soltanto per certe alleanze locali con Forza Italia, e non invece per il silenzio assordante – del partito, e dello stesso Fassino – sulla grande opera percepita dalla popolazione come un’autentica calamità. Così oggi il Pd sembra guardare – con gli occhi smarriti di Fassino – all’inspiegabile trionfo di Salvini, emblema di un’Italia che l’ex centrosinistra ha smesso, da molto tempo, di capire.Matteo Salvini si rassegni: dovrà davvero governare, ininterrottamente, per i prossimi trent’anni. Chi lo dice? La statistica. O meglio: la cronometrica precisione (a rovescio) delle famosissime previsioni-auspicio formulate da Piero Fassino. «Trent’anni di Salvini? Vediamo se gli daranno i i voti», ha detto l’ex dirigente del Pci-Pds, quindi ex ministro, ex capo dei Ds ed ex sindaco di Torino. Non gli era bastato, scrive Massimo Mazzucco, il celebre pronostico su Beppe Grillo, messo alla porta quando chiese – provocatoriamente – di partecipare alle inedite primarie del neonato Pd. «Grillo vuole governare? Fondi un suo partito – disse Fassino – e poi vediamo se prenderà i voti». Non pago, in qualità di primo cittadino torinese, lo stesso Fassino concesse una spassosa replica, rivolgendosi a Chiara Appendino, allora all’opposizione, portavoce a Torino della forza politica puntualmente fondata, nel frattempo, da Grillo: «Vuole governare lei? Si candidi come sindaca, e vedremo se la eleggono». La Appendino oggi siede al posto di Fassino, mentre gli uomini di Grillo governano l’Italia insieme a Salvini? C’è il rischio che lo facciano in eterno, dice Mazzucco sul blog “Luogo Comune”, stando all’ormai leggendaria chiaroveggenza fassiniana: «Ora, con il suo nuovo vaticinio – se la ride Mazzucco – Fassino ha appena regalato trent’anni di dominio politico a Matteo Salvini. Che uomo fantastico, questa “punta di diamante” del Pd».
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Tav, binario morto: fine della Torino-Lione voluta dall’élite?
Sindaco di Torino dal 2001 al 2011, Chiamparino esprime al meglio la storica conversione neoliberista dell’ex sinistra piemontese, passata dalla lotta operaia sotto le bandiere del Pci alle platee del Lingotto all’ombra del Pd veltroniano e renziano. Dopo aver gestito le Olimpiadi Invernali 2006 che hanno ridato fiato all’economia torinese prostrata dal declino della Fiat, Chiamparino è passato – in modo disinvolto – dalla guida della città alla presidenza della Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria del primo istituto di credito italiano, per poi tornare tranquillamente alla politica: oggi è presidente della Regione Piemonte. “Siete praticamente finiti”, disse cordialmente ai NoTav nel 2010, festeggiando quella che immaginava fosse la fine della resistenza popolare della valle di Susa contro la maxi-opera. “Siete rimasti in quattro gatti”, disse ai militanti, che risposero con una marcia di 40.000 persone. Da allora, la battaglia NoTav si è letteralmente incendiata, anche con pesanti strascichi giudiziari. E nel frattempo è cambiata la percezione nazionale del fenomeno: decine di personaggi pubblici – scrittori, cantanti, attori, registi – si sono schierati dalla parte dei valligiani, bocciando la Torino-Lione come una inutile, pericolosa devastazione.La novità è che, dopo le elezioni del 4 marzo, questo pensiero è diventato maggioranza, nel paese: il governo gialloverde frena, sui cantieri valsusini. I penstastellati dovranno “passare sul corpo di Chiamparino” se vogliono cestinare la Torino-Lione? Si tranquillizzi, gli risponde il ministro grillino Danilo Toninelli: in valle di Susa potrebbe non passare nessun treno. Al che, Chiamparino rilancia e “convoca” a Torino l’esecutivo, che però risponde picche. Un affronto, per il presidente della Regione: «L’esempio che arriva dal governo non è di rispetto istituzionale», dice Chiamparino, irritato anche con Salvini, “colpevole” di avergli ricordato che «il contratto di governo prevede, per tutte le grandi opere, una nuova analisi costi-benefici». Chiamparino attacca il neo-ministro dell’interno, definendolo «un primo ministro ombra, in campagna elettorale permanente, che non mostra alcun rispetto istituzionale». Davvero? «Se pensava di farsi da solo il monologo sulla Torino-Lione e altre opere che invece dovranno passare da una seria analisi costi-benefici previste nel contratto di governo, strumentalizzando ai fini politici la sua carica istituzionale, è stato servito», replicano i parlamentari piemontesi del Movimento 5 Stelle, chiudendo il caso della mancata partecipazione del governo al summit torinese.Ancora più dura la risposta leghista: «Se un governatore fantasma, sparito da Torino e dal Piemonte, si ricorda di esistere solo per attaccare Salvini e la Lega, significa che l’incontro sulle infrastrutture era solo un pretesto», dice Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera e segretario regionale del Piemonte. «Chiamparino sa bene che il mio ministero sta lavorando alacremente per una “project review” di certe importanti opere della sua regione», precisa lo stesso Toninelli: «Quando sarà il momento, saremo noi a convocare un tavolo istituzionale con tutte le parti in causa». E aggiunge: «Il governo è cambiato: forse il presidente Chiamparino ha difficoltà a farsene una ragione». L’esecutivo è cambiato perché gli italiani hanno votato, democraticamente. E hanno scelto Lega e 5 Stelle: di questo, proprio, l’establishment sembra non riuscire a capacitarsi. E tra le macerie dell’ex centrosinistra, tutto quello che riesce a pigolare il Pd è la paura che venga cancellato il maxi-appalto del secolo, per il super-treno che nessuno vuole – a parte Chiamparino e la potente lobby dell’alta velocità valsusina, che in trent’anni non ha mai trovato modo di spiegare, al popolo, a cosa (e a chi) servirebbe davvero, quel maledetto treno, destinato a restare in eterno – secondo tutti gli esperti – nient’altro che un patetico, miliardario binario morto.«Dovranno passare sul mio corpo», avverte Sergio Chiamparino, ultimo guardiano politico della linea Tav Torino-Lione. Clinicamente morto, come progetto strategico, il Tav della valle di Susa resta il supremo totem del super-potere oligarchicoche ha fatto carne di porco della democrazia europea, criminalizzando ogni voce di dissenso. Banche, partiti, mafia e maxi-opere: per 25 anni le grandi lobby hanno dettato legge, affidando interi tratti della rete ferroviaria superveloce direttamente alla criminalità organizzata, come denunciato da Ferdinando Imposimato. Nel suo “Libro nero dell’alta velocità”, un analista come Ivan Cicconi vede “il futuro di Tangentopoli”, tra «scelte note e occulte, bugie consapevoli e inconsapevoli», come il “finto” finanziamento privato. Il giallista Massimo Carlotto spiega che le grandi opere sono notoriamente «una lavanderia per riciclare denaro sporco». Rischi sistemici inevitabili? Inconvenienti in agguato in ogni maxi-appalto? Ma nel caso della valle di Susa è peggio: perché l’ipotetica linea-doppione, fotocopia dell’attuale Torino-Modane che già collega Italia e Francia via traforo del Fréjus, è completamente inutile. Lo dicono 360 esperti dell’università italiana e lo conferma la stessa autorità elvetica incaricata dall’Ue di monitorare i trasporti transalpini. L’utilità della Torino-Lione? Una leggenda metropolitana. Ma non per Sergio Chiamparino e il gruppo di potere che rappresenta.
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Crolla un’epoca di abusi, se la Torino-Lione non è più tabù
«Se proprio bisogna spendere tanti miliardi per “bucare” qualcosa, si perfori il sottosuolo di Torino per dotare il capoluogo piemontese di una vera rete metropolitana: vorrebbe dire fermare migliaia di auto, migliorare la salute della città più inquinata d’Italia e regalare ai pendolari due ore di vita ogni giorno, contro il famoso quarto d’ora che la Torino-Lione farebbe risparmiare agli improbabili passeggeri della linea ferroviaria ad alta velocità». Parola di Gianna De Masi, già assessore ambientalista di Rivoli, terza città della provincia per numero di abitanti, alla vigilia dell’ennesimo corteo promosso dai NoTav per celebrare i trent’anni di opposizione all’infrastruttura più controversa d’Europa. «Ormai la Francia aspetta solo un cenno per poter dire addio a questo progetto faraonico e completamente inutile», sostengono gli attivisti valsusini. «Sono gli stessi tecnici di Palazzo Chigi, oggi, a confermare i dati da noi forniti da almeno dieci anni», puntualizza il professor Angelo Tartaglia del Politecnico torinese: la Torino-Lione (costosissima, devastante per l’ambiente, pericolosa per la salute con cantieri “infiniti” tra montagne piene di amianto) non servirebbe a niente, dato che il trasporto italo-francese è al tramonto e l’attuale linea internazionale Torino-Modane che già attraversa la valle di Susa potrebbe reggere da sola un incremento del 900% del traffico, secondo le autorità elvetiche incaricate dall’Unione Europea di monitorare i collegamenti transalpini.
