Archivio del Tag ‘bombardamenti’
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Mosul, dalla Siria con furore: l’Isil-Cia e il fantasma Blair
Tony Blair, il Fantasma dell’Opera – una tragedia infinita chiamata Medio Oriente. Per Pepe Escobar, il Fantasma è tornato, ispirando la guerriglia in Iraq. Il fatto che Blair «continui a gironzolare con la sua sequela di intricate menzogne, invece di starsene a marcire in qualche hotel di lusso», secondo il giornalista di “Asia Times” «ci sbatte in faccia tutto ciò che dobbiamo sapere circa le cosiddette “élite” occidentali, delle quali è un fedele, e ragguardevolmente ricompensato, servo». Tutto, nella regione, è precipitato con l’operazione “shock and awe”, la guerra del 2003 per uccidere Saddam Hussein sulla base di invenzioni (le armi di distruzioni di massa, inesistenti). Guerra promossa da Blair insieme a “Dubya” Bush. «Il Fantasma aveva sempre desiderato che l’amministrazione Obama bombardasse la Siria, così come aveva spinto affinchè “Dubya” distruggesse l’Iraq». La logica del Fantasma, continua Escobar, non aveva previsto che lo stesso Isil creato a Damasco (Stato Islamico dell’Islam e del Levante) ora si sarebbe spinto verso Baghdad.Proprio l’influente Blair, lo statista più amato da Renzi, continua a elargire lo stesso sanguinoso regalo, «la Guerra al Terrore, eternamente riciclata e riconfezionata, della quale il Fantasma è stato il primo sostenitore, che si tira dietro l’ultima moda Usa che bolla l’Isil come la personificazione di un nuovo 11 Settembre». Dato che Blair «sperava in Damasco come ripetizione del 2003 di Baghdad», se la logica dei bombardamenti avesse avuto la meglio in Siria, oggi Aleppo sarebbe una replica di Mosul, continua Escobar in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «Più ci si addentra, più il Fantasma sembra l’erede degli – altrettanto spiazzati – comandanti britannici nell’Afghanistan degli anni ’90». Escobar ricorda le involontarie conseguenze dei bombardamenti Usa del 2001 in Afghanistan, con Hazaras (sciiti afghani) fianco a fianco con gli iraniani, insieme all’esercito siriano di Bashar al Assad, contro i “ribelli” siriani «sostenuti dal Fantasma». Nemmeno Peter Mandelson, “signore dell’oscurità”, e mente politica del “New Labour” di Blair, «avrebbe potuto giustificare una cosa del genere».In ogni caso, prosegue Escobar, «il Fantasma è sempre stato convinto della “malvagità” dell’Iran, “avvertendo” costantemente che Teheran era sul punto di assemblare un’arma nucleare (vecchie abitudini – come per la sindrome di Saddam – dure a morire)». Stupito come Dick Cheney, il vecchio Blair, quando Washington e Teheran erano sul punto di discutere a Vienna una sorta di fronte comune per combattere l’Isil in Iraq e addirittura “super-falchi” come il senatore repubblicano Lindsey Graham affermare le impensabili parole «avremo probabilmente bisogno dell’aiuto [dell’Iran] per tenere Baghdad». Secondo Escobar, nonostante la pericolosità di Blair «non c’è alcuna strategia di fondo, nessun piano anglo-statunitense a lungo termine di politica estera in quello che il Pentagono chiama ancora “arco di instabilità”». O con noi o con i terroristi, era il motto di Bush. Peccato che in Libia e in Siria l’Occidente era schierato proprio coi terroristi islamici, secondo la filosofia del “divite et impera”.Washington, continua Escobar, ha ammesso di star inviando “assistenza” letale ai ribelli “moderati” in Siria (come, in teoria, i sicari del Fronte Islamico, non l’Isil o Jabhat al Nusra), «come se gli asset holliwoodiani della Cia non sapessero che queste armi saranno sicuramente vendute ai jihadisti più estremi – o rubate da loro». L’Isil nel deserto senza confini tra Siria e Iraq è già un proto-califfato. Armare i cosiddetti “moderati”? «Non ci sono “moderati”, come non c’erano Talebani “moderati”». Lo scenario sarà quindi ulteriormente destabilizzato: «Delle vittime fanno parte i curdi in Siria, Iraq, Turchia e Iran, i turkmeni in Iraq (come sta già avvenendo questa settimana) e ovviamente i cristiani in ogni nazione (come è già successo in Siria)». Il Fantasma? «Ora sta pregando gli Stati Uniti per un “intervento” in Iraq: prima li affami, poi li bombardi fino a una devastazione che chiamerai “democrazia” e li occupi, poi infesti il tutto di jihadisti, che poi scacci, poi gli jihadisti scatenano l’inferno (425 milioni di dollari rubati da una cassaforte governativa a Mosul, oltre a un sacco di soldi presi ai Wahabiti del Golfo per comparsi tutte quelle Toyota e quegli Rpg), poi li rioccupi lentamente. Questo è il regalo che continua ad essere distribuito».Altro scialo di retorica bugiarda, diffusa da Blair e dai neocon statunitensi: l’Isil «una minaccia per la sicurezza dell’Occidente», parole di Kerry. Ridicolo: «E’ uno scherzo enorme quanto la massa di satelliti incapaci di tracciare una colonna di Toyota bianche che avanzano nel bel mezzo del deserto iracheno – dirette verso la distruzione di quattro divisioni dell’esercito. Le hanno viste, le hanno seguite e hanno fatto finta di nulla, come insegna il libro degli schemi dell’impero del caos. Perchè non spingere il “divide et impera” tra sunniti e sciiti? Lasciamoli mangiare i cadaveri – e uccidersi tra di loro, come nella guerra pluriennale tra Iran e Iraq». La spinta dell’Isil è un remix della guerra civile tra sunniti e sciiti nel 2006 e 2007, i cui effetti, prima dell’invasione Usa, Escobar ha documentato nel reportage “Red Zone Blues”. «Il Fantasma, tuttavia, ha ottenuto ciò che voleva; l’Iraq è a pezzi, irrimediabilmente frammentato», e i curdi hanno preso il controllo del petrolio di Kirkuk.Conclude Escobar: «Il “medio oriente” – di fatto il sudest asiatico – è una finzione occidentale imposta dal potere coloniale alle popolazioni locali. Quello che il Pentagono descrive fin dagli anni 2000 come l’“arco di instabilità” è un sistema anarchico che si autoalimenta, con alcuni scampoli di “pace” rappresentati dalle petro-monarchie meglio conosciute come Consigli di Cooperazione del Golfo (dopotutto abbiamo bisogno del “nostro” petrolio). A seguire c’è il lento e inevitabile processo di integrazione eurasiatico, lungo la miriade di nuove vie della seta che fanno riferimento alla Cina. Questa è una maledizione per l’impero del caos e i suoi leccapiedi, per cui il sudest asiatico in perenne caos è più che apprezzato». E dato che c’è sempre di mezzo anche il Fantasma di Tony Blair, «l’arrogante ectoplasma», aspettiamoci pure un bell’aumento dei carburanti da aggiungere «a questo mescolone occidentale già abbastanza delirante».Tony Blair, il Fantasma dell’Opera – una tragedia infinita chiamata Medio Oriente. Per Pepe Escobar, il Fantasma è tornato, ispirando la guerriglia in Iraq. Il fatto che Blair «continui a gironzolare con la sua sequela di intricate menzogne, invece di starsene a marcire in qualche hotel di lusso», secondo il giornalista di “Asia Times” «ci sbatte in faccia tutto ciò che dobbiamo sapere circa le cosiddette “élite” occidentali, delle quali è un fedele, e ragguardevolmente ricompensato, servo». Tutto, nella regione, è precipitato con l’operazione “shock and awe”, la guerra del 2003 per uccidere Saddam Hussein sulla base di invenzioni (le armi di distruzioni di massa, inesistenti). Guerra promossa da Blair insieme a “Dubya” Bush. «Il Fantasma aveva sempre desiderato che l’amministrazione Obama bombardasse la Siria, così come aveva spinto affinchè “Dubya” distruggesse l’Iraq». La logica del Fantasma, continua Escobar, non aveva previsto che lo stesso Isil creato a Damasco (Stato Islamico dell’Islam e del Levante) ora si sarebbe spinto verso Baghdad.
