Archivio del Tag ‘Bruxelles’
-
Gorbaciov: ho paura. Francesi in Siria con i terroristi Nato
L’ultimo bombardamento sulla Siria, deciso da Donald Trump, «l’ho definito una specie di esercitazione militare in preparazione di qualcosa di molto più serio: è preoccupante». Parola di Mikhail Gorbaciov, al telefono con Giulietto Chiesa. «Adesso arrivano notizie secondo cui un contingente francese sarebbe entrato in territorio siriano, armi e bagagli». Non solo francesi, aggiunge Chiesa, ma anche tedeschi. «Se facciamo la somma, ormai hanno messo piede, e non da ieri, contingenti americani, inglesi, francesi, tedeschi e israeliani». E nel conto, sottolinea Gorbaciov, «bisogna mettere anche gli arabo-sauditi e i turchi, che fanno il loro gioco. Sono tutti là. E ho l’impressione che si stia preparando qualche cosa di grosso, e di molto grave», afferma l’ultimo presidente dell’Urss, Premio Nobel per la Pace. Conseguenze immediate piuttosto allarmanti, come confermato dall’offensiva militare, mediatica e diplomatica di Israele contro l’Iran, impegnato in Siria accanto ai russi e all’esercito di Damasco. L’Occidente e i suoi alleati non accettano che Mosca abbia sconfitto l’Isis e messo fine alla guerra siriana contro i “terroristi” armati dalla Nato. Se ora gli Usa e i loro vassalli scendono in campo direttamente, come si regolerù Putin?«E’ evidente che la sconfitta dello Stato Islamico, ad opera dei russi, e la situazione che si è creata sul terreno, non piace né a Washington, né a Parigi né Londra», dichiara Gorbaciov. «Adesso agiscono in due direzioni: una diplomatica, come si è visto a Bruxelles nella conferenza che hanno chiamato “Aiutare il futuro della Siria e dell’intera regione” e il cui scopo è quello di mettere fine al processo di Astana», la capitale del Kazakhstan che ha ospitato il vertice russo-turco-iraniano. «Là erano solo Mosca, Ankara e Teheran. Ora vogliono sostituirlo con una gestione, formalmente sotto egida Onu, ma sostanzialmente funzionale a una ripresa del controllo americano sulla crisi siriana. Nello stesso tempo – aggiunge Gorbaciov – stanno cercando di cambiare i rapporti di forza militare sul terreno». La situazione è questa: «Adesso l’Isis, di fatto, non esiste più. L’esercito siriano avanza su tutti i fronti, sostenuto dalla presenza russa sia dall’aria che sul terreno. Lo sostituiscono direttamente le truppe occidentali». In altre parole: truppe occidentali stanno prendendo il posto della loro creatura, l’Isis, sconfitta sul campo. Il rischio di scontro diretto Usa-Russia si va facendo altissimo, sostiene l’uomo che ha posto fine alla guerra fredda.«Vladimir Putin si trova di fronte alla domanda delicatissima su come fermarli», spiega Gorbaciov. «Un conto era avere di fronte l’esercito dello Stato Islamico. Era una finzione, perché sappiamo chi lo sosteneva, ma evitava il contatto diretto con le forze occidentali che erano già sul terreno ma invisibili, sotto forma di servizi segreti. Adesso il rischio è di un confronto militare diretto tra Russia e Stati Uniti, Russia e Francia, Russia e Gran Bretagna». Sono tutti eserciti Nato, quindi un eventuale scontro coinvolgerebbe indirettamente anche l’Italia, finora rimasta fuori dalla mischia benché ancora presente con la missione di peacekeeping in Libano, il paese da cui proviene la milizia sciita Hezbollah schierata in Siria con Assad. Come risponderà Putin al drammatico cambio di marcia dell’Occidente? «Non lo so», ammette Gorbaciov. «Mi pare chiaro che non potrà abbandonare la Siria». Tra l’altro, aggiunge, «la Russia è sul campo per diretta richiesta da parte del governo legittimo di Damasco, mentre tutti gli altri stanno occupando il territorio siriano in aperta violazione di tutte le norme internazionali. Nulla li legittima. È una operazione di aggressione».Tira una brutta aria, «e non riguarda solo la Siria», purtroppo. Gorbaciov ricorda la Nato sta premendo per incorporare l’Ucraina e la Georgia, in aperta violazione delle solenni assicurazioni fatte da George Bush all’epoca della distensione, il disarmo missilistico bilaterale: la Casa Bianca aveva promesso che non avrebbe esteso verso Est il perimetro Nato, a ridosso delle frontiere russe. Nel frattempo, le sanzioni economiche contro Mosca «stanno diventando asfissianti, al punto che siamo ormai nella situazione in cui il ministero del Tesoro americano decide della sorte dell’industria russa dell’alluminio». Sempre secondo Gorbaciov, la “ritirata” dell’industriale russo Oleg Deripashka, che ha perduto la maggioranza azionaria della sua impresa a Londra, «è un segnale di preavviso mandato a Vladimir Putin alla vigilia della inaugurazione del suo quarto mandato». In altre parole, «la “guerra ibrida” è in pieno sviluppo». E stavolta Mikhail Gorbaciov teme che la crisi – particolarmente incancrenita in Siria – possa nascondere esiti pericolosi e inimmaginabili. Tutto è precipitato – dal caso Skripal al bombardamento di Trump – dopo l’annuncio di Putin sui missili “imparabili”, ipersonici, di cui dispone la Russia. L’Occidente terrorista sfiderà il Cremlino a impiegarle, le armi-killer in grado di affondare le portaerei?L’ultimo bombardamento sulla Siria, deciso da Donald Trump, «l’ho definito una specie di esercitazione militare in preparazione di qualcosa di molto più serio: è preoccupante». Parola di Mikhail Gorbaciov, al telefono con Giulietto Chiesa. «Adesso arrivano notizie secondo cui un contingente francese sarebbe entrato in territorio siriano, armi e bagagli». Non solo francesi, aggiunge Chiesa, ma anche tedeschi. «Se facciamo la somma, ormai in Siria hanno messo piede, e non da ieri, contingenti americani, inglesi, francesi, tedeschi e israeliani». E nel conto, sottolinea Gorbaciov, «bisogna mettere anche gli arabo-sauditi e i turchi, che fanno il loro gioco. Sono tutti là. E ho l’impressione che si stia preparando qualche cosa di grosso, e di molto grave», afferma l’ultimo presidente dell’Urss, Premio Nobel per la Pace. Conseguenze immediate piuttosto allarmanti, come confermato dall’offensiva militare, mediatica e diplomatica di Israele contro l’Iran, impegnato in Siria accanto ai russi e all’esercito di Damasco. L’Occidente e i suoi alleati non accettano che Mosca abbia sconfitto l’Isis e messo fine alla guerra siriana contro i “terroristi” armati dalla Nato. Se ora gli Usa e i loro vassalli scendono in campo direttamente, come si regolerù Putin?
-
Foa: casa e risparmi, entro 5 anni ci porteranno via tutto
Oggi credo che nelle nostre società ci sia questa percezione molto netta: o le cose cambiano nei prossimi cinque anni, oppure andremo a compromettere le conquiste economiche, sociali e anche private che noi – italiani ed europei in generale – abbiamo costruito negli ultimi 60-70 anni. Nel suo blog, Panagiotis Grigoriou descrive per filo e per segno le operazioni di ingegneria sociale che stanno applicando alla Grecia. In Grecia, i giornalisti della Tv pubblica erano i più accaniti sostenitori delle riforme che Bruxelles proponeva. Che fine hanno fatto? Hanno chiuso la Tv pubblica, sono tutti disoccupati. Andate a chiedere alla classe media greca: si illudeva, per il fatto di avere qualche centinaio di migliaia di euro in tasca, l’alloggio ad Atene che valeva 700.000 euro, la casetta sull’isola. “Che cosa può accadermi?”, pesava: “Ho abbastanza grasso”. Andate a chiedere a loro: è rimasto ben poco. Il punto è che le logiche della gestione del potere indicano che la rotta scelta da un certo establishment europeo sta portando verso una società neo-feudale, purtroppo, in cui c’è una piccola, vera casta, molto privilegiata, e gli altri diventano servi della gleba.Puoi essere di destra o di sinistra, ma questo ti colpirà in ogni caso. Puoi essere liberista o meno, liberale o socialdemocratico: ti colpisce. Il Fondo Monetario Internazionale ha appena detto: attenzione, per rilanciare l’Italia bisogna andare a tassare le proprietà immobiliari e le ricchezze. Ed è molto significativo, il fatto che l’abbia detto in questo momento. Indica una rotta: significa che queste élite non hanno capito qual è il cuore del problema, vogliono continuare a perseguire il loro programma – che è aberrante, perché ci renderà tutti molto più poveri, e ci toglierà quella libertà che abbiamo conquistato. A questo non bisogna arrendersi, e per questo noi combattiamo. Per questo è molto importante capire i meccanismi dell’informazione e del condizionamento sociale e psicologico, perché è la cosa che più di ogni altra “loro” temono. Le “fake news” sono semplicemente un pretesto per imporre la censura, tenetelo a mente: e questo messaggio non deve passare, perché – se passa – non ci saremo neppure più noi a cercare di spiegarvi come vanno le cose. Questo è quello che vogliono.La polemica su Facebook e Cambridge Analytica? E’ un puro pretesto: sapevamo tutti che Facebook usa e manipola i dati che noi gentilmente gli diamo. Quando li manipolava Obama andava benissimo, se invece li usa Trump allora scoppia il casino, perché si sono resi conto che il meccanismo che avevano creato era uscito dal loro controllo e quindi stanno cercando di riportarlo sotto quel controllo. Tutto questo bisogna denunciarlo con forza. Implica una lotta continua di informazione, anche una lotta politica, bisogna mantenere gli occhi aperti e la voglia di non arrendersi. Io continuo a credere che sia possibile che ci sia tutto sommato anche un “karma” che ci può aiutare, perché alla fine il “karma” è assolutamente dalla nostra parte. E questa è una ragione molto valida, per continuare ad andare avanti.(Marcello Foa, dichiarazioni conclusive della conferenza “Gli stregoni della notizia” promossa a Roma il 21 aprile 2018 da “L’Intellettuale Dissidente” a dall’associazione “A/Simmetrie”, ripresa da “ByoBlu” nel video “Verso una censura violenta e drammatica”. Protagonisti dell’incontro, insieme a Foa, due economisti: il marxista Vladimiro Giacché e il keynesiano Alberto Bagnai, ora eletto senatore con la Lega. Foa è autore del saggio “Gli stregoni della notizia, atto secondo”, ovvero “Come si fabbrica informazione al servizio dei governi”, editore Guerini e Associati, 293 pagine, euro 21,50).Oggi credo che nelle nostre società ci sia questa percezione molto netta: o le cose cambiano nei prossimi cinque anni, oppure andremo a compromettere le conquiste economiche, sociali e anche private che noi – italiani ed europei in generale – abbiamo costruito negli ultimi 60-70 anni. Nel suo blog, Panagiotis Grigoriou descrive per filo e per segno le operazioni di ingegneria sociale che stanno applicando alla Grecia. In Grecia, i giornalisti della Tv pubblica erano i più accaniti sostenitori delle riforme che Bruxelles proponeva. Che fine hanno fatto? Hanno chiuso la Tv pubblica, sono tutti disoccupati. Andate a chiedere alla classe media greca: si illudeva, per il fatto di avere qualche centinaio di migliaia di euro in tasca, l’alloggio ad Atene che valeva 700.000 euro, la casetta sull’isola. “Che cosa può accadermi?”, pesava: “Ho abbastanza grasso”. Andate a chiedere a loro: è rimasto ben poco. Il punto è che le logiche della gestione del potere indicano che la rotta scelta da un certo establishment europeo sta portando verso una società neo-feudale, purtroppo, in cui c’è una piccola, vera casta, molto privilegiata, e gli altri diventano servi della gleba.
