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E’ stata la Germania a infettare l’Europa, inguaiando l’Italia
Se qualcuno non aveva ancora capito che l’Europa unita non esiste, a spiegarglielo ora provvede il coronavirus: di fronte all’emergenza sanitaria, un peso massimo come l’Italia viene lasciato completamente solo. Da Bruxelles, nessuna indicazione su come affrontare l’epidemia in modo coordinato. Ma c’è chi fa peggio: la Germania. Sarebbero stati proprio i tedeschi a infettare il resto del continente. O almeno: è tedesco il primo caso conclamato di coronavirus in Europa, ben prima del famigerato focolaio di Lodi. Ma a Berlino si sono ben guardati dal segnalarlo: e così il virus si è diffuso, estendendosi ovunque, ma lasciando alla sola Italia il ruolo pubblico dell’untore. Lo afferma Marco Pugliese, in una ricostruzione sul “Sussidiario”: potrebbe essere stato un 33enne tedesco ad avere diffuso il coronavirus in Europa. Però Berlino ha taciuto le informazioni e l’Italia ne sta pagando il prezzo. La notizia mette in imbarazzo «sua maestà la Germania». E così, «il paese più affidabile per antonomasia, in Europa, si scopre nudo». Attenti: «Mentre in Italia si litigava riguardo a quarantene e selfie in ristoranti cinesi, in Germania si consumava il fatto che avrebbe dato origine all’epidemia di coronavirus destinata a stravolgere il Belpaese».Il “paziente zero”, un uomo di 33 anni, il 20 e il 21 gennaio aveva partecipato ad un meeting a Shanghai, insieme a una collega. «La donna, in Germania dal 19 al 22 gennaio, era asintomatica. Accusò primi malori il 26 gennaio, proprio durante il volo di ritorno in Cina, e risultò positiva al virus 2019-nCov». La donna, continua Pugliese sul “Sussidiario”, informò tempestivamente i colleghi tedeschi della sua positività. Ma nel frattempo l’uomo, reduce da una breve influenza, era già rientrato al lavoro: «Fu trovato positivo, anche se ormai asintomatico». Oltre a ciò, il 28 gennaio risultarono positivi altri tre impiegati dell’azienda. «Il caso creò scalpore, per il fatto che fossero presenti soggetti privi di sintomi». Secondo Pugliese, è proprio questo «l’episodio chiave all’origine della diffusione europea». Osserva il giornalista: «Le sequenze genetiche del coronavirus ottenute dalla ricerca italiana non sono ancora numerose, ma attestano una certezza: non è colpa degli italiani se l’infezione si è diffusa». Una mappa genetica pubblicata da “nextrstrain.org” evidenzia inoltre come lo stesso caso tedesco «potrebbe essere stato all’origine di una catena di contagi, ed essere collegato a molti casi in Europa e in Italia».Le infezioni in Messico, Finlandia, Scozia e Italia, e perfino i primi casi in Brasile, appaiono geneticamente simili al focolaio di Monaco, aggiunge il “Sussidiario”. «Uno scenario totalmente capovolto, rispetto a quello narrato nell’ultimo periodo». E qui è intervenuta la grande manipolazione: la Germania ha comunicato il tutto «con una certa furbizia, giocando con le parole». Il primo contagio è stato infatti descritto come “unicum scientifico”, abilmente veicolato come “scoperta di contagio asintomatico”. «Vero, ma eludendo si trattasse d’un focolaio». Poi, tramite il ministro della salute, Berlino «ha parlato di pandemia, ma descrivendo il tutto come “problema mondiale”». Di fatto, «una narrazione in cui la Germania “scopre” e “avverte”». Falso: «In realtà ha in casa un focolaio mal controllato (e non apertamente comunicato) e delle dichiarazioni fumogene riguardo possibili pandemie». Tutto questo, «senza esporre alla dura legge del mercato la Germania, che nel frattempo non utilizzava tamponi e classificava contagi e decessi dovuti all’influenza classica, di fatto puntando la pistola fumante verso Roma».Aggiunge lo stesso Pugliese: «Molti tedeschi in ferie, soprattutto in Italia, vennero tamponati al ritorno in Germania e trovati positivi. Dando la notizia in questo modo, l’intento era di far passare gli italiani come responsabili del contagio europeo, almeno indirettamente». E così, «l’Italia «finiva sott’acqua, con un Conte incredulo e frastornato dinanzi all’aumento dei casi, con il governo in discussione e sotto accusa. Il crollo in Borsa ha fatto il resto: «Mercati e mezzo mondo hanno iniziato a sfiduciare il paese, all’improvviso solo e considerato poco affidabile». E’ stata «una narrazione tremenda, che ha fatto crollare l’economia italiana tramite uno scossone peggiore a quello dovuto all’11 Settembre». Hanno vinto i “furbi”: «Germania (e anche Francia) hanno continuato con una politica mediatica d’omissione, che di rimbalzo ha portato l’Italia sull’orlo del baratro». Il governo tedesco? «Non ha solo cercato di contenere il morbo, ma anche il nefasto effetto economico prodotto dall’immagine di un “paese in quarantena”. Dopo la scoperta del “paziente zero”, anche l’Ecdc (European center for disease prevention and control), infatti, lascia intendere che anche altri Stati Ue siano già nello stessa situazione dell’Italia ma non lo dicano».Ora, riassume Pugliese, non interessa colpevolizzare chi s’ammala e diffonde, ma sottolineare «una pessima quanto faziosa comunicazione europea, che in aggiunta a qualche errore del nostro governo ha trasformato l’Italia nella nazione untrice per antonomasia (una situazione simile alla Cina)». L’Italia si è vista quindi caricata di un doppio fardello: «Da una parte contenere il virus con misure forti, dall’altra evitare di passare come “grande focolaio europeo”, a tutto discapito della salute e della Borsa». Uno scenario deleterio, conclude il “Sussidiario”, da cui in queste ore si sta cercando di uscire «grazie ad uno studio che di fatto scagiona il nostro paese, ma ci fa capire quanto la Ue sia in pezzi», visto che «quel che ha subito l’Italia avrebbe potuto essere evitato». Una Ue sempre più in frantumi e una Germania non proprio affidabile: «Sono le due certezze partorite da questa crisi, che è sempre più logorante». Ma perché a pagare è sempre l’Italia? «Perché è il paese più giovane di tutti», sostiene Gianfranco Carpeoro, saggista, su YouTube: «Siamo una nazione unita solo da 150 anni. Prima, gli abusi stranieri sulla penisola erano ancora peggiori». Ma l’Ue non dovrebbe impedire tutto questo? «Certo, se solo esistesse: ma una vera Unione Europea non è mai nata».Se qualcuno non aveva ancora capito che l’Europa unita non esiste, a spiegarglielo ora provvede il coronavirus: di fronte all’emergenza sanitaria, un peso massimo come l’Italia viene lasciato completamente solo. Da Bruxelles, nessuna indicazione su come affrontare l’epidemia in modo coordinato. Ma c’è chi fa peggio: la Germania. Sarebbero stati proprio i tedeschi a infettare il resto del continente. O almeno: è tedesco il primo caso conclamato di coronavirus in Europa, ben prima del famigerato focolaio di Lodi. Ma a Berlino si sono ben guardati dal segnalarlo: e così il virus si è diffuso, estendendosi ovunque, ma lasciando alla sola Italia il ruolo pubblico dell’untore. Lo afferma Marco Pugliese, in una ricostruzione sul “Sussidiario”: potrebbe essere stato un 33enne tedesco ad avere diffuso il coronavirus in Europa. Però Berlino ha taciuto le informazioni e l’Italia ne sta pagando il prezzo. La notizia mette in imbarazzo «sua maestà la Germania». E così, «il paese più affidabile per antonomasia, in Europa, si scopre nudo». Attenti: «Mentre in Italia si litigava riguardo a quarantene e selfie in ristoranti cinesi, in Germania si consumava il fatto che avrebbe dato origine all’epidemia di coronavirus destinata a stravolgere il Belpaese».
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Big Pharma ringrazia il coronavirus, “previsto” da Bill Gates
Chi guadagna dalla diffusione della paura da contagio? I colossi farmaceutici privati quotati in Borsa. Per appurarlo basta osservare gli andamenti borsistici. Chi aveva puntato i propri investimenti, per fare un esempio, su trasporti aerei o aziende che fondano la propria attività sul turismo (migliaia i voli cancellati), è indotto a venderle e comprare azioni di istituti che mostrano di impegnarsi nel settore della ricerca di vaccini contro il virus. Le azioni di Vir Biotechnologies, ad esempio, fondata nel 2016, che sviluppa trattamenti per le malattie infettive, dall’inizo del 2020 ha visto il valore delle proprie azioni crescere del 97%, con conseguente impennata della capitalizzazione dell’azienda che è arrivata a ben 3 miliardi di dollari. L’offerta di azioni Vir è guidata da Goldman Sachs, Jp Morgan Chase, Cowen e Barclays. Le azioni sono negoziate su Nasdaq Global Select Market venerdì con il simbolo Vir. Come Vir, Inovio Pharmaceuticals, Moderna e Novavax. Quest’ultima ha registrato un rialzo del 113%. La Coalizione for Epidemic Preparedness Innovations, ente non profit pubblico-privato con sede in Norvegia, ha donato 11 milioni di dollari in finanziamenti alle prime due per incentivarle a sviluppare vaccini contro il coronavirus. Il Pirbright Institute per la prevenzione e il controllo delle malattie virali ha ricevuto cospicui finanziamenti dalla Bill & Melinda Gates Foundation.