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Israele, il genocidio dell’acqua per sterminare i palestinesi
L’accesso all’acqua potabile è un presupposto essenziale per la sopravvivenza di ogni comunità, e i servizi igienico-sanitari sono altrettanto essenziali per la salute pubblica. Le leggi internazionali universalmente accettate, istituite per proteggere il diritto di accesso all’acqua potabile, sono sistematicamente violate dal governo israeliano nella Palestina occupata, accusa Elias Akleh: Israele «ha trasformato l’acqua in un’arma di genocidio lento e graduale». Cisgiordania e Gaza soffrono la sete, mentre le comunità rurali dipendono dalle magre forniture israeliane. Numeri: nelle principali città, un palestinese ha accesso ad appena 70 litri d’acqua al giorno, contro i 100 litri raccomandanti dall’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Nelle campagne la dose scende ad appena 20-30 litri, mentre negli insediamenti israeliani verdeggiano parchi e giardini con piscine. «È stato stimato che il 44% dei bambini palestinesi nelle zone rurali soffrono di diarrea – la maggiore causa di morte dei bambini sotto i 5 anni nel mondo a causa della scarsa qualità dell’acqua e degli standard di igiene».Secondo l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, mentre i coloni israeliani irrigano i loro frutteti consumando anche 400 litri d’acqua al giorno a persona, le comunità beduine devono cavarsela con 10-20 litri al giorno, acqua di cisterna a bassa qualità. «Consapevoli della disastrosa situazione dell’acqua nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza – scrive Akleh in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – i paesi donatori hanno sostenuto gli sforzi dell’Autorità Palestinese per sviluppare il settore idrico e igienico-sanitario, e hanno destinato fondi per la costruzione di bacini idrici, impianti di trattamento delle acque reflue, e per la riparazione e l’ampliamento delle reti idriche e fognarie». Sono strutture vitali per la popolazione, finanziate dall’Ewash, coalizione che raggruppa 30 Ong internazionali. Eppure, annota Akleh, «con la sua lunga storia di violazioni di molte leggi internazionali, grazie alla collaborazione della sua società idrica nazionale Mekorot e della società agro-industriale israeliana Mehadrin, il governo israeliano ha adottato politiche discriminatorie sistematiche, gravi e dannose, per ostacolare l’accesso all’acqua ai palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, combinato con l’imponente furto delle risorse idriche».Un rapporto dell’Onu rivela che le società Mekorot e Mehadrin minano gravemente l’accesso dei palestinesi all’acqua, in particolare nella valle del Giordano, pompando l’acqua dei pozzi e delle sorgenti d’acqua palestinesi verso le colonie illegali israeliane (insediamenti) in Cisgiordania. «L’acqua palestinese è stata rubata e convogliata in Israele a costo zero», poi una parte della “refurtiva” viene rivenduta alle città palestinesi: «In questo modo Israele sta rubando ai palestinesi sia la loro acqua che il loro denaro». Tel Aviv, continua Akleh, esercita un potere sottile: «Attraverso la lentezza della burocrazia, blocca la maggior parte delle licenze e i permessi per i nuovi impianti idrici in Cisgiordania, ponendo come condizione la reciproca approvazione da parte dei palestinesi dei progetti nelle colonie illegali, gli insediamenti: un accordo che l’Autorità Nazionale Palestinese rifiuta per paura di legittimare queste colonie». Così, l’Anp non è stata in grado di realizzare infrastrutture su larga scala per proteggere la popolazione: tra il ‘95 e il 2011, i palestinesi si sono visti approvare solo 4 progetti su 30 per le acque reflue e appena 3 pozzi agricoli sui 38 richiesti nel solo 2011.«A causa delle artificiose carenze di acqua imposte da Israele e della mancanza di impianti di trattamento delle acque reflue e delle reti fognarie, la maggioranza dei palestinesi ha dovuto ricorrere alla vecchia pratica di costruire pozzi d’acqua privati, pozzi neri e fosse settiche», racconta Akleh. «Nelle aree rurali i palestinesi dipendono dalle vasche di raccolta d’acqua piovana, dalle cisterne e dai serbatoi d’acqua. Ciò aumenta i timori per la salute pubblica e per i danni all’ambiente». Non è tutto. «Oltre ai tempi prolungati della burocrazia israeliana e al libero furto dell’acqua palestinese, il governo israeliano ha adottato ed attuato politiche e pratiche immorali e illegali, con l’obiettivo di distruggere le risorse idriche palestinesi e di contaminare i loro terreni agricoli per stimolare l’auto-evacuazione dei palestinesi da una zona ambita e la diffusione di una malattia mortale tra i loro bambini cagionevoli». Anche per questo, l’esercito israeliano «svolge ordinariamente quelli che vengono chiamati ordini di demolizione di cisterne comunali e pozzi d’acqua in terreni agricoli privati a causa di una presunta mancanza di autorizzazione». Molte di queste cisterne «sono vecchie di centinaia di anni, più vecchie dello stesso stato illegale di Israele», e includono «serbatoi di acqua trainati da animali e da trattori».Solo nel 2011 l’esercito israeliano ha demolito 89 strutture “Wash” in Cisgiordania, tra cui 21 pozzi, 34 cisterne e molti piccoli serbatoi rurali nella valle del Giordano. «Tale demolizione comprendeva anche la distruzione degli orti, delle stalle e delle baracche degli animali». Una devastazione che viola l’articolo 53 della Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta la distruzione di proprietà privata o pubblica, ed è una chiara violazione del diritto all’acqua, tutelato dall’articolo 11 della Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali. «Il governo israeliano – continua Akleh – utilizza questa negazione dell’accesso all’acqua per innescare gli spostamenti delle persone, soprattutto nelle zone che fanno parte del programma per l’espansione coloniale, in particolare per il fatto che queste comunità sono composte per lo più da agricoltori, che dipendono dall’acqua per il loro sostentamento. Di solito, l’interruzione della fornitura delle risorse idriche precede l’esproprio dei terreni per nuovi progetti coloniali».Il muro di separazione per l’apartheid israeliano, 700 chilometri in costruzione dal 2002, «è stato deliberatamente deviato attraverso la Cisgiordania per includere, nella parte israeliana, il ricco e fertile terreno agricolo palestinese con grandi falde acquifere sotterranee, in particolare all’interno delle provincie di Jenin, Qalqilya e Tulkarem». Il muro, continua Akleh, ha ulteriormente ridotto l’accesso dei palestinesi all’acqua e ha portato alla perdita di accesso a 49 pozzi e serbatoi ad uso agricolo e domestico. A Gaza invece si usano i raid aerei per bombardare le risorse idriche e gli impianti di trattamento dell’acqua, le strutture fognarie, e persino le cisterne agricole antecedenti all’istituzione dello Stato ebraico. «Dal 2005 le incursioni militari israeliane hanno intenzionalmente distrutto almeno 300 pozzi agricoli situati nella zona cuscinetto designata da Israele», devastando anche serbatoi d’acqua sui tetti e molti chilometri di tubazioni e reti d’irrigazione. Durante l’operazione “Piombo Fuso”, sono state rase al suolo strutture idriche per un valore di 6 milioni di dollari.«La situazione a Gaza è particolarmente terribile», sottolinea Akleh. «I palestinesi si basano interamente sulla falda acquifera quasi esaurita, contaminata da acqua salata e dalle acque reflue inquinate, la cui acqua è inadatta al consumo umano». Il brutale assedio imposto da Israele limita l’importazione di molti beni essenziali, tra cui il combustibile necessario per il funzionamento dell’unica centrale elettrica di Gaza. «Senza energia elettrica, gli impianti di trattamento delle acque reflue e le pompe d’acqua in buono stato non possono funzionare, con il conseguente inquinamento prodotto dalle acque reflue». Risultato: «Si stima che 89 milioni di litri di liquami scorrano ogni giorno nel Mar Mediterraneo ad aumentare il livello di nitrati in acqua, fino a sei volte superiore ai limiti dell’Oms di 50 milligrammi per litro. Questo contamina anche il pesce da cui molti palestinesi a Gaza dipendono come principale prodotto alimentare». Fino al 95% dell’acqua estratta dalla falda costiera di Gaza non è adatta al consumo umano. Molte famiglie ripiegano sull’acqua di cisterna, che però è contaminata dai batteri: per l’Onu, diarrea ed epatite virale sono le principali cause di morbosità nella popolazione dei rifugiati della Striscia di Gaza.Il danno peggiore alle risorse idriche palestinesi, ai loro terreni agricoli e all’ambiente, è causato dai coloni, gli estremisti religiosi ebraici armati fino ai denti, «guidati dalla loro religione di suprematismo razzista e senza ostacoli», e protetti dal tacito incoraggiamento del governo di Tel Aviv. «Occupano illegalmente e con la forza le cime delle colline dei terreni agricoli palestinesi, vi costruiscono le loro colonie illegali e iniziano ad attaccare le comunità palestinesi limitrofe». Veri e propri pogrom: attaccano le case palestinesi, incendiano i loro raccolti e le stalle degli animali, confiscano le sorgenti d’acqua. E poi «avvelenano i pozzi con sostanze chimiche, li inquinano con i pannolini sporchi, con le proprie feci o con i polli morti», giungendo a crivellare di colpi di serbatoi sui tetti, dopo averli rovesciati a terra. Colonizzatori fanatici: «Sono i maggiori produttori pro capite di acque reflue in Cisgiordania, e scaricano grandi quantità di acque reflue direttamente nell’ambiente, contaminando il terreno agricolo adiacente e i corsi d’acqua ad uso agricolo».Strategia: inquinare la campagna palestinese, scaricandovi le acque fognarie senza alcuna depurazione, per favorire la propagazione di malattie e sfrattare la popolazione. Secondo le Nazioni Unite, il problema è devastante da quando ai palestinesi sono state strappate le sorgenti: i coloni «hanno usato minacce, intimidazioni e recinzioni». Israele, riassume Elias Akleh, sta deliberamente violando tutte le leggi internazionali che ha sottoscritto: il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (Icescr), il Patto internazionale sui diritti civili e politici (Iccpr), la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia (Crc), la Convenzione Onu sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw), la Quarta Convenzione di Ginevra e il suo protocollo aggiuntivo sulla protezione delle vittime dei conflitti armati, nonché molti dei regolamenti dell’Aja. Negare il diritto all’acqua «è considerato un crimine di genocidio», per il quale Israele «è molto famoso».L’accesso all’acqua potabile è un presupposto essenziale per la sopravvivenza di ogni comunità, e i servizi igienico-sanitari sono altrettanto essenziali per la salute pubblica. Le leggi internazionali universalmente accettate, istituite per proteggere il diritto di accesso all’acqua potabile, sono sistematicamente violate dal governo israeliano nella Palestina occupata, accusa Elias Akleh: Israele «ha trasformato l’acqua in un’arma di genocidio lento e graduale». Cisgiordania e Gaza soffrono la sete, mentre le comunità rurali dipendono dalle magre forniture israeliane. Numeri: nelle principali città, un palestinese ha accesso ad appena 70 litri d’acqua al giorno, contro i 100 litri raccomandanti dall’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Nelle campagne la dose scende ad appena 20-30 litri, mentre negli insediamenti israeliani verdeggiano parchi e giardini con piscine. «È stato stimato che il 44% dei bambini palestinesi nelle zone rurali soffrono di diarrea – la maggiore causa di morte dei bambini sotto i 5 anni nel mondo a causa della scarsa qualità dell’acqua e degli standard di igiene».