-
L’Ue minaccia il web: non avrete altra verità che la nostra
E’ da un anno e mezzo che l’Unione Europea e gli Stati Uniti preparano il terreno. E ora ci siamo: tra non molto avremo una rete di fact-checkers, naturalmente indipendenti, naturalmente rispettosi di un rigoroso codice etico e naturalmente dediti alla causa suprema: la lotta alle fake news, ovvero al mostro che agita i sonni dell’establishment. Tutto questo, in realtà, come ripeto da tempo, ha un solo scopo: legittimare l’introduzione della censura, limitare l’impatto e la diffusione di idee non mainstream, naturalmente negando che di censura si tratti. Ma così sarà: non c’è vera democrazia quando qualcuno si arroga il diritto di decidere cos’è vero e cos’è falso, e rendendo inviolabile e sacra, quella che in realtà una pericolosissima forma di strabismo, perché si addita solo una parte del problema, le fake news veicolate dai social media, e si ignora il vero scandalo, che è rappresentato dalla manipolazione delle notizie creata all’interno dei governi, il cui impatto è infinitamente superiore. Qualunque frottola sulla Siria, sull’Ucraina, sulla Grecia resta rigorosamente impunita, purché abbia origine dentro a un’istituzione; proprio quelle istituzioni che ora pretendono, per il nostro bene, di limitare i confini della libertà di espressione.L’Unione Europea ieri ha compiuto un altro fatale passo, annunciando misure “propedeutiche”, in attesa di ulteriori “messe a punto”, già annunciate per dicembre. L’impostazione è soft, per non allarmare le masse, e infatti pochi media ne hanno parlato; l’esito, però, è scontato. Non può essere altrimenti quando si annuncia, come ha fatto il commissario Ue alla sicurezza Julian King, che «la manipolazione della pubblica opinione attraverso le fake news è una minaccia reale alla stabilità e alla coesione delle nostre società europee», annunciando «la creazione prima dell’estate di una rete europea indipendente di fact-checkers e a settembre di una piattaforma europea sulla disinformazione per aiutarli nel loro lavoro. Inoltre Bruxelles lancerà un nuovo bando quest’anno per la produzione e la diffusione di informazione di qualità sull’Ue attraverso notizie fondate sui dati». Già, ma quali verifiche? Quali dati? Quelli certificati da Macron o dal Dipartimento di Stato americano che hanno deciso di bombardare la Siria senza prove, solo sulla base di notizie riportate dai media e dai social media? Quelli diramati da Ong che pur presentandosi come non governative in realtà sono finanziate dai governi occidentali, diventando uno strumento dissimulato ma molto efficace nell’ambito delle moderne guerre asimmetriche?King ha varato anche misure per i social media da Facebook e Twitter, proprio mentre Zuckerberg, al Parlamento Europeo, annunciava la creazione di un piccolo esercito di ventimila guardiani per garantire la correttezza delle “elezioni europee del 2019”, ovvero per togliere linfa e visibilità a idee e movimenti sovranisti e critici nei confronti della Ue. Dunque per limitare dall’alto la libertà d’opinione, come accade solo nei regimi autoritari. Purtroppo si conferma lo scenario che abbiamo delineato Alberto Bagnai, Vladimiro Giacché e il sottoscritto, durante l’affollatissima conferenza che si è svolta sabato scorso a Roma, organizzata da “L’intellettuale Dissidente” e dall’associazione “a/simmetrie”. Una conferenza che ha suscitato l’entusiasmo de presenti e che potete seguire grazie a “Byoblu” di Claudio Messora, che l’ha filmata. La battaglia che si profila per un’informazione davvero libera sarà dura, molto dura. E avremo bisogno, come non mai, del vostro sostegno.(Marcello Foa, “Ci siamo: la Ue crea una rete di censori. La libertà d’opinione è in pericolo!”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 27 aprile 2018. Nel video realizzato da “ByoBlu”, la conferenza romana con Foa, Bagnai e Giacché).E’ da un anno e mezzo che l’Unione Europea e gli Stati Uniti preparano il terreno. E ora ci siamo: tra non molto avremo una rete di fact-checkers, naturalmente indipendenti, naturalmente rispettosi di un rigoroso codice etico e naturalmente dediti alla causa suprema: la lotta alle fake news, ovvero al mostro che agita i sonni dell’establishment. Tutto questo, in realtà, come ripeto da tempo, ha un solo scopo: legittimare l’introduzione della censura, limitare l’impatto e la diffusione di idee non mainstream, naturalmente negando che di censura si tratti. Ma così sarà: non c’è vera democrazia quando qualcuno si arroga il diritto di decidere cos’è vero e cos’è falso, e rendendo inviolabile e sacra, quella che in realtà una pericolosissima forma di strabismo, perché si addita solo una parte del problema, le fake news veicolate dai social media, e si ignora il vero scandalo, che è rappresentato dalla manipolazione delle notizie creata all’interno dei governi, il cui impatto è infinitamente superiore. Qualunque frottola sulla Siria, sull’Ucraina, sulla Grecia resta rigorosamente impunita, purché abbia origine dentro a un’istituzione; proprio quelle istituzioni che ora pretendono, per il nostro bene, di limitare i confini della libertà di espressione.
-
Folli: governo “istituzionale” con Pd e M5S o nuove elezioni
«Avremo la solita merda, perché votiamo con odio: contro qualcuno, anziché per qualcosa». A due mesi dalla tornata elettorale del 4 marzo, sembra stia avverandosi la ruvida “profezia” di Gianfranco Carpeoro, massone e saggista, osservatore particolare della scena italiana. «Non scegliamo un progetto, una prospettiva, un’ipotesi di futuro: alle urne, ci basta punire il “cattivo” di turno», si chiami Craxi o Berlusconi, o magari Matteo Renzi. Risultato: nessun vero progetto è sul tappeto, nemmeno stavolta, dopo settimane di inutili consultazioni. Fallito l’aggancio tra Di Maio e Salvini per via del veto sul Cavaliere, non resta che l’increscioso “inciucio” tra ex acerrimi nemici, peraltro annunciato dallo stesso Carpeoro: «La massoneria, italiana e internazionale, sta facendo enormi pressioni sul Pd perché archivi Renzi e si allei coi 5 Stelle». Magari per dare vita a un “governo istituzionale”, come unica alternativa alle elezioni anticipate (quasi inutili, restando invariata la legge elettorale). Lo afferma anche Stefano Folli, editorialista di “Repubblica”, sondato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario” dopo la chiusura del mandato esplorativo di Roberto Fico. Ora tocca al Pd pronunciarsi. Ma quella del governo “istituzionale”, secondo Folli, è l’unica soluzione sulla quale il Pd renziano potrebbe trovare un punto di incontro con i grillini. «Mattarella attende fiducioso nuovi sviluppi, ma le possibilità di formare una maggioranza politica sono pressoché esaurite».Di Maio si è rivolto agli elettori del Pd, ha difeso la necessità di un “contratto di governo al rialzo”. Ha detto che serve una legge sul conflitto di interessi e ha perfino “difeso” Salvini dal possibile attacco mediatico di Berlusconi. «Il conflitto di interessi non è una novità per Di Maio, ma stavolta è stata una minaccia: Berlusconi badi a non mettersi troppo di traverso». Secondo Folli, «le blandizie a Salvini sono poca cosa, se l’obiettivo è cercare di riaprire il fronte leghista, con l’idea che Salvini possa mollare Berlusconi dopo il voto in Friuli», alle regionali. Di Maio continua a parlare da premier in pectore, ma lo sarà mai? «No, né lui né Salvini», risponde Folli. «Di Maio parla al suo elettorato, che comincia ad essere assai deluso di quanto sta accadendo». Attenzione: «Se al malumore crescente per l’ipotesi di un’alleanza con il Pd si aggiunge la rinuncia esplicita a Palazzo Chigi, non è difficile immaginare cosa potrebbe succedere nei 5 Stelle». Sul fronte opposto, i “governisti” del Pd sono ancora in minoranza, ma non è detto che il 3 maggio la direzione nazionale del partito sancisca per forza il “no” all’ipotesi di un governo col Movimento 5 Stelle: «La politica è strana», ammette Folli. «Stiamo vivendo una stagione piena di imprevisti».Difficile pensare a un accordo diretto tra Pd e 5 Stelle, «però un governo di garanzia o istituzionale sarebbe certamente visto in modo diverso nel Pd, anche da parte di coloro che oggi dicono “no” e basta». Sarebbe l’unica soluzione alternativa alle elezioni anticipate, sostiene Folli. Ma che governo dovrebbe essere, per essere votato anche da Salvini e Di Maio? «Un governo senza un’impronta politica, senza rappresentanti dei partiti nella squadra di governo e senza una maggioranza politica intesa come tale a sostenerlo». In altre parole: un esecutivo che non contenga nessuna delle istanze emerse alle elezioni (“la solita merda”, per dirla con Carpeoro). Cambiare almeno la legge elettorale? Solo strada facendo, dato che «ci vuole un accordo trasversale molto ampio, una maggioranza politica», mentre oggi «si comincerebbe da una semplice convergenza parlamentare su un governo di transizione». Un governo, ricorda Ferraù, che dovrebbe innanzitutto farsi carico del Def: cioè la “lista del rigore” che l’Ue pretende, come se gli italiani non avessero votato – in larga maggioranza – per archiviare l’austerity, tagliando le tasse e finanziando il reddito di cittadinanza. Il Def che incombe sul paese, ricorda Stefano Folli, prevede invece il taglio della spesa per scongiurare l’aumento dell’Iva: «Un’eventualità micidiale per l’economia italiana. E’ davvero singolare che non se ne parli».In mancanza di un’alternativa politica, osserva Folli, questo tipo di governo sarebbe la prima opzione del Colle. «L’altro giorno Di Maio ha scartato questa soluzione, a parole; nei fatti, potrebbe andare diversamente». E se anche questa soluzione dovesse fallire? «Resterebbero solo le elezioni anticipate, insieme al problema del governo con cui arrivarci», sottolinea l’editorialista di “Repubblica”. «Sarebbe un fallimento politico tremendo: altri Stati europei hanno rivotato in breve tempo senza terremoti, ma nella situazione italiana bisognerebbe pensarci bene prima di precipitarsi di nuovo alle urne, magari solo per calcoli e ripicche». Eppure, questa è la situazione: l’unica svolta politica – l’alleanza tra Di Maio e Salvini – è bloccata da Berlusconi, con cui Salvini non romperebbe mai, dato che punta a ereditare l’elettorato del Cavaliere: «Non gli conviene fare il partner di minoranza di un governo Di Maio, nemmeno in cambio di qualche ministro di peso». E se Berlusconi teme le urne, a scommettere sulle elezioni anticipate sarebbe proprio Renzi. Un calcolo spericolato, motivato solo dalla voglia di «regolare ancora una volta i conti con i suoi nemici interni, Franceschini per primo, e ottenere il controllo assoluto di un partito che ritiene non possa scendere sotto la percentuale del 4 marzo», un umiliante 18,7%. Un tracollo inflittogli dall’elettorato leghista e grillino, che il Pd pro-Bruxelles non ancora trovato il coraggio di discutere. Sul fronte opposto, chi ha vinto le elezioni (alzando il tono contro il rigore Ue) sembra destinato, ancora una volta, a “perdere” il governo.«Avremo la solita merda, perché votiamo con odio: contro qualcuno, anziché per qualcosa». A due mesi dalla tornata elettorale del 4 marzo, sembra stia avverandosi la ruvida “profezia” di Gianfranco Carpeoro, massone e saggista, osservatore particolare della scena italiana. «Non scegliamo un progetto, una prospettiva, un’ipotesi di futuro: alle urne, ci basta punire il “cattivo” di turno», si chiami Craxi o Berlusconi, o magari Matteo Renzi. Risultato: nessun vero progetto è sul tappeto, nemmeno stavolta, dopo settimane di inutili consultazioni. Fallito l’aggancio tra Di Maio e Salvini per via del veto sul Cavaliere, non resta che l’increscioso “inciucio” tra ex acerrimi nemici, peraltro annunciato dallo stesso Carpeoro: «La massoneria, italiana e internazionale, sta facendo enormi pressioni sul Pd perché archivi Renzi e si allei coi 5 Stelle». Magari per dare vita a un “governo istituzionale”, come unica alternativa alle elezioni anticipate (quasi inutili, restando invariata la legge elettorale). Lo afferma anche Stefano Folli, editorialista di “Repubblica”, sondato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario” dopo la chiusura del mandato esplorativo di Roberto Fico. Ora tocca al Pd pronunciarsi. Ma quella del governo “istituzionale”, secondo Folli, è l’unica soluzione sulla quale il Pd renziano potrebbe trovare un punto di incontro con i grillini. «Mattarella attende fiducioso nuovi sviluppi, ma le possibilità di formare una maggioranza politica sono pressoché esaurite».
