Archivio del Tag ‘Berlusconi’
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Macchina del fango, contro Trump la grande stampa Usa
Provate ad immaginare se i tre più importanti quotidiani italiani – “Corriere”, “Stampa” e “Repubblica” – decidessero tutti insieme di scatenare una campagna mediatica di discredito contro un singolo personaggio politico: persino i morti si accorgerebbero che c’è qualcosa di poco “giornalistico” in un’operazione del genere. Ebbene, è proprio quello che sta succedendo negli Stati Uniti in questi giorni: i tre più importanti quotidiani americani, e cioè il “New York Times”, il “Washington Post” e il “Los Angeles Times”, hanno deciso di sparare ad alzo zero contro Donald Trump. Già da tempo il “Los Angeles Times” usciva con articoli apertamente denigratori contro il magnate americano, definendolo ripetutamente un ciarlatano, un buffone senza credibilità, oppure addirittura una star da soap-opera. Adesso si sono aggiunti il “New York Times” e il “Washington Post”, che in un’azione chiaramente concertata stanno cercando di distruggere la credibilità dell’uomo che nell’arco di pochi mesi ha completamente stravolto le regole delle elezioni presidenziali.Il “Washington Post” ha pubblicato un paginone nel quale raccoglie tutte le presunte bugie e false affermazioni pronunciate da Trump negli ultimi mesi. Naturalmente, pur di aumentare il volume delle presunte “bugie”, il “Washington Post” non si fa scrupoli nell’elencare anche delle semplici opinioni di Donald Trump, che fa passare come “falsità” solo perché non sono supportate dai fatti (“unsupported claim”). Il “New York Times” è andato addirittura oltre, mettendo insieme una squadra di 20 giornalisti che sono stati incaricati di scavare nel passato di Trump, pur di far saltare fuori qualcosa di spiacevole sul suo conto. Ne è uscita una lista con dozzine di donne che sostengono di aver avuto con Trump un rapporto “ambiguo”, dove lui le avrebbe “usate” e contemporaneamente “denigrate” per il solo fatto di essere donne. Naturalmente, a nessuno del “New York Times” è venuto in mente che in certi casi possa essere la donna stessa a cercare questi rapporti “ambigui”, per ottenerne un chiaro vantaggio personale. Si chiama dare per avere. Berlusconi docet. Insomma, lo sbilanciamento contro Trump da parte delle testate più importanti è talmente evidente che porta a fare una riflessione: come mai in media di sistema temono così tanto un personaggio come Trump?Lo detestano semplicemente perchè è razzista e maschilista, o c’è sotto qualcosa di ben più grosso? (Di certo una presidenza Trump metterebbe un grosso freno alla politica imperialista espansionistica di Usa e Israele in Medio Oriente, tanto per dirne una). Ma la cosa più divertente è che i direttori di tutte queste testate si sono dimenticati di una cosa fondamentale: chi vota Donald Trump non legge certo né il “Los Angeles Times”, né il “New York Times” o il “Washington Post”. All’elettore razzista e xenofobo dell’Alabama non può fregar di meno di come Trump tratti le donne, e gliene frega ancor di meno del fatto che racconti bugie, visto che queste bugie coincidono regolarmente con quello che l’elettore repubblicano vuole sentirsi raccontare. Abbiamo quindi una totale spaccatura, sia a livello mediatico che a livello popolare, fra l’“intellighenzia” americana (localizzata sulle coste dell’Atlantico e del Pacifico) e il cuore profondo degli Stati Uniti, localizzato nel grande Mid-West, che ancora batte per veder sventolare in cima al Campidoglio la bandiera dei confederati. In America la Guerra Civile non è ancora finita. Quella di novembre sarà certamente una elezione che va ben oltre la semplice scelta fra un candidato democratico e uno repubblicano.(“Massimo Mazzucco, “La macchina del fango contro Donald Trump”, da “Luogo Comune” del 15 maggio 2016).Provate ad immaginare se i tre più importanti quotidiani italiani – “Corriere”, “Stampa” e “Repubblica” – decidessero tutti insieme di scatenare una campagna mediatica di discredito contro un singolo personaggio politico: persino i morti si accorgerebbero che c’è qualcosa di poco “giornalistico” in un’operazione del genere. Ebbene, è proprio quello che sta succedendo negli Stati Uniti in questi giorni: i tre più importanti quotidiani americani, e cioè il “New York Times”, il “Washington Post” e il “Los Angeles Times”, hanno deciso di sparare ad alzo zero contro Donald Trump. Già da tempo il “Los Angeles Times” usciva con articoli apertamente denigratori contro il magnate americano, definendolo ripetutamente un ciarlatano, un buffone senza credibilità, oppure addirittura una star da soap-opera. Adesso si sono aggiunti il “New York Times” e il “Washington Post”, che in un’azione chiaramente concertata stanno cercando di distruggere la credibilità dell’uomo che nell’arco di pochi mesi ha completamente stravolto le regole delle elezioni presidenziali.
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Golpe in Brasile, il Mario Monti locale è nato in Israele
«A ulteriore conferma che in Brasile c’è un clima da colpo di Stato e non un avvicendamento qualsiasi, ecco una notizia che la quasi totalità dei media mondiali ha ignorato sebbene provenga da una fonte clamorosa». Lungi dal limitarsi agli affari correnti, il governo del presidente ad interim Michel Temer, come primo provvedimento, ha deciso la nomina del nuovo presidente della banca centrale: «Si tratta di un nativo israeliano, Ilan Goldfein, esponente di spicco della maggiore banca privata brasiliana». Goldfein, scrive Pino Cabras su “Megachip”, ha «un curriculum da reggi-sacco del Fmi e della Banca Mondiale». La notizia è stata anticipata dal quotidiano di Tel Aviv “Yedioth Ahronoth”, mentre è stata ignorata dall’intera stampa mondiale. In Brasile, però, «non si registrano prese di posizione di politici brasiliani, nemmeno quelli spodestati dal golpe». Di certo, aggiunge Cabras, il neo-designato Goldfein «è una figura organica alle classi che vogliono distruggere tutto quello che si è costruito nelle presidenze di Lula e di Dilma». Il nuovo presidente del Banco Central do Brasil già tuona contro la corruzione come causa di tutti i mali e annuncia sadicamente che la classe media dovrà «affrontare la decimazione dei suoi sogni».«E’ la solita litania neoliberista sul popolo che vive al di sopra dei propri mezzi», annota Cabras. «Certo sarebbe curioso vedere questo paladino del rigore e della pulizia morale mentre riceve l’incarico dalle mani sporchissime del neogoverno, guidato da politici pieni di carichi penali per corruzione, a partire dall’azzimatissimo “asset” degli Usa, Temer». Quanto oro brasiliano a avrà a disposizione, Goldfein? «Di certo potrà contare su grandi riserve di bronzo, nelle facce dei nuovi governanti usurpatori, e forse nella sua». Il super-banchiere, scrive Itamar Eichner su “Yedioth Ahronoth”, è stato capo-economista di Itau, la più grande banca privata del Brasile, quindi assistente del governatore della Banca del Brasile, nonché consulente per la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Formatosi al Mit di Boston, culla del neoliberismo che sta facendo a pezzi la sovranità degli Stati imponendo privatizzazioni e tagli selvaggi alla spesa pubblica, Goldfein punta sull’export, come la Germania: «L’economia brasiliana è enorme, ma è troppo chiusa: esportiamo solo il 15% del nostro prodotto interno lordo, il che non è molto».Come è noto, proprio la crescita fondata sulle esportazioni – anziché sulla domanda interna – ha necessità di fortissime compressioni salariali (in Germania i “mini-job” da 400 euro, in Italia il Jobs Act) per reggere la concorrenza internazionale abbattendo in modo drammatico il costo del lavoro. Come da copione, dunque, Goldfein prepara il “rigor montis” in salsa carioca, la politica del rigore: «La classe media, che aveva pensato di diventare ricca e le cui aspirazioni stavano per avverarsi, deve ora affrontare la decimazione dei suoi sogni». Aggiunge il giornale israeliano: Goldfein ha stimato che, per uscire «con successo» dalla crisi attuale, il governo «dovrà prendere misure impopolari, come l’aumento delle tasse, tagli al bilancio e l’innalzamento dell’età di pensionamento». Suona familiare? Per arrivare a questo, naturalmente, serve sempre un cataclisma spettacolare, una Tangentopoli, un Rubygate. L’importante è che poi arrivi il Commissario, a spiegare che “la ricreazione è finita”. D’ora in poi tutti più poveri, dunque. Tranne, ovviamente, i mandanti del Commissario.«A ulteriore conferma che in Brasile c’è un clima da colpo di Stato e non un avvicendamento qualsiasi, ecco una notizia che la quasi totalità dei media mondiali ha ignorato sebbene provenga da una fonte clamorosa». Lungi dal limitarsi agli affari correnti, il governo del presidente ad interim Michel Temer, come primo provvedimento, ha deciso la nomina del nuovo presidente della banca centrale: «Si tratta di un nativo israeliano, Ilan Goldfein, esponente di spicco della maggiore banca privata brasiliana». Goldfein, scrive Pino Cabras su “Megachip”, ha «un curriculum da reggi-sacco del Fmi e della Banca Mondiale». La notizia è stata anticipata dal quotidiano di Tel Aviv “Yedioth Ahronoth”, mentre è stata ignorata dall’intera stampa mondiale. In Brasile, però, «non si registrano prese di posizione di politici brasiliani, nemmeno quelli spodestati dal golpe». Di certo, aggiunge Cabras, il neo-designato Goldfein «è una figura organica alle classi che vogliono distruggere tutto quello che si è costruito nelle presidenze di Lula e di Dilma». Il nuovo presidente del Banco Central do Brasil già tuona contro la corruzione come causa di tutti i mali e annuncia sadicamente che la classe media dovrà «affrontare la decimazione dei suoi sogni».