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Guerra ai cavi sottomarini: lì c’è il 97% delle informazioni
Si crede, erroneamente, che le comunicazioni oggi viaggino per la maggior parte attraverso l’etere, via segnali radio o via satellite. Nulla di più sbagliato: il 95-97% delle informazioni scorre attraverso una fitta rete di cablaggi che corrono per più di 1,2 milioni di chilometri tra tutti i continenti. Ai satelliti è devoluto il compito – in condizioni normali – di trasmettere solo la restante percentuale, pari circa al 3-5%. Fondale oceanico strategico, e non da oggi: nel 1971, gli Usa riuscirono a intercettare le informazioni di un cavo nel Mare di Okhotsk, nell’estremo oriente dell’Unione Sovietica, tra la Kamchatka (con installazioni militari sovietiche segrete tra cui la base navale di Petropavlovsk) e Vladivostok, sede della Flotta Rossa del Pacifico. Nel 2015, al largo di Cuba, gli Usa rilevarono un’anomala presenza di sottomarini russi attorno alla nave-spia Yantar: obiettivo della Yantar, monitorare i cavi oceanici che collegano il continente nordamericano ai Caraibi e al Sudamerica. Lo racconta Paolo Mauri, nell’inserto “InsideOver” del “Giornale”. Tema: quei misteriosi cavi sommersi. «La prossima guerra sarà per il fondale degli oceani: il primo colpo sarà inferto ai cavi sottomarini». Invisibili, ma decisivi: «Questo tipo di infrastrutture sta conoscendo uno sviluppo esponenziale, supportato da una pioggia di dollari».Nel solo 2017, scrive Mauri, la domanda globale di larghezza di banda dei cablaggi sottomarini è aumentata del 57%. Si è aperto così un mercato – quello della posa di nuovi cavi – in cui le industrie del web si sono gettate a capofitto con miliardi di investimenti. «Storicamente i cavi sono di proprietà di compagnie private, di solito telefoniche, che affittavano l’utilizzo degli stessi a Google, Microsoft e alle altre società di Internet. Ora sono proprio i colossi di Internet a costruire e posare i cablaggi: a partire dal 2016 c’è stato un vero e proprio boom di posa di cavi da parte di Google, Facebook, Amazon e Microsoft». A farla da padrone, aggiunge Mauri, è proprio il motore di ricerca più famoso del mondo: Google ha posato 100.000 chilometri di cavi, seguito da Facebook (91.000), Amazon (30.000) e Microsoft (6.000). «Solo cinque anni fa, queste aziende del web, insieme, arrivavano a malapena al 5% delle quote di mercato nella zona dell’Atlantico del Nord, dove si ha il maggior volume di traffico essendo la via che collega l’Europa all’America. Ma entro 3 o 4 anni, stante gli attuali investimenti, arriveranno al 90%». Le grandi compagnie americane, però, non sono più le sole a gestire la rete dei cablaggi intercontinentali: anche in questo campo sta facendo il suo preponderante ingresso la Cina.Attraverso Huawei, continua “InsideOver”, Pechino sta lavorando per cercare di contrastare il monopolio americano, spesso consorziandosi anche con le stesse aziende Usa. Ma attualmente si trova in difficoltà proprio a causa della politica di Trump: Huawei Submarine Systems era stata messa in lista nera dall’amministrazione Usa prima di aver ceduto la propria attività nel settore ad un altro gruppo, la Hengtong. «Del resto – annota sempre Mauri – i progetti di sviluppo, come gli investimenti, sono enormi: Facebook e Google hanno in costruzione, insieme a China Mobile, il Pacific Light Cable Network che collegherà Los Angeles a Hong Kong, mentre sempre Facebook e Microsoft sono consociate per Marea, il cavo che connetterà gli Stati Uniti all’Europa attraverso due stazioni in Virginia e a Bilbao, in Spagna». Attraverso la sua divisione Marine Network and Co, Huawei ha in cantiere anche il gigantesco progetto Peace, acronimo di Pakistan and East Africa Connecting Europe: «Una rete di cablaggi che collegherà l’Asia all’Europa passando per l’Africa: una manifestazione “informatica” della Nuova Via della Seta fortemente voluta dal presidente Xi Jinping».La politica dei giganti mondiali, sottolinea Mauri, passa attraverso la gestione del traffico dei dati che percorrono i cablaggi sottomarini: stante la mole di dati finanziari, personali e militari che viaggia attraverso questi mezzi, «è impensabile che i governi delle tre grandi potenze mondiali (Usa, Russia e Cina) non abbiano in essere un qualche piano strategico che ne preveda non solo la gestione, ma anche la possibilità di minarli e sabotarli in caso di conflitto». L’attività di sabotaggio, infatti, è molto più semplice e meno dispendiosa rispetto all’attività di spionaggio: «La rete di cavi, sebbene sia posata mediamente a elevata profondità, è comunque vulnerabile grazie alla possibilità di venire raggiunta in modo discreto da un qualsiasi sottomarino o batiscafo, e soprattutto perché la mappatura dei cablaggi è di pubblico dominio». Certo, una singola interruzione potrebbe essere aggirata dall’ampiezza della rete, ormai estesa, «ma un attacco contemporaneo su vasta scala metterebbe in ginocchio la rete di un paese e potrebbe addirittura escluderlo dalla possibilità di contattare tempestivamente i suoi comandi più periferici o quelli dislocati in altri continenti».Secondo Mauri, basterebbe disporre sui cavi dei dispositivi di disturbo, o addirittura delle cariche esplosive azionabili a comando. E se le cariche venissero poste sulla maggior parte dei cavi, o sulla totalità di cavi che, ad esempio, collegano il Nord America all’Europa? Se venissero azionate nello stesso momento, «ci sarebbe il caos immediato dai due lati dell’Atlantico, con le reti aeree e satellitari che, a causa della ridotta larghezza di banda, collasserebbero in poco tempo, provocando probabilmente l’isolamento dei comandi militari e il panico nei mercati finanziari». Allo scopo, non servirebbero chissà quali strumenti fantascientifici: «Le marine militari di Russia, Stati Uniti, e forse anche quella cinese, hanno già in servizio sottomarini particolari che, tra gli altri compiti, hanno anche quello del sabotaggio e dello spionaggio dei cablaggi sottomarini». Nell’Us Navy c’è in servizio il Jimmy Carter, della classe Seawolf, un vascello per operazioni speciali come sorveglianza, intelligence e ricognizione. E’ in grado di gestiore mini-batiscafi a pilotaggio remoto, utilizzabili per missioni rivolte verso i cablaggi oceanici. Idem per la Voenno Morskoj-flot, la Flotta Russa: «Esistono diverse unità in grado di operare ad elevata profondità o comunque in grado di fungere da “nave madre” per batiscafi più piccoli».Uno di questi è passato alla ribalta delle cronache recentemente, ricorda Mauri, a causa di un incidente mortale che ha subito durante una missione effettuata nelle acque del Mare di Barents: si tratta del batiscafo As-12 Losharik, in grado di raggiungere i 6.000 metri di profondità. Inquadrato nella Flotta del Nord, dipende però dal Gru (il servizio informazioni militari russo). «Secondo le fonti ufficiali russe – scrive “InsideOver” – al momento dell’incidente l’unità stava effettuando rilevamenti batimetrici, ma la zona di operazioni era particolarmente vicina a dei cavi sottomarini che dalla Norvegia arrivano alle isole Svalbard, recentemente giunte alla ribalta delle cronache per essere al centro dell’attenzione della Nato in chiave del contenimento della Russia e del controllo di quella importante parte dell’Artico». Secondo Mauri, quindi, appare evidente «come sia diventato fondamentale non solamente il controllo del mercato dei cablaggi, la gestione degli stessi, o anche l’attività di sorveglianza e spionaggio, ma soprattutto l’attività di sabotaggio e distruzione di quelli del nemico: «In caso di conflitto sarebbero tra i primissimi obiettivi di un primo colpo, anche precedente ad un primo attacco nucleare».Si crede, erroneamente, che le comunicazioni oggi viaggino per la maggior parte attraverso l’etere, via segnali radio o via satellite. Nulla di più sbagliato: il 95-97% delle informazioni scorre attraverso una fitta rete di cablaggi che corrono per più di 1,2 milioni di chilometri tra tutti i continenti. Ai satelliti è devoluto il compito – in condizioni normali – di trasmettere solo la restante percentuale, pari circa al 3-5%. Fondale oceanico strategico, e non da oggi: nel 1971, gli Usa riuscirono a intercettare le informazioni di un cavo nel Mare di Okhotsk, nell’estremo oriente dell’Unione Sovietica, tra la Kamchatka (con installazioni militari sovietiche segrete tra cui la base navale di Petropavlovsk) e Vladivostok, sede della Flotta Rossa del Pacifico. Nel 2015, al largo di Cuba, gli Usa rilevarono un’anomala presenza di sottomarini russi attorno alla nave-spia Yantar: obiettivo della Yantar, monitorare i cavi oceanici che collegano il continente nordamericano ai Caraibi e al Sudamerica. Lo racconta Paolo Mauri, nell’inserto “InsideOver” del “Giornale“. Tema: quei misteriosi cavi sommersi. «La prossima guerra sarà per il fondale degli oceani: il primo colpo sarà inferto ai cavi sottomarini». Invisibili, ma decisivi: «Questo tipo di infrastrutture sta conoscendo uno sviluppo esponenziale, supportato da una pioggia di dollari».
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Sardine e Gretini distraggono l’Italia dallo sfacelo del paese
Tutta l’attenzione mediatica è concentrata su Sardine e gretini. Lo scopo è fin troppo evidente. Portare l’antifascismo e l’antirazzismo nelle piazze, in assenza di fascismo e di razzismo, per criticare chi al momento è all’opposizione. L’esperimento è politicamente interessante per la sua originalità. Poiché la maggioranza è politicamente insistente, non resta altro per difenderla che scendere in piazza… contro l’opposizione. Il fatto che Alitalia, ex-Ilva e Popolare di Bari siano in bancarotta, che la manovra economica di bilancio sia nel caos e così la ratifica del Trattato del “Fondo SalvaStati” tutto questo è di secondaria importanza. Il Pil italiano è sempre a crescita zero (+0,1% secondo le stime) e così l’inflazione, per cui il Pil in euro aumenta di solo 4 miliardi da un anno all’altro e anche solo un piccolo deficit del 2,1% (35 miliardi), fa aumentare il debito di 30 miliardi circa. Ma il problema dei “nuovi partigiani” è fermare la feroce bestia fascista. Un linguaggio di vero amore e di pace. Del resto possono contare sul fatto che nonostante questo governo sia non il vuoto, ma il sottovuoto spinto non accade nulla di tragico, a parte gli operai in cassa integrazione per Natale, ma di questo non frega un cazzo a nessuno.Lo “spread”, nonostante il pagliaccio di turno ogni tanto provi a fare allarmismo, si comporta bene perché i Btp la settimana scorsa sono saliti di 4 punti, più di ogni altro bond al mondo e la borsa italiana è salita del 18% da agosto, migliore Borsa al mondo. Nel mondo di oggi se il mercato finanziario tira i politici si sentono al sicuro e viceversa, basta vedere Trump che saluta ogni rialzo del Dow Jones. Nonostante quindi la produzione industriale stia di nuovo calando, l’andamento del Pil italiano sia il peggiore dell’Ocse, Alitalia, Ilva e Popolare di Bari siano da salvare e la manovra sia nel caos più totale, il governo galleggia. Bisogna ricordare che il governo Berlusconi nel 2011 aveva di fronte una situazione economica migliore di quella di oggi e lo stesso fu costretto a dimettersi solo perché le quotazioni dei Btp erano scese sui mercati di 20 o 30 punti (lo spread consiste appunto in questo calo dei prezzi dei Btp). Il mercato finanziario per ora è benigno per cui il governo può tirare a campare. L’incognita è il M5S perché più di metà dei suoi parlamentari sa che non verrà rieletto stando ai sondaggi e sta cominciando quindi un esodo verso Salvini, che può invece farli rieleggere.Se il M5S lascia tutta la politica economica nelle mani di Gualtieri e del Pd si suicida del tutto, lentamente magari perché appunto lo “spread” al momento è sotto controllo, ma il caos su Ilva, Popolare di Bari, Alitalia, sul Mes e su una manovra di bilancio fatta di piccole tasse lo logoreranno anche se è al governo. In effetti ci sono segni di irrequietudine tra i parlamentari, tra i quali ad esempio la maggioranza di loro ha firmato un disegno di legge promosso da Pino Cabras per introdurre una “moneta fiscale” sotto forma di “certificati di compensazione fiscale” (cioè detrazioni fiscale che si possono scambiare, come abbiamo illlustrato in precedenti articoli). L’importo non è indicato nel disegno di legge, lasciandolo decidere al ministro dell’economia, ma in tutte le elaborazioni, si parla da un minimo di 20 miliardi ad un massimo di 60 miliardi l’anno, quindi qualcosa di rilevante. Assieme a Cabras a sostenere la proposta c’erano, del M5S, Mario Turco (sottosegretario della Presidenza del Consiglio con delega alla programmazione economica) e Steni Di Piazza (sottosegretario del ministero del lavoro). Inutile dire che la proposta è interessante e potrebbe essere fatta oggetto di discussione anche dalla Lega, ora che Salvini pare vestire i panni del responsabile pronto al dialogo nell’interesse del paese. Ma c’è da fidarsi?In questi giorni sulla piattaforma “Rousseau” c’è stata una votazione per decidere un team di “facilitatori” che affiancheranno Di Maio sui vari temi. Il Movimento doveva completare la sua trasformazione in partito ed ecco quindi la sua segreteria. Il vice di Di Maio è una donna di Casaleggio, Enrica Sabatini. Sappiamo che il tutto ha poco senso, perché basta un “belin” di Grillo per far cadere tutto. Ma sappiamo anche che a Grillo interessa solo portare al Quirinale Romano Prodi, per fare un dispetto a Renzi. Del resto non gliene frega più un cazzo. Ma soffermiamoci su un punto. Per l’economia c’erano 3 team e ha vinto quello del senatore Presutto che propone di ridurre il debito pubblico come priorità, mentre il team che proponeva la “moneta fiscale”, del tutto in linea con il disegno di legge presentato dal M5s, è stato bocciato. Il punto è sempre lo stesso. Il M5S sostiene tutto e il contrario di tutto. Come si fa a proporre un “comitato di salvezza nazionale” in queste condizioni? Mille sono i rischi e con quale guadagno?(Paolo Becchi e Giovanni Zibordi, “Sardine, gretini e 5 Stelle allo sbando, e intanto il paese va a picco”, da “Libero” del 17 dicembre 2019; articolo ripreso dal blog di Becchi).Tutta l’attenzione mediatica è concentrata su Sardine e gretini. Lo scopo è fin troppo evidente. Portare l’antifascismo e l’antirazzismo nelle piazze, in assenza di fascismo e di razzismo, per criticare chi al momento è all’opposizione. L’esperimento è politicamente interessante per la sua originalità. Poiché la maggioranza è politicamente insistente, non resta altro per difenderla che scendere in piazza… contro l’opposizione. Il fatto che Alitalia, ex-Ilva e Popolare di Bari siano in bancarotta, che la manovra economica di bilancio sia nel caos e così la ratifica del Trattato del “Fondo SalvaStati” tutto questo è di secondaria importanza. Il Pil italiano è sempre a crescita zero (+0,1% secondo le stime) e così l’inflazione, per cui il Pil in euro aumenta di solo 4 miliardi da un anno all’altro e anche solo un piccolo deficit del 2,1% (35 miliardi), fa aumentare il debito di 30 miliardi circa. Ma il problema dei “nuovi partigiani” è fermare la feroce bestia fascista. Un linguaggio di vero amore e di pace. Del resto possono contare sul fatto che nonostante questo governo sia non il vuoto, ma il sottovuoto spinto non accade nulla di tragico, a parte gli operai in cassa integrazione per Natale, ma di questo non frega un cazzo a nessuno.