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Scuri come africani: ecco i nostri antenati europei
Occhi azzurri, ma pelle scura. Lo dice il Dna estratto dal dente di un maschio cacciatore e raccoglitore che sarebbe vissuto circa 7.000 anni fa nella regione delle Asturie, nel nord della Spagna. Lo riferisce il “Guardian”, su recenti indagini condotte da un pool di scienziati dediti allo studio dell’Homo Sapiens in Europa. Già in precedenza, ricorda Gary Leupp, gli studiosi avevano compreso che gli occhi azzurri erano il risultato di una mutazione genetica avvenuta tra 10.000 e 6.000 anni fa: prima di allora tutti gli uomini avevano gli occhi castani. Ma fino a pochi anni fa si era convinti che la pelle bianca fosse comparsa molto prima di allora: il pool genico europeo, con la sua tipica carnagione chiara, sembrava essersi completamente “differenziato” da quello dell’Asia orientale circa 50.000 anni fa, quando l’Homo Sapiens comparve per la prima volta in Europa e poi in Cina. Ma ora questa analisi temporale dev’essere rivista. Sembra infatti che il pallore europeo abbia avuto origini in tempi molto più recenti.Forse, 7.000 anni fa in Europa non esistevano uomini bianchi quando era in vita il cacciatore-raccoglitore dagli occhi azzurri, che nell’articolo del “Guardian” viene chiamato “bruno”. Secondo Leupp, storico della Tufts University, la nuova ricerca conferma la teoria secondo cui la diffusione dell’agricoltura in Europa, iniziata solo 6.000 anni fa, abbia favorito la sopravvivenza delle persone con una mutazione genetica, capace di generare la carnagione chiara. Tutto questo, sette millenni fa: «E’ un periodo davvero remoto, più di 2.000 anni prima della costruzione di Stonehenge o delle prime piramidi egizie, prima della divisione in classi, prima della nascita degli Stati e della scrittura», osserva Leupp in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. «L’agricoltura era agli albori nella valle del Nilo e nella valle del Fiume Giallo in Cina, mentre questi proto-scandinavi iniziavano nella parte più isolata d’Europa la loro attività di caccia e raccolta. Siamo ancora lontani millenni dall’apparizione storica delle grandi popolazioni europee dei greci, italiani, celti, popoli germanici e slavi».Ancora una volta, però, i tempi sembrano essere molto più dilatati del previsto: «Ci sono prove a supporto del fatto che gli abitanti della penisola scandinava discendessero da popolazioni che si erano insediate in quelle zone già da molto tempo. Se al contrario, così come i celti e i popoli germanici, discendessero dai cacciatori-raccoglitori con gli occhi azzurri delle Asturie, con la pelle scura di 7.000 anni fa, sarebbe opportuno rivalutare l’origine della pelle chiara, non credete?». Ne consegue un’ovvia affermazione: «Gli europei (caucasici) non sono l’unica popolazione bianca del pianeta». A partire dal loro primo contatto con il popolo giapponese nel 1.540 fino almeno all’inizio del 1.800, gli europei descrissero sia i giapponesi che i cinesi come “bianchi”. Marco Polo, alla fine del 1.200, descrisse i cinesi come “bianchi”. Categorizzazione poi sostituita intorno al 1.800 dalla nuova categoria “fulvo” o “giallo”, «che era percepito come un colore intermedio, appena sotto il bianco, in una gerarchia razziale che vede in cima i bianchi e i neri in fondo. Questo concetto, associato al “darwinismo sociale” è un primo approccio ideologico a sostegno del colonialismo e della schiavitù oltre che l’attuale fondamento del razzismo e dell’imperialismo».Le popolazioni dell’est asiatico, così come gli europei, hanno subito una mutazione genetica che li ha resi bianchi, continua Leupp. Mutazione avvenuta migliaia di anni prima rispetto ai nostri antenati nordici? Non possiamo più essere sicuri che fossero “bianchi” i nostri progenitori europei di 7.000 anni fa. Ma forse lo erano i giapponesi. «L’Homo Sapiens che visse nella valle del Fiume Giallo nella Cina del nord 7.000 anni fa, appartenente alla cultura Yangshao che avrebbe inventato a breve l’agricoltura, si pensa fosse “anatomicamente cinese”. I loro forse non lontani cugini giapponesi, i popoli Jomon, in Giappone da 14.000 anni, e il popolo Yayoi, che forma la gran parte del pool genetico giapponese, si crede fossero di pelle chiara». Se erano effettivamente di pelle chiara, conclude Leupp, potrebbero essere stati i primi “bianchi” sul pianeta, ben lontani «da quelli che si pensavano essere i fulcri da cui si è sviluppata la pelle chiara, come il Caucaso, la Scandinavia o la Germania». Le popolazioni di pelle chiara nell’Est asiatico potrebbero aver proliferato e aver raggiunto l’Europa attraverso la vasta steppa russa. «Il genetista Luigi Luca Cavalli-Sforza dell’università di Standford sostiene che due terzi dei geni europei arrivano dall’Asia, un terzo invece dall’Africa».Quand’è che l’uomo è diventato bianco? Dov’è accaduto? «Non ci è chiaro», ammette Leupp, «ma è successo piuttosto di recente e non per forza in Europa». Perché è importante saperlo? «Perché le nozioni di gerarchia razziale basate sul colore della pelle continuano a tormentarci e a perseguitare il nostro inconscio. Vivono nella mente collettiva nordamericana, per essere pronti all’uso ogni qual volta il regime consideri sia giunta l’ora di bombardare un altro Stato asiatico o africano, per portare la “nostra” civiltà bianca alle popolazioni indigene e per poter raffigurare qualsiasi possibile fatto spiacevole come “il fardello dell’uomo bianco”: si vedano ad esempio le lamentele degli uomini del Congresso su come gli iracheni o gli afghani siano stati poco riconoscenti nonostante gli enormi sforzi fatti per conquistarli». Per Leupp, «la comprensione e demistificazione delle vere origini della pelle bianca potrebbero aiutarci a superare la questione».Occhi azzurri, ma pelle scura. Lo dice il Dna estratto dal dente di un maschio cacciatore e raccoglitore che sarebbe vissuto circa 7.000 anni fa nella regione delle Asturie, nel nord della Spagna. Lo riferisce il “Guardian”, su recenti indagini condotte da un pool di scienziati dediti allo studio dell’Homo Sapiens in Europa. Già in precedenza, ricorda Gary Leupp, gli studiosi avevano compreso che gli occhi azzurri erano il risultato di una mutazione genetica avvenuta tra 10.000 e 6.000 anni fa: prima di allora tutti gli uomini avevano gli occhi castani. Ma fino a pochi anni fa si era convinti che la pelle bianca fosse comparsa molto prima di allora: il pool genico europeo, con la sua tipica carnagione chiara, sembrava essersi completamente “differenziato” da quello dell’Asia orientale circa 50.000 anni fa, quando l’Homo Sapiens comparve per la prima volta in Europa e poi in Cina. Ma ora questa analisi temporale dev’essere rivista. Sembra infatti che il pallore europeo abbia avuto origini in tempi molto più recenti.
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Fallujah, la città dove nascono (morti) i bambini-mostro
Le foto scorrono sullo schermo, in un piano alto del Fallujah General Hospital, il policlinico della città irachena rasa al suolo dalle bombe al fosforo bianco, armi di distruzione di massa impiegate dagli Usa nel 2004. Di colpo, scrive Robert Fisk, l’ufficio amministrativo del direttore ospedaliero, Nadhem Shokr Al-Hadidi, si trasforma in una camera degli orrori: «Un neonato con una bocca terribilmente deformata. Un altro con una malformazione del midollo spinale, con materia midollare che fuoriesce dal corpicino. Un neonato con uno spaventoso, enorme occhio da ciclope. Un altro neonato, con solo mezza testa, nato morto come i precedenti, data di nascita 17 giugno 2009». Un’altra foto passa sullo schermo: il piccolo, nato il 6 luglio 2009, è nato con solo «un mozzicone del braccio destro, del tutto privo della gamba sinistra e senza genitali». Orrore quotidiano, fotografie che vanno al di là delle parole: «Come si può anche solo immaginare di descrivere un bambino nato morto, con una sola gamba e la testa che misura quattro volte la taglia del suo corpicino?».«Ho chiesto di poter vedere queste fotografie per assicurarmi che i bambini nati morti, con le loro deformità, fossero reali», premette il grande giornalista inglese, inviato dell’“Independent”, preoccupato che qualche lettore possa pensare a montature a scopo di propaganda anti-Usa. «Ma le fotografie rappresentano una schiacciante, orribile ricompensa a tali dubbi». Un neonato ha braccia deformi. Un altro, nato nel 2010, presenta «una massa grigia su un lato della testa». Un medico spiega che si tratta della “Tetralogia di Fallot”, un difetto del setto interventricolare. Un altro piccolo, nato il 3 maggio 2010, è «una creatura dall’aspetto di una rana». Per il medico, «è come se tutti gli organi addominali cercassero di uscire dal corpo». È troppo, aggiunge Fisk: le fotografie sono eccessivamente crude, incarnano un dolore e una angoscia che ne rende impossibile la visione, perlomeno ai poveri genitori. Immagini che, in poche parole, non possono essere pubblicate.Quel che è veramente vergognoso, aggiunge Fisk, in un servizio ripreso da “Come Don Chisciotte”, è che queste deformità si ripetano senza alcun tipo di monitoraggio o controllo. «Un medico di Fallujah, una ostetrica formatasi in Gran Bretagna, dove ha acquistato a sue spese uno scanner da 79.000 sterline per la rilevazione prenatale delle anomalie congenite destinato alla sua clinica privata – e che è rientrata a Fallujah solo cinque mesi fa – mi dice il suo nome e mi domanda perché il ministero della salute a Baghdad non promuova una approfondita indagine ufficiale sui bambini deformi di Fallujah». E’ andata dal ministro, che le ha promesso che avrebbe creato un comitato. «Sono andata a incontrare il comitato: non hanno fatto nulla, non sono riuscita a ottenere alcun tipo di risposta».I medici di Fallujah si mostrano estremamente onesti e prudenti, aggiunge Fisk: sanno che alcune malformazioni possono essere imputate a problemi genetici ereditari, dovuti a matrimoni tra parenti. Quello che è assolutamente anomalo, però, è la recente esplosione del fenomeno: decisamente allarmante, per la dottoressa Samira Allani, secondo cui la frequenza dei difetti congeniti ha raggiunto «cifre senza precedenti» a partire dal 2010. «Quando i medici cercano di ottenere dei finanziamenti per la ricerca, capita che a volte si rivolgano a organizzazioni che hanno un preciso orientamento politico», spiega Fisk. «Lo studio della dottoressa Allani, ad esempio, ha ricevuto finanziamenti dalla “Kuala Lumpur Foundation to Criminalise War”, fondazione malese per mettere al bando la guerra, un’entità che in maniera appena marginale si oppone all’uso di armi da guerra statunitensi a Fallujah. Anche questo, temo, è parte della tragedia di Fallujah».Per neutralizzare un’infezione fetale basta una semplice trasfusione di sangue, dicono i sanitari, ma questo non aiuta a rispondere alle principali domande: perché l’incremento degli aborti, dei bambini nati morti, delle nascite premature? Il dottor Chris Busby, proveniente dall’università dell’Ulster, ha esaminato circa 5.000 persone a Fallujah, molte delle quali colpite da tumori. «Alcune forti esposizioni ad agenti mutageni sono sicuramente avvenute nel 2004, quando avvennero i bombardamenti», ha dichiarato. Il suo report, redatto in collaborazione con Malak Hamdan ed Entesar Ariabi, afferma che la mortalità infantile a Falluja è pari ad 80 soggetti su ogni 1.000 nati, rispetto ai 19 in Egitto, 17 in Giordania e solo 9,7 in Kuwait. Un altro dei medici di Fallujah dice a Robert Fisk che l’unico contributo ricevuto dal Regno Unito proviene dal dottor Kypros Nicolaides, primario in medicina fetale presso il King’s College Hospital, che attraverso un ente di beneficenza come la Foetal Medicine Foundation ha formato uno dei medici di Fallujah.«L’aspetto da incriminare maggiormente – dichiara a Fisk il medico britannico – è che, durante la guerra, né il governo inglese né quello americano son stati capaci di recarsi da Woolworths, il centro commerciale, ad acquistare dei computer con cui poter documentare le morti in Iraq. Esiste una pubblicazione “Lancet” in cui si stima che il numero dei morti durante la guerra si aggiri intorno ai 600.000. Eppure le potenze occupanti, Usa e Gran Bretagna, non hanno avuto la decenza di dotarsi di un computer del valore di anche solo 500 sterline, in modo da dire “questo corpo è ci è stato portato oggi e questo era il suo nome”». Ora, aggiunge il dottore, «sapete che esiste un paese arabo che ha un numero di malformazioni o tumori maggiore di quello dell’Europa intera». Il medico si dice «sicuro» che queste deformazioni siano in relazione con l’uso di armi da parte dei soldati americani. Ma ora l’Iraq è senza un vero governo, proprio quando servirebbe un accurato studio epidemiologico. «Chiudere gli occhi è molto facile per chiunque – tranne che per qualche professore pazzoide e sensibile come me che, da Londra, cerca di fare qualcosa».Le foto scorrono sullo schermo, in un piano alto del Fallujah General Hospital, il policlinico della città irachena rasa al suolo dalle bombe al fosforo bianco, armi di distruzione di massa impiegate dagli Usa nel 2004. Di colpo, scrive Robert Fisk, l’ufficio amministrativo del direttore ospedaliero, Nadhem Shokr Al-Hadidi, si trasforma in una camera degli orrori: «Un neonato con una bocca terribilmente deformata. Un altro con una malformazione del midollo spinale, con materia midollare che fuoriesce dal corpicino. Un neonato con uno spaventoso, enorme occhio da ciclope. Un altro neonato, con solo mezza testa, nato morto come i precedenti, data di nascita 17 giugno 2009». Un’altra foto passa sullo schermo: il piccolo, nato il 6 luglio 2009, è nato con solo «un mozzicone del braccio destro, del tutto privo della gamba sinistra e senza genitali». Orrore quotidiano, fotografie che vanno al di là delle parole: «Come si può anche solo immaginare di descrivere un bambino nato morto, con una sola gamba e la testa che misura quattro volte la taglia del suo corpicino?».