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Il capo è nervoso: sa che ormai tutti cercano un sostituto
Attenti, il “capo” è nervoso: sa perfettamente che, se è ancora al suo posto, è solo perché nessun altro è ancora pronto a sostituirlo. Ma la voglia di rottamarlo sta crescendo velocemente. Lo scrive Sergio Cararo su “Contropiano”: che Matteo Renzi sia diventato molto nervoso lo testimoniano «la quantità di contestazioni (e di manganellate della polizia) che lo inseguono ovunque vada». E’ nervoso, il boss del Pd, «perché sa di aver fatto parecchio del lavoro sporco che gli era stato richiesto contro lavoratori, pensionati, risparmiatori». La famigerata lettera della Bce firmata da Draghi e Trichet il 5 agosto del 2011? E’ stata applicata, appunto, “alla lettera”. Eppure, i suoi “mandanti” non sono ancora contenti. Non lo è l’Unione Europea, «che mal sopporta le sue rodomontate così come non sopportava le stramberie di Berlusconi». E non lo è Confindustria, «oggi pesantemente ipotecata dalle aziende di cui il governo è azionista». Gli industriali vogliono «rendere strutturali e non congiunturali gli sgravi contributivi», con «mano libera alle imprese nel licenziare o assumere con salari da fame».Non è contento di Renzi neppure un potere forte come la magistratura, che «mostra forti segni di fastidio verso un premier che, come Berlusconi, ritiene che la legalità vada bene per tutti tranne che per i suoi uomini e donne ripetutamente beccati con le mani nella marmellata». Renzi è contrariato: «Gli indicatori economici sull’andamento della recessione smentiscono ogni sua fanfaronata sulla disoccupazione, i redditi, i consumi, il risparmio, la fiducia sul futuro», continua Cararo. L’unica carta su cui può ancora contare il capo del Pd? Non ci sono alternative, al momento: «Le classi dominanti non hanno ancora trovato un “leader” di ricambio con cui sostituirlo senza ricorrere alle elezioni», esattamente come venne fatto con Berlusconi (piazzando Monti a Palazzo Chigi) o con «il povero Letta», messo alla porta dall’ambizioso fiorentino. Renzi può anche mascherare il suo nervosismo «ricorrendo a Tweet sferzanti e a interviste televisive con giornalisti in ginocchio», ma è talmente inquieto che «ha anticipato di mesi le nomine ai vertici di polizia, servizi segreti, guardia di finanza, per cercare di legare a sé gli apparati coercitivi dello Stato che gli stanno salvando il culo dalle contestazioni nella strade e nelle città italiane». Come contropartita, aggiunge “Contropiano”, hanno però preteso che Carrai, l’amico di Renzi, venisse tenuto fuori dai servizi di sicurezza.La verità è sotto gli occhi di tutti: un cittadino su tre è andato a votare al referendum contro le trivelle, anche se il premier gli aveva “consigliato” di stare a casa. E l’aria che tira per le elezioni comunali nella grandi città vede i suoi candidati in serissima difficoltà. In più, «ogni volta che annuncia che andrà a casa, se perde», come nel caso del prossimo referendum sulle controriforme costituzionali, «non c’è nessuno che cerchi di dissuaderlo». Bella occasione, quella di ottobre, per mandarlo a casa davvero: «Le tensioni con Confindustria, magistratura e Unione Europea si stanno accumulando pericolosamente», ma un’altra “deposizione” come quella di Berlusconi non passerebbe facilmente. Quello di ottobre, insiste Cararo, sarà un referendum decisivo: non solo per impedire che la Costituzione diventi carta straccia, «ma per dare una spallata ad un capo nervoso e pericoloso». Chi auspica di “spacchettare” i quesiti, per votare in modo differenziato, non comprende la portata epocale della sfida: «Lo scontro sul referendum di ottobre è uno spartiacque: o con Renzi (e la Troika) o con la democrazia».Attenti, il “capo” è nervoso: sa perfettamente che, se è ancora al suo posto, è solo perché nessun altro è ancora pronto a sostituirlo. Ma la voglia di rottamarlo sta crescendo velocemente. Lo scrive Sergio Cararo su “Contropiano”: che Matteo Renzi sia diventato molto nervoso lo testimoniano «la quantità di contestazioni (e di manganellate della polizia) che lo inseguono ovunque vada». E’ nervoso, il boss del Pd, «perché sa di aver fatto parecchio del lavoro sporco che gli era stato richiesto contro lavoratori, pensionati, risparmiatori». La famigerata lettera della Bce firmata da Draghi e Trichet il 5 agosto del 2011? E’ stata applicata, appunto, “alla lettera”. Eppure, i suoi “mandanti” non sono ancora contenti. Non lo è l’Unione Europea, «che mal sopporta le sue rodomontate così come non sopportava le stramberie di Berlusconi». E non lo è Confindustria, «oggi pesantemente ipotecata dalle aziende di cui il governo è azionista». Gli industriali vogliono «rendere strutturali e non congiunturali gli sgravi contributivi», con «mano libera alle imprese nel licenziare o assumere con salari da fame».
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Luciano Canfora: attacco alla Costituzione, una lunga storia
L’attacco alla Costituzione partì già quasi all’indomani del suo varo. Il 2 agosto 1952 Guido Gonella, all’epoca segretario politico della Democrazia cristiana, chiedeva – in un pubblico comizio – di riformare la Costituzione italiana, entrata in vigore appena tre anni e mezzo prima, il 1 gennaio 1948. Si trattava di un discorso tenuto a Canazei, in Trentino, e la richiesta di riforma mirava – come egli si espresse – a «rafforzare l’autorità dello Stato», ad eliminare cioè quelle «disfunzioni della vita dello Stato che possono avere la loro radice nella stessa Costituzione». E concludeva, sprezzante: «la Costituzione non è il Corano!» (Il nuovo Corriere, Firenze, 3 agosto 1952). Nello stesso intervento, il segretario della Dc, richiamandosi più volte a De Gasperi, chiedeva di modificare la legge elettorale, che – essendo proporzionale – dava all’opposizione (Pci e Psi) una notevole rappresentanza parlamentare. L’idea lanciata allora, in piena estate, era di costituire dei «collegi plurinominali», onde favorire i partiti che si presentassero alle elezioni politiche «apparentati» (Dc e alleati).Come si vede, sin da allora l’attacco alla Costituzione e alla legge elettorale proporzionale (la sola che rispetti l’articolo 48 della Costituzione, che sancisce il «voto uguale») andavano di pari passo. Pochi mesi dopo, alla ripresa dell’attività parlamentare fu posto in essere il progetto di legge elettorale (scritta da Scelba e dall’ex-fascista Tesauro, rettore a Napoli e ormai parlamentare democristiano) che è passata alla storia come «legge truffa». Imposta, contro l’ostruzionismo parlamentare, da un colpo di mano del presidente del senato Meuccio Ruini, quella legge fu bocciata dagli elettori, il cui voto (il 7 giugno 1953) non fece scattare il cospicuo «premio di maggioranza» previsto per i partiti «apparentati». L’istanza di cambiare la Costituzione al fine di dare più potere all’esecutivo divenne poi, per molto tempo, la parola d’ordine della destra, interna ed esterna alla Dc, spalleggiata dal movimento per la «Nuova Repubblica» guidato da Randolfo Pacciardi (repubblicano poi espulso da Pri), postosi in pericolosa vicinanza – nonostante il suo passato antifascista – con i vari movimenti neofascisti, che una «nuova Repubblica» appunto domandavano.La sconfitta della «legge truffa» alle elezioni del 1953 mise per molto tempo fuori gioco le spinte governative in direzione delle due riforme care alla destra: cambiare la Costituzione e cambiare in senso maggioritario la legge elettorale proporzionale. Che infatti resse per altri 40 anni. Quando, all’inizio degli anni Novanta, la sinistra, ansiosa di cancellare il proprio passato, capeggiò il movimento – ormai agevolmente vittorioso – volto ad instaurare una legge elettorale maggioritaria, il colpo principale alla Costituzione era ormai sferrato. Ammoniva allora, inascoltato, Raniero La Valle che cambiare legge elettorale abrogando il principio proporzionale significava già di per sé cambiare la Costituzione. (Basti pensare, del resto, che, con una rappresentanza parlamentare truccata grazie alle leggi maggioritarie, gli articoli della Costituzione che prevedono una maggioranza qualificata per decisioni cruciali perdono significato). Ma la speranza della nuova leadership di sinistra (affossatasi più tardi nella scelta suicida di assumere la generica veste di partito democratico) era di vincere le elezioni al tavolo da gioco. Oggi è il peggior governo che l’ex-sinistra sia stata capace di esprimere a varare, a tappe forzate e a colpi di voti di fiducia, entrambe le riforme: quella della legge elettorale, finalmente resa conforme ad un tavolo da poker, e quella della Costituzione.Ma perché, e in che cosa, la Costituzione varata alla fine del 1947 dà fastidio? Si sa che la destra non l’ha mai deglutita, non solo per principi fondamentali (e in particolare per l’articolo 3) ma anche, e non meno, per quanto essa sancisce sulla prevalenza dell’«utilità sociale» rispetto al diritto di proprietà (agli articoli 41 e 42). Più spiccio di altri, Berlusconi parlava – al tempo suo – della nostra Costituzione come di tipo «sovietico»; il 19 agosto 2010 il “Corriere della Sera” pubblicò un inedito dell’appena scomparso Cossiga in cui il presidente-gladiatore definiva la nostra costituzione come «la nostra Yalta». E sullo stesso giornale il 12 agosto 2003 il solerte Ostellino aveva richiesto la riforma dell’articolo 1 a causa dell’intollerabile – a suo avviso – definizione della Repubblica come «fondata sul lavoro». E dieci anni dopo (23 ottobre 2013) tornava alla carica (ma rimbeccato) chiedendo ancora una volta la modifica del nostro ordinamento: questa volta argomentando «che nella stesura della prima parte della Costituzione – quella sui diritti – ebbe un grande ruolo Palmiro Togliatti, l’uomo che avrebbe voluto fare dell’Italia una democrazia popolare sul modello dell’Urss». Di tali parole non è tanto rimarchevole l’incultura storico-giuridica quanto commovente è il pathos, sia pure mal riposto.Dà fastidio il nesso che la Costituzione, in ogni sua parte, stabilisce tra libertà e giustizia. Dà fastidio – e lo lamentano a voce spiegata