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La Fiat riapre, ma in Marocco. E Conte le regala 136 milioni
Sapete benissimo che la Fca, ex Fiat, non è più una società italiana, da anni. Ha la sede legale ad Amsterdam, in Olanda. Ha la sede fiscale nel Regno Unito e quindi paga le tasse a Londra, pur di non pagarle in Italia, ed è quotata alla Borsa di New York. Sapete anche che sta per fondersi, anzi per essere rilevata da una società francese di automotive, la Psa (Citroen-Peugeot), all’interno della quale c’è lo Stato francese. Ebbene, sapete che cosa ha fatto il ministero dello sviluppo economico, nella serata del 26 novembre? Attenti: per chi non paga le tasse in Italia, per chi ha portato all’estero le produzioni, per chi se ne fotte degli operai italiani (perché non gli dà lavoro, glielo sottrae, e li mette in cassa integrazione a spese non della Fiat, ma nostre), be’, il ministero dello sviluppo economico di questo governo ha stanziato 27 milioni di euro di agevolazioni per il gruppo Fca. Ripeto: agevolazioni per 27 milioni di euro. Ma l’investimento complessivo di questo accordo, che è stato firmato tra il ministero ed Fca, non prevede solo questi 27 milioni della prima tranche, ma ben 136,6 milioni di euro, tra il 2019 e il 2022. Quindi, tra pochi mesi, noi regaleremo un pacco di milioni a una società francese. E li stiamo già dando a una società che non paga neanche le tasse in Italia.I primi 27 milioni forniti dal ministero, hanno subito detto in una nota, serviranno all’acquisto di macchinari per l’aggiornamento degli impianti. Ma quanto ci vuole, per acquistare un macchinario, farlo arrivare e aggiornarlo? Ci vogliono un po’ di mesi. E tra poche settimane, questi soldi verrano dati a una società francese, la quale se ne sbatterà delle esigenze italiane e incasserà questi soldi. E attenzione: mentre arrivano questi nostri milioni, 27 subito e gli altri (fino a 136,6 milioni) entro il 2022, Fca ha annunciato che, insieme a Peugeot-Psa, apre una fabbrica italiana in… Marocco! Non in Basilicata o in Campania: in Marocco. E la notizia ha destato un grande entusiasmo da parte dell’industria, del commercio e dell’economia marocchina. Esulta il signor Moulay Hafid Elalamy, uomo d’affari marocchino: il Marocco si prende una nuova fabbrica della Fiat. A rivelarlo non sono giornali italiani, ma il quotidiano economico francese “Les Échos”. Ecco quindi una duplice beffa: abbiamo regalato dei milioni di euro ai francesi, i quali per tutta risposta – insieme al loro amico John Elkann – apriranno una fabbrica in Marocco.Questo è il massimo, se uno pensa alla famosa frase di Stefano Ricucci, “so’ capaci tutti de da’ i froci cor culo degli altri”: in questo caso con il nostro, e soprattutto con i soldi nostri. Complimenti quindi al ministro dello sviluppo economico, complimenti a John Elkann. E complimenti a tutti noi, che stiamo per pagare la seconda rata delle tasse, cui poi seguirà l’Imu, eccetera. Noi almeno le tasse in Italia le paghiamo, questi non le pagano: ammesso che lo facciano, le pagano a Londra o in Lussemburgo. Noi gli regaliamo 27 milioni di euro (anzi, in totale 136,6), e loro aprono lo stabilimento, con i francesi, in Marocco. Questo è il paese delle banane: non il Marocco, ma l’Italia. I 5 Stelle, ora di fronte anche al Mes? Mi meraviglio del fatto che un movimento che aveva promesso di aprire la scatoletta del tonno sia diventato più tonno del tonno. La cosa più incredibile è che si regalino milioni ad Fca proprio in un momento come questo.(Gigi Moncalvo, dichiarazioni rilasciate nella rubrica “Silenzio stampa” della trasmissione web-radio “Forme d’Onda” il 28 novembre 2019. L’attuale ministro dello sviluppo economico, citato da Moncalvo, è il grillino Stefano Patuanelli).Sapete benissimo che la Fca, ex Fiat, non è più una società italiana, da anni. Ha la sede legale ad Amsterdam, in Olanda. Ha la sede fiscale nel Regno Unito e quindi paga le tasse a Londra, pur di non pagarle in Italia, ed è quotata alla Borsa di New York. Sapete anche che sta per fondersi, anzi per essere rilevata da una società francese di automotive, la Psa (Citroen-Peugeot), all’interno della quale c’è lo Stato francese. Ebbene, sapete che cosa ha fatto il ministero dello sviluppo economico, nella serata del 26 novembre? Attenti: per chi non paga le tasse in Italia, per chi ha portato all’estero le produzioni, per chi se ne fotte degli operai italiani (perché non gli dà lavoro, glielo sottrae, e li mette in cassa integrazione a spese non della Fiat, ma nostre), be’, il ministero dello sviluppo economico di questo governo ha stanziato 27 milioni di euro di agevolazioni per il gruppo Fca. Ripeto: agevolazioni per 27 milioni di euro. Ma l’investimento complessivo di questo accordo, che è stato firmato tra il ministero ed Fca, non prevede solo questi 27 milioni della prima tranche, ma ben 136,6 milioni di euro, tra il 2019 e il 2022. Quindi, tra pochi mesi, noi regaleremo un pacco di milioni a una società francese. E li stiamo già dando a una società che non paga neanche le tasse in Italia.