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Pilger: quella che sta iniziando si chiama guerra mondiale
Perchè tolleriamo di minacciare un’altra guerra mondiale in nostro nome? Perchè permettiamo menzogne che giustifichino questo rischio? La portata del nostro indottrinamento, scrisse Harold Pinter, è un «brillante, persino arguto, atto di ipnosi di immenso successo», come se la verità «non fosse mai accaduta nemmeno mentre stava accadendo». Ogni anno lo storico statunitense William Blum pubblica il suo “Riassunto aggiornato della politica estera degli Usa”, il quale mostra come, dal 1945, essi abbiano provato a sollevare più di 50 governi, molti dei quali democraticamente eletti, abbiano massicciamente interferito nelle elezioni di 30 paesi, abbiano bombardato la popolazione civile di 30 nazioni, abbiano fatto uso di armi chimiche e biologiche e abbiano attentato alla vita di leader stranieri.In molti casi il Regno Unito ne è stato complice. Il grado di sofferenza umana causato, per non parlare dei crimini perpetrati, è ben poco conosciuto in Occidente, malgrado la presenza del sistema di comunicazioni più avanzato del mondo e del giornalismo nominalmente più libero. Il fatto che la maggior parte delle vittime del terrorismo – il “nostro” terrorismo – sia musulmana non può essere detto. L’informazione che il jihadismo estremo, che portò all’11 Settembre, era stato coltivato come arma dalla politica anglostatunitense (“operazione ciclone” in Afghanistan) è stata soppressa. In aprile, il Dipartimento di Stato Usa ha reso noto che, in seguito alla campagna della Nato del 2011, «la Libia è divenuta un rifugio per terroristi».Il nome del “nostro” nemico è cambiato nel corso degli anni, dal comunismo all’Islam, ma generalmente esso è incarnato da qualsiasi società indipendente dall’egemonia dell’Occidente che occupi un territorio strategicamente utile o disponga di abbondanti risorse naturali. I leader di queste nazioni scomode vengono generalmente deposti con la violenza, come i democratici Muhammad Mossedeq in Iran e Salvador Allende in Cile, o uccisi come Patrice Lumumba in Congo. Tutti loro vengono sottoposti a campagne denigratorie dai media occidentali – pensiamo a Fidel Castro, Hugo Chavez e ora Vladimir Putin. Il ruolo di Washington in Ucraina differisce solo per le sue implicazioni nei nostri confronti. Per la prima volta dalla presidenza Reagan, gli Stati Uniti stanno minacciando di ricondurre il mondo in guerra. L’Europa dell’est e i Balcani sono avamposti della Nato e l’ultimo “Stato cuscinetto” al confine con la Russia viene fatto a pezzi.Noi occidentiali stiamo sostenendo dei neonazisti nel paese in cui i nazisti ucraini sostennero Hitler. Dopo aver architettato il colpo di Stato di febbraio contro il governo democraticamente eletto a Kiev, il piano di Washington per la conquista della storica e legittima base navale Russa in Crimea è fallito. I russi si sono difesi, come hanno fatto per oltre un secolo di fronte ad ogni minaccia e invasione da parte dell’Occidente, ma l’accerchiamento da parte della Nato ha avuto un’accelerazione, insieme agli attacchi orchestrati dagli Stati Uniti contro gli ucraini di etnia russa. Se Putin venisse provato ad accorrere in loro aiuto, il suo ruolo di paria predestinato giustificherebbe la Nato ad intraprendere una guerriglia che potrebbe trasferirsi all’interno dello stesso territorio russo.Putin ha invece frustrato il partito della guerra cercando una distensione con Washington e l’Ue, ritirando le truppe russe dal confine e invitando gli ucraini di etnia russa a non partecipare ai provocatori referendum nelle regioni dell’Est. Questa parte di popolazione russofona e bilingue – un terzo del totale – aspira da tempo a una federazione democratica che rispecchi le differenze etniche del paese e che sia al contempo autonoma e indipendente da Mosca. Molti di loro non sono né separatisti né ribelli, ma cittadini che vogliono vivere sicuri nella loro patria.Come le rovine di Iraq e Afghanistan, l’Ucraina è stata ridotta a un parco divertimenti della Cia – diretto dal direttore della Cia John Brennan a Kiev, assieme ad “unità speciali” che sovrintendano ad attacchi selvaggi su coloro i quali si oppongono al golpe di febbraio. Guardate i video, leggete le denunce dei testimoni oculari del massacro di Odessa di questo mese. Squadre di criminali fascisti hanno bruciato la sede dell’unione del commercio, uccidendo le 41 persone intrappolate al suo interno. Guardate la polizia starsene a guardare. Un dottore ha raccontato di aver tentato di salvare alcune persone, «ma sono stato fermato dai sostenitori dei nazi. Uno di loro mi ha spinto via rudemente, promettendomi che presto io e gli altri ebrei di Odessa avremmo avuto la medesima sorte… mi chiedo perchè il mondo intero se ne stia in silenzio».Gli ucraini russofoni stanno lottando per la loro sopravvivenza. Quando Putin ha annunciato il ritiro delle truppe russe dal confine, il segretario della difesa della giunta di Kiev – un membro fondatore del partito fascista Svoboda – ha rincarato dicendo che gli attacchi contro “i ribelli” sarebbero proseguiti. In perfetto stile orwelliano, la propaganda in Occidente ha ribaltato il tutto in “Mosca cerca di fomentare il conflitto e la provocazione”, secondo il segretario degli Esteri britannico William Hague. Il suo cinismo fa da pari con i grotteschi complimenti di Obama alla giunta per la sua «notevole compostezza» nel seguire il massacro di Odessa. Benchè sia fascista e illegale, la giunta è descritta da quest’ultimo come «propriamente eletta». Ciò che conta non è la verità, ha detto una volta Henry Kissinger, ma ciò che è percepito essere vero.Nei media statunitensi, le atrocità di Odessa sono state presentate come «confuse» e «una tragedia» in cui i «nazionalisti» (neonazisti) hanno attaccato i «separatisti» (persone che raccoglievano firme per un referendum a sostegno della Federazione Ucraina). Il “Wall Street Journal” di Rupert Murdoch ha condannato le vittime: “La sparatoria è stata probabilmente innescata dai ribelli ucraini, dice il governo”. La propaganda in Germania è stata guerra fredda allo stato puro, con il “Frankfurter Allgemeine Zeitung” che avvertiva i suoi lettori della “guerra ancora non dichiarata dalla Russia”. Per i tedeschi è una fantastica ironia che Putin sia l’unico leader a condannare l’ascesa del fascismo nell’Europa del 21° secolo.Una popolare banalità è che “il mondo sia cambiato dopo l’11 Settembre”, ma cosa è veramente cambiato? Secondo il grande informatore Daniel Ellsberg, un golpe silenzioso è già avvenuto a Washington e ora a governare è un militarismo rampante. Il Pentagono ultimamente svolge “operazioni speciali” – guerre segrete – in 124 paesi. In patria, una povertà crescente e una morente libertà sono il corollario ad uno stato di guerra perpetua. Aggiungiamo il rischio di una guerra nucleare e la domanda è: perchè tolleriamo tutto ciò?(John Pilger, “Rompere il silenzio, la guerra mondiale sta iniziando”, da “Asia Times” del 14 maggio 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”).Perchè tolleriamo di minacciare un’altra guerra mondiale in nostro nome? Perchè permettiamo menzogne che giustifichino questo rischio? La portata del nostro indottrinamento, scrisse Harold Pinter, è un «brillante, persino arguto, atto di ipnosi di immenso successo», come se la verità «non fosse mai accaduta nemmeno mentre stava accadendo». Ogni anno lo storico statunitense William Blum pubblica il suo “Riassunto aggiornato della politica estera degli Usa”, il quale mostra come, dal 1945, essi abbiano provato a sollevare più di 50 governi, molti dei quali democraticamente eletti, abbiano massicciamente interferito nelle elezioni di 30 paesi, abbiano bombardato la popolazione civile di 30 nazioni, abbiano fatto uso di armi chimiche e biologiche e abbiano attentato alla vita di leader stranieri.
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Aereo scomparso, brevetto d’oro: ridono i Rothschild?