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Davide Cervia, “sequestro di Stato”: condannato il ministero
Una donna senza più il marito, due figli senza più il padre. Scomparso. Catturato da sconosciuti, una sera, davanti al cancello di casa, nella campagna di Velletri. Che fine ha fatto? E’ stato “venduto” a paesi come la Libia, a cui l’Italia non avrebbe potuto né dovuto fornire armamenti? E’ stato poi ucciso, per cancellare la prova vivente di un affare inconfessabile? Chi sa, non parla: da quasi 28 anni. Quell’uomo? Preziosissimo. Un super-militare, con competenze Nato top secret: guerra elettronica. E’ ancora vivo? Invocano notizie la moglie, la figlia. E’ passato un quarto di secolo, e i militari non parlano. Un regista, Francesco Del Grosso, dopo 24 anni di silenzio decide di fare un film su quella storia, “Fuoco amico”. Ma alla vigilia delle riprese salta in aria la casa, esplode una finestra. Solo per miracolo la ragazza, Erika, non viene investita dall’esplosione. Lei e sua madre devono smetterla di chiedere dov’è finito quell’uomo, l’enfant prodige della marina militare italiana. Sapeva rendere invulnerabile una nave da guerra. Era il mago dei missili Teseo-Otomat, che colpiscono a 180 chilometri di distanza. Era stato il migliore, al corso d’élite frequentato a Taranto. Il miglior tecnico, imbarcato sulla miglior nave da battaglia italiana, la fregata Maestrale. Una sera è stato catturato. Sparito, inghiottito nel nulla. Lo Stato? Ha ostacolato la ricerca della verità. Lo afferma, oggi, la sentenza di una giudice, Maria Rosaria Covelli. Ma la verità è ancora lontana: che fine ha fatto Davide Cervia?«Nemmeno il “Fatto Quotidiano” ha voluto dare la notizia della sentenza: nemmeno Marco Travaglio, a cui ho scritto», dice la moglie di Davide, Marisa Gentile, a colloquio con Stefania Nicoletti e Paolo Franceschetti a “Forme d’Onda”, trasmissione web-radio. «Viviamo un assedio infinito: lettere minatorie, pedinamenti, telefonate mute, anonimi che dicono “sappiamo dov’è tuo marito”. Ogni volta che andiamo a parlare nelle scuole di Velletri, poi ci ritroviamo le gomme dell’auto tagliate. Un funzionario del ministero dell’interno arrivò a offrirmi un miliardo di lire purché lasciassimo perdere. Adesso, il 23 gennaio, il tribunale di Roma ha condannato il ministero della difesa. Il danno, secondo i nostri avvocati, ammontava a 5 milioni di euro. Ma abbiamo preteso solo un risarcimento simbolico: un euro. E comunque l’avvocatura dello Stato ci ha costretto a firmare la rinuncia ad altre cause civili, altrimenti avrebbero chiesto la prescrizione, che sarebbe stata la pietra tombale su questa storia». L’ultima sentenza è decisiva, come quelle su Ustica: sancisce la violazione, da parte dello Stato, del diritto alla verità. Lo sostengono gli avvocati, Alfredo Galasso e Licia D’Amico. L’ammiraglio a riposo Falco Accame, vicino alla famiglia, auspica che il coraggioso verdetto del tribunale di Roma possa rompere il silenzio che oscura le “morti bianche” di tanti militari uccisi dall’uranio impoverito nelle missioni all’estero. Secondo Franceschetti, domani potrebbero “svegliarsi” anche i familiari di altre vittime, quelle delle troppe stragi impunite.Di origine ligure, Davide Cervia si era trasferito a Velletri dopo aver lasciato la marina. E’ scomparso il 12 settembre 1990: assalito mentre rincasava e caricato a forza su un’auto verde. Lo Stato ha impiegato anni, per ammettere che fosse stato rapito: si fece credere che, semplicemente, avesse abbandonato volontariamente la famiglia. Poi la marina militare ha negato a lungo che fosse un tecnico altamente specializzato: il suo vero curriculum è saltato fuori soltanto dopo che i familiari hanno occupato fisicamente il ministero. Adesso, dopo quasi 28 anni, il tribunale romano condanna i militari: hanno ostacolato il diritto alla verità. Quale verità? Non è dato saperlo. Tanti inidizi portano alla Libia, che nel ‘90 era sotto embargo e immaginava di essere minacciata, alla vigilia della prima Guerra del Golfo. Due operai italiani sostengono di aver visto Davide Cervia quattro anni dopo, vivo e vegeto, in una base missilistica vicino a Sebha. Per anni, racconta il giornalista investigativo Gianni Lannes sul blog “Su la testa”, la marina militare negò che Davide Cervia avesse la qualifica di esperto “Ge”, guerra elettronica, fino al giorno in cui, appunto, «la moglie Marisa e il suocero Alberto occuparono, insieme al “Comitato per la verità su Davide Cervia”, gli uffici dall’allora ministro della difesa italiano Martino».Dopo otto ore di trattative serrate e tese, ricorda Lannes, «il vero foglio matricolare venne fuori: la specializzazione che la marina aveva sempre negato era lì, nero su bianco». Non si trattava di un attestato qualsiasi: comprovava «un addestramento di altissimo livello, che poche decine di tecnici avevano». Per la burocrazia della marina, Cervia era un tecnico Elt/Ete/Ge, specializzato nei dispositivi di disturbo dei radar nemici. Quella sigla rendeva l’ex sergente della marina scomparso «un pezzo prezioso che qualcuno aveva “venduto”, includendolo in uno dei sofisticati sistemi d’arma prodotti in Italia». E Davide non era uno qualsiasi, aggiunge Lannes, tanto che sul suo dossier gli ufficiali scrissero: «Ha contribuito in maniera fattiva alla esecuzione delle manutenzioni preventive e correttive sugli apparati “Ge”, facendosi apprezzare per l’elevata preparazione professionale, l’interesse e la dedizione al servizio». Per Gianni Lannes si è trattato di «un sequestro di Stato», sostanzialmente «favorito da agenti del Sismi, allora guidato dall’ammiraglio Fulvio Martini». Lo stesso Sismi che il giornalista considera implicato nella scomparsa dei giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo (Libano, 1980), nonché nell’eliminazione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (Somalia, 1994), e dei due sottufficiali piloti della Guardia di Finanza, Gianfranco Deriu e Fabrizio Sedda, caduti in Sardegna nel 1994 a bordo dell’elicottero “Volpe 132” (a loro volta, dopo indagini su armi-fantasma?).A quel tempo, ricorda Lannes, il capo di stato maggiore della marina era l’ammiraglio di squadra Filippo Ruggero. «Per la cronaca incombeva in quell’anno il governo Andreotti: alla difesa c’era Martinazzoli, mentre agli esteri figurava De Michelis, con l’apporto di Gava agli interni». Proprio la qualifica di specialista Ete/Ge, dice Lannes, «è la causa del rapimento di Davide Cervia, “venduto” a sua insaputa come tecnico esperto di guerra elettronica, in seguito al divieto delle Nazioni Unite di commerciare armi o addestrare militari nei paesi in guerra». In quel periodo, rammenta il suocero di Davide, Alberto Gentile, era vietato vendere armi alla Libia di Gheddafi. Ma, negli anni ‘80, i libici avevano riammodernato nei cantieri di Genova (su una fregata e due corvette) le stesse apparecchiature di cui era esperto Davide: Otomat, Aspide e Albatros. Nel dicembre del ‘96 la famiglia incontrò il sottosegretario Rino Serri, racconta Alberto Gentile in un’intensa ricostruzione realizzata da Marcello Michelini ed Enrico Chiarioni per “Crescere Informandosi”, trasmessa da “Pandora Tv”. «Davanti a testimoni – afferma il suocero di Davide – Serri raccontò che stavano facendo trattative con la Libia “per poter liberare Davide”, ma disse che non si poteva assolutamente parlare di “rapimento”».Nato a Sanremo nel ‘59, Davide Cervia si era arruolato volotario in marina il 5 settembre 1978, diciannovenne, con ferma di sei anni. A Taranto risultò il migliore del suo corso e venne qualificato specialista Ete/Ge, tecnico elettronico per la guerra hi-tech. All’epoca, tra tutti gli “Elt 78/B” fu l’unico a ottenere quella qualifica, ricorda Lannes. Avviato al Centro Addestramento Aeronavale per la specializzazione pre-imbarco, sempre a Taranto, venne poi inserito nell’equipaggio di quella che all’epoca era la più moderna nave italiana, la fregata Maestrale, «acquisendo una specializzazione preziosissima». Si congedò dalla marina il 1° gennaio 1984 e quattro anni dopo si trasferì a Velletri, dove iniziò a lavorare nella società Enertecnel Sud, con sede presso Ariccia. Davide Cervia, riassume Lannes, era dunque un tecnico della guerra elettronica, specializzato nei sistemi di arma Teseo-Otomat che l’industria militare italiana «aveva venduto fin dagli anni ‘70 ai tanti paesi-canaglia del mondo, Libia compresa». Gli elementi che collegano la sua scomparsa alla Libia sono molteplici: «L’assistenza militare del regime di Gheddafi è sempre stata una nostra specialità», scrive Lannes. Un tecnico come Cervia «era a dir poco preziosissimo», per gestire le attrezzature Teseo-Otomat installate su navi libiche a fine anni ‘80.Secondo il portale giuridico “Altalex”, il verdetto ora emesso dall’autorità giudiziaria romana rappresenta «una sentenza molto importante», perché, «oltre