-
Di Bernardo: basta democrazia, serve un tiranno illuminato
Democrazia? No, grazie. Non serve più, per governare questa turbolenta società mondializzata. Parola del massone Giuliano Di Bernardo, filosofo e sociologo, a capo del Grande Oriente d’Italia dal ‘90 al ‘93. Successivamente fondatore della Gran Loggia Regolare d’Italia, Di Bernardo ha poi creato l’Accademia degli Illuminati, oggi Dignity Order. Intervistato da Fabio Frabetti a “Border Nights”, fornisce un quadro dolente della massoneria italiana, insidiata dalla mafia al Sud e in piena crisi di identità. «Si ripetono ritualità simboliche di cui non si conosce più il significato: questo si chiama contro-iniziazione ed è persino peggio della contiguità con la mafia, premesso che – se accetta mafiosi al suo interno – la massoneria cessa di essere tale». Una lunga intervista, quella di Di Bernardo, che offre una lettura critica del sistema massonico italiano, sempre meno influente a livello politico dopo la tragica parentesi della P2 di Gelli, un uomo “al servizio degli Usa”. Pesano le ultime devastanti polemiche innescate dalla commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi, che denuncia la presenza di oltre mille affiliati-fantasma, nel Meridione: iscritti di cui non si conoscerebbe ufficialmente l’identità. Di Bernardo auspica una massoneria trasparente, ma avverte: la democrazia, purtroppo, non basta più. Serve un «tiranno illuminato», per uscire dal caos del mondo globalizzato.Affermazione decisamente sorprendente, se si considera che proprio la massoneria – attraverso l’Illuminismo – è stata la vera “levatrice” della società moderna, capace di superare i privilegi anacronistici dell’Ancien Régime, instaurando il parlamentarismo democratico di repubbliche e monarchie costituzionali. «Lo Stato democratico non l’ha portato la cicogna», sottolinea Gioele Magaldi, già gran maestro della loggia Monte Sion del Grande Oriente d’Italia e ora leader del Grande Oriente Democratico, nonché fondatore del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni”, stampato nel 2014 da Chiarelettere. «Suffragio universale, diritto di voto e pari dignità per tutti: oggi la diamo per scontata, ma la democrazia è il fondamento della modernità. E’ il risultato storico di un enorme impegno profuso dalla massoneria contro l’assolutismo monarchico e l’oscurantismo teocratico». Magaldi è stato il primo a parlare di massoni “contro-iniziati”, alludendo a personaggi del calibro di Draghi e Monti, esponenti della nuova oligarchia sovranazionale incarnata dalle 36 Ur-Lodges che sovrintendono alle grandi decisioni sul futuro del pianeta. Gianfranco Carpeoro, a sua volta massone (già a capo del Rito Scozzese italiano) nonché autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, stenta a riconoscere l’identità massonica degli oligarchi neo-aristocratici delle superlogge: «La massoneria è democratica e progressista per definizione; se smette di esserlo, cessa anche di essere massoneria».Nel suo libro, edito nel 2016 da “Revoluzione”, Carpeoro spiega come – proprio in seno alla massoneria – siano comunque nate precise pulsioni antidemocratiche. L’antesignano di questa corrente di pensiero è il marchese Alexandre Saint-Yves d’Alveydre, medico parigino vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900 e teorico della “sinarchia”, forma aristocratica di “governo dei migliori”, convinti che il popolo non abbia la capacità di autogovernarsi. Atteggiamento che affiora con grande evidenza nei tratti dell’élite attuale, spesso guidata da esponenti del potere statunitense, “eredi” del filone arbitrariamente ispiratosi agli Illuminati di Baviera, per maneggiare a proprio uso (“nuovo ordine mondiale”) l’internazionalismo settecentesco professato dal tedesco Johann Adam Weishaupt. Corsi e ricorsi storici: di troppa democrazia si muore, scrisse un altro massone – Samuel Huntington – nel celebre saggio “The crisis of democracy” commissionato dalla Trilaterale alla vigilia dell’era della globalizzazione. “Curare” la democrazia riducendo gli spazi democratici? Sono in tanti a pensarla così, a Bruxelles e dintorni. La notizia è che di questo parere è lo stesso Di Bernardo.«Nella mia visione – dice, l’ex gran maestro del Goi – la società globale non può essere governata con la democrazia». E spiega: il ricorso alla sola democrazia, in un mondo globalizzato, «creerebbe tanti di quei conflitti che, alla fin fine, si verrebbe a realizzare lo “stato di guerra di tutti contro tutti” di cui ha parlato Locke». L’alternativa alla democrazia? Il governo degli “ottimati”: «Io ritengo che il futuro dell’umanità, che vede la realizzazione della società globale – scandisce Di Bernardo – debba essere governato da una comunità di saggi che esprimono “l’Uno”, il tiranno illuminato». Un pensiero non lontano, probabilmente, da quello degli stessi architetti della globalizzazione, il sistema-mondo ridisegnato dai vari Rockefeller e Rothschild, Kissinger e Brzezinski. L’Occidente vive una crisi profondissima, osserva giustamente Di Bernardo. Ma, secondo vari altri esponenti del mondo culturale massonico – inclusi Magaldi e Carpeoro – la crisi attuale è dovuta proprio alla mancanza di democrazia, non certo al suo eccesso. L’impegno della massoneria progressista, anche internazionale? Ingaggiare una battaglia, a livello mondiale, per il ritorno della democrazia – a cominciare dall’Europa, sottomessa al potere “totalitario” di organismi come l’Ue e la Bce, che di democratico non hanno più niente.Democrazia? No, grazie. Non serve più, per governare questa turbolenta società mondializzata. Parola del massone Giuliano Di Bernardo, filosofo e sociologo, a capo del Grande Oriente d’Italia dal ‘90 al ‘93. Successivamente fondatore della Gran Loggia Regolare d’Italia, Di Bernardo ha poi creato l’Accademia degli Illuminati, oggi Dignity Order. Intervistato da Fabio Frabetti a “Border Nights”, fornisce un quadro dolente della massoneria italiana, insidiata dalla mafia al Sud e in piena crisi di identità. «Si ripetono ritualità simboliche di cui non si conosce più il significato: questo si chiama contro-iniziazione ed è persino peggio della contiguità con la mafia, premesso che – se accetta mafiosi al suo interno – la massoneria cessa di essere tale». Una lunga intervista, quella di Di Bernardo, che offre una lettura critica del sistema massonico italiano, sempre meno influente a livello politico dopo la tragica parentesi della P2 di Gelli, un uomo “al servizio degli Usa”. Pesano le ultime devastanti polemiche innescate dalla commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi, che denuncia la presenza di oltre mille affiliati-fantasma, nel Meridione: iscritti di cui non si conoscerebbe ufficialmente l’identità. Di Bernardo auspica una massoneria trasparente, ma avverte: la democrazia, purtroppo, non basta più. Serve un «tiranno illuminato», per uscire dal caos del mondo globalizzato.