Certe cose, si dice, accadono solo nei film, perché tra il “complottismo” e i complotti (quelli veri) spesso c’è di mezzo il mare. Magari l’Oceano Indiano, dove si suppone che l’8 marzo 2014, alcune ore dopo il decollo da Kuala Lumpur, si sia inabissato il Boeing 777 della Malaysia Airlines, con a bordo 239 persone, compresi i 12 membri dell’equipaggio. Sull’aereo che dalla capitale malese doveve arrivare a Pechino, oltre a 4 passeggeri con passaporti falsi, ora si scopre che c’erano 20 specialisti del Pentagono, esperti in guerra elettronica, e quattro ingegneri cinesi. “Colleghi” degli americani, con una differenza sostanziale, cioè miliardaria: i cinesi erano titolari di un brevetto di importanza capitale, proprio sui semiconduttori su cui si basa il conflitto globale nell’era elettronica. Brevetto che, dopo la misteriosa scomparsa del velivolo, sarebbe ora rimasto interamente nelle mani del quinto socio, l’unico che non era a bordo di quell’aereo: il finanziere anglo-israeliano Jacob Rothschild.Il giornalista messicano Alfredo Jalife-Rahme, docente di scienze politiche alla “Universidad Nacional Autónoma de México”, editorialista spesso intervistato dalla Cnn, cita la ricostruzione offerta da “Russia Today”, secondo cui quel famoso documento strategico sui semiconduttori era stato approvato dall’ufficio brevetti degli Stati Uniti appena quattro giorni prima che l’aereo sparisse nel nulla. La proprietà del brevetto, scrive Jalife-Rahme in un post su “Rete Voltaire” ripreso da “Megachip”, era detenuta da cinque titolari, ognuno al 20 per cento: la società Freescale Semiconductor con sede ad Austin, Texas, e i quattro cinesi a bordo del tragico volo, originari della città di Suzhou e a loro volta dipendenti della società texana. Secondo “Rt”, «se il titolare del brevetto muore, gli altri titolari si divideranno alla pari i dividendi del defunto, qualora ciò non sia contestato nel suo testamento». Quindi, scomparsi i quattro proprietari cinesi, il brevetto andrà a «colui che rimane in vita», cioè in questo caso la texana Freescale Semiconductor, «che appartiene alla controversa e invisibile società Blackstone», il cui proprietario è proprio mister Rothschild.Per Jalife-Rahme, emerge «in maniera inquietante» il legame tra la Blackstone, la cui identità è definita «invisibile», e la super-finanziaria Blackrock, che – insieme a Evercore Partnership – ha appena beneficiato della privatizzazione della Pemx, la compagnia petrolifera messicana. «Apparirebbe dunque che Blackstone amministri la Blackrock, diretta dall’anglo-statunitense Larry Fink». Sicché, «al di là dell’interconnessione tra le alte sfere di Blackstone, Blackrock, Rothschild, George Soros, Scotia Bank, Evercore Partnership, Protego, unitamente a Kissinger Associates e alle controverse assicurazioni Aig, il cui presidente è l’israelo-statunitense Maurice Hank Greenberg, si dovrebbe scrutare l’identità dell’impresa Freescale Semiconductor», scrive l’analista messicano. «È alquanto strano che tra i 239 passeggeri, 20 fossero dipendenti del Pentagono, oltre ai quattro passeggeri che avevano dei passaporti rubati».Ben al di sopra delle inevitabili speculazioni del caso, il fatto rilevante risiede nella professione di elettronico svolta dai 20 dipendenti del Pentagono, «tutti quanti molto qualificati nell’arte della guerra elettronica volta a evitare i sistemi radar militari». Cosa assai curiosa: dei 20 dipendenti scomparsi della Freescale Semiconductor, dodici sono originari della Malesia e otto della Cina. La Freescale, aggiunge Rahme, si vanta del fatto che i suoi prodotti abbiano applicazioni in ambiti sempre più strategici: comunicazioni sul campo di battaglia, avionica, guida dei missili, guerra elettronica, sistemi di riconoscimento amico o nemico. Usare l’elettronica, dunque: per depistare le armi dell’avversario e occultare obiettivi, fino a renderli completamente invisibili facendoli letteralmente sparire dai radar, come è accaduto per l’introvabile Boeing malese.«La controversa società texana – continua il giornalista – è stata una delle prime società di semiconduttori al mondo. Cominciò come una divisione della Motorola, dalla quale poi si separò per essere acquisita nel 2006 dalla Blackstone (dei Rothschild), dall’onnipotente Carlyle Group e dalla Tpg Capital». Per inciso, dietro Carlyle Group c’è «il nepotismo dinastico dei Bush, di Frank Carlucci (ex consigliere per la sicurezza nazionale ed ex segretario alla difesa) e dell’ex primo ministro britannico John Major», mentre la Tpg Capital è una potente società d’investimento con sede a Fort Worth (Texas), presieduta dall’israelo-americano David Bonderman, «che eccede per stravaganze come quella di aver versato 7 milioni di dollari ai Rolling Stones e altri per celebrare il suo sessantesimo compleanno, nel 2002».Freescale Semiconductor, aggiunge Jalife-Rahme, si è specializzata nella guerra elettronica e nella tecnologia “stealth”, sviluppando contromisure elettroniche anti-radar: interferenze, deviazione delle traiettorie dei missili, modificazione elettrica delle proprietà dell’aria. Secondo il “Daily Beast”, un attacco israeliano contro l’Iran andrebbe ben al di là del bombardamento aereo: probabilmente, Tel Aviv farebbe ricorso a una guerra elettronica contro l’intero sistema elettrico del paese, le sue connessioni Internet, le sue reti cellulari e le sue frequenze di emergenza per pompieri e poliziotti. Il giornale assicura che Israele «ha messo a punto un’arma in grado di imitare il segnale di mantenimento dei telefoni cellulari», che blocca efficacemente le trasmissioni. Nel corso dell’ultimo decennio, lo Stato ebraico ha «accumulato una vasta gamma di armi ad alta tecnologia del valore di svariati milioni di dollari», che gli permetterebbe di «contrastare, accecare e rendere sorde le difese di Teheran nel caso di un attacco aereo».Inoltre, aggiunge Rahme, c’è una nuova tecnologia “stealth” che rende l’aereo invisibile ai radar e lo maschera all’occhio umano, laddove il camuffamento ad alta tecnologia può creare campi elettromagnetici, come afferma “Military.com”. «La Cina accusa gli Stati Uniti di una intensificazione degli attacchi via Internet, mentre Pechino e Washington accelerano la corsa agli armamenti per la dissimulazione della tecnologia dell’aereo invisibile». E una potente società britannica di armamenti come la Bae Systems, «legata alla Nsa, al segretariato della Homeland Security nonché al sinistro Wilson Center», possiede «un programma adattabile, che punta a occultare gli autoveicoli, e che può estendersi alle imbarcazioni e agli elicotteri». Si domanda Jalife-Rahme: «Dovremmo dunque vedere dietro la scatola nera del volo Mh 370 il lugubre duo finanziario Blackstone/Blackrock dei Rothschild?».Certe cose, si dice, accadono solo nei film, perché tra il “complottismo” e i complotti (quelli veri) spesso c’è di mezzo il mare. Magari l’Oceano Indiano, dove si suppone che l’8 marzo 2014, alcune ore dopo il decollo da Kuala Lumpur, si sia inabissato il Boeing 777 della Malaysia Airlines, con a bordo 239 persone, compresi i 12 membri dell’equipaggio. Sull’aereo che dalla capitale malese doveve arrivare a Pechino, oltre a 4 passeggeri con passaporti falsi, ora si scopre che c’erano 20 specialisti del Pentagono, esperti in guerra elettronica, e quattro ingegneri cinesi. “Colleghi” degli americani, con una differenza sostanziale, cioè miliardaria: i cinesi erano titolari di un brevetto di importanza capitale, proprio sui semiconduttori su cui si basa il conflitto globale nell’era elettronica. Brevetto che, dopo la misteriosa scomparsa del velivolo, sarebbe ora rimasto interamente nelle mani del quinto socio, l’unico che non era a bordo di quell’aereo: il finanziere anglo-israeliano Jacob Rothschild.