a dar ragione nella sostanza alla famiglia dello scomparso, sul fatto che si tratti di rapimento e non di allontanamento volontario, pone alcuni importanti principi di diritto, già affermati con la sentenza che riguarda il caso Ustica». E cioè: «Il diritto alla verità da parte dei parenti di un soggetto scomparso in circostanze misteriose è un diritto soggettivo, personalissimo e di rango costituzionale, contenuto nell’articolo 21». Diritto che viene leso da ogni attività che, senza un’adeguata giustificazione, «impedisca, limiti o condizioni» l’acquisizione di informazioni. «In questa sentenza c’è una novità assoluta, cioè il riconoscimento del fatto che il ministero della difesa ha violato questo diritto, e per questo viene condannato», dichiara l’avvocato Licia D’Amico a “Osservatore Italia”. «Non so quante altre volte sia accaduto che una istituzione dello Stato, un ministero, sia stato condannato a risarcire un danno ad una famiglia per aver nascosto la verità: insomma, non è poca cosa». Specie se si considera che gli “insabbiatori” hanno insistito fino all’ultimo sull’idea che Cervia – di cui hanno a lungo negato la decisiva specializzazione – avesse abbandonato la famiglia volontariamente. «Pura follia», racconta la figlia, Erika: «Papà era alle prese con grandi preparativi per l’anniversario di matrimonio».Molte cose su Davide, dice la moglie Marisa nel video realizzato da Michelini e Chiaroni, la famiglia le ha apprese solo dopo la sua scomparsa: aveva rivestito incarichi di particolare segretezza, anche svolgendo stage presso aziende belliche. «Tra i documenti di Davide abbiamo trovato persino il Nos, “nulla osta di segretezza Nato”, ammesso dalla marina dopo 6 anni di nostre pressanti richieste». Per la famiglia Cervia, un incubo senza fine: «Rapito Davide, eravamo a Velletri solo da due anni, e io ne avevo appena 28: fecero girare la voce che mio marito era scappato con un’altra». Eppure, i fatti gridavano la peggiore delle verità: la sera di quel maledetto 12 settembre l’anziano vicino di casa, Mario Cavagnero, vide tutto. «Testimoniò con le lacrime agli occhi di aver visto mio padre strattonato da alcune persone che lo aspettavano davanti al cancello di casa», racconta la figlia, Erika. «Immobilizzato, narcotizzato e spinto con la forza in un’auto color verde bottiglia. Mio padre gridò più volte il nome del vicino, nella speranza che lo potesse aiutare». Raccontò l’uomo: «“Mario!” mi chiamava, disperato: ma è stato tutto troppo rapido perché potessi intervenire». Era la prova regina del rapimento: solo che poi, racconta Erika, «dal verbale dei carabinieri emerse che mio padre stesse chiamando Mario per salutarlo, e che Mario (il testimone chiave) fosse un povero vecchio in stato confusionale».Poco dopo, un autista delle autolinee locali (oggi Cotral) sulla tratta Roma-Velletri «incrociò l’auto verde e la Golf bianca di mio padre guidata da un biondino». Un quasi-incidente, all’incrocio tra Colle dei Marmi e l’Appia. «Dovette fare una brusca frenata per evitare le due auto, che non si fermarono allo stop». L’autista del pullman notò sull’auto verde «due persone, sedute dietro, che con le spalle e le braccia coprivano qualcosa, come a voler nascondere qualcuno». E la Golf bianca di Davide Cervia? «I carabinieri “dimenticarono” di idicare nel verbale il numero di targa: per giorni, la polizia non potè cercarla», dice la moglie. Una vettura rimasta “fantasma” per addirittura sei mesi. «Poi, grazie a una lettera anonima indirizzata alla trasmissione “Chi l’ha visto?”, allora condotta da Donatella Raffai, l’auto venne ritrovata a Roma in via Marsala, vicino alla stazione Termini, dove (secondo la lettera) era parcheggiata da 6 mesi. Ma così non era: mio padre, ferroviere, coi suoi colleghi aveva setacciato la zona palmo a palmo», racconta Marisa Gentile. La Golf riapparsa? «Fatta ritrovare lì per far credere a un allontanamento volontario». Intervennero gli ispettori della Digos: «Frugarono dappertutto, ma senza guanti: addio impronte digitali». Prima ancora, l’auto fu aperta con una micro-carica esplosiva, osserva Marisa: «Quella Golf aveva un impianto a gas, e quindi far saltare la serratura con dell’esplosivo poteva essere pericoloso: a meno che non si sapesse che il serbatoio del gas era vuoto?».Nel frattempo, mentre le indagini “dormivano”, arrivò un indizio dalla Francia. Gianluca Cicinelli, autore di due libri sulla vicenda nonché presidente del “Comitato per la Verità su Davide Cervia”, nel ‘95 venne contattato da un ex funzionario dell’Air France, da poco in pensione. Raccontò: tra dicembre ‘90 e gennaio ‘91 era arrivata alla compagnia aerea transalpina una richiesta di verifica, per sapere se ci fosse un biglietto aereo a nome Davide Cervia. «Lo trovò: per il 6 o l’8 gennaio ‘91 (non ricordava bene la data) per la tratta Parigi-Cairo. Biglietto acquistato per un’agenzia che lavora per il ministero francese degli affari pubblici. Nessuno ne aveva mai parlato». Al che, Cicinelli fece denuncia alla Criminalpol, partì l’indagine e si scoprì che quel biglietto effettivamente esisteva. Ma l’Air France non aveva comunicato nulla agli inquirenti perché, secondo loro, apparteneneva a un omonimo di Davide: un militare francese (con nome italiano, in quanto originario della Corsica). Fino ad allora, la procura di Velletri non aveva potuto fare vere indagini «per carenze di organico». Nel ‘98-99, quando la procura di Roma avocò l’inchiesta riaprendo il caso del biglietto aereo, l’Air France cambiò versione: quel biglietto aereo non era più intestato al “Davide Cervia della Corsica”, bensì a una “signorina Cervia”; in più era cambiata la tratta, e “purtroppo” non si poteva più fare nulla perché tutti i documenti erano stati cestinati.Il 5 aprile del 2000, racconta Erika Cervia, il caso fu archiviato come sequestro di persona a opera di ignoti. «Per noi fu una grandissima vittoria, veder sparire la testi dell’allontamento volontario di mio padre. Ma anche una sconfitta: dopo dieci anni, con l’archiviazione, veniva messa una pietra tombale sulla vicenda. Scandaloso: per i primi 8 anni mio padre non fu assolutamente cercato dalla procura di Velletri, quindi si sono persi proprio gli anni fondamentali per la sua ricerca». Poi, nel 2012, la notizia su Ustica: i familiari delle vittime hanno avevano citato a giudizio i ministeri trasporti e difesa, per omissioni, depistaggi, negligenze e violazione del cosiddetto “diritto alla verità”. «Noi abbiamo denunciato il ministero della difesa e quello giustizia. Ma i testi sono stati finalmente ascoltati solo a partire dal 2016, dopo quattro anni di rinvii». Nel frattempo, la famiglia Cervia è stata incessantemente sottoposta al consueto trattamento: minacce e intimidazioni, fino all’esplosione della finestra di casa. «Spesso – rileva Paolo Franceschetti, avvocato – i parenti delle vittime, in casi analoghi, si piegano. I Cervia invece hanno resistito in modo commovente, per amore di Davide, spiazzando i loro persecutori». Oggi brindano: c’è l’immensa soddisfazione morale di una sentenza che condanna lo Stato per aver mentito. Ma all’appello manca ancora il premio più importante: Davide.«Il prossimo passo – annuncia Marisa Gentile – sarà un appello alla politica, appena il nuovo Parlamento sarà insediato, perché ci spieghi come mai alcune strutture dello Stato hanno depistato». Con la speranza, naturalmente, che «chi sa trovi il coraggio di parlare e di raccontarci quanto accaduto», dice la donna a Fabrizio Peronaci del “Corriere della Sera”, l’unico grande giornale che abbia dato la notizia della sentenza romana. «E’ sconcertente il silenzio dei media», dice Marisa, «per non parlare del silenzio del servizio pubblico Rai». Ancora ai giorni nostri il sequestro Cervia è un fatto indicibile, rileva Gianni Lannes, tant’è vero che ad alcuni atti parlamentari il governo Renzi non ha risposto, come nel caso di un’interrogazione del 10 aprile 2014. Perché tacere ancora su questa scottante vicenda, «coperta dall’affaristica ragion di Stato»? Il Sismi, aggiunge Lannes, «si è sempre occupato direttamente della vendita di armi all’estero, compresi i sistemi d’arma ed il personale altamente specializzato. In questa vicenda non bisogna farsi ingannare dai depistaggi istituzionali che hanno messo in atto più volte, per dirottare la famiglia ed eventuali ricercatori indipendenti su piste fantasma. Un classico: omissioni, reticenze e menzogne dell’apparato statale costellano la vicenda, nonché minacce e intimidazioni alla stessa famiglia Cervia, mai protetta dallo Stato».Per dipanare l’aggrovigliata matassa, insiste Lannes, «bisogna partire dal movente e dai mandanti: Cervia aveva forse rifiutato qualche offerta?». Ovvero: è stato rapito dopo essersi rifiutato di trasferirsi, magari in Libia? Nel blog “Su la Testa”, Gianni Lannes esibisce una vastra documentazione: a partire dal 1992, un