-
Il valzer delle poltrone archivia il 25 Aprile che ci salverebbe
Che senso ha festeggiare il 25 aprile del ‘45, fingendo di non vedere la necessità impellente di un’altra Liberazione? «Noi antifascisti dobbiamo impegnarci nuovamente per continuare a combattere contro tutte le forme di oppressione», avverte Marco Moiso, coordinatore del Movimento Roosevelt: «L’oppressione, che nel passato ha trovato espressioni in forme violente e autoritarie, può oggi trovare nuove forme più subdole per agire sulla società». Siamo assediati da “fascismi” vecchi e nuovi, “dittature” palesi oppure larvate e occulte. Una su tutte: «La gestione diretta, o indiretta, del potere (legislativo, esecutivo o giudiziario) da parte di élites che non rispondono al volere del popolo, anche se sostengono di agire in suo nome e nel suo interesse». Si discriminano persone per l’appartenenza (religioni, classi, etnie), e si impedisce al singolo di «perseguire liberamente i propri talenti, le proprie capacità e aspirazioni». Nuovo medioevo: scontiamo ancora «la predeterminazione del ruolo che le persone avranno nella società in base a condizioni di nascita, piuttosto che ai propri meriti». Se contro tutto questo ha votato la maggioranza degli elettori il 4 marzo, dov’è finito il vento della “liberazione” a due mesi di distanza dalle elezioni? Siamo alla farsa del Movimento 5 Stelle, che tratta alla pari la Lega della Flat Tax e il Pd che sorveglia il dogma intoccabile del rigore Ue.«Alla fine, aver messo sullo stesso piano Lega e Pd si rivelerà la mossa sbagliata del M5S», scrive Enrico Mentana, in una nota ripresa da Vincenzo Bellisario sempre sul blog del Movimento Roosevelt. «Non si può essere europeisti o euroscettici, per la Fornero o contro, per la Flat Tax o l’imposizione progressiva (e la lista sarebbe lunga) a seconda dell’alleato che ti dà i voti per andare a Palazzo Chigi», sostiene Mentana. Oltretutto, «non è ciò che il movimento ha predicato in questi cinque anni». Per il direttore del Tg La7, il Movimento 5 Stelle «si avvicina sempre più al paradosso del Pd: che fece il governo con Forza Italia perché il M5S lo aveva rimbalzato, con ottimi argomenti che però ha nel frattempo dimenticato». Lo spettacolo è inequivocabile: «Tutti, a turno, hanno una sana vocazione maggioritaria: ma quando poi i voti non bastano si diventa cultori delle alleanze». Adesso il tempo è scaduto, avverte Bellisario: «Credo sia giunto il momento in cui il centrodestra e il “rottamatore” Renzi diano un taglio netto a questa “falsa” insopportabile: chiedo a entrambi i Matteo di “rottamare” tutto e tornare al voto». Tutti d’accordo? Nemmeno per idea: a remare contro le elezioni anticipate, scrive il “Giornale”, c’è il “club dei ministri” capitanato da Dario Franceschini.«Più di mezzo Partito democratico vuole andare al governo con i Cinque stelle e ha lavorato di sponda con il Quirinale per non fare cadere questa ipotesi sotto i bombardamenti renziani», scrive Gian Maria De Francesco sul quotidiano diretto da Alessandro Sallusti. «D’altronde, tra i consiglieri del presidente della Repubblica Sergio Mattarella vi sono molti franceschiniani. A partire dal capo della segreteria Simone Guerrini fino al consigliere segretario Daniele Cabras, passando per il consigliere per l’informazione Gianfranco Astori e al portavoce Giovanni Grasso». Franceschini garantisce «l’obbligo di verificare nei contenuti la possibilità di un’intesa». Ma a lavorare sottotraccia per un accordo coi 5 Stelle ci sarebbero anche Andrea Orlando (giustizia) e Anna Finocchiaro (rapporti con il Parlamento), insieme al reggente Pd Maurizio Martina (già ministro dell’agricoltura), a Roberta Pinotti (difesa) e Marco Minniti (interno). Vero: il “club dei ministri” poco avrebbe potuto, se non fosse stato in qualche modo sospinto dal Quirinale e se il Luigi Di Maio «non avesse fallito miseramente la trattativa con il centrodestra ostracizzando (e consentendo di ostracizzare) Forza Italia». Ma questo è accaduto: si è chiusa la porta in faccia al possibile cambiamento.«Un epilogo che nessuno ha cercato di evitare – chiosa De Francesco – lasciando campo libero alle vecchie volpi cresciute a Piazza del Gesù, prima fra tutte l’ex enfant prodige Dario Franceschini, che ha saputo muoversi con abilità in questa palude. Aumentando le probabilità per tutto il Club di mantenere la poltrona». Felpate manovre, alle spalle degli elettori: questo il clima politico del 25 Aprile 2018, tra le celebrazioni che commemorano la Resistenza di allora. Ma il voto del 4 marzo non è stato soprattutto una delega a centrodestra e 5 Stelle per rompere la sottomissione italiana rispetto a Bruxelles? Come ricorda Moiso, subiamo infatti «il controllo esclusivo, da parte di élites che non rispondono al volere del popolo, delle risorse monetarie». Attenzione: si tratta di «un controllo tale da determinare la sudditanza economica delle masse». C’è quindi «bisogno e urgenza di vivere nel modo più autentico e aggiornato possibile lo Spirito della Resistenza», non certo confermando poltrone come quelle del Padoan di turno; non sarà certo un Cottarelli a interpretare la “volontà degli elettori” espressa due mesi fa. «Combattendo nel presente per migliorare il futuro», Moiso sottolinea la necessità di «tornare a incidere, tramite un’azione politica consapevole, gagliarda e lungimirante», valutando finalmente «se nuove forme di oppressione antidemocratica non siano molto più vicine a noi di quanto pensiamo».Che senso ha festeggiare il 25 aprile del ‘45, fingendo di non vedere la necessità impellente di un’altra Liberazione? «Noi antifascisti dobbiamo impegnarci nuovamente per continuare a combattere contro tutte le forme di oppressione», avverte Marco Moiso, coordinatore del Movimento Roosevelt: «L’oppressione, che nel passato ha trovato espressioni in forme violente e autoritarie, può oggi trovare nuove forme più subdole per agire sulla società». Siamo assediati da “fascismi” vecchi e nuovi, “dittature” palesi oppure larvate e occulte. Una su tutte: «La gestione diretta, o indiretta, del potere (legislativo, esecutivo o giudiziario) da parte di élites che non rispondono al volere del popolo, anche se sostengono di agire in suo nome e nel suo interesse». Si discriminano persone per l’appartenenza (religioni, classi, etnie), e si impedisce al singolo di «perseguire liberamente i propri talenti, le proprie capacità e aspirazioni». Nuovo medioevo: scontiamo ancora «la predeterminazione del ruolo che le persone avranno nella società in base a condizioni di nascita, piuttosto che ai propri meriti». Se contro tutto questo ha votato la maggioranza degli elettori il 4 marzo, dov’è finito il vento della “liberazione” a due mesi di distanza dalle elezioni? Siamo alla farsa del Movimento 5 Stelle, che tratta alla pari la Lega della Flat Tax e il Pd che sorveglia il dogma intoccabile del rigore Ue.
-
Magaldi: Di Maio, i barbagianni e l’utopia del diritto al lavoro
Avrebbe la cortese compiacenza, Luigi Di Maio, di far graziosamente sapere, prima o poi, cosa intenderebbe fare, una volta al governo dell’Italia? I primi che vorrebbero saperlo, probabilmente, sono i suoi elettori – meglio ancora: i votanti che il 4 marzo hanno scelto i pentastellati magari «turandosi il naso», percependo comunque il Movimento 5 Stelle «come qualcosa di nuovo e diverso, rispetto agli altri “barbagianni”». Essere o non essere un’alternativa per il paese? Spieghi, l’amletico grillino, che idea ha in testa (se ce l’ha) per questo paese. Tutte le alleanze e tutte le idee possono essere utili, purché coraggiose e serie: a patto che non si scivoli verso i lidi collaudatissimi del rigore di bilancio, di cui finora è stato custode il Pd per conto dell’oligarchia privatizzatrice che presidia l’Unione Europea. A oltre un mese e mezzo dal voto, Gioele Magaldi avverte: così non si va da nessuna parte. «Non vorrei che poi ci ritrovassimo un programma della cosiddetta pseudo-sinistra più classica, quella che ritiene che tassando e ritassando si garantisce non si sa bene quale equilibrio sociale, mettendosi a pari coi burattinai di Bruxelles e con le altre entità sovranazionali: stiamo attenti, perché non è questa la via per chi voglia dirsi progressista». La strada maestra? Il lavoro, come baluardo della dignità individuale. L’orizzonte di un’utopia necessaria: rendere costituzionale il diritto all’impiego. Il reddito di cittadinanza? Una tappa intermedia e transitoria, nella lunga marcia per cambiare faccia all’Italia e all’Europa.«Giorno per giorno, le cose si sono complicate», premette Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio”. «C’è stato un deterioramento dei toni e un innalzamento delle antipatie, una sottolineatura delle cose che dividono anziché di quelle che possono unire». Serpeggia un pericolo: «Non vorrei che l’ipotesi di un governo con 5 Stelle, Pd e “Leu”, ammesso che i numeri ci siano, si traduca in una sorta di esecuzione delle suggestioni dell’Ocse, del Fmi e di altre entità economicistiche sovranazionali che hanno sbagliato tutto, negli scorsi anni, perché sento parlare troppo di tassazione e patrimoniali, di scetticismo anche rispetto alla utile proposta di Salvini (Flat Tax o qualcosa del genere)». Per Magaldi, la verità è che il Movimento 5 Stelle «deve fare i conti con i limiti della propria traiettoria». Le elezioni regionali molisane, considerate deludenti? «Non ho condiviso i trionfalismi del dopo-voto e non condivido adesso l’analisi secondo cui, avendo avuto il 32% in Molise, il M5S starebbe arretrando», precisa Magaldi: «E’ un dato locale, non traducibile a livello nazionale». Ma Di Maio e colleghi devono capire che il loro 32% a livello nazionale, ottenuto «nonostante la pessima performance nel governo di Roma e nonostante moltri altri dubbi che tanti dei loro stessi votanti nutrono», non è affatto un dato che si possa mettere in cassaforte. Al contrario: gli elettori potrebbero non rinnovare la fiducia accordata il 4 marzo.Lo scenario è confuso: in tanti sono indaffarati, non si capisce se «a cercare di fare un governo o solo a far finta di volerlo fare». A maggior ragione, il Movimento 5 Stelle «farebbe bene a chiarire ai suoi elettori che cosa vuole fare, a prescindere dagli alleati con cui lo farebbe», sottolinea Magadi, secondo cui «nelle ultime settimane si è appannato proprio il senso progettuale: non si è capito bene cosa farebbe, Di Maio, in un governo». Magaldi ripropone la prospettiva per la quale si batte il Movimento Roosevelt, lungo l’orizzonte della migliore tradizione social-liberale: «E’ il lavoro che deve diventare imprescindibile e garantito dalla Costituzione, pur nel rispetto del merito e dei talenti». Va bene anche «la libera economia di mercato del tanto vituperato capitalismo», purché non quello neoliberista: Magaldi pensa al capitalismo sociale rooseveltiano ispirato da Keynes e da John Rawls, l’ideologo del “welfare universale” europeo. Il capitalismo, aggiunge Magaldi, deve restare «la facoltà di investire capitali privati per trarne legittimo profitto, senza monopoli né oligopoli», ma a livello legislativo «occorre che nessuno sia privato del diritto di lavorare, e quindi del diritto di avere un reddito e accompagnare i propri sogni e le proprie aspirazioni, partecipando anche all’economia e rafforzandone i circuiti».Magaldi lo definisce «un orizzonte epocale», benché «sobrio e moderato, rispetto alle istanze palingenetiche e agli incubi del ‘900», neri e rossi. Chi auspicava il comunismo come “il paradiso in terra” oggi è spesso dalla parte dei capitalisti ultra-liberisti, «che credono alla divinità del mercato in termini integralisti e fanatici». Volevano l’abbattimento del capitalismo “borghese” e