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Il Vaticano socio di Lapo Elkann, soldi dall’Obolo di S.Pietro
«Le vie della finanza sono infinite. Una in particolare dal Vaticano porta all’isola di Malta. Seguendola si scopre che, attraverso un fondo basato a La Valletta, la Segreteria di Stato a febbraio è diventata socia di Lapo Elkann nella sua azienda di occhiali e “prodotti lifestyle”, Italia Independent». Lo scrivono Mario Gerevini e Fabrizio Massaro sul “Corriere della Sera”. E non è tutto: un affare da 10 milioni è stato concluso il 30 settembre con Enrico Preziosi, industriale dei giochi e patron del Genoa calcio. E oltre 4 milioni sono serviti a finanziare la produzione di film come l’ultimo “Men in Black” e la biografia di Elton John, “Rocketman”. «Sono alcuni dei tanti rivoli di investimento nei quali si disperdono le offerte che ogni anno arrivano dai fedeli all’Obolo di San Pietro», scrive il “Corriere”, secondo cui «i segreti del fondo non finiscono qui», e verifiche sono in corso anche da parte della magistratura del Papa. Secondo quelle che il primo quotidiano italiano definisce fonti attendibili, i capitali affidati al Centurion Global Fund «sono almeno per due terzi della Segreteria di Stato, ovvero il dicastero più importante e più vicino a Papa Francesco».Al vertice del fondo c’è un italiano residente in Svizzera, Enrico Crasso, 71 anni. Ex banchiere del Credit Suisse, titolare a Lugano di Sogenel Holding (punto di riferimento di molte operazioni finanziarie), Crasso ha gestito la cassaforte del Vaticano. «Per questo – scrive il “Corriere” – ha ricevuto numerose lettere formali di ringraziamento dalla Segreteria di Stato e l’onorificenza della medaglia d’oro del Pontificato», oltre a «milioni di euro di commissioni». Da qualche mese, dentro le Mura vaticane, la sua stella si sarebbe appannata, «ma a Malta è sempre lui a decidere dove investire i soldi del Papa», sostengono Gerevini e Massaro. «Con il fondo Centurion – scrivono – Crasso ha raccolto circa 70 milioni di euro pilotandoli verso immobili, bond, azioni e altri fondi. Non sempre liquidi, non sempre sicuri e talvolta anche speculativi». Spicca tra tutti l’ingresso nella società di Lapo Elkann, Italia Independent. «Il fondo maltese con capitali vaticani ha sottoscritto nuove azioni a 2,35 euro, diventando con 6 milioni di euro secondo socio al 25%». Lo stesso Crasso è entrato nel Cda, aggiunge il “Corriere”. «In Borsa però il titolo vale 1,7 euro. Per ora, un affare in perdita».A settembre, pochi giorni prima che esplodesse lo scandalo dell’acquisto del palazzo di Sloane Avenue a Londra (gestito dal finanziere Raffaele Mincione insieme a Crasso, secondo il “Corriere”), il Vaticano ha definito il dossier Preziosi. Centurion ha acquisito per 10 milioni i 14% di New Deal, società in cui Enrico Preziosi aveva appena conferito l’11,7% di Giochi Preziosi. «È come se Centurion avesse comprato l’1,67% del gruppo dei giocattoli», annota il “Corriere”: «Bonifico dalla svizzera Banca Zarattini, contratto del 30 settembre». Con una clausola: il venditore (Preziosi) «si adopererà per collocare in Borsa Giochi Preziosi entro il 31-12-2020 in modo da consentire alla società di beneficiare del ricavato del collocamento». La cosa, «messa così, sembra un prestito», osservano Gerevini e Massaro: «E se poi in Borsa non ci andrà?». Secondo il “Corriere”, lo stesso Crasso punta anche sull’acqua: Centurion ha investito 4,7 milioni di euro in Cristallina Holding, che ha rilevato l’Acqua Pejo e Goccia di Carnia, insieme con altri soci italiani come la holding della famiglia Borromeo. Ma non manca la new economy: «A ottobre 2018 Centurion ha rilevato il 10% di Abbassalebollette, una startup che offre soluzioni via Internet per risparmiare sulle bollette di luce e gas».Sessantamila euro di giro d’affari nel 2018 e 39.000 di perdita, per Abbassalebollette. Prezzo per la quota: circa 1,27 milioni. «Se andasse male, in Vaticano potranno chiederne conto al presidente di Snam, Luca Dal Fabbro, che è ben introdotto nella Segreteria del Papa. Abbassalebollette è della sua fa miglia». Poi c’è il mattone: «Con 16 milioni Centurion ha rilevato la sede italiana del colosso svizzero-svedese Abb. Ad oggi è l’investimento più grande del fondo». Altri 4,5 milioni – continua il “Corriere” – sono andati nel bond di una piccola società romana, la Bdm Costruzioni e Appalti della famiglia Marronaro, che li avrebbe utilizzati per rilevare la Immobiliare Grotta 1973 delle famiglie Ceribelli-Barluzzi. Perché queste scelte? E che rapporti ci sono tra la Segreteria e i veicoli di Crasso, Centurion e Sogenel? «Ci sono indagini in corso e, allo stato attuale, gli elementi utili a definire la posizione della Santa Sede rispetto ai fondi menzionati e ad eventuali altri sono in via di accertamento ad opera della magistratura vaticana, in collaborazione con le competenti autorità», è la dichiarazione rilasciata via mail dalla sala stampa vaticana. Per ora, Crasso non rilascia dichiarazioni. A fine 2018, il fondo perdeva circa 2 milioni, «in gran parte finiti ai manager come commissioni», chiosa il “Corriere”: «Un obolo al contrario».«Le vie della finanza sono infinite. Una in particolare dal Vaticano porta all’isola di Malta. Seguendola si scopre che, attraverso un fondo basato a La Valletta, la Segreteria di Stato a febbraio è diventata socia di Lapo Elkann nella sua azienda di occhiali e “prodotti lifestyle”, Italia Independent». Lo scrivono Mario Gerevini e Fabrizio Massaro sul “Corriere della Sera“. E non è tutto: un affare da 10 milioni è stato concluso il 30 settembre con Enrico Preziosi, industriale dei giochi e patron del Genoa calcio. E oltre 4 milioni sono serviti a finanziare la produzione di film come l’ultimo “Men in Black” e la biografia di Elton John, “Rocketman”. «Sono alcuni dei tanti rivoli di investimento nei quali si disperdono le offerte che ogni anno arrivano dai fedeli all’Obolo di San Pietro», scrive il “Corriere”, secondo cui «i segreti del fondo non finiscono qui», e verifiche sono in corso anche da parte della magistratura del Papa. Secondo quelle che il primo quotidiano italiano definisce fonti attendibili, i capitali affidati al Centurion Global Fund «sono almeno per due terzi della Segreteria di Stato, ovvero il dicastero più importante e più vicino a Papa Francesco».
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Macché nozze, gli Agnelli hanno venduto la Fiat alla Francia
«Ma quali nozze? Quello tra Peugeot-Psa e Fca non è un matrimonio, ma una compravendita. I francesi hanno acquistato un’azienda americana perché interessati al marchio Jeep-Ram e gli azionisti di Fiat-Chrysler hanno ricevuto una barca di soldi. Però nessuno si stupisca quando il ceo del nuovo gruppo, Carlos Tavares, dovendo fare tagli privilegerà gli impianti d’Oltralpe e quelli tedeschi: il suo azionista si chiama Emmanuel Macron e con la cancelliera Angela Merkel per Opel ha un accordo che blocca ogni licenziamento e che durerà almeno fino al 2023. Il quartier generale sarà a Parigi, la sede fiscale ad Amsterdam. E l’Italia? E Torino? Ne escono sconfitte stupidamente, continuando a fare finta che la Fiat Auto non sia morta, invece lo è dal 2009. A Torino è rimasta una targa e quattro stabilimenti-cacciavite». Così parla Riccardo Ruggeri, ex top manager di corso Marconi e acuto saggista, intervistato da Stefano Rizzi per “Lo Spiffero”, giornale online diretto dal torinese Bruno Babando. «A Torino – ricorda Rizzi – Riccardo Ruggeri è nato 84 anni fa, infanzia in una portineria di 15 metri quadrati dove i genitori abitavano con i nonni e lui dormiva su una brandina in cucina». Figlio e nipote di operai, Ruggeri cominciò proprio come operaio a Mirafiori, per poi diventare impiegato e infine dirigente, al vertice del colosso New Holland: per anni è stato «uno dei top manager più vicini all’Avvocato».Consulente di livello internazionale, ma anche voce dura e spesso fuori dal coro, capace di analisi affilate. Qualcuno, annota Rizzi, gli dato pure del populista, quando ha «imbroccato con buon anticipo lo scenario che si sarebbe verificato con quel matrimonio, che tale non è». Aggiunge il giornalista: Ruggeri «sa che a molti non piace che qualcuno scriva quel che poi si avvera, ma lui lo fa lo stesso da almeno dieci anni». Come mai, dunque, la Fiat sarebbe “morta” un decennio fa? «Bisogna partire proprio da lì, per capire quelle che con un’altra finzione continuano ad essere definite nozze tra Peugeot e Fca», premette Ruggeri. «Intanto non è vero che Fiat fosse tecnicamente finita quando arrivò Sergio Marchionne nel 2004», aggiunge l’ex manager. Il fattaccio «succede invece nel 2009, quando Moody’s taglia il rating e declassa il titolo a spazzatura». Finanza, dunque. «Due mesi dopo il presidente degli Stati Uniti Obama si trova nella situazione di dover salvare Chrysler. Tutti gli altri costruttori del mondo avevano declinato la richiesta, rimaneva solo Fiat. E salvando Chrysler ha salvato Fiat. Prese una decisione che i nostri finti liberisti non avrebbero mai preso». Per Riccardo Ruggeri, in Italia questo non sarebbe potuto accadere: «Il governo italiano faceva finta che la Fiat non fosse di fatto fallita, non ha voluto metterci quattrini e di conseguenza ce li ha messi Obama».Insiste Ruggeri: è stato Obama ad affidare il gruppo «a una persona straordinaria come Marchionne», al quale ha detto di fare gli interessi dell’azionista. «E Marchionne lo ha fatto». Per Ruggeri, Marchionne «si è reso conto che non c’erano possibilità di risanamento». E così, «da quel momento ha smesso di fare il manager ed è diventato un “deal maker”», cioè un operatore finanziario «abilissimo a fare il massimo interesse degli azionisti, che non erano solo Agnelli, ma anche l’establishment americano, dopo la privatizzazione fatta da Obama». Quindi, secondo Ruggeri, è da lì che comincia quell’operazione di preparazione alle dismissioni, la “donazione di organi” dell’ex gigante italiano dell’automotive. «Da quel momento la Fiat Auto è morta», afferma Ruggeri. «Marchionne per anni ha presentato piani strategici che in parte hanno nascosto la realtà: la Fiat se ne va e all’Italia non resta più un’industria dell’automobile». Sottolinea l’ex manager: «Caso unico: nessuno al mondo, salvo il nostro paese, ha rinunciato all’industria automobilistica. I governi di centrodestra e di centrosinistra dell’epoca si guardarono bene dal fare come Obama, nazionalizzare per poi privatizzare, mantenendo però governance, cervelli e lavoro negli Stati Uniti».L’Italia, continua Ruggeri, «ha perso la sua centenaria industria dell’auto seguendo teorie intellettualoidi di miserabili leadership nostrane». Ora la realtà è ridotta alle briciole di Mirafiori, Melfi, Termini Imerese e Pomigliano d’Arco: «Ci sono rimasti quattro stabilimenti il cui destino è nelle mani dell’acquirente francese. Bisogna prenderne atto. Non raccontiamoci la balla che l’Italia conti qualcosa». Si sarebbe potuto salvare Fiat tenendola in Italia? «Io sono convinto di sì, per esempio vendendola a Mercedes», risponde Ruggeri, «ma all’epoca si decise di no». Invece, sottolinea Rizzi, si proseguì con operazioni vantaggiose per gli azionisti mentre ormai il gruppo era fuori dall’Italia, fino ad arrivare a quello che, poche settimane fa, è stato annunciato e salutato come un matrimonio. «Esatto. La vendita a Peugeot è l’ultimo atto di una strategia concepita in modo impeccabile da Marchionne, finalizzata esclusivamente agli interessi degli azionisti». Prima è stata la volta di Cnh e Iveco, poi lo scorporo di Ferrari, poi ancora la vendita di Magneti Marelli che ha fruttato 6 miliardi. E adesso siamo ai titoli di coda, con quelle che chiamano ancora “nozze” con Peugeot.«Tutti devono sapere che, come è successo, quando il compratore liquida al venditore un cedolone da 5,5 miliardi significa che è lui a comandare», sottolinea Ruggeri. «In pratica Peugeot si è comprata Fca pagando un premio del 25-32%». Riassume lo “Spiffero”: per l’ennesima volta, gli azionisti hanno fatto un affare sulla pelle del paese, che ci ha rimesso (dopo aver sostenuto la Fiat per decenni, con aiuti di Stato e cassa integrazione). Cosa c’è da aspettarsi ancora, dopo le finte nozze con i francesi? «Il Ceo Tavares presto incomincerà a ristrutturare, ad eliminare sovrapposizioni: a tagliare, insomma». Riccardo Ruggeri ha una visione chiarissima della situazione: «La produzione di modelli medio-piccoli tra Peugeot, Opel e Fca è in eccesso», avverte. «Dovendo scegliere tra uno stabilimento in Francia, ma anche in Germania, e uno in Italia, avendo un azionista che si chiama Macron e un accordo con la Merkel, cosa pensate che farà?». Bella domanda, da girare magari al povero Landini, che all’epoca si scontrò con Marchionne. Inutile invece recapitarla a Palazzo Chigi, al fantasma di Conte, o ai partiti (tutti: Lega, 5 Stelle, Pd e Forza Italia) assolutamente sordomuti di fronte alle “finte nozze” dei torinesi, che intascano 5 miliardi e mezzo lasciando ai francesi il compito di smontare quel che resta della Fabbrica Italia di cui cianciava l’abilissimo Marchionne.«Ma quali nozze? Quello tra Peugeot-Psa e Fca non è un matrimonio, ma una compravendita. I francesi hanno acquistato un’azienda americana perché interessati al marchio Jeep-Ram e gli azionisti di Fiat-Chrysler hanno ricevuto una barca di soldi. Però nessuno si stupisca quando il ceo del nuovo gruppo, Carlos Tavares, dovendo fare tagli privilegerà gli impianti d’Oltralpe e quelli tedeschi: il suo azionista si chiama Emmanuel Macron e con la cancelliera Angela Merkel per Opel ha un accordo che blocca ogni licenziamento e che durerà almeno fino al 2023. Il quartier generale sarà a Parigi, la sede fiscale ad Amsterdam. E l’Italia? E Torino? Ne escono sconfitte stupidamente, continuando a fare finta che la Fiat Auto non sia morta, invece lo è dal 2009. A Torino è rimasta una targa e quattro stabilimenti-cacciavite». Così parla Riccardo Ruggeri, ex top manager di corso Marconi e acuto saggista, intervistato da Stefano Rizzi per “Lo Spiffero“, giornale online diretto dal torinese Bruno Babando. «A Torino – ricorda Rizzi – Riccardo Ruggeri è nato 84 anni fa, infanzia in una portineria di 15 metri quadrati dove i genitori abitavano con i nonni e lui dormiva su una brandina in cucina». Figlio e nipote di operai, Ruggeri cominciò proprio come operaio a Mirafiori, per poi diventare impiegato e infine dirigente, al vertice del colosso New Holland: per anni è stato «uno dei top manager più vicini all’Avvocato».