i cosiddetti «liberali puri» convinti che finalmente sia giunta la volta buona per il taglio col passato – che la nostra Costituzione sancisca oltre ai diritti politici i diritti sociali. Vorrebbero che questi ultimi venissero confinati nella legislazione ordinaria, onde potersene all’occorrenza sbarazzare a proprio piacimento, come è accaduto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. La coniugazione di libertà e giustizia era già nei principi generali della Costituzione della prima Repubblica francese (1793): «La libertà ha la sua regola nella giustizia». Ed è stata poi presente nelle costituzioni – italiana, francese della IV Repubblica, tedesca – sorte dopo la fine del predominio fascista sull’Europa: fine sanguinosa, cui i movimenti di resistenza diedero un contributo che non solo giovò all’azione degli eserciti (alleati e sovietico) ma che connotò politicamente quella vittoria. Nel caso del nostro paese, è ben noto che l’azione politico-militare della Resistenza fu decisiva per impedire che – secondo l’auspicio ad esempio di Churchill – il dopofascismo si risolvesse nel mero ripristino dell’Italia prefascista magari serbando l’istituto monarchico.La grande sfida fu, allora, di attuare un ordinamento, e preparare una prassi, che andassero oltre il fascismo: che cioè tenessero nel debito conto le istanze sociali che il fascismo, pur recependole, aveva però ingabbiato, d’intesa coi ceti proprietari, nel controllo autoritario dello Stato di polizia, e sterilizzato con l’addomesticamento dei sindacati. La sfida che ebbe il fulcro politico-militare nell’insurrezione dell’aprile ‘45 e trovò forma sapiente e durevole nella Costituzione consisteva dunque – andando oltre il fascismo – nel coniugare rivoluzione sociale e democrazia politica. Perciò Calamandrei parlò, plaudendo, di «Costituzione eversiva» (1955), e perciò la vita contrastata di essa fu regolata dai variabili rapporti di forza della lunga «guerra fredda» oltre che dalle capacità soggettive dei protagonisti. C’è un abisso tra Palmiro Togliatti e il clan di Banca Etruria. Va da sé che l’estinguersi dei «socialismi» con la conseguente deriva in senso irrazionalistico-religioso delle periferie interne ed esterne all’Occidente illusoriamente vittorioso hanno travolto il quadro che s’è qui voluto sommariamente delineare. La carenza di statisti capaci e la autoflagellazione della fu sinistra non costituiscono certo il terreno più favorevole alla pur doverosa prosecuzione della lotta.(Luciano Canfora, “Attacco alla Costituzione, una lunga storia”, da “Il Manifesto” del 24 aprile 2015).L’attacco alla Costituzione partì già quasi all’indomani del suo varo. Il 2 agosto 1952 Guido Gonella, all’epoca segretario politico della Democrazia cristiana, chiedeva – in un pubblico comizio – di riformare la Costituzione italiana, entrata in vigore appena tre anni e mezzo prima, il 1 gennaio 1948. Si trattava di un discorso tenuto a Canazei, in Trentino, e la richiesta di riforma mirava – come egli si espresse – a «rafforzare l’autorità dello Stato», ad eliminare cioè quelle «disfunzioni della vita dello Stato che possono avere la loro radice nella stessa Costituzione». E concludeva, sprezzante: «la Costituzione non è il Corano!» (Il nuovo Corriere, Firenze, 3 agosto 1952). Nello stesso intervento, il segretario della Dc, richiamandosi più volte a De Gasperi, chiedeva di modificare la legge elettorale, che – essendo proporzionale – dava all’opposizione (Pci e Psi) una notevole rappresentanza parlamentare. L’idea lanciata allora, in piena estate, era di costituire dei «collegi plurinominali», onde favorire i partiti che si presentassero alle elezioni politiche «apparentati» (Dc e alleati).
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Se cade Renzi, i poteri forti punteranno sul grillino Di Maio
A quanto pare il cerchio si chiude attorno a Renzi. L’idillio tra il premier e i poteri forti sembra giunto al termine, e ora gli stessi che deridevano l’attacco dei poteri forti contro il governo Berlusconi nel 2011, gridano al complotto dell’élite transnazionale contro il governo. Si evoca spesso l’intervento di questi poteri, ma non se ne ricordano altrettanto le origini. Tradizionalmente le sorti dello stivale in politica estera ed economica ruotano attorno all’asse trilaterale Washington-Londra-Berlino. All’interno di questo asse ci sono i grandi gruppi industriali tedeschi, la finanza speculativa anglosassone e le corporation statunitensi. Ognuno di questi gruppi ha un peso specifico, e un ruolo determinante nell’influenzare i destini degli esecutivi nazionali. Chiunque si candidi a fare il premier viene sottoposto a un esame preventivo, che se superato, porterà all’esecuzione dell’agenda di questi poteri. Qualora si violino queste prescrizioni, si viene prontamente sostituiti, non prima però di essere stato oggetto di una feroce campagna stampa oppure di inchieste giudiziarie.Renzi aveva accettato questa convenzione, aveva accettato cioè di sottoporsi alle indicazioni dell’élite transazionale fino a quando non ha iniziato a mostrare dei segnali di ribellione. Il suo compito era quello di accompagnare l’Italia sul patibolo dell’Europa, avvicinandola a un destino molto simile a quello della Grecia di Tsipras, umiliata e nelle mani della Germania che ora controlla gli asset strategici della penisola ellenica. Sorge una controindicazione in tutto questo: applicare questo tipo di politiche, non aumenta di certo i consensi presso l’opinione pubblica. Persino i media, con il loro fiume di informazioni omologate e preconfezionate, non riescono a sorreggere il politico che si incarica di portare avanti l’eutanasia economica e culturale del proprio Paese. Se si fa come dice l’Europa e la Germania, si crolla nei sondaggi e addio ad un secondo mandato politico; se ci si ribella, si mette in moto la macchina della magistratura e dell’informazione, che prima o poi raggiunge sempre il suo obbiettivo. L’ambizione e la spregiudicatezza di Renzi non sono disposte a rinunciare a tanto, che ora è costretto a giocarsi fino in fondo la sua partita.Il caso del ministro Guidi è solo l’ultimo esempio di come questa macchina si sia messa in moto, e abbia deciso di stritolare il governo. Non rileva tanto la condotta certamente disdicevole della Guidi o i conflitti d’interessi del ministro Boschi, ma il fatto che a nessun organo di stampa, prima, era passato per la mente di segnalare delle macroscopiche situazioni di incompatibilità istituzionale che questi membri del governo hanno con gli interessi pubblici. La famiglia del ministro Boschi aveva già da tempo stretti legami con il mondo bancario e il ministro Guidi, è membro della Commissione Trilaterale, un’organizzazione sovranazionale formata da esponenti governativi, rappresentanti del mondo finanziario e industriale che si propone nei suoi scopi quello di affermare, come ha ricordato il suo fondatore David Rockefeller, ‘la sovranità sovranazionale di un’élite intellettuale e di banchieri mondiali, sicuramente preferibile alle autodeterminazioni nazionali dei secoli scorsi’.Non è forse questa circostanza altrettanto e forse ben più grave, dell’interessamento manifestato dal ministro Guidi per l’azienda del suo compagno? La Trilaterale viola palesemente il dettato costituzionale ma nessun media ha mai pensato di mettere in discussione l’appartenenza della Guidi a questa organizzazione, fautrice di un governo di un’élite priva della sovranità popolare e che agisce per fini propri, spesso in aperto contrasto con i principi democratici. Solo ora si denunciano degli scandali visibili da tempo, e tutto questo non può non suscitare una riflessione sulla tempistica e sulle motivazioni di questa improvvisa attenzione. Solo l’ingenuità o la malafede possono far credere all’ ipotesi di un improvviso ravvedimento dei media.Mentre Renzi cade in disgrazia, il M5S inizia a raccogliere le attenzioni di quei poteri un tempo amici del rottamatore. Luigi Di Maio, l’uomo che nel movimento grillino rivestirebbe le funzioni di premier, ha iniziato una serie di colloqui con gli ambasciatori dei 28 paesi Ue. Oggetto dei colloqui sono state le posizioni del Movimento sull’Europa e sull’Unione Monetaria, molto critiche in passato e che ora sembrano decisamente più concilianti. Lo stesso Di Maio ha stupito i diplomatici europei, tanto da giudicare “troppo dure” le vecchie posizioni del Movimento sull’Europa, in quello che è sembrato un atto di contrizione in piena regola del politico napoletano. Un’attitudine che ha rassicurato le grandi cancellerie europee, che adesso sembrano aumentare la loro concessione di credito al Movimento, un tempo considerato impresentabile. Lo stesso esame al quale si era sottoposto Renzi prima del 2014, adesso viene affrontato e superato da Di Maio nel 2016. Se il governo Renzi soccomberà, il M5S è già pronto a raccoglierne il testimone.(Cesare Sacchetti, “Matteo Renzi, i poteri forti lo scaricano e iniziano a interessarsi al M5S”, da “Il Fatto Quotidiano” del 5 aprile 2016).A quanto pare il cerchio si chiude attorno a Renzi. L’idillio tra il premier e i poteri forti sembra giunto al termine, e ora gli stessi che deridevano l’attacco dei poteri forti contro il governo Berlusconi nel 2011, gridano al complotto dell’élite transnazionale contro il governo. Si evoca spesso l’intervento di questi poteri, ma non se ne ricordano altrettanto le origini. Tradizionalmente le sorti dello stivale in politica estera ed economica ruotano attorno all’asse trilaterale Washington-Londra-Berlino. All’interno di questo asse ci sono i grandi gruppi industriali tedeschi, la finanza speculativa anglosassone e le corporation statunitensi. Ognuno di questi gruppi ha un peso specifico, e un ruolo determinante nell’influenzare i destini degli esecutivi nazionali. Chiunque si candidi a fare il premier viene sottoposto a un esame preventivo, che se superato, porterà all’esecuzione dell’agenda di questi poteri. Qualora si violino queste prescrizioni, si viene prontamente sostituiti, non prima però di essere stato oggetto di una feroce campagna stampa oppure di inchieste giudiziarie.