oggi «si sono trasformati in accompagnatori del dogmatismo di un’idea sola di capitalismo, e anche di una idolatria del mercato in quanto tale, senza più alcuna preoccupazione per i grandi ideali di giustizia sociale che, pure, nel ‘900 sono stati presenti». In parallelo, il “secolo breve” ha archiviato (dolorosamente) altri incubi speculari, fascisti e fascistoidi, che pur con altri presupposti «hanno spesso spacciato per interesse del popolo la loro vocazione oligarchica, alla pari di quella dei comunisti». Magaldi le definisce «distopie finite tragicamente», ricordando che «nel mezzo c’è stata una linea politica e ideologica che ha visto una parziale concretizzazione nei famosi “decenni d’oro”, il boom del dopoguerra in Europa, con le ricette keynesiane e un “welfare system” che ha garantito mobilità e giustizia sociale».Quello degli ‘70, però, «non era ancora l’orizzonte cui dobbiamo approdare», aggiunge Magaldi, che lavora per la sua “utopia moderata”. Ovvero: «Il diritto costituzionale all’occupazione». Una rivoluzione, che «risolverebbe molti problemi e preverrebbe qualunque crisi economica». Il reddito di cittadinanza del Movimento 5 Stelle? Una proposta «annacquata nei ragionamenti politici di questi giorni». Magaldi non lo vedrebbe come «un’alternativa al diritto al lavoro», ma piuttosto «come un accompagnamento, in una fase transitoria». Ovvero: «Dato che per arrivare al diritto al lavoro occorrerà convincere politicamente la maggioranza degli elettori, per avere (in Italia e altrove) maggioranze parlamentari capaci di approvare riforme costituzionali di questa portata, nel frattempo il reddito di cittadinanza può essere un modo per garantire la dignità di coloro che vivono in un contesto occupazionale complesso». E quindi «credo che sia una buona idea», conclude Magaldi, «se vista non come sostitutiva dell’orizzonte che mette il lavoro al centro della dignità delle persone, ma come un elemento di supporto, durante la transizione verso quel modello». Di Maio è in ascolto? Ha un’idea, in proposito? Pensa di riuscire a distinguersi dagli altri “barbagianni” della mala-politica italiana sottomessa al rigore Ue?Avrebbe la cortese compiacenza, Luigi Di Maio, di far graziosamente sapere, prima o poi, cosa intenderebbe fare, una volta al governo dell’Italia? I primi che vorrebbero saperlo, probabilmente, sono i suoi elettori – meglio ancora: i votanti che il 4 marzo hanno scelto i pentastellati magari «turandosi il naso», percependo comunque il Movimento 5 Stelle «come qualcosa di nuovo e diverso, rispetto agli altri “barbagianni”». Essere o non essere un’alternativa per il paese? Spieghi, l’amletico grillino, che idea ha in testa (se ce l’ha) per questo paese. Tutte le alleanze e tutte le idee possono essere utili, purché coraggiose e serie: a patto che non si scivoli verso i lidi collaudatissimi del rigore di bilancio, di cui finora è stato custode il Pd per conto dell’oligarchia privatizzatrice che presidia l’Unione Europea. A oltre un mese e mezzo dal voto, Gioele Magaldi avverte: così non si va da nessuna parte. «Non vorrei che poi ci ritrovassimo un programma della cosiddetta pseudo-sinistra più classica, quella che ritiene che tassando e ritassando si garantisce non si sa bene quale equilibrio sociale, mettendosi a pari coi burattinai di Bruxelles e con le altre entità sovranazionali: stiamo attenti, perché non è questa la via per chi voglia dirsi progressista». La strada maestra? Il lavoro, come baluardo della dignità individuale. L’orizzonte di un’utopia necessaria: rendere costituzionale il diritto all’impiego. Il reddito di cittadinanza? Una tappa intermedia e transitoria, nella lunga marcia per cambiare faccia all’Italia e all’Europa.
-
Streeck: sovranismo progressista, contro l’élite globalista
Secondo il sociologo tedesco Wolfgang Streeck, i paesi a economia matura hanno di fronte tre precise tendenze, a lungo termine: un declino persistente del tasso di crescita, un aumento costante del debito (pubblico, privato e totale) e un’esplosiva disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza. Queste tendenze sono tra loro legate, spiega Nicolò Bellanca su “Micromega”: la bassa crescita, intensificando il conflitto distributivo, accentua la disuguaglianza tra i gruppi, mentre a sua volta la disuguaglianza, abbassando la domanda effettiva, riduce la crescita. Di conseguenza il settore finanziario si espande ulteriormente per allargare il credito dei gruppi che più subiscono la disuguaglianza, ma – restringendo l’economia reale e le sue possibilità occupazionali – la stessa finanza approfondisce gli squilibri sociali. Allarme rosso: gli alti livelli di debito innalzano il rischio di crisi finanziarie, che a loro volta – moltiplicando le posizioni debitorie più vulnerabili – accentuano le disparità e rallentano la crescita, e così via. Storia: a circa 250 anni dalla rivoluzione industriale, osserva Bellanca, si sono estremamente affievolite le forze sociali e politiche di contrasto al capitalismo, tra le quali la religione, il socialismo, il nazionalismo e la democrazia. «Il punto è di cruciale importanza, poiché un capitalismo senza oppositori viene lasciato ai suoi meccanismi interni ed è incapace di autolimitarsi».Tutti ci accorgiamo, sottolinea Streeck, che oggi nessuna formula politico-economica, di destra o di sinistra, fornisce un coerente sistema di regolazione al capitalismo. Ma questo succede non tanto per l’assenza di idee progettuali o di leader carismatici, come spesso sentiamo lamentare, bensì «perché nessun intervento riformatore dell’economia può essere efficace se le istituzioni non-economiche sono quasi estinte: non si può curare una malattia in mancanza degli anticorpi». Per Streeck, il capitalismo è ormai ingovernabile per l’attenuarsi dei vincoli che furono in grado di contrastarlo e contenerlo. «Nei momenti cruciali della sua storia, sono state le forze di opposizione a stabilizzare il capitalismo in quanto società: movimenti di classe, etnici o di genere hanno animato i contropoteri della società; movimenti regionali, nazionali o religiosi hanno preservato la coesione sociale; gli Stati socialdemocratici del benessere e i sindacati di massa hanno assicurato una domanda sufficiente nella sfera economica, così come la legittimazione della riproduzione sociale. Il capitalismo vive finché non diventa “puro”, ossia finché non espelle dalla società le forze non-economiche in grado, trattenendone la spinta espansiva, di proteggerlo da sé stesso».Questa tesi non appartiene soltanto a Streeck, rileva Bellanca. In ambito marxista, Rosa Luxemburg sostiene che senza una ulteriore frontiera da valicare, l’accumulazione capitalista s’inceppa. Karl Polanyi aggiunge che nel capitalismo circolano delle “merci fittizie” – il tempo, la natura, il denaro e il lavoro umano – le quali vengono distrutte, o rese inutilizzabili, se affidate alle compravendite mercantili: poiché il capitalismo abbisogna di queste “merci”, deve accettare che siano regolate in maniera non-mercantile, e deve quindi ammettere un proprio limite. Secondo Streeck, la versione neoliberista del capitalismo ha avuto “troppo successo”, colonizzando l’intero mondo della vita e quasi azzerando le controspinte socio-politiche. Smentito il pregiudizio marxista, secondo cui il capitalismo si chiuderà soltanto quando sarà pronta una società migliore, promossa da un soggetto rivoluzionario. «Data la frammentazione dei movimenti antagonisti, manca un gruppo sociale che possa orientare progettualmente la società. Lo scenario futuro più probabile sarà quello in cui il collasso capitalista non sarà seguito dal socialismo, bensì da un periodo di entropia».Per Bellanca, la prognosi di Streeck non è sempre persuasiva, dato che «discute il futuro del capitalismo senza alcun riferimento al luogo in cui il futuro del capitalismo sarà sicuramente deciso: l’Asia». Se non altro, «il suo atteggiamento non scivola nel fatalismo e nell’impotenza politica». Piuttosto, lo studioso tedesco puntualizza: non tutte le maniere con cui attraversare il prossimo “interregno” saranno equivalenti. A suo parere, almeno uno dei fattori non-capitalisti potrà ancora costituire un valido baluardo di resistenza, per i lavoratori e per i cittadini: lo Stato-nazione. «Nel mondo reale, non c’è democrazia al di sopra dello Stato-nazione, ma solo grande tecnocrazia, grandi capitali e grande violenza. I regimi politici capaci di rappresentare gli interessi delle classi subalterne, dei gruppi discriminati e delle popolazioni locali nel mondo si sono formati – quando ciò è avvenuto – soltanto all’interno del perimetro della sovranità statuale». Pertanto, aggiunge Streeck, il rilancio dello Stato politico come Stato sociale democratico potrà costituire uno strumento per temperare e, in parte, regolare la furia del capitale. E mentre il sovranismo di destra si scaglia contro i migranti in nome dell’etnia e rivendica la chiusura delle frontiere, Streeck indica alla sinistra un percorso strategico nel quale la leva del sovranismo progressista contrasti la tirannia “illuminata” di Bruxelles e affronti il tema di come uscire dal totalitarismo globalista.«I neoliberisti – scrive – hanno convinto tanti a sinistra che oggi il solidarismo internazionalista comporta che i lavoratori dei vecchi paesi industrializzati lascino competere sui loro posti i lavoratori delle aree più povere del pianeta. Invece il solidarismo ha significato e significa che i lavoratori si organizzano assieme per impedire al capitale di contrapporre gli uni agli altri in mercati “liberi”, ossia non regolamentati». Su questo terreno, che Bellanca definisce «del sovranismo democratico-costituzionale», la previsione di Streeck s’incontra con quella dell’economista di origine serba Branko Milanovic, secondo cui «i conflitti tra le classi all’interno dei paesi accresceranno, in termini relativi, la loro importanza nel prossimo futuro». Lo stesso Streeck aggiunge che le battaglie dentro e mediante gli Stati-nazione saranno, nel tempo che ci aspetta, l’orizzonte politico meno inefficace e più vicino ai bisogni dei lavoratori e dei cittadini. «Questa coppia di previsioni – conclude Bellanca – presenta implicazioni politiche molto precise per la sinistra da ricostruire».Secondo il sociologo tedesco Wolfgang Streeck, i paesi a economia matura hanno di fronte tre precise tendenze, a lungo termine: un declino persistente del tasso di crescita, un aumento costante del debito (pubblico, privato e totale) e un’esplosiva disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza. Queste tendenze sono tra loro legate, spiega Nicolò Bellanca su “Micromega”: la bassa crescita, intensificando il conflitto distributivo, accentua la disuguaglianza tra i gruppi, mentre a sua volta la disuguaglianza, abbassando la domanda effettiva, riduce la crescita. Di conseguenza il settore finanziario si espande ulteriormente per allargare il credito dei gruppi che più subiscono la disuguaglianza, ma – restringendo l’economia reale e le sue possibilità occupazionali – la stessa finanza approfondisce gli squilibri sociali. Allarme rosso: gli alti livelli di debito innalzano il rischio di crisi finanziarie, che a loro volta – moltiplicando le posizioni debitorie più vulnerabili – accentuano le disparità e rallentano la crescita, e così via. Storia: a circa 250 anni dalla rivoluzione industriale, osserva Bellanca, si sono estremamente affievolite le forze sociali e politiche di contrasto al capitalismo, tra le quali la religione, il socialismo, il nazionalismo e la democrazia. «Il punto è di cruciale importanza, poiché un capitalismo senza oppositori viene lasciato ai suoi meccanismi interni ed è incapace di autolimitarsi».