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Addio Taranto, Mittal si porta via i clienti Ilva: era scontato
Rilevare stabilimenti, acquisirne i clienti e poi chiuderli. E’ la specialità di ArcelorMittal, colosso mondiale dell’acciaio. «Il risultato di questi giorni sulla questione Ilva era del tutto prevedibile», scrive Roberto Hechich: «Solo che la gente, i politici e la classe dirigente hanno la memoria corta». Mentre Taranto piange, con 10.000 posti di lavoro a rischio (e l’intera industria meccanica italiana senza più acciaio fatto in casa), sul blog del Movimento Roosevelt l’analista ricorda che Arcelor si difese strenuamente contro l’aggressiva offerta pubblica d’acquisto lanciata in Borsa da Mittal: a fine febbraio 2006 le quotazioni dei due gruppi arrivarono ad equivalersi, e Mittal riuscì ad assorbire Arcelor per un valore di 28,6 miliardi di euro. Promesse vane, sul rilancio: «A qualche mese dalla fusione cominciò a delinearsi chiaramente quella che era la strategia di politica industriale del gruppo: chiudere gli stabilimenti in Europa per fermare la concorrenza e acquisire gli ordini di Arcelor, facendo produrre l’acciaio in paesi terzi». Cominciarono anni di lotte tra il gruppo, i governi (Francia e Lussemburgo) e i sindacati: Mittal fu definito da un ministro francese come un «bugiardo senza limiti» che sapeva bene, al momento del lancio dell’Opa, quali sarebbero state le politiche da portare avanti in Europa.Nel 2003, infatti – continua Hechich – Arcelor aveva cominciato a contrattare con le parti sociali un piano di ristrutturazione di sei impianti in Europa e la cessazione di alcune attività. Nel 2006, Mittal firmò l’acquisto impegnandosi a non chiudere gli altoforni di Liegi (Belgio) e Florange (Francia). Obiettivo dichiarato: metterli a norma immediatamente per rinforzarne la competitività e assicurare l’ambientalizzazione. «La posta in gioco era molto alta, perché gli stabilimenti della Lorena fornivano l’acciaio alle case automobilistiche Bmw e Mercedes». E invece «non avvenne nulla di quanto stabilito, e nel 2009 lo stabilimento di Grandrange (Francia) chiuse senza mai aver beneficiato di quel piano che Mittal aveva promesso allo Stato francese». Aggiunge Hechich: «Buona parte degli stabilimenti sono stati acquistati al solo fine di distruggere la concorrenza europea, acquisire i contratti per poi lasciare gli impianti abbandonati». Non ci voleva un genio per capire che consegnare Taranto nelle mani del gruppo ArcelorMittal avrebbe voluto dire la fine della città: «La sola ragione per la quale un imprenditore spregiudicato come Mittal potrebbe accollarsi uno stabilimento obsoleto e al centro di una questione giudiziaria come l’Ilva di Taranto sarebbe il voler acquisire le commesse Ilva e chiudere, così come ha fatto nel resto d’Europa, senza bonifiche e senza alcun reimpiego degli operai».Nessuno si sorprenda, se oggi siamo ai titoli di coda: bastava consultare il web per vedere come avesse operato, la multinazionale, in giro per il mondo. E se anche avessimo voluto vendere Taranto ai tedeschi «sarebbe stata la stessa cosa, probabilmente». Infatti, «se gli indiani vogliono far fuori la concorrenza europea, i tedeschi avrebbero voluto far fuori la concorrenza italiana, visto che l’Ilva è il più grande stabilimento d’acciaio d’Europa ed è fondamentale per l’industria manufatturiera italiana, che poi dovrebbe rifornirsi dalla Germania a prezzi maggiori». Lo Stato italiano riuscirà nel miracolo di tirar fuori gli attributi, facendosi carico della questione e risolvendola una volta per tutte? «Certo, Di Maio farebbe una malinconica tenerezza, se non fosse per il fatto che ci va di mezzo la vita lavorativa ed economica di migliaia di famiglie». L’esponente 5 Stelle, allora ministro del lavoro, aveva annunciato di aver «risolto la questione in meno di tre mesi». Chiosa Hechich: in realtà bastava ancora meno – 5 minuti – per scoprire, consultando Google, dove sarebbe andato a parare, il gruppo ArcelorMittal.Nato nel 2006 dalla fusione tra il colosso europeo Arcelor (Spagna, Francia e Lussemburgo) e l’indiana Mittal Steel Company, il gruppo – basato in Lussemburgo – è il maggior produttore d’acciaio al mondo: con oltre 200.000 dipendenti, di cui metà in Europa, rifornisce l’industria automobilistica e i settori delle costruzioni, degli elettrodomestici e degli imballaggi. Opera in Lussemburgo, Spagna, Italia, Polonia, Romania, Bosnia-Erzegovina e Repubblica Ceca. Tanti gli stabilimenti nel resto del mondo: Sudafrica, Messico, Canada, Brasile, Algeria, Indonesia e Kazakhstan. Il gigante ArcelorMittal è quotato in Borsa a Parigi, Amsterdam, New York, Bruxelles, Lussemburgo e Madrid, e le sue azioni sono incluse in più di 120 indici borsistici. L’acquisizione di Arcelor da parte di Mittal (per 33 miliardi di dollari) venne effettuata attraverso un’offerta pubblica di acquisto ostile, lanciata dopo il fallimento di una precedente fusione pianificata da Arcelor. Oggi il gruppo produce il 10% dell’acciaio mondiale, cosa che lo rende la più grande azienda siderurgica del pianeta: già nel 2007, i ricavi ammontavano a 105 miliardi di dollari. Nel 2016 la società è stata multata dal Sudafrica per aver “fatto cartello”, fissando i prezzi attraverso informazioni aziendali riservate (la sanzione inflitta all’azienda: 110 milioni di dollari).La produzione è arrivata a 114 milioni di tonnellate di acciaio ogni anno. Con la crisi del comparto i numeri sono calati, ma il fatturato 2016 superava i 50 miliardi di euro (fruttando alla proprietà un miliardo e mezzo di utili). Cifre peraltro facilmente reperibili, anche su Wikipedia: nel 2018 i ricavi hanno superato i 76 miliardi di dollari (8 miliardi più dell’anno precedente), con un utile netto di oltre 5 miliardi. Tradotto: il profitto cresce, tagliando il lavoro, anche se si contrae il fatturato. Oggi, avverte il “Fatto Quotidiano”, il colosso dell’acciaio è in fuga, e non solo da Taranto: ArcelorMittal chiude stabilimenti in Sudafrica, Polonia e Usa, sostenendo che il mercato si starebbe deteriorando, data la contrazione della domanda. Dal 23 novembre, stop a tre altoforni tra Cracovia e Dabrowa Gornicza. Spente anche una fornace vicino a Chicago e l’acciaieria sudafricana di Baia di Saldanha. Oltre a Taranto, ArcelorMittal ha centri di servizio e sedi operative a Monza, Rieti, Avellino, Milano, Torino e Saronno (Varese). Gli stabilimenti ex Ilva, a parte quello pugliese, sono dislocati a Genova e Novi Ligure (Alessandria), Racconigi (Cuneo), Marghera (Venezia) e Salerno. Se si mette il naso fuori dall’Italia, si scopre che lo stabilimento di Zenica, in Bosnia, acquisito da ArcelorMittal con 22.000 dipendenti, oggi ha appena 3.000 operai.Uomo chiave dell’azienda è il multimiliardario indiano Lakshmi Mittal: presidente e amministratore delegato, detiene il 37.4% del gruppo. Nato in un villaggio indiano del Rajasthan, vive a Kensington, Londra, dove nel 2004 ha acquistato dal magnate britannico Bernie Ecclestone, allora patron della Formula 1, una sontuosa residenza da 70 milioni di sterline, costruita con uno stile che ricorda il Taj Mahal. Il “Financial Times” lo ha nominato uomo dell’anno nel 2006, e nel 2010 il “Sunday Times” lo ha eletto uomo più ricco del Regno Unito con un patrimonio netto superiore a 22 miliardi di sterline. Per “Forbes”, Lakshmi Mittal è stato nel 2015 l’82°uomo più ricco del mondo (e il quinto più ricco dell’India) con un patrimonio di 13,5 miliardi di dollari. Sempre secondo “Forbes”, tra le persone più potenti del pianeta, nel 2014 si è piazzato al 57º posto. Nel 2007, ricorda ancora Wikipedia, ha donato circa 3 milioni di sterline al Partito Laburista. Personaggio poliedrico e azionista anche nel calcio (Queens Park Rangers), per i suoi due figli Mittal ha organizzato matrimoni sfarzosi, spendendo rispettivamente 30 e 65 milioni di dollari. Questo è l’uomo che Luigi Di Maio avrebbe “messo in riga”, un anno fa, e contro cui oggi tentano di fare la voce grossa l’avvocato Conte, il ministro Patuanelli e il sindacalista Landini.Il controllo sulla società, ha raccontato il “Sole 24 Ore”, viene esercitato dai Mittal attraverso sei “trust”, un particolare tipo di società utilizzato da imprese e individui molto ricchi per pagare meno tasse. I sei trust hanno sede nell’isola di Jersey, paradiso fiscale del Regno Unito nel Canale della Manica. Queste società – riassume “Il Post” – sono l’ultimo anello di una lunga catena dove, dopo un lungo giro tra fiduciarie e holding con sede a Gibilterra e in altri paradisi fiscali, arrivano i soldi della famiglia Mittal. All’altro capo della catena rispetto ai trust si trova ArcelorMittal, la multinazionale vera e propria (con sede in Lussemburgo, altro paese con un regime fiscale molto vantaggioso per le imprese). «Grazie a queste complicate strutture, ArcelorMittal è in grado di pagare pochissime tasse», aggiunge il “Post”. «Le sue pratiche di elusione fiscale sono state raccontate in un’inchiesta del sito francese “MediaPart”. La società ha ricevuto accuse di evasione fiscale anche da diversi governi, come quelli di Ucraina e Bosnia, oltre che accuse di aver compiuto violazioni ambientali e aver agito con mano pesante sulle comunità locali in molti dei paesi dove opera».Nel 2018, ArcelorMittal si era presentata alla gara per acquistare l’Ilva di Taranto e gli altri due impianti espropriati alla famiglia Riva, accusata di aver violato per anni le leggi di sicurezza e quelle ambientali. «Nonostante la sua reputazione, la sua offerta è stata giudicata migliore di quella della cordata rivale, Acciaitalia, capeggiata da un’altra società indiana, Jindal». L’assegnazione della vittoria ad ArcelorMittal, avvenuta ufficialmente il primo novembre 2018, è stata piuttosto controversa, ricorda sempre il “Post”: «Già all’epoca, diversi osservatori accusavano la multinazionale di non avere intenzione di rilanciare gli impianti italiani, ma di avere come unico obiettivo sottrarli a un potenziale concorrente». Altri invece hanno difeso la società, sostenendo che era l’unica disposta ad investire le cifre necessarie (circa 2 miliardi di euro) a mettere in sicurezza l’impianto di Taranto, e in particolare i suoi estesi parchi dove sono depositati i minerali di ferro, attualmente esposti al maltempo che spesso ne soffia le polveri sulla città di Taranto. A condurre la gara e le trattative con ArcelorMittal fu prima l’allora ministro Carlo Calenda, con il governo Gentiloni, e poi Luigi Di Maio, durante il primo governo Conte.Di Maio era contrario all’accordo, ma alla fine ha accettato l’offerta della multinazionale. «Con il contratto raggiunto con il governo italiano, ArcelorMittal si è impegnata a investire