anno dopo la scomparsa di Davide, su Camera e Senato è piovuta una grandine di richieste per far luce sulla vicenda. Risultato: silenzio di tomba. Domande scomode, che oggi Lannes riassume: «Qual è stato il ruolo svolto nella vicenda dai servizi segreti italiani? Come si spiegano le reticenze e la contraddittorietà degli interventi che emergono dalle risposte rese nel tempo ad alcuni atti di sindacato ispettivo inerenti la vicenda?». E poi: «Sono state condotte ricerche sulla sorte degli altri tecnici italiani che hanno conseguito la stessa specializzazione di Davide Cervia? Quanti sono, quanti di loro risultano in congedo e quanti sono ancora in servizio in Italia o all’estero?». Ancora: «Sono state effettuate ricerche e indagini giudiziarie presso i paesi ai quali gli armamenti in questione (Teseo-Otomat) sono stati venduti? E’ stata accertata l’effettiva destinazione finale delle suddette armi onde verificare che non sia in atto un traffico d’armi “triangolato” e che non vi siano state violazioni delle norme sulle esportazioni di armi verso paesi per i quali fossero in corso embarghi militari?». Se non altro, dopo quasi 28 anni di depistaggi e omissioni, ora c’è almeno un brandello di verità: lo Stato è colpevole. Ma dov’è finito il super-tecnico rapito? «Giustamente si chiede verità per Giulio Regeni», dice Marisa Gentile. «A quando la verità su Davide Cervia?».Una donna che non sa più dove sia il marito, E due figli senza più notizie del padre, specialista in guerra elettronica. Scomparso. Catturato da sconosciuti, una sera, davanti al cancello di casa, nella campagna di Velletri. Che fine ha fatto? E’ stato “venduto” a paesi come la Libia, a cui l’Italia non avrebbe potuto né dovuto fornire armamenti? E’ stato poi ucciso, per cancellare la prova vivente di un affare inconfessabile? Chi sa, non parla: da quasi 28 anni. Quell’uomo? Preziosissimo. Un super-militare, con competenze Nato top secret. E’ ancora vivo? Invocano sue notizie, inutilmente, i familiari. E’ passato un quarto di secolo, e i militari tacciono. Un regista, Francesco Del Grosso, dopo 24 anni di silenzio decide di fare un film su quella storia, “Fuoco amico”. Ma alla vigilia delle riprese salta in aria la casa, esplode una finestra: solo per miracolo la ragazza, Erika, figlia dello scomparso, non viene investita dall’esplosione. Lei e sua madre devono smetterla di chiedere dov’è finito quell’uomo, l’enfant prodige della marina militare italiana. Sapeva rendere invulnerabile una nave da guerra. Era il mago dei missili Teseo-Otomat, che colpiscono a 180 chilometri di distanza. Era stato il più bravo, al corso d’élite frequentato a Taranto. Il miglior tecnico, imbarcato sulla miglior nave da battaglia italiana, la fregata Maestrale. Una sera è stato catturato. Sparito, inghiottito nel nulla. Lo Stato? Ha ostacolato il diritto alla verità. Lo afferma, oggi, la sentenza di una giudice, Maria Rosaria Covelli. Ma la verità è ancora lontana: che fine ha fatto Davide Cervia?
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Brucio, dunque esisto. Muoia la valle di Susa, Italia minore
Duemila ettari in fiamme, case distrutte, centinaia di persone evacuate. E la gigantesca nube di fumo che invade le strade di Torino, la città che “riscopre” la sua minacciosa contiguità geografica con la valle di Susa, il territorio considerato ostile perché da vent’anni in rivolta contro la grande opera più inutile d’Europa, la linea Tav Torino-Lione. Un caso più unico che raro: l’agenda politica ha deciso semplicemente di non occuparsene, ignorando tutti gli allarmi, incluso l’appello rivolto alle massime autorità dello Stato da 360 tecnici, esperti e docenti universitari. Maxi-opera desolatamente inutile, doppione perfetto della linea internazionale già esistente, la Torino-Modane, che attraversa la valle e raggiunge la Francia attraverso il traforo del Fréjus, appena riammodernato (400 milioni di euro) in modo da poter caricare, sui treni in transito, anche i grandi container “navali”. Il problema? Le merci sono sparite: la rotta nord-ovest è ormai un binario morto, senza treni. Per l’autorità elvetica incaricata da Bruxelles di monitorare i trasporti alpini, la valle di Susa potrebbe quasi decuplicare il traffico sulla linea attuale. Ma invece di prenderne atto, si va avanti coi lavori per la linea-bis: un fiume di miliardi, e di devastazioni. Prima vittima, l’acqua: cioè il bene più prezioso, specie quando la montagna brucia.I padrini politici della Torino-Lione, prontamente definiti “sciacalli” dai NoTav, nei giorni del grande fuoco si sono subito fatti avanti, offrendo soldi come compensazione per i danni degli incendi. «No, grazie», rispondono i sindaci. «La prevenzione dagli incendi, come dalle alluvioni e dal dissesto geologico – scrive Sandro Plano, di Susa – dev’essere affrontata con specifici capitoli di spesa, indipendenti dal discorso relativo alla nuova linea ferroviaria». Vale per lo sviluppo economico, dalle strade alle infrastrutture culturali come i teatri: «Tutto ciò che nel resto d’Italia è definito “contributo pubblico”, qui è definito “compensazione”». In realtà, sottolinea Claudio Giorno, storico esponente del movimento NoTav, sarebbe incalcolabile il costo della compensazione per la valle di Susa, storicamente sacrificata sull’altare delle grandi opere che l’hanno sventrata, impoverita e anche prosciugata, alterandone l’habitat e il clima: e così oggi bastano tre mesi senza pioggia per innescare una catastrofe. «Di telecamere siamo invasi – scrive, sul suo blog – ma per inquadrare noi, la nostra ribellione contro chi, prima che qualcuno desse fuoco ai boschi, ha bucato per decenni le nostre montagne, i recipienti millenari di acqua potabile e di quella di fossi e torrenti che oggi sarebbe stata preziosa per difendere le case, oltre le piante».Milioni di metri cubi persi per sempre con la realizzazione – oltre mezzo secolo fa – della prima centrale idroelettrica in caverna, a Venaus, da parte dell’Enel e dei francesi di Edf, «che non appena appropriatisi del Moncenisio nel 1947 – come ritorsione per la guerra persa dall’Italia del Duce – vi hanno costruito una della più imponenti dighe d’alta quota d’Europa, decapitando una montagna trasformata in cava di inerti». Un tempo la traversata del verdissimo valico del Moncenisio era chiamata “la Carrier du Paradis”, ma forse oggi «dovrebbe essere rinominata “dell’inferno”», perché la “grande muraglia” della maxi-diga per il bacino dal quale oggi pescano l’acqua i Canadair è stata «la “nonna” di tutte le grandi opere in val di Susa». Un’inarrestabile brama di territorio e di acqua, fino al più recente, gigantesco impianto dell’Iren che, per alimentare Torino, ha svuotato la Dora Riparia da Oulx a Susa, riducendo il fiume a un rigagnolo. «Una follia costruire una diga alle spalle del centro di Susa tra versanti franosi, c’è il rischio-Vajont», disse inutilmente l’ingegner Floriano Villa, allora presidente dell’ordine dei geologi. Detto fatto: oggi quella diga incombe sull’abitato, ricordando ai valsusini che, da quelle parti, le decisioni del potere sembrano sempre surreali e imposte dall’alto, come nel feudalesimo.Il grande impianto “in caverna”, ricorda Claudio Giorno, ha mezzo disseccato anche il principale tributario della Dora, il torrente Cenischia, trasformando il paesaggio in un deserto asciutto, facile preda degli incendi, lungo un versante «che era già stato impoverito dagli anni ‘70 con lo scavo delle gallerie per il raddoppio delle ferrovia», e poi ancora fino agli anni ‘90 dallo scavo degli innumerevoli tunnel dell’autostrada del Fréjus, la A32. A quest’emorragia ora si aggiunge la mini-galleria di Chiomonte, teatro di aspre “battaglie” tra polizia e NoTav. Lungo 7 chilometri, quel “cunicolo” esplorativo «di acqua ne ha dispersa e avvelenata in modo sproporzionato», scrive Giorno, ricordando che nella peggiore delle ipotesi – l’eventuale tunnel Tav vero e proprio, lungo 57 chilometri – sarebbe impressionante (a detta degli stessi progettisti) la dispersione di acqua, «pari al fabbisogno di una città di un milione di abitanti». Intanto sono già centinaia le sorgenti disseccate: lo rivela uno studio del naturalista Paolo Ferrero, «che mostra la evidente interrelazione tra il loro disseccamento e il progredire dei cantieri delle grandi opere», attraverso delle slide «comprensibili persino da un politico di professione».L’Italia dell’euro-crisi avrebbe un disperato bisogno di opere pubbliche utili, per rilanciare l’economia, e invece continua a gettare soldi nel pozzo senza fondo di una maxi-opera completamente inutile e dannosa, pericolosa per l’ambiente, devastante sul piano della vivibilità urbanistica e addirittura letale sotto l’aspetto idrogeologico. Se mai quella sciagurata linea Tav si facesse davvero, scrive Luca Rastello di “Repubblica” nel saggio “Binario Morto”, la ferrovia dovrebbe