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Rodotà: contro il regime, ci resta l’arma dei referendum
Il fastidio di Matteo Renzi questa volta non è per qualche singolo oppositore ma è direttamente per uno strumento costituzionale. Renzi ce l’ha con i referendum, e dice che sono inutili, perché sa che oltre agli effetti concreti sulle norme, quando sono promossi dal basso verso l’alto, dai cittadini o dalle regioni, e non sono plebiscitari come quello che avremo sulla riforma costituzionale, i referendum producono ricomposizione sociale. Ed è invece sulla disgregazione della società che il presidente del Consiglio ha impostato la sua strategia di governo, come dimostra la politica dei bonus, che dà qualcosa a ognuno – il bonus ai giovani, il bonus ai poliziotti, il bonus ai professori – e non a tutti. E con l’attacco frontale ai referendum, cercando ogni modo per non attuarli, come nel caso dell’acqua pubblica, o dicendo che non bisogna andare a votare, come sulle trivellazioni, Renzi prosegue sulla strada della passivizzazione dei cittadini. Che è una strada che percorriamo da anni. Si diceva che i cittadini sono ormai carne da sondaggio, ma è un’espressione vecchia. Ora sono carne da tweet o da slide.I referendum possono essere inutili, si aggirano, si ignorano? Ma non è certo colpa dei cittadini. È il governo, e il Parlamento, che dovrebbero lavorare per dare attuazione a quanto indicato dalle consultazioni. Ma non succede, con effetti pericolosi: e non solo per lo strumento referendario. Perché il ridursi degli spazi di partecipazione istituzionale produce reazioni extra istituzionali: quando si demonizza il referendum, che sia proposto da una raccolta firme o dalle regioni non cambia, si sta dicendo ai cittadini che è inutile rivolgersi alle istituzioni e alla politica. Quello sull’acqua pubblica è un referendum che ha bloccato un processo di privatizzazione ma che si sta cercando di tradire. Senza peraltro preoccuparsi di farlo in maniera smaccata. Scandaloso, ad esempio, è l’articolo 25 del decreto Madia sui servizi pubblici che prevede “l’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”, usando esattamente le parole cancellate dal voto sul secondo quesito referendario. È palese l’illegalità costituzionale. Nel 2012 la Corte Costituzionale aveva già dichiarato illegittime le norme che riproducono norme abrogate con il referendum.Oggi si dice con superficialità: il voto non ha escluso la via di una gestione privata. Ma quello che il voto ha stabilito è però che quella privata non può essere la via preferenziale, come stabiliva il decreto Ronchi, con Berlusconi, e come vuole stabilire nuovamente il governo Renzi, sempre con il decreto Madia e con l’emendamento che ha riscritto la legge in discussione in Parlamento, che originariamente riprendeva quella di iniziativa popolare. L’indicazione che si fa finta di non vedere è che la gestione dell’acqua deve essere in via prioritaria pubblica, pur nelle forme variamente partecipate, e slegata da logiche di mercato. L’argomento del governo è che il pubblico produce inefficienza e non ha le risorse per i necessari investimenti sulla rete? Ancora una volta è la dimostrazione che si vuole ignorare l’esito referendario: l’argomentazione usata è la stessa di cinque anni fa, come se non ci fosse stato il dibattito.E, esattamente come quando si discusse all’epoca, si dice che la gestione pubblica è giocoforza pessima, rimuovendo che i luoghi dove la gestione dell’acqua è migliore sono invece Milano e Napoli, dove è completamente pubblica. Il dialogo è ritenuto pericoloso. Ma il discorso sui beni comuni si sta svolgendo in tutto il mondo ed è un percorso opposto a quello che si vorrebbe imporre in Italia, dove le multiutility vogliono impedire che si avvii. Se si leggessero i libri, se ne troverebbero di scritti con particolare attenzione alle modalità di gestione, senza inconsapevolezza né ideologia. Anche l’uso plebiscitario del prossimo referendum costituzionale sembra indicare una crisi dello strumento. Indica invece l’uso congiunturale che si è ormai soliti fare delle istituzioni. Il referendum viene usato quando fa comodo, quando può essere utilizzato per misurare il consenso del leader, mentre nelle altre occasioni se ne parla male. Invece il referendum – così come lo ha voluto il costituente, che ha escluso i plebisciti perché consapevole dei rischi – è proprio quello dal basso, promosso dai cittadini o da almeno cinque regioni. Ed è quello che rivitalizza la democrazia e la politica.Intorno ai referendum si determina una ricomposizione sociale, di cui c’è molto bisogno, visto che ultimamente è stata favorita invece la frammentazione sociale, considerando superflui, ad esempio, i corpi intermedi. La scelta di invitare a disertare le urne referendarie fa il paio con le riforme costituzionali ed elettorali volute da Matteo Renzi? Mi pare evidente. Anche se a voler legger bene la riforma Boschi c’è persino una contraddizione rispetto a quello che è l’atteggiamento di Renzi, che invita all’astensione scommettendo sul mancato raggiungimento del quorum, con una furbizia che prima di lui hanno usato in tanti, dalla Chiesa a Craxi. La riforma invece modifica i requisiti per la validità dei referendum proprio per scoraggiare il gioco dell’astensione. C’è più modernità nei referendum, in questo sulle trivelle e in quelli che avremo nel prossimo anno, per cui si stanno raccogliendo le firme, dal Jobs Act alla scuola, che in tutta la riforma Boschi. Che è anzi una riforma conservatrice, che accentra il potere. Innumerevoli politologi hanno studiato il progressivo accrescimento del potere esecutivo e si sono chiesti come ricostruire gli equilibri costituzionali, come organizzare la politica e le istituzioni nell’era della sfiducia. Una delle principali risposte è quella dei referendum, che riportano il potere nelle mani del cittadino, fosse anche come legislatore negativo.(Stefano Rodotà, dichiarazioni rilasciate a Luca Sappino per l’intervista “Referendum, che fastidio i cittadini”, pubblicata da “L’Espresso” e ripresa da “Micromega” il 30 marzo 2016).Il fastidio di Matteo Renzi questa volta non è per qualche singolo oppositore ma è direttamente per uno strumento costituzionale. Renzi ce l’ha con i referendum, e dice che sono inutili, perché sa che oltre agli effetti concreti sulle norme, quando sono promossi dal basso verso l’alto, dai cittadini o dalle regioni, e non sono plebiscitari come quello che avremo sulla riforma costituzionale, i referendum producono ricomposizione sociale. Ed è invece sulla disgregazione della società che il presidente del Consiglio ha impostato la sua strategia di governo, come dimostra la politica dei bonus, che dà qualcosa a ognuno – il bonus ai giovani, il bonus ai poliziotti, il bonus ai professori – e non a tutti. E con l’attacco frontale ai referendum, cercando ogni modo per non attuarli, come nel caso dell’acqua pubblica, o dicendo che non bisogna andare a votare, come sulle trivellazioni, Renzi prosegue sulla strada della passivizzazione dei cittadini. Che è una strada che percorriamo da anni. Si diceva che i cittadini sono ormai carne da sondaggio, ma è un’espressione vecchia. Ora sono carne da tweet o da slide.