più di 4 miliardi di euro nella società, ha promesso di occuparsi delle bonifiche dell’impianto di Taranto e di mantenere al lavoro tutti i diecimila dipendenti della società». Da allora però il mercato dell’acciaio è peggiorato. «Anche se nell’ultimo trimestre i conti di ArcelorMittal si sono rivelati migliori del previsto – scrive il “Post” – il 2019 dovrebbe chiudersi con un bilancio molto peggiore rispetto all’anno precedente». Inoltre, alcuni altoforni dell’impianto di Taranto rischiano di dover essere spenti per ordine della magistratura, mentre il governo ha cambiato spesso idea sul cosiddetto “scudo penale” che, in teoria, serve a proteggere manager e dirigenti dell’azienda dal rischio di cause legali per le violazioni commesse dalle gestioni precedenti. Ora siamo al capolinea: ArcelorMittal lascia Taranto a annuncia lo spegimento degli impianti. Secondo Carlo Mapelli, docente del Politecnico di Milano, se ne va il 30% della siderurgia italiana. Da sola, l’Ilva vale l’1,5% del Pil.Rilevare stabilimenti, acquisirne i clienti e poi chiuderli. E’ la specialità di ArcelorMittal, colosso mondiale dell’acciaio. «Il risultato di questi giorni sulla questione Ilva era del tutto prevedibile», scrive Roberto Hechich: «Solo che la gente, i politici e la classe dirigente hanno la memoria corta». Mentre Taranto piange, con 10.000 posti di lavoro a rischio (e l’intera industria meccanica italiana senza più acciaio fatto in casa), sul blog del Movimento Roosevelt l’analista ricorda che Arcelor si difese strenuamente contro l’aggressiva offerta pubblica d’acquisto lanciata in Borsa da Mittal: a fine febbraio 2006 le quotazioni dei due gruppi arrivarono ad equivalersi, e Mittal riuscì ad assorbire Arcelor per un valore di 28,6 miliardi di euro. Promesse vane, sul rilancio: «A qualche mese dalla fusione cominciò a delinearsi chiaramente quella che era la strategia di politica industriale del gruppo: chiudere gli stabilimenti in Europa per fermare la concorrenza e acquisire gli ordini di Arcelor, facendo produrre l’acciaio in paesi terzi». Cominciarono anni di lotte tra il gruppo, i governi (Francia e Lussemburgo) e i sindacati: Mittal fu definito da un ministro francese come un «bugiardo senza limiti» che sapeva bene, al momento del lancio dell’Opa, quali sarebbero state le politiche da portare avanti in Europa.
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Moncalvo: silenzio assordante sulla fuga della Fiat in Francia
«Tutti parlano giustamente del problema dell’Ilva e dei posti di lavoro a rischio a Taranto, ma nessuno – sottolineo, nessuno – parla dei posti che salteranno per la vicenda Fca-Psa». Perché nessuno ne parla? Molto semplice, risponde Gigi Moncalvo: «Nessuno osa rispondere al seguente interrogativo: quando ci sarà da decidere la sorte, la chiusura degli stabilimenti in Italia (Pomigliano d’Arco, Termini Imerese, Melfi e chi più ne ha, più ne metta), secondo voi prevarrà la volontà e la decisione dei 6 consiglieri (su 11) della corporation francese, oppure prevarrà la tesi di una società che ormai è olandese, londinese e americana?». Ormai l’ex Fiat – per decenni sorretta finanziariamente dallo Stato italiano – è infatti una società di diritto olandese con domiciliazione fiscale nel Regno Unito (e domiciliazione borsistica negli Usa). Insiste Moncalvo, dai microfoni della trasmissione web-radio “Forme d’Onda”: «Che cosa gliene importerà, all’ex Fiat, ormai olandese, londinese e americana, della sorte di Pomigliano d’Arco, Melfi, Termini Imerese e tutto il resto?». L’accusa di Moncalvo è esplicita: «I media tacciono, sull’accordo franco-italiano, perché la Fiat continua a riversare fior di soldi, in termini pubblicitari, su giornali e televisioni». Un modo per avere “buona stampa”, cioè in questo caso stimolare il silenzio dei giornalisti?Categoria alla quale peraltro appartiene lo stesso Moncalvo, cronista di rango, già attivo su alcune tra le maggiori testate italiane (collaboratore di Maurizio Costanzo, Piero Ottone e Guglielmo Zucconi) nonché giornalista sulle reti Mediaset e infine dirigente Rai. Negli ultimi anni, con esplosivi libri-inchiesta (”I lupi e gli Agnelli”, “Agnelli segreti”, spariti dalle librerie ma disponibili attraverso il sito dell’autore), Moncalvo si è concentrato nello scavare tra “ombre e misteri della famiglia più potente d’Italia”. Fino a scoprire cosa? Questo: che un potere-ombra, finanziario e anglosassone, si sarebbe impossessato del controllo politico della Fiat già dal dopoguerra, fino poi a “imporre” che l’eredità di Gianni Agnelli finisse a John Elkann, il quale – giovanissimo – alla scomparsa dell’Avvocato mise l’impero Fiat nelle mani del manager finanziario Sergio Marchionne, campione del neoliberismo americano. Moncalvo evoca anche «rabbini francesi e grembiulini» nell’orbita di John Elkann, alludendo al ruolo del padre, il giornalista e scrittore Alain Elkann, membro del potentissimo Jewish Institute e figlio del banchiere, industriale e rabbino francese Jean-Paul Elkann. Dietro alla “real casa” torinese, attraverso il ramo Elkann oggi al comando, aleggia il potere del B’nai B’rith, elusiva massoneria sionista?Ne parlò il saggista e massone Gianfranco Carpeoro, a proposito della strana fine di Edoardo Agnelli nel 2000: il figlio “ribelle” dell’Avvocato, che in un’intervista al “Manifesto” aveva annunciato l’intenzione di volersi occupare del destino della Fiat, si sarebbe convertito all’Islam, e addirittura alla confraternita mistica dei Sufi. Una foto lo ritrae a Teheran in una sessione di preghiera guidata dall’ayatollah Alì Khamenei, guida suprema della ierocrazia sciita. Fu proprio l’Iran ad accusare il Mossad, il servizio segreto israeliano, della morte di Edoardo Agnelli, precipitato da un viadotto autostradale in circostanze mai del tutto chiarite. Forse per motivi di pura propaganda politica anti-sionista, Teheran accusò la “lobby ebraica” di aver sostanzialmente propiziato l’eliminazione di Edoardo Agnelli (caso archiviato come suicidio) per poter poi mettere completamente le mani sull’impero Fiat dopo la morte di Gianni Agnelli. Dietrologie, semplici illazioni, addirittura insinuazioni senza fondamento? Dal lavoro di Moncalvo, incentrato per lo più sulla imbarazzante “guerra” familiare per l’eredità dell’Avvocato (seguita dall’ancora più imbarazzante silenzio dei media), emerge in sostanza l’impenetrabilità della governance Fiat, retta da logiche che ricordano quelle delle antiche monarchie.Carte giudiziarie alla mano, Moncalvo ha scoperto che il grosso del “tesoro” degli Agnelli è depositato all’estero, lontano dall’Agenzia delle Entrate (a Panama e in un caveau dell’aeroporto di Ginevra), e che i due uomini-ombra dell’Avvocato, Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, manovrarono – insieme ai notai, e d’intesa con la vedova Agnelli, Marella Caracciolo – per favorire in modo esclusivo l’allora giovanissimo John Elkann, entrato nel board Fiat a soli 21 anni. Oggi, ragiona Moncalvo, la Exxor (finanziaria di famiglia) è stata stra-premiata con un “bonus” di oltre 5 miliardi dai futuri partner francesi, che in cambio però prenotano il controllo del colosso Fca-Psa, che verrebbe affidato a Carlos Tavares, l’uomo-Peugeot. Una maxi-buonuscita agli Elkann per lasciare il timone alla Francia, il cui governo oltretutto controlla il 13% del gruppo che include Peugeot, Citroen e Opel? Secondo “Money.it”, Fca porta in dote 102 stabilimenti e un fatturato da oltre 110 miliardi, con marchi come Fiat e Jeep, Lancia, Abarth, Alfa Romeo, Maserati, Chrysler, Dodge, Fiat Professional e Ram. Da canto suo, Psa (che possiede anche Ds Automobiles e Vauxhall) mette sul piatto appena 45 stabilimenti e un giro d’affari da 74 miliardi, inferiore quindi a quello dell’ex Fiat.In sostanza: i francesi offrirebbero di meno ma otterrebbero di più, dopo aver “premiato” a suon di miliardi i torinesi, forse ansiosi – da tempo – di disimpegnarsi dal settore auto? Se è presto per trarre conclusioni, visto che ogni giorno emergono precisazioni sullo sviluppo dell’accordo, ancora in corso nella sua definizione, è sconcertante – rileva Moncalvo – il silenzio assordante del sistema-Italia, di fronte a una notizia di questa portata. Gli stessi sindacati si limitato a mormorare: forse, auspica Landini, la fusione rafforzerà il comparto industriale. Certezze, nessuna: quand’era a capo della Fiom, Landini si vide beffare dall’inesistente Fabbrica Italia, il piano di rilancio solo vagheggiato da Marchionne. Ma ancora più clamoroso è il silenzio dei media nazionali e della stessa politica, evidenziato dall’assenza totale – nella vicenda – del governo Conte. E se chiuderanno gli stabilimenti del centro-sud? Visto che a decidere saranno i francesi, come possono dormire sonni tranquilli gli operai di Melfi, Pomigliano e Termini Imerese? Nessuno sembra domandarselo: silenzio di tomba. Muti i giornali, zitti i partiti, non pervenuto Palazzo Chigi. Purtroppo, la cosa non stupisce: solo in Italia, ricorda Moncalvo con amarezza, nel 1991 – per timore di dispiacere ai signori della Fiat – fu tradotto col titolo “Il silenzio degli innocenti” il film-kolossal di Jonathan Demme, con Jodie Foster e Anthony Hopkins. Nel resto del mondo, il titolo originale (”The silence of the lambs”) fu tradotto correttamente: il silenzio degli agnelli.«Tutti parlano giustamente del problema dell’Ilva e dei posti di lavoro a rischio a Taranto, ma nessuno – sottolineo, nessuno – parla dei posti che salteranno per la vicenda Fca-Psa». Perché nessuno ne parla? Molto semplice, risponde Gigi Moncalvo: «Nessuno osa rispondere al seguente interrogativo: quando ci sarà da decidere la sorte, la chiusura degli stabilimenti in Italia (Pomigliano d’Arco, Termini Imerese, Melfi e chi più ne ha, più ne metta), secondo voi prevarrà la volontà e la decisione dei 6 consiglieri (su 11) della corporation francese, oppure prevarrà la tesi di una società che ormai è olandese, londinese e americana?». Ormai l’ex Fiat – per decenni sorretta finanziariamente dallo Stato italiano – è infatti una società di diritto olandese con domiciliazione fiscale nel Regno Unito (e domiciliazione borsistica negli Usa). Insiste Moncalvo, dai microfoni della trasmissione web-radio “Forme d’Onda“, ripreso anche su YouTube: «Che cosa gliene importerà, all’ex Fiat, ormai olandese, londinese e americana, della sorte di Pomigliano d’Arco, Melfi, Termini Imerese e tutto il resto?». L’accusa di Moncalvo è esplicita: «I media tacciono, sull’accordo franco-italiano, perché la Fiat continua a riversare fior di soldi, in termini pubblicitari, su giornali e televisioni». Un modo per avere “buona stampa”, cioè in questo caso stimolare il silenzio dei giornalisti?