bypassare Torino per allacciarsi alla rete nazionale Tav correndo in galleria a 30 metri di profondità, tagliando la falda idropotabile che alimenta la metropoli. Ma nulla sembra poter arrestare il sistema-Italia delle grandi opere inutili: la rete Tav è stata realizzata con largo impiego di aziende della mafia e della camorra, dice Ferdinando Imposimato, magistrato di lungo corso. Le grandi opere – spiega lo scrittore Massimo Carlotto – sono una macchina perfetta per riciclare denaro sporco: lo sa la mafia ma lo sanno anche le banche, in cui i soldi vengono depositati, e lo sanno i politici collegati alle banche.Il potere torinese della filiera Tav non trova di meglio che offrire soldi alla valle di Susa in fiamme, mentre l’Italia affonda nella crisi? Non un partito che s’impunti sulla scandalosa follia della Torino-Lione. «Se ne sento ancora parlare – si permise di scrivere il grande Giorgio Bocca – tiro fuori il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo gettato nell’aprile del ‘45». Era il 2005, e lo scandalo era solo all’inizio. Sei anni dopo, si spinse in valle di Susa l’anziano Guido Ceronetti: visitò i cantieri, vide lo scempio di Chiomonte. Scrisse un memorabile reportage per “La Stampa” e, la sera, tenne una lettura di poesie, a Bussoleno, per i NoTav. In pagine altrettanto memorabili, Ceronetti ha svelato cosa c’è nella testa di un piromane: non solo l’isitinto perverso per la distruzione e l’inconfessabile piacere sadico di fronte all’estetica dell’apocalisse. C’è anche il senso del sacrilegio, della profanazione, dato che i boschi – dagli albori dell’umanità – sono sempre stati ritenuti sacri, vera e propria dimora degli déi. Ma se il piromane è una specie di psicopatico isolato, che dire di una politica specializzata in devastazioni su larga scala, freddamente progettate a dispetto di chiunque ne contesti il senso, la pericolosità e l’inevitabile eredità di morte?Duemila ettari in fiamme, case distrutte, centinaia di persone evacuate. E la gigantesca nube di fumo che invade le strade di Torino, la città che “riscopre” la sua minacciosa contiguità geografica con la valle di Susa, il territorio considerato ostile perché da vent’anni in rivolta contro la grande opera più inutile d’Europa, la linea Tav Torino-Lione. Un caso più unico che raro: l’agenda politica ha deciso semplicemente di non occuparsene, ignorando tutti gli allarmi, incluso l’appello rivolto alle massime autorità dello Stato da 360 tecnici, esperti e docenti universitari. Maxi-opera desolatamente inutile, doppione perfetto della linea internazionale già esistente, la Torino-Modane, che attraversa la valle e raggiunge la Francia attraverso il traforo del Fréjus, appena riammodernato (400 milioni di euro) in modo da poter caricare, sui treni in transito, anche i grandi container “navali”. Il problema? Le merci sono sparite: la rotta nord-ovest è ormai un binario morto, senza treni. Per l’autorità elvetica incaricata da Bruxelles di monitorare i trasporti alpini, la valle di Susa potrebbe quasi decuplicare il traffico sulla linea attuale. Ma invece di prenderne atto, si va avanti coi lavori per la linea-bis: un fiume di miliardi, e di devastazioni. Prima vittima, l’acqua: cioè il bene più prezioso, specie quando la montagna brucia.
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Dunque la valle di Susa esiste, se il suo fumo soffoca Torino
Irritata dal puzzo del fumo degli incendi, Torino si è accorta che esiste la valle di Susa – o meglio, che la valle di Susa non è fatta solo di piste di sci e non finisce nel ristretto perimetro del grazioso giardino della seconda casa, in montagna, tra i fiori e gli abeti. Se n’è accorta a fine 2017, Torino, dell’esistenza della valle di Susa, e lo ha fatto grazie (per così dire) alla mano criminale dei piromani che hanno dato alle fiamme oltre mille ettari di foresta, sfruttando i venti furosi che storicamente flagellano la vallata, noti a tutti tranne che ai redattori del progetto Tav Torino-Lione, che non menziona il pericolo del vento come fonte inquinante nel momento in cui si stoccassero migliaia di tonnellate di terra di scavo, piena di roccia amiantifera. Torino, stranamente, passa per essere una città ben amministrata, benché sia governata da trent’anni da un unico blocco di potere, simile a quello delle “democrature” ex sovietiche. Vanta un record negativo nell’efficienza della raccolta differenziata: preferisce incenerire i rifiuti e poi bloccare la circolazione delle auto, quando schizzano alle stelle i valori tossici dell’aria, la più inquinata d’Italia. Se l’incendio della val Susa è l’eccezione, la velenosità dell’atmosfera torinese è la regola, così come la sordità della capitale Fiat di fronte all’allarme inutilmente lanciato dai valsusini.Nel saggio “Binario morto”, il giornalista Luca Rastello – citando un alto funzionario pubblico piemontese – spiega che l’eventuale nuova linea ferroviaria italo-francese, cioè il doppione perfettamente inutile dell’attuale Torino-Modane che già attraversa la valle di Susa valicando le Alpi al traforo del Fréjus, non potrebbe bypassare Torino collegandosi alla rete Tav nazionale «se non attraverso un colpo di Stato». Il guaio? Se la nuova ferrovia si aprisse la strada in superficie dovrebbe sbancare interi quartieri periferici. Resterebbe il sottosuolo, il tracciato in galleria a 30 metri di profondità, ma taglierebbe fatalmente la falda idropotabile che rifornisce d’acqua oltre un milione di persone, fra Torino e hinterland. Persone che, peraltro, finora non si sono poste il problema: la stragrande maggioranza dei torinesi – a differenza degli abitanti di tante altre città italiane – ha finora guardato con fredda diffidenza alle esasperate proteste dei valsusini. Tuttora, se venisse svolto un normalissimo sondaggio, emergerebbe che il torinese medio non ha la più pallida idea del colossale bluff rappresentato dalla Torino-Lione, la grande opera più inutile d’Europa, preziosissima solo per la filiera di interessi collegata alla sua realizzazione: interessi politici, bancari e malavitosi.Probabilmente non ricorda, il torinese medio, di quando – a metà degli anni ‘90 – la valle di Susa fu colpita da una decina di strani attentati dinamitardi, firmati “Lupi Grigi” e rimasti senza colpevoli, per i quali furono inizialmente arrestati tre giovani anarchici, di cui due – Soledad Rosas e Edoardo Massari, “Sole e Baleno” – morti durante la detenzione, trovati impiccati a un asciugamano. Probabilmente non ricorda, la maggior parte dei torinesi, che appena prima, in quegli anni, la Procura della Repubblica aveva sequestrato pistole in un’armeria, a Susa, finite a una cosca della ‘ndrangheta grazie alla falsificazione dei registri, controfirmati dall’autorità di polizia. Un’indagine inquietante, dalla quale era emersa l’ombra dei servizi segreti, Sisde e Sismi. In compenso, la città di Torino ha immancabilmente espresso fastidio e irritazione di fronte alle proteste ormai ventennali degli abitanti della valle di Susa, spediti all’ospedale – già nel dicembre 2005 – dai reparti antisommossa mandati a sgomberare i prati di Venaus occupati da famiglie alle prese con un sit-in permanente. Torino è passata dal sindaco Castellani a Chiamparino, da Fassino alla Appendino, con marmorea imperturbabilità sabauda. I torinesi vivono in una città che somiglia sempre di più a una camera a gas, ma non fiatano. E si ricordano dei valsusini solo se il fumo della valle li costringere a sprangare le finestre, turbando il loro beato sonno.Irritata dal puzzo del fumo degli incendi, Torino si è accorta che la valle di Susa esiste – o meglio, che non è fatta solo di piste di sci e non finisce nel ristretto perimetro del grazioso giardino della seconda casa, in montagna, tra i fiori e gli abeti. Se n’è accorta a fine 2017, Torino, dell’esistenza della valle di Susa, e lo ha fatto grazie (per così dire) alla mano criminale dei piromani che hanno dato alle fiamme oltre mille ettari di foresta, sfruttando i venti furosi che storicamente flagellano la vallata, noti a tutti tranne che ai redattori del progetto Tav Torino-Lione, che non menziona il pericolo del vento come fonte inquinante nel momento in cui si stoccassero migliaia di tonnellate di terra di scavo, piena di roccia amiantifera. Torino, stranamente, passa per essere una città ben amministrata, benché governata per decenni da un unico blocco di potere, simile a quello delle “democrature” ex sovietiche. Vanta un record negativo nell’efficienza della raccolta differenziata: preferisce incenerire i rifiuti e poi bloccare la circolazione delle auto, quando schizzano alle stelle i valori tossici dell’aria, la più inquinata d’Italia. Se l’incendio della val Susa è l’eccezione, la velenosità dell’atmosfera torinese è la regola, così come la sordità della capitale Fiat di fronte all’allarme inutilmente lanciato dai valsusini.