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Tempi duri per i nuovi Goebbels: il web li smaschera
Da sempre i governanti tentano di persuaderci circa la correttezza delle loro azioni, perché le folle non seguono gli uomini di cui si conosca appieno la cattiveria. Il XX secolo ha visto comparire nuove modalità di diffusione delle idee che non si fanno intralciare dalla verità. Gli occidentali fanno risalire la propaganda moderna al ministro nazista Joseph Goebbels. È un modo per far dimenticare che l’arte di distorcere la percezione delle cose è stata precedentemente sviluppata dagli anglosassoni. Nel 1916, il Regno Unito creò la Wellington House a Londra, seguita dalla Crewe House. Contemporaneamente, gli Stati Uniti crearono il Committee on Public Information (Cpi). Considerando che la Prima Guerra Mondiale contrapponeva le masse e non più solo le forze armate, queste organizzazioni hanno tentato di intossicare la propria popolazione altrettanto quanto quelle dei loro alleati e dei loro nemici.La propaganda moderna inizia con la pubblicazione a Londra del Rapporto Bryce sui crimini di guerra tedeschi, che fu tradotto in trenta lingue. Secondo questo documento, l’esercito tedesco aveva violentato migliaia di donne in Belgio, e pertanto l’ armata britannica lottava contro la barbarie. È stato scoperto alla fine della Prima Guerra Mondiale che l’intera relazione era una bufala, composta di false testimonianze con l’aiuto di giornalisti. Da parte sua, negli Stati Uniti, George Creel inventò un mito secondo il quale la Seconda Guerra Mondiale era una crociata delle democrazie per una pace volta a realizzare i diritti dell’umanità. Gli storici hanno dimostrato che la guerra mondiale rispondeva sia a cause immediate sia a cause profonde, delle quali la più importante era la competizione tra le grandi potenze per espandere i loro imperi coloniali.Gli uffici britannici e statunitensi erano organizzazioni segrete che lavoravano per conto dei loro Stati. A differenza della propaganda leninista, che aspirava a “rivelare la verità” alle masse ignoranti, gli anglosassoni cercavano di ingannarle per manipolarle. E per questo le agenzie statali anglosassoni dovevano nascondersi e usurpare delle false identità. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno trascurato la propaganda e le hanno preferito le pubbliche relazioni. Non si trattava più di mentire, ma accompagnare per mano i giornalisti affinché vedessero solo ciò che gli veniva mostrato. Durante la guerra del Kosovo, la Nato ricorse ad Alastair Campbell, consigliere del primo ministro britannico, affinché raccontasse alla stampa una storia edificante al giorno. Mentre i giornalisti la riproducevano, l’Alleanza poteva bombardare “in pace”. Lo storytelling puntava meno a mentire quanto semmai a distrarre.Tuttavia, lo storytelling è tornato in forze con i fatti dell’11 settembre 2001: si trattava di focalizzare l’attenzione del pubblico sugli attentati contro New York e Washington affinché non percepisse il colpo di Stato militare organizzato in quel giorno: il trasferimento dei poteri esecutivi del presidente Bush a un’unità militare segreta e gli arresti domiciliari di tutti i parlamentari. Questo avvelenamento avveniva particolarmente ad opera di Benjamin Rhodes, oggi consigliere di Barack Obama. Nel corso degli anni successivi, la Casa Bianca ha installato un sistema di intossicazione con i suoi alleati chiave (Regno Unito, Canada, Australia e naturalmente Israele). Ogni giorno questi quattro governi hanno ricevuto istruzioni o discorsi pre-scritti dall’Ufficio dei media globali per giustificare la guerra in Iraq o diffamare l’Iran. Per la rapida diffusione delle sue bugie, Washington si è appoggiata, sin dal dal 1989, alla Cnn. Nel corso del tempo, gli Stati Uniti hanno creato un cartello di catene d’informazione satellitari (Al-Arabiya, Al-Jazeera, Bbc, Cnn, France 24, Sky).Nel 2011, durante il bombardamento di Tripoli, la Nato giunse a sorpresa a convincere i libici che avevano perso la guerra e che era inutile resistere ancora. Ma nel 2012, la Nato non è riuscita a replicare questo modello e a convincere i siriani che il loro governo sarebbe inevitabilmente caduto. Questa tattica è fallita perché i siriani erano a conoscenza della manipolazione effettuata dalle televisioni internazionali in Libia e hanno potuto prepararsi. E questo fallimento segna la fine dell’egemonia di questo cartello dell’“informazione”. L’attuale crisi tra Washington e Mosca sull’Ucraina ha costretto l’amministrazione Obama a rivedere il proprio sistema. Infatti, Washington ora non è più la sola a parlare, deve contraddire il governo e i media russi, accessibili ovunque nel mondo via satellite e via internet. Il Segretario di Stato John Kerry ha perciò nominato un nuovo vice per la propaganda, nella persona dell’ex direttore di “Time Magazine”, Richard Stengel. Ancor prima di prestare giuramento, il 15 aprile, stava già occupando il suo ufficio e, dal 5 marzo, ha inviato ai principali mezzi di comunicazione atlantisti una “Scheda documentata” sulle “10 contro-verità” che Putin avrebbe enunciato sull’Ucraina. Si ripeteva il 13 aprile con una seconda scheda che presentava “10 altre contro-verità”.Ciò che colpisce nel leggere questa prosa è la sua inettitudine. Punta a convalidare la storia ufficiale di una rivoluzione a Kiev e screditare il discorso russo sulla presenza di nazisti nel nuovo governo. Tuttavia, ora sappiamo che in realtà più che di una rivoluzione, si trattava casomai di un colpo di Stato organizzato dalla Nato e attuato dalla Polonia e da Israele mescolando le ricette delle “rivoluzioni colorate” e delle “primavere arabe”. I giornalisti che hanno ricevuto queste schede e le hanno ritrasmesse conoscevano perfettamente le registrazioni delle conversazioni telefoniche dell’assistente del segretario di Stato Victoria Nuland, sulla maniera in cui Washington avrebbe cambiato il regime a spese dell’Unione europea, e il ministro affari esteri estone Urmas Paets sulla vera identità dei cecchini di Maidan. Inoltre, hanno poi appreso le rivelazioni del settimanale polacco “Nie” sulla formazione – due mesi prima degli eventi – dei rivoltosi nazisti presso l’Accademia di polizia polacca.Quanto a negare la presenza di nazisti nel nuovo governo ucraino, equivale ad affermare che la notte è luminosa. Non è nemmeno necessario andare a Kiev, per constatarlo basta leggere gli scritti degli attuali ministri o ascoltare i loro propositi. In definitiva, se questi argomenti contribuiscono a dare l’illusione di un ampio consenso dei media atlantisti, non hanno alcuna possibilità di convincere i cittadini curiosi. Al contrario, è così facile con Internet scoprire l’inganno che questo tipo di manipolazione non potrà che intaccare ancora di più la credibilità di Washington. L’unanimità dei media atlantisti in occasione dell’11 Settembre ha consentito di convincere l’opinione pubblica internazionale, ma il lavoro svolto da molti giornalisti e cittadini – di cui sono stato precursore – ha dimostrato l’impossibilità materiale della versione ufficiale. Tredici anni dopo, centinaia di milioni di persone sono diventate consapevoli di quelle menzogne.Questo processo potrà solo crescere, dato il nuovo dispositivo di propaganda statunitense. In definitiva, tutti coloro che riamplificano gli argomenti della Casa Bianca, specie i governi e i media della Nato, distruggono da soli la propria credibilità. Barack Obama e Benjamin Rhodes, John Kerry e Richard Stengel hanno effetto solo a breve termine. La loro propaganda convince le masse solo per poche settimane e fa sì che si ribellino quando capiscono la manipolazione. Involontariamente, minano la credibilità delle istituzioni degli Stati della Nato che le ritrasmettono consapevolmente. Hanno dimenticato che la propaganda del XX secolo poteva avere successo solo perché il mondo era diviso in blocchi che non comunicavano tra loro, e che il suo principio monolitico è incompatibile con i nuovi mezzi di comunicazione. La crisi ucraina non è finita, ma ha già profondamente cambiato il mondo: nel contraddire in pubblico il presidente degli Stati Uniti, Vladimir Putin ha compiuto un passo che ormai impedisce il successo della propaganda statunitense.(Thierry Meyssan, “Verso la fine della propaganda statunitense”, da “Megachip” del 20 aprile 2014).Da sempre i governanti tentano di persuaderci circa la correttezza delle loro azioni, perché le folle non seguono gli uomini di cui si conosca appieno la cattiveria. Il XX secolo ha visto comparire nuove modalità di diffusione delle idee che non si fanno intralciare dalla verità. Gli occidentali fanno risalire la propaganda moderna al ministro nazista Joseph Goebbels. È un modo per far dimenticare che l’arte di distorcere la percezione delle cose è stata precedentemente sviluppata dagli anglosassoni. Nel 1916, il Regno Unito creò la Wellington House a Londra, seguita dalla Crewe House. Contemporaneamente, gli Stati Uniti crearono il Committee on Public Information (Cpi). Considerando che la Prima Guerra Mondiale contrapponeva le masse e non più solo le forze armate, queste organizzazioni hanno tentato di intossicare la propria popolazione altrettanto quanto quelle dei loro alleati e dei loro nemici.
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La guerra di Ugo: il 25 aprile e l’euro-Italia di Renzi
Ugo Berga è un anziano signore di novant’anni, nipote di Palmiro Togliatti. Vive in valle di Susa, dove ha combattuto come partigiano. Dice: oggi, i partigiani della libertà e della giustizia sono i No-Tav, coi quali peraltro l’anziano Berga solidarizza, anche con happening a Chiomonte, a cento passi dalla baita in cui Beppe Grillo qualche anno fa violò i sigilli giudiziari, finendo anche lui in tribunale. Dalla parte dei No-Tav – cioè della libertà e della giustizia, per dirla con nonno Ugo – è dunque schierato il populista Grillo, mentre gli ultimi eredi piemontesi di quello che fu il partito di Togliatti – il sindaco torinese Fassino, l’ex sindaco Chiamparino ora in corsa per la Regione Piemonte, l’ex presidente Mercedes Bresso candidata al Parlamento Europeo – sono i più acerrimi avversari degli “eretici” valsusini. Proprio loro, gli ex-Pci, sono i nemici giurati dei ragazzi per i quali fa il tifo il partigiano comunista Ugo Berga, nipote di Togliatti. Dov’è l’errore?Il 25 aprile, per decenni ricorrenza sacra alla sinistra ufficiale (quella del partito di Gramsci, Togliatti, Berlinguer) pare ormai una questione da nonni, capace di appassionare soltanto novantenni – oppure ventenni, ma con sciarpa No-Tav. Nonni che hanno lasciato un segno, in valle di Susa e altrove. Come il grande Giorgio Bocca, che nel 2005 – dopo il primo atto di forza contro la popolazione, ostile alla grande opera più inutile d’Europa – scrisse, testualmente: se qualcuno mi parla ancora di Tav Torino-Lione tiro fuori il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo sepolto nell’aprile del ‘45. Almeno dieci anni prima, sempre in valle di Susa, i futuri No-Tav ascoltarono parole profetiche da un altro venerabile nonno, Nuto Revelli, partigiano sulle stesse montagne di Bocca. Vi vogliono remissivi e disclipinati – disse Nuto – ma voi, ragazzi, imparate a ribellarvi: dovete dare fastidio, al potere. Non dategliela vinta, resistete, non arrendetevi.Nuto Revelli fiutava i tempi: l’eclissi della sinistra come patria politica dei diritti sacrificati alla nuova dittatura, quella del mercato. Oggi, i pronipoti di Togliatti – la sinistra di potere – inaugura a Torino l’Hotel Gramsci, lusso a 5 stelle sulle ceneri della casa del più grande intellettuale e militante della sinistra italiana. Ieri, Massimo D’Alema autorizzava i bombardamenti sulla Jugoslavia, dopo che gli infiltrati dell’Unione Europea – a cominciare da Romano Prodi – avevano impacchettato l’Italia, all’insaputa degli italiani, dentro trattati-capestro i cui effetti catastrofici si rivelano al grande pubblico soltanto oggi, caduto lo schermo di comodo dell’antiberlusconismo. Su quel palco ora volteggia Renzi, l’illusionista che prende ordini dalla Jp Morgan tramite Tony Blair. Sa benissimo che i devoti elettori del Pd lo voteranno lo stesso, anche se rottama gli ultimi diritti sociali come vuole il neoliberismo dell’élite, l’oligarchia che sta restaurando il feudalelismo in Europa. Con tanti saluti a Ugo Berga, Giorgio Bocca, Nuto Revelli e tutti gli altri nonni, per i quali il 25 aprile era la data di una vittoria storica: un mondo onesto e pulito, fatto di pari opportunità per tutti, non solo per i ricchi.Ugo Berga è un anziano signore di novant’anni, nipote di Palmiro Togliatti. Vive in valle di Susa, dove ha combattuto come partigiano. Dice: oggi, i partigiani della libertà e della giustizia sono i No-Tav, coi quali peraltro l’anziano Berga solidarizza, anche con happening a Chiomonte, a cento passi dalla baita in cui Beppe Grillo qualche anno fa violò i sigilli giudiziari, finendo anche lui in tribunale. Dalla parte dei No-Tav – cioè della libertà e della giustizia, per dirla con nonno Ugo – è dunque schierato il populista Grillo, mentre gli ultimi eredi piemontesi di quello che fu il partito di Togliatti – il sindaco torinese Fassino, l’ex sindaco Chiamparino ora in corsa per la Regione Piemonte, l’ex presidente Mercedes Bresso candidata al Parlamento Europeo – sono i più acerrimi avversari degli “eretici” valsusini. Proprio loro, gli ex-Pci, sono i nemici giurati dei ragazzi per i quali fa il tifo il partigiano comunista Ugo Berga, nipote di Togliatti. Dov’è l’errore?