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E bravo Draghi, ha ridotto l’Europa a un nano economico
Mario Draghi alla scadenza del suo mandato è stato celebrato come il salvatore della Ue e dell’euro, e non c’è dubbio che abbia fatto di tutto per evitare il collasso della moneta unica e che ci sia riuscito. Ma per l’economia reale – ecco il rovescio della medaglia – questo non ha portato ad alcun giovamento. Nei dieci anni successivi alla crisi, dal 2007 al 2017, secondo i dati della World Bank, il Pil globale nel mondo è aumentato del 22%. Tutto merito della Cina e l’India? Per la verità gli Usa sono cresciuti del 29%. E l’Europa della Ue e dell’euro? Il dato clamoroso è che l’Europa dell’euro in dieci anni è cresciuta, come Pil, dell’1,7%. Questo è incredibile. L’Europa ha a disposizione scienza e tecnologia quanto l’America e l’Asia e si lavora in media otto ore al giorno anche qui. Americani, giapponesi e cinesi prendono un po’ meno vacanze e hanno meno mesi in maternità, vanno in pensione qualche anno più tardi. Ma la differenza non è poi così grande come si pensa. Una differenza così abissale della crescita economica su dieci anni non la si spiega con le ore lavorate, che sono in Eurozona solo un 10 o 15% di meno complessivamente.E in ogni caso questa differenza esisteva anche vent’anni fa, quando invece la crescita europea era paragonabile a quella del resto dei paesi Ocse.Questo enorme divario di crescita si spiega soprattutto con le politiche molto espansive del credito e dei deficit pubblici, che il resto del mondo ha fatto e noi nella Ue no. In Usa, il Pil è aumentato da 15.000 a 19.300 miliardi, mentre il deficit pubblico aumentava da 10.000 a 21.000 miliardi, più che raddoppiato in dieci anni (e tuttora l’America mantiene un deficit pubblico di 1.000 miliardi l’anno). In Cina il totale del debito (incluso quello di imprese e famiglie) era meno di 10.000 miliardi, e in dieci anni è esploso a oltre 40.000 miliardi. In Italia invece il credito totale a famiglie e imprese è calato, negli ultimi dieci anni, perché quello alle imprese è stato tagliato moltissimo (da 940 a 650 miliardi) e quello alle famiglie è salito solo leggermente. E la politica di Draghi alla Bce, che ha espanso il bilancio della Bce di quasi 3.000 miliardi? Questi miliardi sono andati a comprare debito pubblico, sia direttamente che indirettamente (dandoli alle banche che poi compravano ad esempio Btp). Sarebbe stato utile all’economia se si fossero aumentati i deficit tagliando le tasse, ma “le regole Ue” lo hanno impedito. E allora a cosa sono serviti i 3.000 miliardi di Draghi? Solo a far scendere a zero (o sottozero) il rendimenti di tutti i titoli di Stato, persino quell greci.Questo danneggia i risparmiatori, che infatti oggi in Italia hanno abbandonato i titoli di Stato comprando polizze, fondi e prodotti del risparmio gestito, e poi mettendo 300 miliardi nei conti correnti, che sono saliti a 1.400 miliardi. Se schiacci a zero i rendimenti dei titoli, chi vuole risparmiare deve spendere un poco di meno per compensare il reddito che non riceve più sui suoi soldi messi da parte. In compenso, a questi tassi artificialmente bassi diventa più facile indebitarsi per chi opera speculativamente sui mercati. Buona fortuna. Nel resto del mondo si è reagito alla crisi con politiche aggressive di aumento dei deficit e del credito per far circolare più soldi con ogni mezzo anche tra famiglie e imprese. Si sono tagliate le tasse e si è aumentata la spesa, e le banche sono state spinte ad aumentare il credito. Le statistiche mondiali del debito privato e pubblico mostrano un enorme aumento del debito delle imprese specie in Usa e Cina. Oggi il debito equivale in pratica alla moneta che circola, e se si vuole aumentarla bisogna aumentare il debito. Nessuno lo ha capito meglio dei giapponesi e dei cinesi. Il Giappone infatti come si sa ha un debito pubblico doppio del nostro, e la Cina ha trascinato l’economia globale negli ultimi dieci anni aumentando il debito privato di 30.000 miliardi!Se invece non si aumenta il deficit e non si stimolano le banche a prestare alle imprese, stampare moneta come ha fatto Draghi fa solo scendere i tassi sui titoli di Stato a zero o sottozero. Una cosa irrazionale, mai successa in 4.000 anni di storia, e che accade più che altro in Eurozona. Draghi ha pompato liquidità solo per comprare e far comprare alla banche titoli sui mercati. Poco o niente è andato all’economia reale. Questi dati sull’enorme divario tra il resto del mondo che cresce del 22% e l’Eurozona che cresce dell’1% indicano che siamo diventati una eccezione nel mondo; siamo l’area della crescita demografica zero o negativa, come in Italia, perché siamo prigionieri di una gabbia finanziaria che soffoca l’economia e riduce l’occupazione. L’Eurozona sacrifica le prospettive dei suoi figli, che non riproduce più, per rispettare “vincoli finanziari e di bilancio” di cui il resto del mondo se ne frega.C’è chi usa più che altro il debito privato, come i cinesi (ma le loro banche sono pubbliche), chi usa sia quello pubblco come Usa e Uk, e chi usa il debito pubblico, come i giapponesi: sì anche i giapponesi, i quali hanno goduto di un incremento del reddito pro capite dal 2008 di circa il 7% contro un calo dell’8% dell’Italia, nonostante il loro debito pubblico sia il doppio del nostro. La politica della Bce di Draghi è servita solo a impedire che la zona euro si sfaldasse; ma occorre – in Europa, e in Italia prima di ogni altro paese – uno “shock monetario”, una espansione dell’ordine dei 100 miliardi di euro, sotto forma soprattutto di riduzioni di tasse, per rilanciare gli investimenti. L’attuale legge di bilancio mette il paese in coma farmacologico, ma il prossimo anno ci saranno elezioni politiche anticipate e Salvini andrà a Palazzo Chigi; sarà meglio preparere sin d’ora un valido programma per rianimare l’Italia.(Paolo Becchi e Giovanni Zibordi, “I disastri dell’Euro: l’Ue è cresciuta un decimo rispetto al mondo”, da “Libero” del 3 novembre 2019; articolo ripreso sul blog di Becchi).Mario Draghi alla scadenza del suo mandato è stato celebrato come il salvatore della Ue e dell’euro, e non c’è dubbio che abbia fatto di tutto per evitare il collasso della moneta unica e che ci sia riuscito. Ma per l’economia reale – ecco il rovescio della medaglia – questo non ha portato ad alcun giovamento. Nei dieci anni successivi alla crisi, dal 2007 al 2017, secondo i dati della World Bank, il Pil globale nel mondo è aumentato del 22%. Tutto merito della Cina e l’India? Per la verità gli Usa sono cresciuti del 29%. E l’Europa della Ue e dell’euro? Il dato clamoroso è che l’Europa dell’euro in dieci anni è cresciuta, come Pil, dell’1,7%. Questo è incredibile. L’Europa ha a disposizione scienza e tecnologia quanto l’America e l’Asia e si lavora in media otto ore al giorno anche qui. Americani, giapponesi e cinesi prendono un po’ meno vacanze e hanno meno mesi in maternità, vanno in pensione qualche anno più tardi. Ma la differenza non è poi così grande come si pensa. Una differenza così abissale della crescita economica su dieci anni non la si spiega con le ore lavorate, che sono in Eurozona solo un 10 o 15% di meno complessivamente.E in ogni caso questa differenza esisteva anche vent’anni fa, quando invece la crescita europea era paragonabile a quella del resto dei paesi Ocse.