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Difendersi lontano da casa: la Russia investe sulla marina
Una nuova marina militare, capace di neutralizzare la minaccia Usa rappresentata dal “Prompt Global Strike”, sistema d’arma convenzionale (in fase di sviluppo) in grado di mettere Washington nella possibilità di colpire obiettivi in tutto il mondo in meno di un’ora, con precisione micidiale, attraverso asset ipersonici rivolti contro la deterrenza nucleare russa. La risposta di Mosca: sviluppare la flotta con potenti navi leggere per avvicinare i missili all’attaccante e scoraggiare il “Prompt Global Strike”, pensando innanzitutto a proteggere le coste da cui dipende la sicurezza russa. L’altro grande obiettivo strategico del futuro è l’Artico, sul quale la marina della Russia – la seconda forza navale più potente al mondo – è in netto vantaggio. Questa l’analisi che, sul “Giornale”, Franco Iacch propone, presentando i nuovi piani che la marina russa ha presentato a Putin. Punto di forza, il nuovissimo “vettore portaerei leggero” classe Shtorm, a propulsione nucleare, capace di trasportare 40 velivoli. Le nuove mini-portarei si affiancheranno alla gigantesca Admiral Kuznetsov, risalente agli anni ‘80, tuttora l’unica portaerei al mondo in grado di operare nell’Artico, oggi destinata a tre anni di cantiere per ammodernamenti, dopo le 420 missioni compiute in Siria, centrando oltre 1.250 obiettivi dell’Isis.La Russia sta perfezionando una nuova “dottrina strategica” per le sue forze navali. Il documento della marina – scrive Iacch – afferma che le flotte russe dovranno «essere in grado di impedire qualsiasi pressione e aggressione contro la Russia ed i suoi alleati sia lungo le rotte oceaniche che marittime, e di schierare truppe nelle zone più remote». In caso di guerra, la marina «dovrà essere in grado di infliggere danni inaccettabili a un avversario allo scopo di costringerlo a porre fine alle ostilità». La flotta di Mosca sfrutterà il potenziale tecnologico in suo possesso, «comprese le armi di precisione a lungo raggio». Il contenuto del progetto del 2015 corrisponde a una ripresa della pianificazione strategica, forte anche di una crescita economica sostanziale, in settori chiave della politica nazionale ed estera. Da rilevare, aggiunge l’analista, che nel 2010 la Russia ha avviato un ambizioso piano di riarmo, ancora in corso, che si dovrebbe concludere nel 2020. Il nuovo documento definisce i compiti fondamentali della marina per la prevenzione dei conflitti e la dissuasione strategica, al fine di «valutare costantemente e prevedere la situazione militare e politica, mantenendo le forze navali pronte contro qualsiasi potenziale nemico».«Gran parte delle minacce militari alla Russia provengono dall’Occidente», scrive Iacch, «in particolare nei pressi del Mar Nero e del Mar Mediterraneo». La regione artica è individuata come un’area in cui, afermano i russi, «il conflitto militare potrebbe diventare probabile in futuro». L’Oceano Indiano, l’Antartide e parte del Pacifico ricevono meno attenzione. Il documento strategico, sottolinea l’analista, si concentra sulla protezione delle aree costiere territoriali e sull’Artico: «E’ quindi corretto affermare che la nuova dottrina non persegue la proiezione di potenza globale come obiettivo primario, ma si concentra sugli interessi russi su una doppia flotta composta dalle grandi unità ereditate dall’Unione Sovietica e da piccole e moderne navi equipaggiate con missili a lungo raggio». Fondamentale, anche sotto questo aspetto, il significato dell’Artico: «Dal dicembre del 2012, Mosca ha avviato un’attività sistematica volta a rafforzare la propria presenza militare nella regione. Qualsiasi scenario strategico riguarderà l’Artico (considerato il principale settore strategico aerospaziale), dal momento che è il percorso di volo più breve tra Usa e Russia».La militarizzazione dell’Artico, con la costruzione di nuove basi o il riutilizzo dei vecchi impianti sovietici, «rimarrà una delle priorità della leadership russa nei prossimi anni», mentre il riscaldamento della calotta polare «rivelerà grandi risorse naturali non ancora sfruttate». Si calcola infatti che il fondo marino dell’Artico custodisca il 15% del petrolio rimanente del mondo, fino al 30% dei suoi giacimenti di gas naturale e circa il 20% del suo gas naturale liquefatto. «A causa del fenomeno dell’amplificazione artica – continua Iacch – la regione si surriscalda in tempi molto più brevi rispetto a quanto avviene in qualsiasi altra parte del globo. La scomparsa del ghiaccio marino è stimata al 2030, con rotte del Mare del Nord che diverranno percorribili per nove mesi all’anno». Ciò si traduce in una riduzione del tempo di viaggio, pari al 60%, tra Europa ed Asia orientale rispetto a quelle attuali attraverso Panama ed il Canale di Suez. La Russia è in vantaggio: «Dispone attualmente di una flotta di 40 rompighiaccio in servizio attivo mentre 11 sono in produzione».Mosca ha appena varato la nuovissima nave rompighiaccio a propulsione Arktika, la più potente al mondo (classe Lk-60Ya, Progetto 22.220). «Con i suoi 567 piedi di lunghezza ed un dislocamento di 33.500 tonnellate, l’Arktika può spezzare lastre di ghiaccio spesse tre metri». Negli ultimi trent’anni, aggiunge Iacch, Mosca ha semplicemente investito maggiori risorse finanziarie nella regione rispetto a qualsiasi altra nazione. «Sarebbe corretto rilevare che, attualmente, la flotta rompighiaccio russa è in grado di creare, incontrastata, nuove rotte commerciali nella regione artica». Ben diversa la situazione degli Usa: «I due cantieri che costruivano le rompighiaccio per gli Stati Uniti sono chiusi». Sicché, «il gap tra Russia e Stati Uniti è stimato in almeno dieci anni, a causa della miopia delle precedenti amministrazioni che hanno concentrato le principali risorse verso il Medio Oriente».Sono tre, riassume Iacch, le potenziali minacce specifiche per la Russia elencate nel documento della marina. La prima, spaventosa, «prevede un crollo improvviso della situazione politico-militare che porterà all’uso della forza militare nelle aree marittime che hanno un interesse strategico per la Russia». La seconda prescrive «lo schieramento di armi strategiche non nucleari di precisione e difese missilistiche nei territori e nelle zone marittime adiacenti alla Russia». La terza, infine, prevede «l’uso della forza militare da parte di altri Stati per minacciare gli interessi nazionali russi». Oltre all’Artico, la dottrina sottolinea l’importanza di proteggere l’accesso alle risorse energetiche del Medio Oriente e del Mar Caspio. C’è preoccupazione per l’impatto negativo dei conflitti regionali in Medio Oriente, Asia meridionale ed Africa, incluso il pericolo causato dalla crescita della pirateria nel Golfo di Guinea e negli oceani Indiano e Pacifico. «Il rafforzamento della flotta del Mar Nero e delle forze russe in Crimea, nonché il mantenimento di una presenza navale costante nel Mediterraneo, sono individuate come le priorità geografiche più critiche per il futuro sviluppo della marina russa».«La Russia – affermano gli strateghi moscoviti – dovrà rafforzare ulteriormente la capacità di proiezione con missili convenzionali e nucleari. Inoltre cercherà di migliorare la sostenibilità delle sue forze navali al fine di assicurare la presenza continua in regioni marittime strategicamente importanti, indipendentemente dalla distanza dalle basi». In caso di guerra, la dottrina rileva che la marina russa «dovrà essere in grado di difendere se stessa e il territorio da avversari equipaggiati con sistemi d’arma ad alta precisione». La leadership di Mosca, sottolinea Iacch, continua ad essere particolarmente preoccupata dal “Prompt Global Strike” americano, ritenuto «una minaccia diretta alla sicurezza internazionale e alla Russia». Nella dottrina di riferimento si rileva che la marina «è uno strumento potenzialmente efficace per dissuadere tali attacchi convenzionali di precisione di portata globale». L’efficacia della marina «dovrà essere strutturata su una combinazione di prontezza, capacità e persistenza: utilizzando le armi convenzionali a lungo raggio ad elevata precisione, la marina russa può minacciare bersagli militari dal mare».Secondo questa dottrina, la nuova capacità delle sue flotte consentirà alla Russia di dissuadere il ricorso all’asset “Prompt Global Strike”. Al fine di svolgere questa missione, la marina «dovrà costruire sottomarini nucleari e convenzionali multifunzionali, navi da combattimento, una potente aeronautica navale e sistemi di difesa costiera a lungo raggio», spiega Iacch. La marina militare russa, sostengono i suoi ammiragli, «è uno degli strumenti più efficaci per il contenimento strategico: le future armi di precisione dovranno essere in grado di distruggere il potenziale militare ed economico di un nemico colpendo le sue strutture vitali dal mare». La dottrina rileva che nel 2025 l’armamento convenzionale principale della marina russa sarà costituito da missili da crociera ad alta precisione a lungo raggio, integrati con missili ipersonici e vari sistemi automatizzati come i droni subacquei. In ogni caso, rileva Iacch, le ambizioni globali lasciano il posto al controllo delle aree territoriali russe e alla natura essenzialmente difensiva delle missioni. Le aree strategiche – Mediterraneo, Baltico, Caspio, Mar Nero e Artico – non richiedono una grande flotta. Di conseguenza, le forze navali russe «dovrebbero essere sufficienti per le finalità descritte nella dottrina navale».Una nuova marina militare, capace di neutralizzare la minaccia Usa rappresentata dal “Prompt Global Strike”, sistema d’arma convenzionale (in fase di sviluppo) in grado di mettere Washington nella possibilità di colpire obiettivi in tutto il mondo in meno di un’ora, con precisione micidiale, attraverso asset ipersonici rivolti contro la deterrenza nucleare russa. La risposta di Mosca: sviluppare la flotta con potenti navi leggere per avvicinare i missili all’attaccante e scoraggiare il “Prompt Global Strike”, pensando innanzitutto a proteggere le coste da cui dipende la sicurezza russa. L’altro grande obiettivo strategico del futuro è l’Artico, sul quale la marina della Russia – la seconda forza navale più potente al mondo – è in netto vantaggio. Questa l’analisi che, sul “Giornale”, Franco Iacch propone, presentando i nuovi piani che la marina russa ha presentato a Putin. Punto di forza, il nuovissimo “vettore portaerei leggero” classe Shtorm, a propulsione nucleare, capace di trasportare 40 velivoli. Le nuove mini-portaerei si affiancheranno alla gigantesca Admiral Kuznetsov, risalente agli anni ‘80, tuttora l’unica portaerei al mondo in grado di operare nell’Artico, oggi destinata a tre anni di cantiere per ammodernamenti, dopo le 420 missioni compiute in Siria, centrando oltre 1.250 obiettivi dell’Isis.