-
Becchi: grazie a Di Maio, il Quirinale punta all’accordo col Pd
Sabino Cassese a Palazzo Chigi, con Di Maio come ruota di scorta e il placet di Renzi. Tradotto: come seppellire in poche settimane l’indicazione degli elettori, che il 4 marzo si sono chiaramente espressi per voltare pagina rispetto al passato. Senza contare il 27% di italiani rimasti prudentemente lontani dalle urne, il 55% ha scelto 5 Stelle, Lega e Fratelli d’Italia. Ovvero: fine dei governi-ombra agli ordini di Bruxelles, inagurati da Monti e proseguiti con Letta, Renzi e Gentiloni, l’uomo “invisibile” che passerà alla storia per aver convalidato il decreto Lorenzin sui vaccini obbligatori in assenza di emergenze sanitarie, terremotando le famiglie italiane. Dopo l’illusione della diarchia Salvini-Di Maio a incarnare il cambiamento invocato dagli ettori (meno tasse, reddito di cittadinanza), secondo Paolo Becchi – a causa del veto grillino su Berlusconi – si fa strada l’ipotesi peggiore: un “governo del presidente” sostenuto dai 5 Stelle ma senza più Di Maio a Palazzo Chigi. Un esecutivo pallido, sorretto anche dal Pd tuttora renziano. Filosofo del diritto, in passato vicino alla leadership grillina, Becchi ora avverte: «Di Maio non può pretendere di mettere Salvini di fronte a un ricatto. A quel punto si assume una gravissima responsabilità: quella di consegnare la volontà degli elettori o a una cattiva alleanza, quella col Pd, o alle ipotesi tecniche».Secondo Becchi, sondato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”, «il Quirinale ha un preciso disegno in testa», però «intende arrivarci gradualmente, certificando il fallimento delle ipotesi alternative». Ha conferito a Elisabetta Casellati un mandato esplorativo a stretto giro, mentre «centrodestra e M5S non hanno raggiunto un accordo in un mese e mezzo». Impensabile che accada qualcosa di decisivo prima delle elezioni regionali, in programma il 22 aprile in Molise e il 29 in Friuli. Cosa c’entrano le elezioni regionali? «L’intento di Mattarella – sostiene Becchi – è quello di mettere in difficoltà i due probabili vincitori di questo voto, amministrativo ma di grande valore politico, perché se Berlusconi perde malamente in Molise, dove si sta impegnando in prima persona, politicamente è finito. A quel punto Salvini sarebbe più autonomo e potrebbe alzare la posta». Significa che il Colle vuole impedire a Di Maio e Salvini di mettere sul piatto delle trattative di governo le rispettive vittorie elettorali in Molise e Friuli? «Significa che vuole impedire a Salvini di avere più peso politico all’interno della coalizione vincente nelle urne del 4 marzo, tagliando così le gambe alle possibilità residue di un accordo M5S-Lega».La manovra servirebbe a legittimare altri scenari, ovvero «un patto M5S-Pd, oppure un “governo del presidente”, affidato per esempio a Sabino Cassese», giurista e accademico, giudice emerito della Corte Costituzionale. Lo stesso Cassese, in un editoriale “interventista” sul “Corriere della Sera”, ha lanciato un monito a tutti, dalla Siria all’Italia: la sovranità degli Stati «va tenuta sotto controllo», e inoltre gli Stati «agiscono per la realizzazione di principi globali». Princìpi che il nuovo M5S “atlantista” potrebbe sottoscrivere. «Il disegno è chiaro», dice Becchi: «Far saltare l’accordo del M5S con il centrodestra per evitare il “pericolo” leghista e far nascere un “governo del presidente” con 5 Stelle e Pd, mettendo al posto di un inesperto come Di Maio un ex giudice costituzionale in grado di garantire la collocazione internazionale e la messa in sicurezza del paese». E perché mai Di Maio ci dovrebbe stare? «Perché a quel punto avrà giocato male la sua partita con Salvini e non potrà più tornare indietro», argomenta Becchi. «Dovrà scegliere tra dare un governo al paese o andare al voto. Di Maio ha tirato troppo la corda e alla fine l’ha spezzata. Non se ne è ancora reso conto, ma non farà più il capo del governo». E Renzi? «Darebbe l’okay, perché Di Maio non farebbe più il premier».Di Maio ha detto che vorrebbe governare solo con Salvini? «L’impressione è che alla Lega il governo non interessi» sottolinea Becchi: «L’opposizione è più redditizia e in palio c’è il centrodestra del dopo-Berlusconi». Il professore è ancora convinto che Salvini voglia innanzitutto portare il centrodestra al governo, e che voglia farlo coi 5 Stelle «perché sono le due forze che hanno vinto le elezioni». Ma i due programmi non sono incompatibili? «Non lo credo», risponde Becchi. «Il M5S non ha nessun programma, fa e disfa i programmi a piacimento a seconda delle convenienze. E’ un partito liquido, con a capo un trentenne che si è montato la testa e vuole fare il premier a tutti i costi. E infatti darebbe tranquillamente alla Lega i ministeri di peso». Se la Casellati guadagnasse tempo, aggiunge Becchi, forse prolungherebbe la vita all’ipotesi 5 Stelle-Lega: «Non è stata esplorata fino in fondo, e sono proprio le urne di Molise e Friuli a legittimarla». L’ipotesi della staffetta Di Maio-Salvini «offrirebbe garanzie anche a Berlusconi: gli permetterebbe di avere qualche ministro e soprattutto ci potrebbe stare un accordo per tutelare le aziende».Il veto del Movimento 5 Stelle sul Cavaliere «avvalora l’ipotesi che Di Maio voglia davvero fare il governo col Pd», afferma Becchi». Ma se fosse Berlusconi a continuare a opporsi ai grillini, le elezioni in Molise e in Friuli potrebbero tradirlo: «In questo caso Salvini, più forte grazie al risultato regionale, potrebbe davvero abbandonare Berlusconi, andandosene con Fratelli d’Italia e con metà Forza Italia per fare un centrodestra a propria immagine: se Berlusconi non accettasse, sarebbe il suo funerale politico». Viceversa, un nuovo Patto del Nazareno spaccherebbe il centrodestra: «La Lega e Fratelli d’Italia uscirebbero: Salvini non accetterebbe mai di entrare in un “governo del presidente”». E Di Maio? Perché non si è ancora reso conto del fatto che non farà più il premier? «Per una ragione profonda, non politica», sostiene Becchi. «Di Maio e il gruppo dirigente del M5S, ma la considerazione vale anche per i militanti, sono ormai persone che vivono di rancore, di passioni tristi. Il risentimento li blocca e li bloccherà su tutto. Se non sei più in grado di contemplare una ipotesi politica di governo, se credi che avendo 11 milioni di voti alle spalle ti puoi comportare come vuoi continuando a dire io-io-io, o me o nessuno, se Berlusconi ti dice che non ha veti e tu continui a dire no, allora è finita». Questo lo ha detto, a Di Maio?«Sì, ma non c’è stato verso». Come andrà a finire? «La crisi di governo li sta fregando – chiosa Becchi – perché sta diventando anche e soprattutto colpa loro, di Di Maio soprattutto. E se per caso si vota, i 5 Stelle potrebbero avere brutte sorprese».Sabino Cassese a Palazzo Chigi, con Di Maio come ruota di scorta e il placet di Renzi. Tradotto: come seppellire in poche settimane l’indicazione degli elettori, che il 4 marzo si sono chiaramente espressi per voltare pagina rispetto al passato. Senza contare il 27% di italiani rimasti prudentemente lontani dalle urne, il 55% ha scelto 5 Stelle, Lega e Fratelli d’Italia. Ovvero: fine dei governi-ombra agli ordini di Bruxelles, inaugurati da Monti e proseguiti con Letta, Renzi e Gentiloni, l’uomo “invisibile” che passerà alla storia per aver convalidato il decreto Lorenzin sui vaccini obbligatori in assenza di emergenze sanitarie, terremotando le famiglie italiane. Dopo l’illusione della diarchia Salvini-Di Maio a incarnare il cambiamento invocato dagli elettori (meno tasse, reddito di cittadinanza), secondo Paolo Becchi – a causa del veto grillino su Berlusconi – si fa strada l’ipotesi peggiore: un “governo del presidente” sostenuto dai 5 Stelle ma senza più Di Maio a Palazzo Chigi. Un esecutivo pallido, sorretto anche dal Pd tuttora renziano. Filosofo del diritto, in passato vicino alla leadership grillina, Becchi ora avverte: «Di Maio non può pretendere di mettere Salvini di fronte a un ricatto. A quel punto si assume una gravissima responsabilità: quella di consegnare la volontà degli elettori o a una cattiva alleanza, quella col Pd, o alle ipotesi tecniche».