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L’Italia perde la Fiat, venduta alla Francia. E nessuno fiata
L’Italia perde la sua maggiore azienda, per decenni sorretta dallo Stato: a mangiarsi la Fiat è la Francia di Macron, con il gruppo Psa (Peugeot-Citroen-Opel) di cui il governo francese possiede il 13%. Il Cda di quello che diventerà il quarto produttore automobilistico al mondo, con 50 miliardi di dollari di fatturato, sarà guidato dall’attuale numero uno di Peugeot, Carlos Tavares, lasciando a John Elkann la presidenza del nuovo soggetto industriale. Clamorosa l’assenza totale della politica italiana: gli uomini del Conte-bis si limitano al ruolo di semplici spettatori, e tace anche l’opposizione. Silenzio generale, di fronte alla perdita definitiva del gruppo Fiat, fatto a pezzi nel corso degli anni. Stabilimenti delocalizzati in Polonia, Serbia, Turchia, Brasile, Argentina, India e Cina. E domicilizioni “emigrate” in Gran Bretagna (sede legale), in Lussemburgo (fiscale) e negli Usa (borsistica). E ora, addio anche alla proprietà italiana del marchio, nonostante l’oceano di soldi – agevolazioni sugli stabilimenti, cassa integrazione – versati dai contribuenti italiani per tenere in piedi l’industria torinese. «Al silenzio della politica seguirà quello di giornali e televisioni», avverte Gigi Moncalvo: «Nessuno oserà contestare l’accordo, visto che il gruppo Fiat spende enormi quantità di denaro, in termini pubblicitari, sui media italiani».Autore di scomodi saggi sul potere della maggiore dinastia industriale italiana (“Agnelli segreti”, “I lupi e gli agnelli”), intervenendo nella trasmissione web-radio “Forme d’Onda”, Moncalvo sottolinea lo squallore della situazione italiana, di fronte allo “scippo” francese propiziato da «rabbini e grembiulini vicini a John Elkann». Moncalvo, che ha seguito da vicino anche l’ingloriosa saga dell’eredità di Gianni Agnelli, ha scoperto che il grosso del denaro di famiglia è tuttora custodito all’estero, in un caveau all’areoporto di Ginevra, fuori dalla portata del fisco italiano. Sempre Moncalvo racconta che la Fiat, “scomunicata” dagli Usa nel 1945 per gli enormi benefici ottenuti dalle commesse belliche del regime fascista, fu improvvisamente riabilitata (e inserita nel Piano Marshall) grazie ai buoni uffici di Pamela Harriman, nuora di Churchill e buona amica dell’allora giovane Avvocato. A partire proprio dal dopoguerra, però – sostiene Moncalvo – il vero timone della Fiat passò nelle mani di Wall Street. Morto il problematico Edoardo Agnelli, che aveva annunciato la sua intenzione di avere voce in capitolo nel destino della Fiat, il gruppo torinese è stato affidato al ramo familiare Elkann.Scomparso Gianni Agnelli, i suoi storici collaboratori – Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens – hanno fatto in modo, d’intesa con la vedova, che tutto il potere finisse nelle mani dell’allora giovanissimo John Elkann. Due anni dopo, la finanza Usa ha “spedito” a Torino il super-manager bancario Sergio Marchionne, che ha finto di rilanciare gli stabilimenti italiani per poi invece siglare l’accordo con Chrysler e trasferire il cuore del gruppo a Detroit, con il varo del marchio Fca. E oggi, appena un anno dopo la prematura morte di Marchionne, il gruppo formalmente rappresentato da John Elkann sembra voler “sbaraccare” quel che resta della Fiat in Italia, cedendo il controllo dell’ex impero al paese che più sta danneggiando l’Italia, sul piano industriale: la Francia. Secondo gli analisti, segnala il “Fatto Quotidiano”, la volontà francese di restare alla guida del nuovo gruppo sarebbe evidente anche dai numeri dell’operazione. Il gruppo Psa riconosce ai soci Fca un premio da 6,7 miliardi rispetto alle quotazioni di Borsa antecedenti l’inizio delle indiscrezioni sulle nozze. Senza contare che la cifra in questione sarebbe anche al netto del dividendo straordinario di Fca – 5,5 miliardi, di cui di cui 1,6 destinati ad Exor, la cassaforte degli Agnelli – e delle quote di Faurecia e Comau che verranno distribuite ai soci.«Psa sta sostanzialmente comprando Fca», ha spiegato senza mezzi termini la società di consulenza Equita, secondo cui i francesi hanno pagato «un buon premio» agli Elkann e si sono assicurati la “maggioranza” per il controllo del nuovo gruppo. Come ha spiegato a “Bloomberg” Philippe Houchois, analista di “Jefferies”, «Psa sta pagando un premio del 32% per assumere il controllo di Fca». Sottraendo dal gruppo italo-americano i 5,5 miliardi del dividendo straordinario e il valore della quota di Comau (circa 250 milioni di euro), e da quello francese il valore della quota in Faurecia (2,7 miliardi), si arriva a una “capitalizzazione di mercato teorica” di “20 miliardi” per Peugeot e di “13,25 miliardi” per Fca. Sulla base di questi valori e “senza un premio”, agli azionisti di Peugeot sarebbe spettato il 60,15% del nuovo gruppo e a quelli di Fca il 39,85%, anziché il 50% a testa negoziato. Insomma, i conti della “fusione alla pari” non tornano, scrive Fiorina Capozzi sul “Fatto”. Del resto, aggiunge, «a Torino era noto da tempo che gli Elkann avessero intenzione di ridimensionare il peso dell’auto nel patrimonio di famiglia».Non è un mistero neppure che Fca fosse alla ricerca di un partner strategico, come testimonia il tentato “blitz” su Renault, sventato nei mesi scorsi dall’intervento di Macron. Lo Stato francese, socio di Renault, è anche azionista di Psa: segno che «in questo caso, ha fatto bene i suoi conti», chiosa Capozzi. Da parte sua, Moncalvo si domanda che fine faranno, ora, gli operai degli stabilimenti di Cassino, Melfi e Pomigliano d’Arco. Negli ultimi anni la Fiat ha chiuso Termini Imerese e Rivalta, senza contare l’Alfa Romeo di Arese. Nella storica fabbrica torinese di Mirafiori ormi si produce solo il Suv della Maserati, mentre a Cassino le Alfa (Giulia, Giulietta e Stelvio), a Melfi la 500 X e la Jeep Renegade, a Pomigliano la Panda. La Cinquecento è prodotta in Polonia, le grandi Jeep in Brasile e in India, la Tipo in Turchia. Il gruppo oggi avrebbe 130.000 dipendenti, in 119 stabilimenti distribuiti nel mondo. Drammatico, negli ultimi anni, il crollo dei livelli occupazionali italiani. Negli anni Sessanta, Mirafiori dava lavoro a 65.000 operai. Oggi, le poche migliaia di addetti rimasti si limitano all’unica linea attiva, quella della Maserati Levante. Residuo futuro per l’ex Fiat? La famiglia Elkann sembra volersene lavare le mani. D’ora in poi a dettare legge saranno i francesi. E addio al made in Italy nel settore auto.L’Italia perde la sua maggiore azienda, per decenni sorretta dallo Stato: a mangiarsi la Fiat è la Francia di Macron, con il gruppo Psa (Peugeot-Citroen-Opel) di cui il governo francese possiede il 13%. Il Cda di quello che diventerà il quarto produttore automobilistico al mondo, con 50 miliardi di dollari di fatturato, sarà guidato dall’attuale numero uno di Peugeot, Carlos Tavares, lasciando a John Elkann la presidenza del nuovo soggetto industriale. Clamorosa l’assenza totale della politica italiana: gli uomini del Conte-bis si limitano al ruolo di semplici spettatori, e tace anche l’opposizione. Silenzio generale, di fronte alla perdita definitiva del gruppo Fiat, fatto a pezzi nel corso degli anni. Stabilimenti delocalizzati in Polonia, Serbia, Turchia, Brasile, Argentina, India e Cina. E domiciliazioni “emigrate” in Gran Bretagna (sede legale), in Lussemburgo (fiscale) e negli Usa (borsistica). E ora, addio anche alla proprietà italiana del marchio, nonostante l’oceano di soldi – agevolazioni sugli stabilimenti, cassa integrazione – versati dai contribuenti italiani per tenere in piedi l’industria torinese. «Al silenzio della politica seguirà quello di giornali e televisioni», avverte il saggista Gigi Moncalvo: «Nessuno oserà contestare l’accordo, visto che il gruppo Fiat spende enormi quantità di denaro, in termini pubblicitari, sui media italiani».
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Germania, cresce ancora il divario tra poveri e super-ricchi
Diseguaglianze dei redditi: il divario tra ricchi e poveri ha toccato un nuovo massimo storico in Germania. «Dieci anni di crescita, un boom economico e l’aumento dei salari non sono riusciti ad arrestare la tendenza di una crescente disparità di reddito», scrive Isabella Bufacchi sul “Sole 24 Ore”. Secondo la Fondazione Hans-Böckler, vicina al mondo dei sindacati, la disparità di reddito disponibile ha continuato ad allargarsi tra il 2005 e il 2016: alla fine del 2016, il coefficiente di Gini, il noto metro per misurare la disuguaglianza, era superiore del 2% rispetto al 2005. «Le famiglie povere sono sempre più al di sotto della soglia di povertà», avverte il rapporto dell’istituto di ricerca Wsi. Due i fattori chiave: chi ha redditi elevati ha tratto maggiore beneficio dai profitti aziendali e dai rialzi delle azioni in Borsa, mentre la stragrande maggioranza delle famiglie è rimasta indietro. Pur in una situazione di apparente benessere diffuso – disoccupazione ai minimi storici e crescita economica dal 2010 – il reddito disponibile è salito per il ceto medio ma non per i più poveri, con grandi disparità di trattamento tra chi percepisce regolarmente lo stipendio e chi no.Secondo Dorothee Spannagel, tra gli autori del rapporto Wsi, il settore delle retribuzioni molto basse continua ad essere molto ampio, mentre i super-ricchi (multimilionari e miliardari) hanno tratto più beneficio dal boom della Borsa, dall’impennata dei prezzi nel mercato immobiliare, dagli alti profitti aziendali. Riflessi negativi: «La disuguaglianza riduce la partecipazione sociale e politica e compromette il funzionamento dell’economia sociale di mercato». La crescita economica degli ultimi anni non è dunque servita a ridurre la disparità tra ricchi e poveri: uno sviluppo macroeconomico positivo non è sufficiente per ridurre le disuguaglianze e la povertà. La stampa tedesca – ricorda sempre il “Sole 24 Ore” – cita anche un recente studio dell’istituto di ricerca Diw, secondo il quale la ricchezza in Germania è distribuita in modo molto disomogeneo: l’1% dei tedeschi più ricchi ha quasi un quinto del patrimonio netto nazionale, il 10% ha il 56 per cento. Il 50% della popolazione è il ceto più povero, circa 40 milioni di persone. Soluzioni? Dorothee Spannagel indica «una tassazione più alta per la popolazione con i redditi più elevati e un aumento dei salari minimi».La ricerca, aggiunge Bufacchi sul “Sole”, tiene conto del coefficiente di Gini, l’indicatore più comune della distribuzione del reddito con valori compresi tra zero (tutte le famiglie hanno lo stesso reddito) e uno (una singola famiglia ha l’intero reddito nel paese). Alla fine del 2016, il coefficiente Gini del reddito familiare disponibile in Germania era di 0,295 con un aumento del 19% della disuguaglianza rispetto alla fine degli anni ‘90, quando il Gini era poco meno di 0,25 e comunque in aumento rispetto allo 0,289 del 2005. «La disuguaglianza in Germania è aumentata molto rapidamente alla fine degli anni ‘90 e nella prima metà degli anni 2000». Svariati analisi ricordano che Berlino ha a lungo evitato di investire per ammodernare le infrastrutture. E la Germania, con la riforma Hartz, è stato il primo paese industriale europeo a esasperare la “flessibilità” sul lavoro, convincendo gli operai ad accettare salari modesti. Già dirigente della Volkswagen (accusato di avver corrotto i sindacati per danneggiare i lavoaratori), Peter Hartz è stato poi preso a modello dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder. Se in Germania sono legali i mini-job da 400 euro al mese, il tallone d’Achille di Berlino è l’export: un’economia interamente vocata alle esportazioni, anche demolendo in modo sleale la concorrenza dell’Italia (sabotata da Bruxelles) alla fine rende più fragile il sistema industriale tedesco.Diseguaglianze dei redditi: il divario tra ricchi e poveri ha toccato un nuovo massimo storico in Germania. «Dieci anni di crescita, un boom economico e l’aumento dei salari non sono riusciti ad arrestare la tendenza di una crescente disparità di reddito», scrive Isabella Bufacchi sul “Sole 24 Ore”. Secondo la Fondazione Hans-Böckler, vicina al mondo dei sindacati, la disparità di reddito disponibile ha continuato ad allargarsi tra il 2005 e il 2016: alla fine del 2016, il coefficiente di Gini, il noto metro per misurare la disuguaglianza, era superiore del 2% rispetto al 2005. «Le famiglie povere sono sempre più al di sotto della soglia di povertà», avverte il rapporto dell’istituto di ricerca Wsi. Due i fattori chiave: chi ha redditi elevati ha tratto maggiore beneficio dai profitti aziendali e dai rialzi delle azioni in Borsa, mentre la stragrande maggioranza delle famiglie è rimasta indietro. Pur in una situazione di apparente benessere diffuso – disoccupazione ai minimi storici e crescita economica dal 2010 – il reddito disponibile è salito per il ceto medio ma non per i più poveri, con grandi disparità di trattamento tra chi percepisce regolarmente lo stipendio e chi no.