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Costa Concordia: credete davvero che sia stato un incidente?
Sicuri che sia stato davvero un incidente, e non invece un naufragio deliberato? Nel caso, quello della Costa Concordia risulterebbe “firmato” in modo inequivocabile, massonico. Troppe coincidenze alimentano fondati sospetti, afferma l’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, saggista e studioso di simbologia. “Seguite i soldi”, direbbe un detective americano, e forse scoprirete che dietro al disastro della nave da crociera incagliatasi davanti all’Isola del Giglio il 13 gennaio 2012 potrebbe nascondersi il più classico dei moventi, quello economico. E cioè: sbarazzarsi di una nave ormai anziana, scansando gli esorbitanti costi dello smantellamento. Un’ipotesi non così fantascientifica, per Carpeoro, che nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” svela il codice esoterico con cui settori deviati dell’intelligence Nato avrebbero “firmato” gli attentati in Europa eseguiti da manovalanza islamista targata Isis. «In una serie di elementi di questa vicenda – afferma Carpeoro, parlando della Concordia ai microfoni di “Border Nights” – ho trovato qualcosa che somiglia al meccanismo consueto, che è quello della “firma”. Cioè: attraverso la scelta di circostanze e di date, qualcuno l’ha “firmato”, l’evento». Gli ipotetici autori? «Soggetti che generalmente lavorano per servizi, per società segrete anche paramassoniche». E i 32 morti? «Non voluti: probabilmente un errore di calcolo, che però si appoggiava su un’ipotesi criminosa».
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La Francia: stop all’inutile Torino-Lione, totem del potere
Lo chiamano ancora Tav, treno ad alta velocità, ma ormai è chiaro a tutti che l’eventuale linea Torino-Lione, doppione perfetto della già esistente (e deserta) Torino-Modane, sempre in valle di Susa, non sarebbe altro che il totem ultra-lento di un potere antico, sordo, primitivo, pronto a bruciare 680 milioni di euro per costruire una galleria esplorativa, a Chiomonte, con anni di ritardo rispetto agli analoghi tunnel geognostici aperti sul versante transalpino. Un vettore (lentissimo, vecchissimo) di grandi affari e grandi interessi, l’improbabile Tav valsusino, lungo una direttice rimasta senza più passeggeri né merci, nella “ribelle” valle di Susa che lotta da decenni contro l’infrastruttura più inutile della storia europea. Se n’è finalmente accorta la Francia, da sempre più tiepida dell’Italia rispetto all’impegno per la grande opera: il governo Macron ha annunciato una “pausa di riflessione” di almeno un anno, per valutare se è davvero il caso di finanziarlo, l’euro-tunnel da 54 chilometri sotto le montagne che, tra Susa e Modane, separano l’Italia dalla Francia. A Parigi costerebbe almeno 10 miliardi. Servirebbe? No, rispondono in coro i tecnici indipendenti.Tecnici peraltro suffragati dai controllori (svizzeri) del traffico transalpino per conto dell’Ue: quella linea non avrebbe alcun senso – né per i passeggeri, inesistenti, né per le merci, che sono in calo storico e viaggiano sull’attuale linea internazionale, largamente inutilizzata, per la quale l’Italia ha speso recentemente 400 milioni di euro, riammodernando il Traforo del Fréjus, attraverso il quale oggi possono transitare anche convogli con a bordo i grandi container “navali”. Per anni, prima che la contesa finisse in rissa (con feriti e arresti) i NoTav hanno tentato di intavolare un civile dibattito con le isituzioni: la storia racconta di petizioni firmate da centinaia di esperti universitari, rivolte a Palazzo Chigi e persino al Quirinale, rimaste sempre senza risposta. Una realtà imbarazzante: le istituzioni non hanno mai accettato di esaminare i più autorevoli studi, che dimostrano la completa inutilità di un’opera ferroviaria faraonica e anche pericolosa, date le implicazioni ambientali (amianto, uranio) e idrogeologiche, senza contare l’impatto urbanistico dei cantieri e la compromissione, per molti aspetti irreparabile, del territorio alpino.Sarebbe un sacrificio immenso, dunque, tuttora senza giustificazioni: mai, neppure per sbaglio, gli addetti ai lavori hanno fornito del maxi-progetto Torino-Lione una motivazione tecnica, chiara, esplicita, che non fosse grossolanamente dogmatica, fatta di slogan arcaici come “progresso” e “modernità”. Tutti gli studi prodotti riferiscono che la grande direttrice delle merci nel Nord Italia è l’asse sud-nord, Genova-Rotterdam, mentre la linea est-ovest ormai è marginale, come il trasporto – residuale, e ormai solo regionale – di pochissime merci tra Piemonte e Rhône-Alpes. Per contro, spiegano gli strateghi europei dei trasporti, un vero e proprio collo di bottiglia è rappresentato dal valico di Ventimiglia: quello sì avrebbe bisogno di essere “raddoppiato”, visto che le merci sbarcate a Genova si dirigono, via Liguria e Provenza, in tutta l’Europa sud-occidentale. L’unica cosa che certamente non serve, a quanto pare, è proprio la linea Tav in valle di Susa. Impossibile, per il governo italiano, finire per far ragione agli impresentabili, irriducibili NoTav? Eppure è quello che accadrà, se la Francia – nel 2018 – dovesse confermare l’attuale orientamento, scettico di fronte alla realizzazione dell’inutile maxi-opera.Quando prese avvio la protesta popolare, locale, contro i primi progetti per la Torino-Lione, l’Italia non era ancora entrata nell’euro: era un paese in crescita, stabilmente piazzato tra le prime economie del pianeta, alla prese coi valori del primo ambientalismo destinato a tradursi in disposizioni legislative. Il mondo non era ancora così piccolo: l’11 Settembre era ancora di là da venire, con le sue “guerre infinite” e i suoi terrorismi funzionali e cronicizzati. La globalizzazione non aveva ancora cominciato a produrre il flagello cosmico della disoccupazione, non si avvertivano i micidiali effetti dell’euro né quelli della crisi finanziaria di Wall Street. Era un mondo con coordinate visibili e definite, brandelli ideologici ancora vivi, certezze relative e credibili aspettative di benessere, lontano anni luce dalla precarizzazione universale, il delirio dell’austerity e la rassegnazione terminale, via Facebook, alla mediocrità come destino. Insorse, la piccola valle di Susa, minuscola periferia italiana: era la fine degli anni ‘90, oggi pare trascorso un millennio. E ancora si parla di Torino-Lione, cioè di archeologia dell’assurdo, mentre il mondo – intorno – sta finendo di crollare.Lo chiamano ancora Tav, treno ad alta velocità, ma ormai è chiaro a tutti che l’eventuale linea Torino-Lione, doppione perfetto della già esistente (e deserta) Torino-Modane, sempre in valle di Susa, non sarebbe altro che il totem ultra-lento di un potere antico, sordo, primitivo, pronto a bruciare 680 milioni di euro per costruire una galleria esplorativa, a Chiomonte, con anni di ritardo rispetto agli analoghi tunnel geognostici aperti sul versante transalpino. Un vettore (lentissimo, vecchissimo) di grandi affari e grandi interessi, l’improbabile Tav valsusino, lungo una direttice rimasta senza più passeggeri né merci, nella “ribelle” valle di Susa che lotta da decenni contro l’infrastruttura più inutile della storia europea. Se n’è finalmente accorta la Francia, da sempre più tiepida dell’Italia rispetto all’impegno per la grande opera: il governo Macron ha annunciato una “pausa di riflessione” di almeno un anno, per valutare se è davvero il caso di finanziarlo, l’euro-tunnel da 54 chilometri sotto le montagne che, tra Susa e Modane, separano l’Italia dalla Francia. A Parigi costerebbe almeno 10 miliardi. Servirebbe? No, rispondono in coro i tecnici indipendenti.