-
Euro e Russia: grillini beffati, Di Maio cambia il programma
Due cattivoni assoluti – la guerra e l’euro – sono letteralmente spariti dalla fiaba “flessibile” dei 5 Stelle: prima delle elezioni funzionavano per ottenere voti, ma ora sono stati “sbianchettati” in funzione governativa. Della serie: perché nulla cambi, delle cose che contano davvero. Nessuno tocchi l’egemonia corrente: a contrastare i bombardamenti Usa, le sanzioni alla Russia e il dominio oligarchico di Bruxelles resta solo Salvini, visto che Di Maio, con l’ovvio placet del padrone Casaleggio, ha sostituito il programma votato dagli iscritti con un altro, assai più morbido e sfuggente sui temi che dovrebbero impegnare il “governo del cambiamento” richiesto da almeno il 55% degli italiani votanti (senza contare il 27% rimasto a casa, forse temendo di assistere esattamente a questo tipo di spettacolo post-elettorale). Il classico imbroglio? Alla faccia del “primo e unico programma politico basato sulla partecipazione e sulla democrazia diretta online grazie al sistema operativo Rousseau”. «La versione del programma elettorale attualmente disponibile sul sito del movimento è completamente diversa da quella che c’era a febbraio», scrive Luciano Capone sul “Foglio”. «Una manipolazione della volontà degli iscritti, una presa in giro degli elettori, una violazione delle regole del partito (democrazia diretta e trasparenza), la negazione della retorica sul cittadino vero “sovrano” e il politico semplice “portavoce”».Per recuperare il vecchio programma, scrive il “Foglio”, basta andare su “Internet Archive” – la più grande biblioteca della rete – e utilizzare la funzione “Wayback Machine”, che consente di risalire alle pagine web modificate o cancellate. Fino al 2 febbraio sul sito del M5S c’era un programma, ma il 7 marzo – tre giorni dopo le elezioni – ce n’era già un altro, «totalmente diverso e spesso diametralmente opposto». E’ il caso del “programma Esteri”, di stringente attualità vista la crisi in Siria. «Gli iscritti avevano votato per un’impostazione radicale, terzomondista, filo-russa e anti-atlantica. Il nuovo “programma Esteri” è stato bonificato: tolte le contestazioni alla Nato e agli Stati Uniti, addolcite le critiche all’euro e all’Ue, smussati gli elogi alla Russia». Il capitolo su “Sovranità e indipendenza” si apriva così: “Il caos che regna in Libia dimostra che l’unilateralismo dell’intervento umanitario è fallito”. E ancora: “Ripudiamo ogni forma di colonialismo, neocolonialismo e ingerenza straniera”. Tutto sparito, rileva il “Foglio”. «Nella nuova versione si parla di “affrontare insieme in Europa” le sfide del domani “come Stati sovrani liberi e indipendenti” nel mondo multipolare. Un’altra musica, più soft».Il capitolo sul “Ripudio della guerra” partiva secco: “Iraq, Somalia, ex Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Ucraina, Siria. L’elenco dei paesi distrutti dall’unilateralismo occidentale potrebbe essere molto più lungo”. E proseguiva catastrofico: “Le guerre di conquista dell’ultimo periodo hanno portato il mondo a un passo dall’Apocalisse e hanno prodotto centinaia di migliaia di morti, feriti, mutilati e sfollati. Territori devastati, smembrati, economie fallite, destabilizzazioni estese a intere regioni e milioni di persone”. Tutto cancellato, osserva Capone sul “Foglio”: «Ora il tono è più posato e burocratico, si parla di “ricerca del multilateralismo, della cooperazione e del dialogo tra le popolazioni” e si ribadisce che “le operazioni per il mantenimento della pace debbano svolgersi in stretta ottemperanza ai principi della Carta dell’Onu”». Ma il passaggio dall’“Apocalisse” alla “stretta ottemperanza” è niente, rispetto alla metamorfosi della posizione sulla Nato: “Il ‘sistema di sicurezza occidentale’ non solo non ci ha reso più sicuri, ma è il primo responsabile del caos odierno. Dall’invasione della Libia fino alla distruzione pianificata della Siria – c’era scritto – il sistema di sicurezza occidentale ha registrato una serie di fallimenti che hanno portato alle popolazioni dei paesi membri, miliardi di euro di perdite, immigrazione fuori controllo e destabilizzazione di aree fondamentali per la sicurezza e l’economia dell’Europa”.L’alleanza atlantica veniva descritta come la causa principale dell’instabilità globale, arrivando a vagheggiare una rottura del patto: ci sarebbe ormai “una discordanza tra l’interesse della sicurezza nazionale italiana con le strategie messe in atto dalla Nato”. Per questo il M5S proponeva un “disimpegno da tutte le missioni militari della Nato in aperto contrasto con la Costituzione”. Tutti gli attacchi alla Nato sono stati eliminati, prende nota il “Foglio”. «Nella nuova versione, cambiata poco prima o poco dopo le elezioni, il passaggio più duro parla dell’“esigenza di aprire un tavolo di confronto in seno alla Nato”». Anche la parte sul Medio Oriente era una dura accusa all’Occidente: “I nostri governi hanno distrutto intere popolazioni, come quella siriana, seguendo l’interventismo occidentale della Nato, cui l’Italia ha colpevolmente prestato il fianco rompendo le relazioni diplomatiche con Damasco”. Ora è stato tolto ogni riferimento al regime di Assad e compaiono le responsabilità dei paesi arabi, che hanno “un sistema di governo a dir poco inadeguato agli standard universali”. Il capitolo sulla Russia? E’ stato emendato da alcune critiche sulle sanzioni. “L’Ue, adeguandosi agli Usa – c’era scritto – ha gradualmente imposto misure restrittive nei confronti della Russia”. Le “azioni di Mosca” in Crimea e Ucraina? Erano “volte al mantenimento della sua sfera di influenza nello spazio ex sovietico a fronte del progressivo allargamento della Nato”. Tutto sparito.Analogamente, aggiunge il “Foglio”, sono state riviste le critiche all’euro: dal passaggio-chiave iniziale (“La situazione italiana nella zona euro è insostenibile, siamo succubi della moneta unica”), il neo-programma di Di Maio approda a lidi più rassicuranti per l’establishment: “Questo non significa abbandonare perentoriamente la moneta unica”. Non che i 5 Stelle siano mai stati chiari, in materia: hanno persino cercato di approdare al gruppo iper-eurista dell’Alde a Strasburgo, senz’altro proporre – in Italia – che la vaghezza di un ipotetico referendum consultivo sulla moneta unica. Hanno sparato volentieri sull’euro, a parole, ma senza mai impegnarsi in una posizione politica ufficiale (come ad esempio quella espressa da Borghi e Bagnai, in quota Lega). Ora la retromarcia di Di Maio conferma agli elettori no-euro che sì, hanno proprio sbagliato a votare 5 Stelle. «Questi esempi – scrive il “Foglio” – riguardano solo le dieci paginette del “programma esteri”, ma vanno moltiplicati per le altre diciannove aree tematiche, più le quattro aggiunte senza alcuna votazione». Nel “programma Banche” sono state inserite proposte mai votate, dal “programma Lavoro” è stato rimosso il capitolo sui “Sindacati senza privilegi”.Ci sono programmi stravolti come quello sullo “Sviluppo economico”, sceso da 92 a 9 pagine, e altri rielaborati da capo a piedi come quello sull’agricoltura. Chi ha scritto il nuovo programma e deciso di sostituirlo a quello votato dagli iscritti? «Probabilmente Di Maio e la sua cerchia ristretta», scrive Capone. «Ma di certo il ruolo di Davide Casaleggio, che materialmente attraverso Rousseau ha cambiato i documenti, mostra come chi si è posto al di sopra di tutti non sia il “garante” della democrazia diretta ma il suo “manipolatore”». Questa manovra, che per il “Foglio” riguarda il principio più sacro (la democrazia diretta) nonché lo strumento più importante (il programma) della vita politica del partito, «svela la grande finzione del M5S e la potenza totalitaria del suo meccanismo». Aggiunge Capone: «La storia è piena di partiti che hanno tradito il programma elettorale, non è la prima volta e non sarà l’ultima. Ma qui si fa un passo ulteriore: il programma viene stravolto in segreto per far credere a militanti ed elettori che è quello che loro hanno sempre voluto e consacrato con il voto. Più che la volontà generale di Rousseau, è un sistema che ricorda la fattoria degli animali di Orwell».Due cattivoni assoluti – la guerra e l’euro – sono letteralmente spariti dalla fiaba “flessibile” dei 5 Stelle: prima delle elezioni funzionavano per ottenere voti, ma ora sono stati “sbianchettati” in funzione governativa. Della serie: perché nulla cambi, delle cose che contano davvero. Nessuno tocchi l’egemonia corrente: a contrastare i bombardamenti Usa, le sanzioni alla Russia e il dominio oligarchico di Bruxelles resta solo Salvini, visto che Di Maio, con l’ovvio placet del padrone Casaleggio, ha sostituito il programma votato dagli iscritti con un altro, assai più morbido e sfuggente sui temi che dovrebbero impegnare il “governo del cambiamento” richiesto da almeno il 55% degli italiani votanti (senza contare il 27% rimasto a casa, forse temendo di assistere esattamente a questo tipo di spettacolo post-elettorale). Il classico imbroglio? Alla faccia del “primo e unico programma politico basato sulla partecipazione e sulla democrazia diretta online grazie al sistema operativo Rousseau”. «La versione del programma elettorale attualmente disponibile sul sito del movimento è completamente diversa da quella che c’era a febbraio», scrive Luciano Capone sul “Foglio”. «Una manipolazione della volontà degli iscritti, una presa in giro degli elettori, una violazione delle regole del partito (democrazia diretta e trasparenza), la negazione della retorica sul cittadino vero “sovrano” e il politico semplice “portavoce”».
-
Giannini: farsa anti-Silvio, i 5 Stelle verso l’inciucio col Pd
Lega, 5 Stelle e Fratelli d’Italia. Ce l’avranno il coraggio di presentarsi uniti, nel caso di elezioni anticipate, visto che tra Salvini e Di Maio resta l’ingombro dell’alleato Berlusconi? L’alternativa è la peggiore: un euro-governo targato 5 Stelle, col Pd a fare da garante, di fronte a Bruxelles, per la continuità “eterna” dell’austerity. «Il rispetto del voto democratico è ormai un’utopia, perché siamo maestri nel trasformare i fatti in opinioni», premette Marco Giannini, esperto di economia vicino ai pentastellati fino al momento della loro grottesca “conversione” al super-eurismo in seno al Parlamento Europeo. Altra premessa: secondo le agenzie di stampa, Mattarella assegnerebbe l’incarico solo a figure “fedeli” alla moneta unica e «alle autolesionistiche politiche di bilancio» imposte dall’Ue, «che sono un indirizzo non solo politico-economico ma soprattutto geopolitico». Di fatto: «Indirizzi “europei” contro gli interessi del popolo italiano, come hanno lasciato intendere sia l’ex presidente della Confindustria e della Ibm tedesca Henkel, sia i principali economisti del paese teutonico». Conclude Giannini: «Rimanendo nell’euro, l’austerity è immutabile». E anche se questo «in Italia non è afferrato da tutti (se non da una minoranza qualificata)», c’è però il vero significato nel voto del 4 marzo 2018: «Se c’è una questione su cui l’80% degli italiani ha votato compatto, è quello di una ferma opposizione alle politiche di austerità».Non si sono mai viste pressioni ed urgenze così “infestanti” per sostenere «il neoliberismo finanziario, estremista e globale», che in Italia «è equivalso a recessioni finanziarie e politiche di macelleria sociale». Ebbene: «Sarà un caso, ma subito dopo la prima “udienza” al Colle, Di Maio si è sperticato in elogi e lodi verso la permanenza nell’euro, nell’Ue e nel “Patto Atlantico”», scrive Giannini in una riflessione su “Come Don Chisciotte”. Intanto le settimane