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Carpeoro: l’oro di Dongo, il segreto con cui Gelli ricattò il Pci
La fortuna economica di Licio Gelli iniziò con l’oro di Dongo che diventerà uno dei suoi segreti. Non era uno stragista ma venne utilizzato per i vari depistaggi. Ad un certo punto scaricò Berlusconi. Sono alcune delle rivelazioni di Gianfranco Pecoraro, meglio conosciuto come Carpeoro, ex gran maestro della “legittima e storica comunione di Piazza del Gesù”, rilasciate nel corso del programma radiofonico “Border Nights”, in onda ogni martedi alle 22 su “Web Radio Network”. «È scomparso un personaggio che trova le sue radici nella gran confusione dell’Italia del dopoguerra. Gelli si è riciclato talmente bene che da fascista è diventato partigiano, partecipando all’operazione della sparizione dell’oro di Dongo. Quello rimane il segreto principale della sua vita, che gli ha permesso di ricattare gli unici che potevano dargli problemi, cioè i comunisti. Con l’oro di Dongo iniziò a costruire le sue fortune imprenditoriali. Per lui era inoltre facile avere indiscrezioni sulle oscillazioni della Borsa. Dedicava 24 ore al giorno alla ricerca delle informazioni che poi utilizzava per varie finalità».Accostato più volte alle stragi, secondo Carpeoro il suo ruolo si era però limitato a quello di depistatore: «Era un personaggio di riferimento di certi equilibri politici, veniva utilizzato per depistare. Non era l’organizzatore delle stragi. Veniva semmai utilizzato dai servizi segreti, dei quali fu collaboratore stimato e sempre utilizzato: serviva ad evitare che si arrivare ad individuare connivenze un po’ particolari. Non era uno stragista, non ne sarebbe stato neanche in grado. Si occupava di un altro aspetto: quello che non si arrivasse mai alla verità. Gelli era un massone che aveva tradito la massoneria, i suoi stessi compagni di strada. Si sentirono traditi da lui personaggi come Giulio Caradonna o Alliata di Montereale. Per opportunismo non guardava in faccia a nessuno». La famigerata P2 era in questa ottica lo strumento di potere di Gelli, che però non aveva ramificazioni tali per andare oltre ed intaccare davvero il tessuto istituzionale: «L’operazione P2 era ramificata e potente in termini di seconde linee iper permettere a Gelli di avere potere e fare affari. Ma non per condizionare la politica italiana. Finché era dentro il Goi, infatti, era soggetta ad altri organismi».«Non bisogna mai dimenticare che, in un rigurgito di perbenismo, la P2 venne buttata fuori dal Goi. Quando scoppiò lo scandalo erano già passati sei anni da quell’espulsione. C’era una parte della lista P2, che Gelli non ha fatto ritrovare, che era composta da ecclesiastici». L’ex gran maestro si è sentito anche danneggiato dall’azione di Gelli: «Mi ha fatto la guerra. Non avendo più una organizzazione massonica di riferimento, negli anni ‘90 voleva appropriarsi della mia, la più storica d’Italia, sufficientemente piccola per i suoi scopi. Fece una serie di manovre in questo senso per impossessarsene, provocandomi una serie di danni. Non mi prestai, e anche per questo ho “chiuso” la mia obbedienza. Sapevo che ne avrei pagato le conseguenze, ma non me me sono mai pentito».(Fabio Frabetti, “Gelli fu un depistatore, non uno stragista. L’oro di Dongo il suo segreto”, da “Blasting News” del 30 dicembre 2015).La fortuna economica di Licio Gelli iniziò con l’oro di Dongo che diventerà uno dei suoi segreti. Non era uno stragista ma venne utilizzato per i vari depistaggi. Ad un certo punto scaricò Berlusconi. Sono alcune delle rivelazioni di Gianfranco Pecoraro, meglio conosciuto come Carpeoro, ex gran maestro della “legittima e storica comunione di Piazza del Gesù”, rilasciate nel corso del programma radiofonico “Border Nights”, in onda ogni martedi alle 22 su “Web Radio Network”. «È scomparso un personaggio che trova le sue radici nella gran confusione dell’Italia del dopoguerra. Gelli si è riciclato talmente bene che da fascista è diventato partigiano, partecipando all’operazione della sparizione dell’oro di Dongo. Quello rimane il segreto principale della sua vita, che gli ha permesso di ricattare gli unici che potevano dargli problemi, cioè i comunisti. Con l’oro di Dongo iniziò a costruire le sue fortune imprenditoriali. Per lui era inoltre facile avere indiscrezioni sulle oscillazioni della Borsa. Dedicava 24 ore al giorno alla ricerca delle informazioni che poi utilizzava per varie finalità».
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Referendum, tutti contro Renzi: se perde, dovrà andarsene
Questo articolo potrebbe ridursi a pochissime parole: Renzi ha la maggioranza relativa dei simpatizzanti, ma la maggioranza assoluta degli odiatori. Non c’è dubbio che, fra i politici attualmente in corsa, Renzi sia quello che conta il maggior numero di simpatizzanti, magari non più il mitico 41% delle europee di due anni fa, ma, comunque, è al di là del 30%, un livello che non raggiunge nessun altro esponente politico attuale. Però è anche molto odiato da tutti gli altri. Dai sostenitori del M5s a quelli della Lega, da quelli di Sel e Rifondazione a quelli di Forza Italia e raccoglie una nutrita schiera di antipatizzanti anche nell’area di chi non vota. Detto così potrebbe essere un’ affermazione ovvia: ogni uomo politico raccoglie il maggior numero dei suoi simpatizzanti fra gli elettori del suo partito, mentre ha più numerosi antipatizzanti fra quelli che votano per gli altri partiti. Ma non si tratta di questo: Renzi è un caso particolare, come lo fu Berlusconi (quando ancora era vivo). Il fiorentino non suscita solo ovvi dissensi, freddezza o semplici antipatie come qualsiasi altro politico, lui accende ostilità feroci.Fra gli elettori di altri partiti, uno come Veltroni, Bersani, Franceschini può attirare antipatie, ma anche molta indifferenza, freddezza, forse anche una vaga commiserazione, mentre Renzi non risulta mai indifferente: è detestato. Neppure D’Alema è mai riuscito a riscuotere tanta avversione. A rendere il fiorentino tanto inviso sono la sua arroganza, rozzezza, maleducazione, la sua incapacità di trattare in modo civile con chi non è un suo fan, la cialtroneria nel vantare successi inesistenti o non suoi, lo stile da telepromozioni commerciali dei suoi discorsi, la sua andatura pavoneggiante, ma, più di tutto, il suo sfrenato narcisismo. Renzi si sente bravo, è convinto di essere meglio di Napoleone, Cavour e De Gaulle messi insieme. E questo può costargli molto. In qualche modo è quello che spiega la “maledizione del secondo turno” per il il Pd: di solito, vince quando vince al primo turno, mentre al secondo spesso perde anche con avversari che partono da 20 o 25 punti in meno.Il segreto è questo: gli elettori della sinistra preferiscono astenersi o votare M5s piuttosto che votare Pd. Gli elettori della destra preferiscono il M5s o l’astensione ma non votano mai per il Pd. Quello del M5s preferiscono l’astensione, più raramente la destra e quasi mai il Pd. Al secondo turno l’elettorato dei partiti che non sono arrivati al ballottaggio non votano per qualcuno, ma contro l’altro, quello più odiato. Ed il Pd, con l’immagine di Renzi è il più odiato. La cosa divertente è che il doppio turno è sempre stato il sistema preferito ad Pci-Pds-Pd sino all’Italicum. Dicevamo che questo può costare molto a Renzi e c’è già un’occasione in cui verificarlo: il referendum di ottobre sulla riforma istituzionale. Sul merito del referendum scriveremo ad hoc, qui ci limitiamo ad affermate che Renzi parte in forte vantaggio: stante il tasso di spoliticizzazione della gente, il sentire comune degli elettori è dalla parte sua perché la gente capisce solo che Renzi vuol tagliare le spese per la politica ed, in qualche modo, dare un ceffone alla casta e questo suscita simpatie.Stare a spiegare il progetto autoritario che c’è dietro per il combinato disposto con l’infame legge elettorale (la Boschi-Acerbo) è cosa complicata e da specialisti, per cui affrontare il referendum su quel fianco (come propongono gli ottuagenari costituzionalisti della sinistra) significa perderlo con sicurezza. E sai che novità: l’unica cosa che la sinistra sa fare con stile e competenza è perdere. Dunque, per il presidente del Consiglio potrebbe essere una partita di tutto riposo, da affrontare in scioltezza, ma il “fiorentino spirito buzzurro” ha vellicato il suo imbattibile narcisismo suggerendogli di trasformare il referendum in un plebiscito sulla sua augusta persona, in modo che la vittoria lo incoroni Re d’Italia a vita. Dopo pochi mesi andremmo a votare e, con un successo referendario alle spalle, per lui sarebbe un gioco da ragazzi: la destra sarebbe impreparata (e temo lo sarebbe anche il M5s che sarebbe comunque dalla parte degli sconfitti ai referendum anche lui), nel partito nessuno oserebbe fare un bliz e lui potrebbe massacrare la sinistra uomo per uomo (e questo sarebbe l’unico dato positivo) e poi andare a vincere le elezioni in tutta tranquillità. Per di più, se si votasse nel 2017 si scanserebbe anche il giudizio della Corte Costituzionale sull’Italicum.Il punto è che fare il referendum non sulla riforma ma su Renzi è, per il valente statista, l’unico modo serio di rischiare di perdere. La sua sfida va raccolta e nel referendum bisogna parlare poco del merito della riforma e molto dei disastri combinati da questo governo, delle sue mirabolanti promesse e dei sui desolanti risultati, delle figuracce internazionali, ecc. Ai giovano precari ed ai lavoratori bisogna parlare del job act, agli insegnanti ed agli studenti della legge sulla buona scuola, ai risparmiatori ed ai piccoli azionisti delle banche degli scandali bancari e delle strane riforme sulle popolari e le Bcc, e così via. Poi gli eruditi giuristi della sinistra intrattengano pure le signore bene, all’ora del the, con le loro dotte disquisizioni: va bene, servono anche quei quattro voti. Dobbiamo accontentalo: Renzi deve essere il centro della campagna referendaria. Slogan centrale: “Renzi ha detto che se perde se ne va: un’occasione da non perdere!”.(Aldo Giannuli, “Il referendum di ottobre: il punto debole di Renzi”, dal blog di Giannuli del 14 marzo 2016).Questo articolo potrebbe ridursi a pochissime parole: Renzi ha la maggioranza relativa dei simpatizzanti, ma la maggioranza assoluta degli odiatori. Non c’è dubbio che, fra i politici attualmente in corsa, Renzi sia quello che conta il maggior numero di simpatizzanti, magari non più il mitico 41% delle europee di due anni fa, ma, comunque, è al di là del 30%, un livello che non raggiunge nessun altro esponente politico attuale. Però è anche molto odiato da tutti gli altri. Dai sostenitori del M5s a quelli della Lega, da quelli di Sel e Rifondazione a quelli di Forza Italia e raccoglie una nutrita schiera di antipatizzanti anche nell’area di chi non vota. Detto così potrebbe essere un’ affermazione ovvia: ogni uomo politico raccoglie il maggior numero dei suoi simpatizzanti fra gli elettori del suo partito, mentre ha più numerosi antipatizzanti fra quelli che votano per gli altri partiti. Ma non si tratta di questo: Renzi è un caso particolare, come lo fu Berlusconi (quando ancora era vivo). Il fiorentino non suscita solo ovvi dissensi, freddezza o semplici antipatie come qualsiasi altro politico, lui accende ostilità feroci.