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Crollano i ponti, l’Italia dell’euro non ha i soldi per ripararli
Tra le tante cose che crollano, nell’Italia ridotta in bolletta dal “patto di stabilità” imposto dall’Eurozona, ci sono anche i ponti. Nel 2015, ricorda il “Fatto Quotidiano”, toccò al viadotto Scorciavacche sulla Palermo-Agrigento, poi al ponte Himera sulla A19 e ancora ai cavalcavia di Annone in provincia di Lecco e a quello di Camerano vicino ad Ancona, venuto giù pochi mesi fa causando la morte di due coniugi. Fino al viadotto “La Reale” della tangenziale di Fossano, crollato lo scorso 18 aprile e per il quale sono sotto inchiesta 8 persone. In alcuni casi, ammette il presidente dell’Anas, Gianni Vittorio Armani, il cattivo stato di manutenzione è la concausa del crollo. «Pesano anche i vizi in fase di costruzione, gli errori di cantiere e, nel caso di Annone, i ripetuti trasporti eccezionali con carichi molto superiori alla portata della struttura», scrive Andrea Tundo sul “Fatto”. «Ma la manutenzione insufficiente un ruolo lo ha. Soprattutto perché i soldi per farla non bastano: servirebbero 2,5 miliardi l’anno, ma gli ultimi stanziamenti si fermano a 1,1 miliardi l’anno fino al 2019. Questo in un paese in cui, secondo gli esperti, la maggior parte dei ponti sta per arrivare alla fine del suo ciclo di “vita in sicurezza”».Lo stesso Armani riconosce che al primo posto tra le “priorità aziendali” dell’ente nazionale strade c’è il recupero del «rilevante gap manutentivo accumulato negli anni». Ma per gli oltre 26.000 chilometri di strade gestite dall’Anas (con un totale di 11.744 viadotti) servono molti soldi. E nonostante il sensibile aumento degli stanziamenti nel 2016 e un piano per il futuro che si preannuncia ancora più corposo, i fondi continuano a non bastare. L’Italia spende assai meno di quanto sarebbe necessario: «C’è ancora una distanza molto elevata tra il fabbisogno e quanto abbiamo a disposizione per la manutenzione straordinaria», conferma al “Fatto” l’ingegnere Fulvio Soccodato, responsabile dell’assetto rete di Anas: «Rileviamo un fabbisogno medio di 2,5 miliardi all’anno per la messa in sicurezza e il miglioramento della rete stradale, mentre il nuovo piano degli investimenti ne ha stanziati 1,1 l’anno per il triennio 2017-19». Una cifra «due anni fa inimmaginabile», ma che «non basta per coprire le necessità». Inoltre occorrono «imprese preparate, una normativa che ci aiuta e un know-how che va costruito anche nel mondo accademico, visto che le università insegnano a costruire i ponti, non a ripararli».L’Italia, aggiunge il “Fatto”, si sta avvicinando a un punto di rottura: «Buona parte della rete infrastrutturale di valenza nazionale è infatti stata concepita tra gli anni Settanta e Ottanta e il ritardo accumulato nella manutenzione non è smaltibile in breve tempo». Lo stesso Soccodato parla di «gap ventennale» che, nonostante il piano pluriennale degli investimenti preveda un recupero dell’arretrato, «è impossibile da smaltire in tre anni», anche se stanno aumentando gli interventi per individuare le criticità sulle quali intervenire. In altre parole, si cerca di uscire dalla fase di emergenza per entrare in quella di prevenzione: negli ultimi anni sono stati “risistemati” 600 ponti. Interpellato sempre dal “Fatto”, il professor Pier Giorgio Malerba, docente del Politecnico di Milano, riassume così la questione: «Tutte le opere hanno un ciclo di vita. Quello dei ponti viene generalmente definito in 100 anni, se soggetti a regolari attività di ispezione e manutenzione. Di fatto, nei maggiori paesi industrializzati si è rilevato che, a causa dell’esposizione agli agenti atmosferici, dell’aumento dei transiti e di manutenzioni carenti o inefficaci, la vita media in piena sicurezza è di circa 60 anni. Questo non vuol dire che al 61esimo anno il ponte crolla, ma che è meno affidabile».La maggior parte dei ponti italiani, continua Malerba, è stata costruita negli anni Settanta: quindi hanno raggiunto un’età critica, «che induce ad attente ispezioni e alle manutenzioni che si rendessero necessarie». Peccato però che negli anni Settanta l’Italia abbia potuto sviluppare enormemente le proprie infrastrutture ricorrendo in modo strategico alla spesa pubblica, grazie alla propria sovranità monetaria: operazione oggi proibitiva, con i vincoli sul deficit imposti da Bruxelles e addirittura l’introduzione nella Costituzione di una “follia” come il pareggio di bilancio, voluto dal governo Monti con il pieno appoggio del Pd bersaniano e di Berlusconi. Tra le dolenti note, quindi, oltre alle “buche nelle strade” che i Comuni non hanno più le risorse finanziarie per riparare, si aggiunge anche l’emergenza-ponti: mentre quelli ferroviari e autostradali sono oggetto di ispezioni e manutenzioni dallo standard che il professor Malerba definisce «molto elevato», il problema maggiore riguarda i ponti “sorvegliati” da Province e Comuni: «Non hanno i soldi, né il personale per queste attività. In molti casi non si dispone neppure di un catalogo aggiornato delle opere. Ancora una volta è un problema di fondi, ma è anche dimostrato che, per ponti di collegamento importanti, la perdita economica dovuta all’interruzione dei transiti di alcuni mesi può superare il costo del ponte stesso».Nei risvolti della pericolosa politica di rigore c’è dunque anche il problema della sicurezza, che si ripercuote sui cittadini, e non solo. In prima linea ci sono anche le aziende, che negli appalti sono colpite dall’imposizione di ribassi d’asta sempre più forti. «C’è chi, anche tra gli stessi costruttori, ha fatto un passo indietro», racconta sempre Tundo, sul “Fatto”. «È il caso di Massimo Ferrarese che con la sua Prefabbricati Pugliesi continua ad operare in altri settori, ma non partecipa più alle gare d’appalto per la costruzione di ponti e viadotti». Spiega l’imprenditore: «Non si può pensare di affidare lavori pubblici con il 40% di ribasso d’asta, perché questo determina un effetto a cascata su tutta la filiera, dall’impresa appaltante ai subappaltatori, fino ai fornitori». Ferrarese è stato anche presidente della Provincia di Brindisi e attualmente presiede Invimit, società di gestione del risparmio del ministero dell’economia. Protesta: «Così ci sono imprese che non svolgono i lavori come dovrebbero. Non si può lesinare sui materiali, io non l’ho mai fatto e non sono disponibile a fare cose del genere, ecco perché non costruisco più ponti con le mie aziende». Concorda il professor Malerba, pensando ai recenti crolli: «Il discorso del massimo ribasso è reale. Il costo va pensato sul ciclo di vita: se si spende bene prima, si risparmia dopo per la manutenzione». Mancano gli euro, i ponti crollano. Ma intanto si continuano a tener vivi super-cantieri faraonici, come quello per l’inutile ferrovia Tav Torino-Lione.Tra le tante cose che crollano, nell’Italia ridotta in bolletta dal “patto di stabilità” imposto dall’Eurozona, ci sono anche i ponti. Nel 2015, ricorda il “Fatto Quotidiano”, toccò al viadotto Scorciavacche sulla Palermo-Agrigento, poi al ponte Himera sulla A19 e ancora ai cavalcavia di Annone in provincia di Lecco e a quello di Camerano vicino ad Ancona, venuto giù pochi mesi fa causando la morte di due coniugi. Fino al viadotto “La Reale” della tangenziale di Fossano, crollato lo scorso 18 aprile e per il quale sono sotto inchiesta 8 persone. In alcuni casi, ammette il presidente dell’Anas, Gianni Vittorio Armani, il cattivo stato di manutenzione è la concausa del crollo. «Pesano anche i vizi in fase di costruzione, gli errori di cantiere e, nel caso di Annone, i ripetuti trasporti eccezionali con carichi molto superiori alla portata della struttura», scrive Andrea Tundo sul “Fatto”. «Ma la manutenzione insufficiente un ruolo lo ha. Soprattutto perché i soldi per farla non bastano: servirebbero 2,5 miliardi l’anno, ma gli ultimi stanziamenti si fermano a 1,1 miliardi l’anno fino al 2019. Questo in un paese in cui, secondo gli esperti, la maggior parte dei ponti sta per arrivare alla fine del suo ciclo di “vita in sicurezza”».