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Un giorno il Giappone sgancerà l’atomica su New York
Caroline Kennedy, figlia di Jfk, nuova ambasciatrice americana a Tokyo, ha denunciato la mattanza di 40 delfini avvenuta nella baia di Taiji, nel distretto di Wakayama, dicendosi «profondamente preoccupata dalla disumanità della caccia e dell’uccisione dei delfini» e ricordando che «il governo degli Stati Uniti si oppone a questa pratica». La caccia ai delfini, specie non a rischio di estinzione, in Giappone comincia in autunno e finisce a marzo e «come la signora ambasciatrice deve sapere, noi viviamo di questa attività», ha detto il capo dei pescatori di Taiji. Sono curiosi questi americani, negli ultimi anni con i loro bombardamenti alla “chi cojo cojo”, con i loro dardo senza equipaggio, hanno ucciso, in Afghanistan e in Iraq, centinaia di migliaia di persone, uomini, donne, vecchi, bambini, ma poi si inumidiscono fino alle lacrime per 40 delfini.Il governatore di Wakayama, Yoshinobu Nisaka, ha replicato: «La cultura alimentare varia ed è saggio che le diverse civiltà si rispettino a vicenda. Ogni giorno vengono abbattuti maiali e vacche per la catena alimentare. Sarebbe crudele solo uccidere i delfini?». E il governo nipponico ha tenuto il punto: «Questa forma di caccia è una tradizione culturale». E’ il secondo incidente diplomatico che, in soli due mesi, la signora Kennedy provoca in Giappone. A dicembre si era detta «delusa» perché il primo ministro Shinzo Abe si era permesso di visitare il sacrario di Yasukuni dove sono onorati «anche 14 leader politici e militari giapponesi», condannati per crimini di guerra nel 1946 (nei processi di Tokyo, l’equivalente nipponico di quello di Norimberga; nel settembre 1986 il ministro dell’educazione giapponese, Masayuki Fuijno, sollevò un putiferio ponendo l’elementare domanda: «Chi ha dato ai vincitori il diritto di giudicare i vinti?»).In realtà dietro queste schermaglie c’è qualcosa di molto più profondo. Qualche anno fa mi recai in Giappone invitato dall’università di Kyoto (nemo propheta in patria) a tenere una conferenza su “americanismo e antiamericanismo, il ruolo dell’Europa”. In apparenza i rapporti fra Stati uniti e Giappone, che nel Pacifico è “la quarta sponda” degli Usa, erano ottimi, i rapporti commerciali intensissimi. Ma nell’animo dei giapponesi cova un sordo rancore, anche se, chiuso nel loro impenetrabile formalismo, non viene mai espresso. Lo si può notare solo da dei dettagli. Nel periodo in cui ero in Giappone c’era stata una partita di baseball fra americani e giapponesi, che in questo sport sono assai forti, vinta dai primi 4-3 con un punto contestatissimo. Ebbene, per giorni e giorni lo “Yumiuri Shimbun” e l’“Asahi Shimbun”, giornali serissimi, che parlano solo di economia e di politica internazionale, sono andati avanti a polemizzare su quel punto a loro dire “rubato”. La partita era solo un pretesto.I giapponesi non hanno mai digerito l’Atomica su Hiroshima e Nagasaki e, ancor meno, anche se a noi può sembrare strano, che gli americani, vinta la guerra, gli abbiano imposto di “dedivinizzare” l’Imperatore. L’Imperatore è la simbolica e intoccabile anima del Giappone, non è un uomo in carne e ossa (tanto che il mio giovane interprete, Ken, non ne sapeva nemmeno il nome, non per ignoranza, ma perché non ha importanza). In tanti secoli non c’è stato un solo tentativo di attentato all’Imperatore. Eppure le mura del palazzo imperiale di Kyoto, in legno, sono così basse che anche un ragazzino potrebbe saltarle agevolmente. Attraverso la “dedivinizzazione” dell’Imperatore gli americani, col consueto tatto da elefanti in un negozio di cristalli, hanno cercato di uccidere l’anima stessa del Giappone. I giapponesi non glielo hanno mai perdonato. E sono convinto che verrà il momento in cui getteranno una trentina di atomiche su New York.(Massimo Fini, “Un giorno i giapponesi getteranno 30 atomiche su New York”, intervento pubblicato da “Il Gazzettino” il 24 gennaio 2014 e ripreso da “Come Don Chisciotte”).Caroline Kennedy, figlia di Jfk, nuova ambasciatrice americana a Tokyo, ha denunciato la mattanza di 40 delfini avvenuta nella baia di Taiji, nel distretto di Wakayama, dicendosi «profondamente preoccupata dalla disumanità della caccia e dell’uccisione dei delfini» e ricordando che «il governo degli Stati Uniti si oppone a questa pratica». La caccia ai delfini, specie non a rischio di estinzione, in Giappone comincia in autunno e finisce a marzo e «come la signora ambasciatrice deve sapere, noi viviamo di questa attività», ha detto il capo dei pescatori di Taiji. Sono curiosi questi americani, negli ultimi anni con i loro bombardamenti alla “chi cojo cojo”, con i loro dardo senza equipaggio, hanno ucciso, in Afghanistan e in Iraq, centinaia di migliaia di persone, uomini, donne, vecchi, bambini, ma poi si inumidiscono fino alle lacrime per 40 delfini.
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Zanotelli: giornalisti, ascoltate il dolore dei poveri
Caro/a giornalista, pace e bene! So quanto sia difficile fare oggi il giornalista in Italia, dentro un sistema in cui i media sono nelle mani dei potentati economico-finanziari.Per questo non ti scrivo per chiederti l’eroismo, anche se in Italia abbiamo avuto tanti giornalisti, che hanno pagato con il sangue, il coraggio di dire la verità al potere, sia esso politico, economico-finanziario o mafioso. Ti scrivo solo per chiederti di mettere qualche ‘sassolino’ nell’ingranaggio dell’informazione, facendo passare qualche notizia in più sui drammi dei più poveri, soprattutto del sud del mondo. Ti confesso che mi fa tanto male vedere come l’informazione in questo paese sia così provinciale, così centrata sui nostri problemi, così persa nei meandri dei pettegolezzi della nostra vita politica e sociale.Come missionario sono profondamente indignato per il pochissimo spazio dato alle gravi crisi che attanagliano il sud del mondo, in particolare dell’Africa, il continente più vicino a noi (è solo grazie alle testate missionarie, che gira qualche notizia in più e non nel grande circuito dei media.) Non riesco a capire come, per esempio, si parli così poco delle tragedie in atto in quel continente. Penso all’attuale guerra civile in Sud Sudan, con migliaia di morti e centinaia di migliaia di rifugiati. Penso alla drammatica situazione della Repubblica Centrafricana, dove si è innescata un’altra spaventosa guerra fratricida. Penso ai bombardamenti in atto nel Sudan contro il popolo Nuba, da parte dell’esercito di Khartoum. Penso a tutta la zona saheliana che vive una stagione di grave instabilità.Siamo di fronte a immensi drammi umani, a massacri di popolazioni inermi, a milioni di rifugiati che ora premono alle porte dell’Europa. E tutto questo in un incredibile silenzio stampa. Ricevo ogni giorno appelli di missionari che chiedono di far conoscere i drammi dei loro popoli. Ma è quasi impossibile far passare tutto questo nei media nazionali. Siamo di fronte alla ‘globalizzazione dell’indifferenza’, come ha detto Papa Francesco a Lampedusa. Caro giornalista, mi appello a te, alla tua umanità, perché tu possa darci una mano a far conoscere il grido di dolore di tanti uomini, donne e bambini. Te lo chiedo perché porto, da una vita, nel mia carne, la loro sofferenza. Ma anche perché, come giornalista, ho pagato caro l’aver detto la verità al potere. Caro giornalista, vorrei che anche tu potessi aiutarci, invitando i tuoi colleghi a fare altrettanto. Se tanti giornalisti della carta stampata, del web, della radio e della televisione dessero solo un piccolo contributo, avremmo un miracolo informatico. Caro collega, non ti chiedo l’eroismo, ma solo un po’ più di coraggio e di passione.Caro/a giornalista, pace e bene! So quanto sia difficile fare oggi il giornalista in Italia, dentro un sistema in cui i media sono nelle mani dei potentati economico-finanziari. Per questo non ti scrivo per chiederti l’eroismo, anche se in Italia abbiamo avuto tanti giornalisti, che hanno pagato con il sangue, il coraggio di dire la verità al potere, sia esso politico, economico-finanziario o mafioso. Ti scrivo solo per chiederti di mettere qualche ‘sassolino’ nell’ingranaggio dell’informazione, facendo passare qualche notizia in più sui drammi dei più poveri, soprattutto del sud del mondo. Ti confesso che mi fa tanto male vedere come l’informazione in questo paese sia così provinciale, così centrata sui nostri problemi, così persa nei meandri dei pettegolezzi della nostra vita politica e sociale.