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Lacrime e sangue? Certo, un’altra Europa è impossibile
La maggioranza della “sinistra” si crogiola nell’illusione che l’Europa possa mutare pelle sotto la spinta della solidarietà fra i popoli europei. Da dove scaturisca tale speranza non è dato capire. Il problema europeo è legato alla crisi della democrazia, all’anti-politica, alla diffusa disaffezione, se non aperta ostilità di gran parte della popolazione ai meccanismi della rappresentanza e della mediazione politica. In termini più accademici questa è definita la crisi della democrazia. Questa disaffezione si traduce nell’idea che la politica sia tutta uguale, destra e sinistra, e che i politici siano tutti disonesti. Alla base di questa disaffezione, e in fondo anche alla base della pochezza progettuale ed etica dei politici, v’è la sostanziale impotenza della politica nazionale ad affrontare piccoli e grandi problemi, una volta privata delle leve della politica economica, e in particolare della sovranità monetaria, improvvidamente cedute a istanze sovranazionali dominate dalle potenze europee più forti. Questo spiega dunque molte cose.Spiega la disaffezione come dovuta all’incapacità dei politici di risolvere i problemi, la disoccupazione in primis, mentre tutti si riempiono la bocca del medesimo mantra delle riforme (operando delle feroci contro-riforme). Spiega la sostanziale somiglianza fra destra e sinistra che agli occhi del comune cittadino è giustamente scomparsa. Qual’è la differenza fra Berlusconi e Prodi? Fra Monti e Bersani? Fra Renzi e Tsipras? La politica è (nei tratti di fondo) la medesima ed è quella dettata da Bruxelles, Francoforte o Berlino. E spiega anche il drammatico scadimento della politica, screditata agli occhi delle persone capaci, per cui chi vale fa altro, e monopolio di personaggi che non hanno altro da occuparsi se non di conservare le poltrone per sé e per le proprie consorterie. Detto in termini un poco più nobili, una volta esautorato e reso impotente lo Stato nazionale, che è il terreno primario in cui si svolge il conflitto sulla distribuzione del reddito, viene a mancare il sale della democrazia.Ma in verità il “sogno europeo”, è precisamente questo: un disegno liberista volto a esautorare i popoli nazionali dal potere di incidere sulle scelte dei propri governi nazionali, resi impotenti se non come strumenti d’ordine (vedi le riforme costituzionali in questa direzione). Stati nazionali filiali regionali dell’ordine ordo-liberista che “trasforma le leggi del mercato in leggi dello Stato” (Alessandro Somma), e ben individuato dai tedeschi nel Ministro unico dell’economia. Questa espropriazione dello Stato nazionale perfeziona lo svuotamento del terreno del conflitto sociale, dunque della democrazia, già mortificato dalla globalizzazione del capitale, lasciato libero di collocarsi dove più gli aggrada. E non ci si dica, per favore, che piccoli stati sovrani avrebbero vita dura nell’”economia globalizzata”, come si sente spesso. Polonia e Corea del Sud se la passano meglio dell’Italia, per fare qualche esempio.Ma perché, mi si obietta, non lottare per un’Europa diversa? L’analisi economica – a cui invito a prestar fede non in nome della fiducia in una scienza discutibile, ma in nome del realismo politico a cui ci invitava un grande intellettuale, Danilo Zolo – ha da tempo indicato che un’unione monetaria fra paesi a diverso grado di sviluppo può reggere solo con un cospicuo bilancio federale a scopo perequativo, precisamente la “tax-transfer union” tanto temuta dai tedeschi. Di che parliamo allora? Di utopie da cui Danilo Zolo ci suggeriva di sfuggire come la peste? Hayek lo disse chiaramente in un saggio del 1939: uno Stato federale fra paesi culturalmente ed economicamente diversi e dotato di un cospicuo bilancio perequativo non sarebbe destinato a durare, e si lacererebbe presto sulla destinazione delle risorse (Jugoslavia docet). L’unico Stato federale possibile è quello con uno Stato minimo, uno Stato ordo-liberista che detti le sole regole di mercato.Ma questo è lo Stato europeo che già abbiamo, e che la potenza dominante di cui parliamo oggi intende rafforzare. Quella che abbiamo è la sola Europa possibile, anzi potrebbe andar peggio. La “sinistra” è responsabile di cotanto disastro continentale. In Inghilterra e negli Stati Uniti, la Thatcher e Reagan si sono resi responsabili di sconfiggere Keynesismo e Stato Sociale. In Europa l’ha in gran parte fatto la sinistra, in nome dell’Europa. Le responsabilità dell’Ulivo devono essere ancora conteggiate – ma c’è chi ha cominciato a farlo, come Giulio Sapelli. Ma forse non c’è n’è bisogno. La sinistra italiana sta finendo da sola nella spazzatura del 3%. Abbiamo invece bisogno di una sinistra italiana che della battaglia per il ripristino dell’autonomia della politica economica nazionale faccia il proprio vessillo. Siccome la sinistra è più sensibile all’orecchio della difesa della Costituzione, bene faremmo ad affiancare questa battaglia a quella della difesa dei valori costituzionali.Ma attenzione, se la sinistra ufficiale e intellettuale è sensibile ai valori costituzionali, la gente normale vede questi temi come estranei, lontani. Guarda con favore, per esempio, alla semplificazione dei processi politici. Quindi anche la battaglia per la difesa della Costituzione se ne gioverebbe, se da astratta difesa di principi si mostrasse come strumento di avanzamento sociale su temi concreti come piena occupazione, difesa di salari e Stato Sociale. Un’ultima precisazione. Personalmente non credo che lo slogan “fuori dall’euro” sia oggi popolare. Tuttavia un sentimento anti-Europeo sta montando. L’euro crollerà se e quando diventerà politicamente insostenibile, e quest’esito va perseguito e preparato, progettando il dopo, una nuova Europa di Stati indipendenti e cooperativi. Purtroppo la sinistra italiana, nella sua maggioranza, va nella direzione opposta di coltivare il “sogno europeo”, predisponendosi all’oblio della storia.(Sergio Cesaratto, “Sveglia, un’altra Europa è impossibile”, da “Sollevazione” del 12 marzo 2016).La maggioranza della “sinistra” si crogiola nell’illusione che l’Europa possa mutare pelle sotto la spinta della solidarietà fra i popoli europei. Da dove scaturisca tale speranza non è dato capire. Il problema europeo è legato alla crisi della democrazia, all’anti-politica, alla diffusa disaffezione, se non aperta ostilità di gran parte della popolazione ai meccanismi della rappresentanza e della mediazione politica. In termini più accademici questa è definita la crisi della democrazia. Questa disaffezione si traduce nell’idea che la politica sia tutta uguale, destra e sinistra, e che i politici siano tutti disonesti. Alla base di questa disaffezione, e in fondo anche alla base della pochezza progettuale ed etica dei politici, v’è la sostanziale impotenza della politica nazionale ad affrontare piccoli e grandi problemi, una volta privata delle leve della politica economica, e in particolare della sovranità monetaria, improvvidamente cedute a istanze sovranazionali dominate dalle potenze europee più forti. Questo spiega dunque molte cose.