passano, e i vincitori delle elezioni «non si sono ancora accordati per cambiare l’Italia», voltando pagina rispetto al rigore che ha disastrato il paese. Prima del voto, continua Giannini, la Lega aveva fatto promettere solennemente al Cavaliere che non avrebbe tradito la coalizione con un nuovo “Nazareno” col Pd, ma a sua volta si era impegnata a non abbandonare Forza Italia per i 5 Stelle. A proposito: «Di Maio lo sa che quando dice “non rifaremo un Nazareno” si riferisce in primis al Pd? Allora perché ha dichiarato che è disponibile ad allearcisi?». Non può non sapere, Di Maio, che Salvini non potrebbe mai abbandonare Berlusconi: «Quindi evidentemente non vuole allearsi con la Lega, bensì col Pd».Resta una sola possibilità, «per trasformare il voto democratico in un fatto». Questa: tornare alle urne con una inedita coalizione. «Se Lega, e 5S (e FdI) davvero vogliono governare insieme – scrive Giannini – devono riportarci al voto presentandosi coalizzati, dando il colpo di grazia a chi ci ha portato nella catastrofe negli ultimi 25 anni». In quel modo si avrebbe «una maggioranza chiara e solida, rispettosa della volontà dei cittadini stufi di alchimie e alleanze post-elettorali diverse dalle coalizioni pre-voto». Alchimie di quel genere, ricorda Gianni, «hanno sempre generato governi catastrofici (Ciampi, Dini, D’Alema, Monti, Letta, Renzi». Non sarà per per timore di questa inedita coalizione che Calenda (Pd) adesso vorrebbe governare coi 5 Stelle addirittura creando una Bicamerale per cambiare legge elettorale? Un cartello con Salvini e Meloni costringerebbe i grillini a uscire allo scoperto: si vedrebbe «se davvero vogliono governare per il paese o se Berlusconi è per loro solo una scusa per finire comodamente all’esecutivo col Pd (e la Bonino)». Per i 5 Stelle, in ogni caso, è finita l’epoca del rifiuto delle alleanze. Parlamentari neo-eletti già “affezionati” alla poltrona? Si può comprendere, ma un governo-salvezza vale ben di più.L’inedita coalizione tra Di Maio, Salvini e Meloni avrebbe anche il merito di saldare il Sud al Nord, mentre un governo 5 Stelle-Lega con l’appoggio esterno di Forza Italia «renderebbe Berlusconi l’ombelico del mondo, in un costante e strumentale malpancismo». Per Giannini, «i cittadini italiani hanno il diritto di comprendere se ciò che passano i partiti e le Tv è reale o virtuale». Ovvero: si lotta per avere al timone una guida patriottica (euroscettica) oppure euro-entusiasta e quindi anti-italiana? «Nel primo caso, al tavolo con Merkel e Macron a decidere qualità e entità della famosa clausola di uscita concordata dall’euro si siederebbe anche l’Italia». Giannini invece ha il fondato sospetto che Forza Italia e 5 Stelle «stiano in realtà collaborando, mediante i ben noti veti incrociati». Obiettivi: non farcela sedere, l’Italia, a quel tavolo, perché «Berlusconi non può inimicarsi i “mercati” che detengono azioni Mediaset, mentre i 5 Stelle non si sa se sono ancora una forza autonoma o se sono diretti da soggetti con sede a Londra (appunto, i “mercati”)». Giannini ricorda che accettammo un rapporto d’ingresso catastrofico nell’euro (990 lire per 1 marco), che resta «il vero motivo delle nostre attuali sofferenze, perché non rispecchiante la nostra economia reale».Non partecipare al nuovo tavolo europeo «sarebbe una ripetizione della storia in farsa, per la felicità dei vari global-entusiasti Napolitano, Mattarella, Merkel, Draghi, Clinton». Nel frattempo, Di Battista si agita a bordo campo definendo “male assoluto” Berlusconi? «Il forte sospetto – scrive Giannini – è che tutto ciò serva a far passare in secondo piano l’austerity come vero dramma per l’Italia e far digerire la prossima alleanza col Pd». E intanto, al grido “bisogna fare in fretta” (tanto caro a Monti, nel 2011) i media cercano di spaventare l’italiano medio, di manipolarlo e di convincerlo che nuove elezioni sarebbero una catastrofe economica. Così provano a «incatenarci altri anni all’ennesimo governo inciucista, venduto come al solito per “responsabile”». Che poi è la vera specialità del Pd, massimo garante italiano – almeno finora – dell’ordoliberismo europeo fondato sull’austerity. Ce l’avranno il coraggio, i 5 Stelle, si saltare l’ostacolo e puntare a premiare l’espressione popolare del 4 marzo, alleandosi con Salvini e Meloni? Viceversa, dimostrerebbero di essere solo la versione 2.0 del Pd, in salsa populista ma con lo stesso traguardo: rassicurare i grandi poteri neoliberisti e privatizzatori che stanno spolpando l’Italia.Lega, 5 Stelle e Fratelli d’Italia. Ce l’avranno il coraggio di presentarsi uniti, nel caso di elezioni anticipate, visto che tra Salvini e Di Maio resta l’ingombro dell’alleato Berlusconi? L’alternativa è la peggiore: un euro-governo targato 5 Stelle, col Pd a fare da garante, di fronte a Bruxelles, per la continuità “eterna” dell’austerity. «Il rispetto del voto democratico è ormai un’utopia, perché siamo maestri nel trasformare i fatti in opinioni», premette Marco Giannini, esperto di economia vicino ai pentastellati fino al momento della loro grottesca “conversione” al super-eurismo in seno al Parlamento Europeo. Altra premessa: secondo le agenzie di stampa, Mattarella assegnerebbe l’incarico solo a figure “fedeli” alla moneta unica e «alle autolesionistiche politiche di bilancio» imposte dall’Ue, «che sono un indirizzo non solo politico-economico ma soprattutto geopolitico». Di fatto: «Indirizzi “europei” contro gli interessi del popolo italiano, come hanno lasciato intendere sia l’ex presidente della Confindustria e della Ibm tedesca Henkel, sia i principali economisti del paese teutonico». Conclude Giannini: «Rimanendo nell’euro, l’austerity è immutabile». E anche se questo «in Italia non è afferrato da tutti (se non da una minoranza qualificata)», c’è però il vero significato nel voto del 4 marzo 2018: «Se c’è una questione su cui l’80% degli italiani ha votato compatto, è quello di una ferma opposizione alle politiche di austerità».
-
Molinari: serve una donna a Palazzo Chigi, dopo 71 anni
Una donna a Palazzo Chigi, per la prima volta dopo 71 anni? Nelle trattative tra i partiti per trovare una maggioranza in Parlamento si fa strada l’ipotesi di un nome super partes, in grado di sciogliere le resistenze dei diversi schieramenti sui candidati che hanno vinto le elezioni. Comincia a farsi strada l’idea di un premier donna, lanciata dal direttore della “Stampa”, Maurizio Molinari. «Per l’Italia che il 4 marzo si è recata alle urne chiedendo un forte rinnovamento della classe politica – scrive – è arrivato il momento di avere una donna alla guida del governo». Il risultato del voto non potrebbe essere più evidente, ammette Molinari, perché oltre la metà degli elettori ha votato per partiti anti-establishment. A prescindere da quale sarà la combinazione di forze che esprimerà il nuovo presidente del Consiglio, «l’opportunità di avere in Italia la prima donna premier ha un valore strategico», è addirittura «un interesse nazionale», perché «potrebbe trasformare l’entusiasmo per il voto in entusiasmo per il governo, contribuendo a rafforzare la credibilità delle istituzioni rappresentative in una stagione segnata dal loro indebolimento». E’ quasi euforico, Molinari; con una donna primo ministro «l’Italia lancerebbe un segnale folgorante».Numerosi studi, secondo Molinari, dimostrano che il ritardo nella parità di genere frena lo sviluppo economico: «Una premier in Italia sarebbe un evento-spartiacque, tale da favorire un ruolo maggiore delle donne nel sistema produttivo nazionale, con una pioggia di ricadute postive». Chi sosterrebbe l’eventuale esecutivo “in rosa”? Teoricamente le ipotesi possibili sono quattro, ricorda l’“Agi”: coalizione M5S-Lega, coalizione M5S-Pd, governo di larghe intese, coalizione M5S-centrodestra. Quali le eventuali candidate per Palazzo Chigi? Nel caso toccasse alla berlusconiana Maria Elisabetta Alberti Casellati, appena eletta a Palazzo Madama anche coi voti dei grillini, potrebbe liberarsi la presidenza del Senato per il Pd, in vista di ipotetiche larghe intese. Tradizionale riserva della Repubblica, scrive sempre l’“Agenzia Italia”, la Corte Costituzionale ha nei suoi ranghi la vicepresidente Marta Cartabia (area centrosinistra) e Daria De Pretis, ancora più a sinistra. Ma se a scegliere dovesse essere il Movimento 5 Stelle – sostiene l’“Agi” – probabilmente a Palazzo Chigi andrebbe Silvana Sciarra, che in passato ha colpito duramente la legge Fornero, costringendo le forze politiche a una sua parziale revisione. Si parla anche dell’ex ministro Paola Severino, invisa però a Berlusconi (sua la legge che l’ha reso incandidabile), e tra i nomi sempre spesi volentieri c’è quello della Bonino, «reduce sì da una delusione elettorale, ma ben attenta a non legare troppo il suo nome a quello dei democratici».Curriculum ecumenico, quello della Emma nazionale: Berlusconi la volle alla Commissione Europea, il centrosinistra alla Farnesina. «Di profilo più basso i nomi al femminile che può presentare la Banca d’Italia, anch’essa tradizionale serbatoio di premier traghettatori e super partes». La stessa “Agi” fa i nomi di dirigenti come Orietta Maria Varnelli, Franca Alacevich e Donatella Sciuto. Poi le outsider: «Deboli, almeno a momento, anche i nomi di Anna Finocchiaro, più volte indicata in passato come possibile candidata al Quirinale, e di Linda Lanzillotta. Quanto a Lucrezia Reichlin, l’economista ha uno splendido curriculum ma potrebbe risultare poco gradita a Lega e 5 Stelle: troppo tecnica, soprattutto vicina ai mondi di Bruxelles e Londra che le due formazioni dicono di non apprezzare». Archiviate la Boschi e la Boldrini, insieme a Debora Serracchiani, Beatrice Lorenzin e Daniela Santanchè, a bordo campo qualcuno avvista Mara Carfagna, o meglio ancora Anna Maria Bernini, capogruppo forzista al Senato, già candidata alla presidenza da Salvini. Debuttanti assolute, dalla cosiddetta società civile? C’è chi ricorda che i grillini volevano Milena Gabanelli, giornalista fondatrice di “Report”, addirittura al Quirinale. Ma la donna più impegnata in politica – capo di un partito – è Giorgia Meloni, battagliera leader di “Fratelli d’Italia”, costola minore della coalizione vincente alle elezioni. Non esattamente una figura di mediazione: toni sempre accesi, contro l’ignobile “burocratura” di Bruxelles.Una donna a Palazzo Chigi, per la prima volta dopo 71 anni? Nelle trattative tra i partiti per trovare una maggioranza in Parlamento si fa strada l’ipotesi di un nome super partes, in grado di sciogliere le resistenze dei diversi schieramenti sui candidati che hanno vinto le elezioni. Comincia a farsi strada l’idea di un premier donna, lanciata dal direttore della “Stampa”, Maurizio Molinari. «Per l’Italia che il 4 marzo si è recata alle urne chiedendo un forte rinnovamento della classe politica – scrive – è arrivato il momento di avere una donna alla guida del governo». Il risultato del voto non potrebbe essere più evidente, ammette Molinari, perché oltre la metà degli elettori ha votato per partiti anti-establishment. A prescindere da quale sarà la combinazione di forze che esprimerà il nuovo presidente del Consiglio, «l’opportunità di avere in Italia la prima donna premier ha un valore strategico», è addirittura «un interesse nazionale», perché «potrebbe trasformare l’entusiasmo per il voto in entusiasmo per il governo, contribuendo a rafforzare la credibilità delle istituzioni rappresentative in una stagione segnata dal loro indebolimento». E’ quasi euforico, Molinari; con una donna primo ministro «l’Italia lancerebbe un segnale folgorante».