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Siria, era tutto falso: chi ha mentito ora chieda scusa
Una colossale montatura, progettata a tavolino sulla base di prove false: l’esercito siriano, che la Nato stava per bombardare lo scorso settembre, non ha mai usato armi chimiche contro la popolazione civile di Damasco. Il gas Sarin che ha ucciso centinaia di siriani è stato usato dai “ribelli”, finanziati e protetti dall’Occidente. E’ stata dunque una gigantesca menzogna mediatica – esattamente come quella delle “armi di distruzione di massa” di Saddam – a trascinare il mondo sull’orlo di una guerra devastante. Lo affermano da Boston gli specialisti del Mit, il prestigioso Massachusetts Institute of Technology. «Adesso – dichiara Giulietto Chiesa – sappiamo, oltre ogni dubbio, che la Cia ha mentito e che il bombardamento di armi chimiche sulla periferia di Damasco, il 21 agosto 2013, fu compiuto dai mercenari che combattono contro Bashar al-Assad. Ci furono oltre mille morti, dissero». E non è stato un “tragico errore”. La verità è un’altra: «Mentivano, ma è il loro mestiere».Il nuovo rapporto del Mit, scrive Marinella Correggia in un post ripreso da “Megachip”, smentisce definitivamente Obama, che aveva accusato Assad dell’attacco chimico avvenuto a Ghouta, il 21 agosto 2013. A settembre si era arrivati a un passo dai bombardamenti sulla Siria, evitati solo in extremis grazie alla fermezza di Putin e alla drammatica sollecitudine di Papa Francesco. La prova regina: insieme a Theodore Postol, l’ex ispettore Onu sugli armamenti, Richard Lloyd, rivela che la gittata del «missile rudimentale» trovato dagli ispettori Onu «non poteva essere superiore ai due chilometri». E quindi, «sulla base della mappa delle forze in campo presentata dalla stessa Casa Bianca il 30 agosto, il punto di lancio si doveva per forza trovare nelle aree controllate dai “ribelli”». Contraddizioni e contraffazioni erano del resto subito emerse dalle centinaia di video scioccanti postati dagli anti-Assad che controllavano l’area. «Perfino il numero delle vittime è stranamente rimasto un mistero – le stime vanno da 300 a 1.400, il “dato” degli Usa, stimato sulla base dei corpi apparsi nei video».Come mai non è andata come con la provetta di Colin Powell che scatenò l’inferno in Iraq nel 2003? Il giornalista investigativo Seymour Hersh ha analizzato il caso sulla “London Review of Books”, citando fonti militari e dei servizi. Da mesi l’intelligence aveva avvertito la Casa Bianca che «anche i ribelli potevano avere e usare il gas Sarin». Ma Obama e i suoi, «senza portare nessuna prova, hanno cercato di vendere un bel sacco di bugie». Salvo poi cambiare linea all’ultimo minuto, quando è stato evidente che un’azione militare sarebbe stata sgradita ai più: clamoroso il “no” del Parlamento britannico, schiaccianti i sondaggi tra i cittadini americani, contrari all’intervento. Mesi fa, aggiunge Marinella Correggia, l’analista Sharmine Narwani ha studiato il rapporto degli ispettori Onu: «Alla fine non ci dice nulla su che cosa sia successo a Ghouta, né su come o su chi». Gli esperti militari notano «discrepanze fra le analisi dell’ambiente – niente tracce di Sarin a Muadamya ad esempio – e quelle sulle munizioni e sulle persone esaminate – positive al Sarin, forse portate lì da altri luoghi, dai ribelli che controllano l’area?».Del resto, ammettevano gli ispettori stessi che tutta l’ispezione era avvenuta – cinque giorni dopo il fatto – sotto il controllo dei ribelli e con possibili manipolazioni dei reperti e dei luoghi. Un funzionario dell’Onu, anonimo, puntava il dito sull’intelligence saudita, «ma nessuno osa dirlo». Lo ha detto anche, a suo tempo, il sito di opposizione “Syriatruth” (e anche il newsmagazine “Sibialiria”). Di recente il “New York Times” ha di fatto smentito – a pagina 8 e in poche righe – la propria famosa «analisi del vettore» fatta in settembre insieme a “Human Rights Watch”, analisi a suo tempo così utile a Obama e agli altri interventisti che, come dice Hersh, non avevano davvero altro per le mani. Eppure, protesta Giulietto Chiesa, «per settimane tutti i giornali e tutti i telegiornali italiani dissero – nei titoli, nei testi, nei commenti, come se fosse ovvio – che “il dittatore sanguinario Assad” gasava, massacrava i propri cittadini. Verifiche? Nessuna. Bastava copiare quello che diceva Obama».Adesso, scrive Chiesa sul “Fatto Quotidiano”, quei media dovrebbero essere obbligati a smentire, ma non smentiscono. «Dovrebbero licenziare i giornalisti bugiardi e incompetenti (unico licenziamento che noi saremmo disposti ad applaudire), ma non licenziano. I direttori di quei giornali e telegiornali dovrebbero apparire in video, o in prima pagina, scusandosi per i propri “errori” e orrori. Ma fanno finta di non ricordarsi niente». Eppure non fu cosa da poco. «Arrivammo a un passo dal bombardamento di Damasco da parte delle forze americane e della Nato, per punire il “gasatore”». Gli ipocriti ora tacciono, ed è un silenzio poco rassicurante: «Stiamo tutti molto attenti: una masnada di delinquenti (o di irresponsabili) ha in mano i principali canali di informazione dell’Occidente. Adesso abbiamo la prova che avremmo potuto essere trascinati in guerra da costoro. E sappiamo anche che è già avvenuto ripetutamente. Sono armati. Bisogna togliere loro le armi della menzogna di cui dispongono».Una colossale montatura, progettata a tavolino sulla base di prove false: l’esercito siriano, che la Nato stava per bombardare lo scorso settembre, non ha mai usato armi chimiche contro la popolazione civile di Damasco. Il gas Sarin che ha ucciso centinaia di siriani è stato usato dai “ribelli”, finanziati e protetti dall’Occidente. E’ stata dunque una gigantesca menzogna mediatica – esattamente come quella delle “armi di distruzione di massa” di Saddam – a trascinare il mondo sull’orlo di una guerra devastante. Lo affermano da Boston gli specialisti del Mit, il prestigioso Massachusetts Institute of Technology. «Adesso – dichiara Giulietto Chiesa – sappiamo, oltre ogni dubbio, che la Cia ha mentito e che il bombardamento di armi chimiche sulla periferia di Damasco, il 21 agosto 2013, fu compiuto dai mercenari che combattono contro Bashar al-Assad. Ci furono oltre mille morti, dissero». Ma on è stato un “tragico errore”. La verità è un’altra: «Mentivano», e in fondo «è il loro mestiere».
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Kalashnikov: colpa dei politici se il mio Ak uccide ancora
Pratico e indistruttibile, affidabile, semplice da usare e poco costoso da produrre. L’arma più popolare al mondo, l’Ak-47, resterà a lungo un monumento al suo “padre”’, Mikhail Timofeevič Kalashnikov, morto in Russia il 23 dicembre 2013 all’età di 94 anni. Il network all news “Russia Today” riassume “le 20 cose che non avete mai saputo” sul creatore del fucile d’assalto più diffuso sul pianeta, prodotto in quasi 200 milioni di esemplari e adottato dagli eserciti di 106 nazioni, alcune delle quali – Mozambico, Zimbabwe, Burkina Faso e Timor Est – l’hanno adottato come effigie nella bandiera nazionale, così come le milizie libanesi di Hezbollah. L’artista colombiano Cesar Lopez ha trasformato una dozzina di Ak-47 in chitarre, una delle quali è stata donata nel 2007 all’allora segretario generale dell’Onu, Kofi Annan. Un mitra da Guinness dei primati: l’Ak è tuttora l’arma più diffusa sulla Terra, con 100 milioni di esemplari attualmente in uso.Comandante di carro armato durante la Seconda Guerra Mondiale, Mikhail Kalashnikov ha iniziato la sua carriera come designer di armi dopo un infortunio alla spalla durante la battaglia di Bryansk. Nel 1942, mentre in ospedale, ha sentito i commilitoni feriti lamentarsi dei fucili sovietici. Il primo Kalashnikov è stato prodotto nel 1947, portando al suo creatore il Premio Stalin e l’Ordine della Stella Rossa, massime onorificenze dell’Unione Sovietica. Durata, basso costo di produzione, disponibilità, estrema robustezza e facilità di utilizzo sono le caratteristiche che hanno assicurato all’Ak-47 il suo straordinario successo globale. Il Kalashnikov resta un’arma economica: costa sui 500 dollari, ma in Africa lo si trova a metà prezzo e in alcuni paesi del continente nero i genitori battezzano col nome di “Kalash” i loro bambini. Distribuito dalla Russia, l’Ak viene anche prodotto – su licenza di Mosca – in 30 grandi paesi, tra cui Cina e India.Alla fama del Kalashikov hanno contribuito personalità come quella di Osama Bin Laden, che l’ha immortalato come arma-totem, e di Saddam Hussein, che ne aveva un modello fatto interamente d’oro. Una star del basket russo, Andrey Kirilenko, reduce dall’Nba, è stato soprannominato “Ak-47”; è nato nella città di Izhevsk, che ospita la fabbrica dei Kalashnikov. L’Egitto ha celebrato il fucile d’assalto russo – emblema di libertà e indipendenza – con un gigantesco monumento nel Sinai, mentre monete commemorative per i “primi sessant’anni” dell’Ak-47 sono state coniate persino in Nuova Zelanda. Già durante la guerra del Vietnam, molti soldati americani hanno abbandonato il loro M-16 per un Kalashnikov, raccolto da nemici morti. Anche ora, i marines americani maneggiano volentieri gli Ak-47. Non mancano le frivolezze: si chiama “Kalashnikov shot” (sparato) il drink che si ottiene mischiando vodka , assenzio, limone, cannella e zucchero, mentre – dal 2004 – Kalashnikov è anche la marca di una vodka, venduta in bottiglie a forma di Ak-47.Il giornale francese “Libération” ha eletto il fucile russo la più importante invenzione del XX secolo, prima ancora della bomba atomica e della conquista dello spazio. Tra i record meno invidiabili, quello del bilancio di sangue: si ritiene che gli AK-47 abbiano causato più morti del fuoco di artiglieria, dei raid aerei e degli attacchi missilistici. Ogni anno, precisa Rt, si stima che perdano la vita – colpiti da proiettili di Kalashnikov – almeno 250.000 persone. Per Mihkail Kalashnikov, il suo memorabile fucile è «un simbolo del genio creativo del popolo russo». Mai provato rimorso per il sangue versato in tutto il mondo grazie alla sua “creatura”: «Io dormo bene», ha ribadito nel 2007, ricordando di aver pensato a quel fucile come arma di difesa dell’Urss aggredita dai nazisti. «Semmai sono da biasimare i politici: sono loro che non hanno raggiunto un accordo per eliminare dal mondo la violenza».Pratico e indistruttibile, affidabile, semplice da usare e poco costoso da produrre. L’arma più popolare al mondo, l’Ak-47, resterà a lungo un monumento al suo “padre”’, Mikhail Timofeevič Kalashnikov, morto in Russia il 23 dicembre 2013 all’età di 94 anni. Il network all news “Russia Today” riassume “le 20 cose che non avete mai saputo” sul creatore del fucile d’assalto più diffuso sul pianeta, prodotto in quasi 200 milioni di esemplari e adottato dagli eserciti di 106 nazioni, alcune delle quali – Mozambico, Zimbabwe, Burkina Faso e Timor Est – l’hanno adottato come effigie nella bandiera nazionale, così come le milizie libanesi di Hezbollah. L’artista colombiano Cesar Lopez ha trasformato una dozzina di Ak-47 in chitarre, una delle quali è stata donata nel 2007 all’allora segretario generale dell’Onu, Kofi Annan. Un mitra da Guinness dei primati: l’Ak è tuttora l’arma più diffusa sulla Terra, con 100 milioni di esemplari attualmente in uso.