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D’Alema: Renzi deve perdere le città e poi il referendum
«Vedo più spettatori che votanti a queste primarie». Oppure: «C’era anche Renzi al funerale? Non l’ho visto». A parlare è un Massimo D’Alema che in questi giorni si mostra di insolita giovialità, quasi spensierato. E così, fra una battuta e l’altra, qualche sera fa, in una cena in cui c’era una giornalista, il lìder Massimo si è lasciato sfuggire una battuta «lieve come un’incudine sui piedi», ovvero: «Renzi è un agente del Mossad, bisogna farlo cadere». Il Mossad, nientemeno! Vero, Renzi «si è sempre mostrato assai comprensivo verso le ragioni di Israele», ammette Aldo Giannuli, che da tempo segnala grandi manovre per far fuori il Rottamatore, che peraltro ha come consigliere economico Yoram Gutgeld, già tenente colonnello dell’esercito israeliano. «Forse, quella del Conte Max era solo una battuta di spirito», aggiunge Giannuli, sarcastico, proprio mentre – da Napoli a Roma – il Pd renziano sta per andare incontro a un possibile disastro, alle amministrative. Il momento è delicato? Ed ecco che interviene D’Alema – un uomo che, per inciso, vanta relazioni europee di altissimo livello, come quelle con pesi massimi del super-potere, del calibro di Jacques Attali, già uomo-ombra di Mitterrand e da sempre presente nel vertice supremo, anche massonico, che pilota le istituzioni europee.A ottobre, ricorda Giannuli, c’è il referendum sulle riforme costituzionali: se passa il no, Renzi ha detto che si dimette (ma forse no), nel qual caso potrebbero esserci nuove elezioni: «In fondo, almeno formalmente, il motivo per cui questo incredibile Parlamento è restato in vita nonostante la sua palese illegittimità, è stata la necessità di attuare riforme costituzionali, venute meno le quali, non si capisce perché mai dovrebbe restare in carica». Se invece dovesse vincere il sì, «allora è proprio sicuro che voteremmo dopo pochi mesi», aggiunge il politologo dell’ateneo milanese, «perché un Renzi incoronato da un referendum passerebbe subito all’incasso». In ogni caso, «la squadra renziana (se non lui personalmente) procederebbe alla decimazione dei bersaniani nei gruppi parlamentari». Non solo: anche per il super-potere europeo (la Bce, la Merkel, le grandi banche d’affari) sarebbe più difficile «abbattere un premier fresco di unzione popolare». Quindi, gli anti-renziani «hanno pochi mesi per tentare il colpo», ed ecco spiegato anche l’improvviso attivismo di D’Alema: sa benissimo che, se Renzi supera il referendum, dopo sarà più difficile fermarlo.Scenari possibili, nel frattempo? Tanti. Per esempio, un voto contrario in Parlamento: «Cosa facile da farsi in Senato ma di dubbia efficacia, perché sino a quando resta segretario del partito non si potrebbe fare alcun altro governo e si andrebbe alle elezioni anticipate che probabilmente potrebbero essere vinte da Renzi». Piano-B: un congresso straordinario che lo metta in minoranza: «Cosa possibile solo se c’è una spallata fortissima, tale da mandare in frantumi il blocco dominante». Meno improbabile, forse, «un capitombolo sulla questione libica che produca una tale ondata di protesta popolare da spingere una bella fetta del gruppo dirigente ad offrire la testa di Renzi per salvarsi davanti all’elettorato». Ma Renzi non è certo uno sprovveduto: «Si sta dimostrando tutt’altro che propenso ad imbarcarsi in quella avventura». Il pericolo, per Renzi, cresce davvero solo se proviene da Bruxelles: una nuova tempesta dello spread, con lettere e richiami della Bce? Certo, Renzi è meno vulnerabile di Berlusconi – non ha le sue aziende, che in quei giorni persero il 26% del loro valore in Borsa. «Si può provare, ma la riuscita non è garantita», scrive Giannuli. «Poi, in un momento di grande instabilità finanziaria non sarebbe prudente introdurre un altro elemento di fibrillazione: in fondo, l’Italia rappresenta pur sempre il terzo debito mondiale».Altri frangenti scivolosi? «Un grosso scandalo, magari aiutato dall’intervento di qualche procura: e qui, fra l’Etruria, la Popolare di Vicenza e altro, ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta sulla casella su cui fare la puntata. Però occorre che lo scandalo possa investire personalmente il presidente del Consiglio (non basterebbero uno o tre ministri) e dovrebbero esserci prove di qualche consistenza». Ma la prima pietra d’inciampo sono proprio le amministrative di giugno: l’aria non è buona per il Pd, Napoli e Roma sono piazze difficilissime, qualche problema potrebbe esserci a Torino o Bologna, e a decidere potrebbe essere Milano. «Renzi, che è furbo, ha fiutato il vento e ha già detto che non è su quel test che si misurerà, ma sul referendum: uno schema di gioco che può reggere se il risultato è dignitoso anche se sfavorevole». Oggi tutte le cinque maggiori città, eccetto Napoli, sono governate dal Pd: perdere in una delle altre quattro città sarebbe una sconfitta, ma accettabile (specie se si trattasse di Roma, dove la partita è proibitiva). Ma se a Napoli e Roma si aggiungesse un’altra città? E se la terza sconfitta fosse proprio a Milano? «Le cose andrebbero diversamente e si accenderebbe uno scontro interno al partito in cui potrebbe anche accadere che un pezzo della maggioranza si stacchi per dar vita ad una corrente di centro», cosa che inizierebbe a rendere difficile la vita al fiorentino, conclude Giannuli: difficile credere che non stia pensando proprio a questo, il Conte Max.«Vedo più spettatori che votanti a queste primarie». Oppure: «C’era anche Renzi al funerale? Non l’ho visto». A parlare è un Massimo D’Alema che in questi giorni si mostra di insolita giovialità, quasi spensierato. E così, fra una battuta e l’altra, qualche sera fa, in una cena in cui c’era una giornalista, il lìder Massimo si è lasciato sfuggire una battuta «lieve come un’incudine sui piedi», ovvero: «Renzi è un agente del Mossad, bisogna farlo cadere». Il Mossad, nientemeno! Vero, Renzi «si è sempre mostrato assai comprensivo verso le ragioni di Israele», ammette Aldo Giannuli, che da tempo segnala grandi manovre per far fuori il Rottamatore, che peraltro ha come consigliere economico Yoram Gutgeld, già tenente colonnello dell’esercito israeliano. «Forse, quella del Conte Max era solo una battuta di spirito», aggiunge Giannuli, sarcastico, proprio mentre – da Napoli a Roma – il Pd renziano sta per andare incontro a un possibile disastro, alle amministrative. Il momento è delicato? Ed ecco che interviene D’Alema – un uomo che, per inciso, vanta relazioni europee di altissimo livello, come quelle con pesi massimi del super-potere, del calibro di Jacques Attali, già uomo-ombra di Mitterrand e da sempre presente nel vertice supremo, anche massonico, che pilota le istituzioni europee.
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Stampa-Repubblica, pensiero unico in guerra contro di noi
La sinistra comprata all’asta per smantellare i suoi valori e correre fra le braccia del business euro-atlantico. Pensiero unico, ora anche grazie al futuro super-giornale unico, la fabbrica centralizzata di “notizie” che usciranno dal matrimonio tra Fiat e De Benedetti, “Stampa” e “Gruppo Espresso”: con 5,8 milioni di lettori, 2,5 milioni di affezionati utenti del web e 750 milioni di ricavi annuali, «il nuovo colosso potrà assicurarsi il controllo essenziale sulle menti di una decisiva fetta di “decision makers”, assicurandosi inoltre una fetta assolutamente maggioritaria degli afflussi pubblicitari», sostiene Giulietto Chiesa. La posta in palio? Cementare ancora di più il consenso, che è sempre di più «la componente essenziale del grande business di convincere le grandi masse ad essere spennate dal potere». In controluce, si vede «una riformattazione dell’élite dirigente del paese», che archivi in soffitta le frange “superate dagli eventi”, quelle che “si attardano” sulla sovranità nazionale, sugli interessi dell’Italia, e che dunque «non vogliono il conflitto con la Russia».In una nota su “Sputink News”, Chiesa ricorda un recente passaggio dell’ex direttore di “Repubblica”, Ezio Mauro che evoca la “logica della Fiat”, ovvero «perdere quote di sovranità pur di acquisire quella forza e quella superficie che è la miglior difesa del business e del lavoro in tempi di crisi». Dove la “superficie” metaforica di cui si parla «non è solo quella della dimensione di scala italiana, ma è quella dell’Alleanza Atlantica nel suo insieme». Torino e Roma contro Milano e il Nord-est (e anche contro il Sud del paese). «Qui c’è una parte della verità che sta sotto il tappeto. Di cui la vittima cartacea è il povero Corriere della Sera (con la moribonda Rcs abbandonata dalla Fiat, che la lascia nelle mani di Diego della Valle). Ma questi sono dettagli secondari. Come dettagli secondari sono la permanenza dei giornali della destra più o meno berlusconiana, e del solitario “Il Fatto Quotidiano”. Non è con queste forze che si potrà contrastare la marcia trionfale dei corifei unici del pensiero unico».Conclude Chiesa: «Sale in cattedra, con le sue falangi, e con il coro dei canali Rai al completo, la squadra comunicativa che tirerà la voltata di Matteo Renzi per il referendum decisivo che deciderà l’abbandono (se gli riesce, e non è ancora detto) della Costituzione Repubblicana nel corso del 2016». È la stessa squadra che in questi ultimi trent’anni ha in sostanza imposto al paese la «mappa dei valori liberal-democratici» (ancora Ezio Mauro), «stimolando la sinistra a evolversi in questa direzione». Qui, sottolinea Chiesa, “Repubblica” ha giocato il ruolo decisivo, prendendo in mano l’ex Pci «per traghettarlo, armi e bagagli, da sinistra a destra e per mettere i suoi rimasugli, mescolati a quelli della Democrazia Cristiana, nelle mani di Matteo Renzi». Unica “pecca”, di questa parabola, «il non piccolo dettaglio che, lungo la strada discendente, i valori liberaldemocratici sono stati abbandonati da qualche parte sul ciglio. Per essere sostituiti dal business e dalla guerra (che di questo gruppo editoriale nascente sarà senza alcun dubbio la doppia bandiera)».Il maxi-accordo editoriale tra i grandi giornali è perfettamente in linea con la situazione editoriale degli Usa, dove secondo Paul Craig Roberts i maggiori network mediatici della superpotenza sono ormai nelle mani di 5-6 soggetti. Idem, in Italia, il risvolto librario, con l’analogo matrimonio fra Mondadori e Rizzoli, che aumenta l’isolamento (e la debolezza, sul mercato) delle voci indipendenti. In compenso, rilevano diversi analisti, una quota sempre più importante di opinione pubblica ha smesso di fidarsi dei media mainstream, televisivi e cartacei: nessuna persona avveduta e consapevole, secondo lo stesso Craig Roberts, è più disposta a prendere sul serio la narrazione mainstream, preferendo informarsi sui blog. Per Fausto Carotenuto, già operatore strategico dei servizi segreti italiani ora militante nel network “Coscienze in Rete” che produce controinformazione, il super-potere sa di aver perso irrimediabilmente la fiducia del 20-30% della popolazione. Per questo si concentra sulla parte restante, cercando il consenso per la guerra globale in corso: contro i cittadini (perdita di diritti e quote di sovranità) e contro il resto del mondo, devastato da crisi, conflitti e terrorismi pilotati.La sinistra comprata all’asta per smantellare i suoi valori e correre fra le braccia del business euro-atlantico. Pensiero unico, ora anche grazie al futuro super-giornale unico, la fabbrica centralizzata di “notizie” che usciranno dal matrimonio tra Fiat e De Benedetti, “Stampa” e “Gruppo Espresso”: con 5,8 milioni di lettori, 2,5 milioni di affezionati utenti del web e 750 milioni di ricavi annuali, «il nuovo colosso potrà assicurarsi il controllo essenziale sulle menti di una decisiva fetta di “decision makers”, assicurandosi inoltre una fetta assolutamente maggioritaria degli afflussi pubblicitari», sostiene Giulietto Chiesa. La posta in palio? Cementare ancora di più il consenso, che è sempre di più «la componente essenziale del grande business di convincere le grandi masse ad essere spennate dal potere». In controluce, si vede «una riformattazione dell’élite dirigente del paese», che archivi in soffitta le frange “superate dagli eventi”, quelle che “si attardano” sulla sovranità nazionale, sugli interessi dell’Italia, e che dunque «non vogliono il conflitto con la Russia».
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Il mondo sta crollando, ma niente ferma il Tav in val Susa
Tutto va male, anzi malissimo, e noi che facciamo? Scaviamo un buco, dal 2011, tra le montagne che separano la valle di Susa dalla Savoia. Un altro buco, molto ipotetico e molto più lungo e più grande, oltre 50 chilometri, potrebbe un giorno attraversarle, quelle montagne, grazie alla altrettanto ipotetica ferrovia Torino-Lione, ieri definita Tav, treno ad alta velocità per passeggeri, poi convertita in linea Tac (alta capacità, per le merci) dopo l’estinzione dei passeggeri, che da vent’anni ormai preferiscono i voli low-cost. Nel frattempo si sono estinte anche le merci: l’attuale linea internazionale Torino-Modane che già attraversa la valle di Susa per collegare Italia e Francia è stata appena riammodernata, ma è deserta. Niente merci, niente treni. Eppure, la talpa che scava il buco – l’unico, finora, quello minuscolo, la breve galleria esplorativa di Chiomonte – non demorde, continua il suo lavoro sotterraneo tra rocce di amianto e vene radioattive di uranio. Scava il buco, la talpa, mentre l’Italia continua ad affondare, insieme a quel che resta dell’Europa, sempre più in bilico tra una pace precaria e l’assedio di una guerra deflagrante, con la certezza – ormai cronica – della cosiddetta “stagnazione secolare”, che condanna le economie del Pil alla non-crescita. Ma tutto questo, la talpa di Chiomonte non lo sa.Il progetto Torino-Lione sembra uscito da un romanzo di Dino Buzzati: si misura essenzialmente con l’assurdo, in una dilatazione spazio-temporale che rasenta la metafisica, archiviate l’economia e l’ingegneria, la scienza dei trasporti, le cifre del mondo reale. Come se un oscuro potere imperiale, quello che assiepa soldati alla Fortezza Bastiani nell’attesa eterna nel Nemico, avesse provveduto con incrollabile fede a istruire minuziose, inarrestabili procedure per l’avanzata della Grande Opera: una ferrovia-doppione, costosissima e devastante. Una strada ferrata che resterà senza treni, per mancanza di passeggeri e di merci, e ridurrà a deserto pericoloso e tossico il territorio attraversato. Ma non hanno orecchie, i grandi decisori, per ascoltare le argomentate proteste gridate e scritte, in tonnellate di carta, da ingegneri e geologi, ambientalisti, trasportisti italiani ed europei, criminologi antimafia, sentinelle mobilitate contro la finanza-canaglia che mette insieme partiti e banche, malaffare, alta burocrazia europea, élite industriale e finanziaria. Quella talpa cieca, semplicemente, deve continuare a scavare nel debito pubblico italiano, trasformato in tragedia dalla perdita di sovranità monetaria.Resiste a tutto, il progetto Tav Torino-Lione. Era nato alla fine degli anni ‘80, in previsione del collasso dell’Urss, per collegare via terra tutta l’Europa, da Lisbona a Kiev, proseguendo la sua corsa (largamente onirica) fino a Pechino. Erano gli anni della Perestrojka, della caduta del Muro. Poi vennero gli anni ‘90, la sciagura invisibile di Maastricht, Berlusconi e l’Ulivo di Prodi, Mario Draghi e il Britannia, Padoa Schioppa, Ciampi. La crisi in Somalia, la guerra in Cecenia, la devastazione della Jugoslavia, il Kosovo. Bill Clinton, la pace tra Rabin e Arafat, l’omicidio di Rabin e quello di Arafat, la fine del Glass-Steagall Act decretata da Clinton e quindi l’avvento della super-finanza onnivora senza più freni, fino all’apocalisse della Lehman Brothers. Era in corso una guerra invisibile, ma in Italia e in Europa di respirava ancora un clima di pace sostanziale, di economia non ancora in lacrime. Poi, nel 2011, la catastrofe. La Troika, Monti, la legge Fornero, la mannaia dell’austerity, il collasso di decine di migliaia di aziende, l’esplosione della disoccupazione. Nulla, comunque, che potesse fermare gli uomini d’acciaio decisi ad azzannare le rocce di Chiomonte, sgomberando a forza gli ultimi ostinati manifestanti, insieme alle loro insopportabili ragioni, tristemente verificabili come odiose verità matematiche.Da lì in poi, l’Italia non ha fatto che sprofondare in un incubo, smarrite tutte le certezze sociali ed economiche dei decenni precedenti, tra negozi sprangati e cervelli in fuga, giovani di quarant’anni mantenuti da genitori e nonni, aziende chiuse, suicidi a catena, licenziamenti in massa. Un terremoto senza precedenti, dal 1945. Spazzate via tutte le coordinate convenzionali della vita repubblicana, le tutele del lavoro rottamate insieme alla Costituzione e al sogno di una legge elettorale democratica. E attorno, un assedio livido e minaccioso, dall’Ucraina alla Siria fino alla Libia e al massacro della Grecia, vivisezionata senza anestesia a mo’ avvertimento, per tutti. Strategia della tensione, a livello internazionale: bombe e stragi “false flag”, i finanziamenti occulti e l’esodo biblico dei profughi, il terrorismo sporco dell’Isis e gli attentati opachi di Parigi. Prospettive, zero: un giovane su due è senza lavoro. Ma, naturalmente, la talpa di Chiomonte non si ferma: scava un buco, nel futuro più cieco di tutti i tempi.La storica battaglia dei NoTav era nata e cresciuta in tempo di pace, reclamando diritti a portata di mano, fino all’altro ieri. L’ambiente, il territorio, la salute, la giustizia, la trasparenza, l’economia reale. Era un mondo dove sembrava esserci ancora spazio per discussioni ragionevoli, seduti allo stesso tavolo. Ora, non c’è più neppure il tavolo: niente intermediazioni né dialogo, nessuna possibile trattativa. Siamo al diktat del 3%, imposto del super-potere bancario per tagliare la spesa sociale, anche a costo di far crollare, di conseguenza, l’economia privata, l’occupazione e il gettito fiscale, con ripercussioni fatali sul debito. Ma non importa, stiamo entrando nell’era del Ttip. Lo Stato senza più moneta, che deve farsi approvare il bilancio a Bruxelles, non conta più niente e conterà ancora meno, quando a dettare legge saranno direttamente le multinazionali, coi tribunali speciali istituiti dal trattato Usa-Ue che sbaraccherà ogni residua sovranità nazionale e locale. Fine dei microcosmi che abbiamo abitato, per decenni, confidando nella possibilità di migliorare la situazione. I NoTav sono ancora là, in valle di Susa, con le loro bandiere. Ma tutt’intorno, l’Italia sembra non esserci più – a parte quel buco ostinato e sempre più surreale, in quest’Europa desolata dagli oligarchi.Tutto va male, anzi malissimo, e noi che facciamo? Scaviamo un buco, dal 2011, tra le montagne che separano la valle di Susa dalla Savoia. Un altro buco, molto ipotetico e molto più lungo e più grande, oltre 50 chilometri, potrebbe un giorno attraversarle, quelle montagne, grazie alla altrettanto ipotetica ferrovia Torino-Lione, ieri definita Tav, treno ad alta velocità per passeggeri, poi convertita in linea Tac (alta capacità, per le merci) dopo l’estinzione dei passeggeri, che da vent’anni ormai preferiscono i voli low-cost. Nel frattempo si sono estinte anche le merci: l’attuale linea internazionale Torino-Modane che già attraversa la valle di Susa per collegare Italia e Francia è stata appena riammodernata, ma è deserta. Niente merci, niente treni. Eppure, la talpa che scava il buco – l’unico, finora, quello minuscolo, la breve galleria esplorativa di Chiomonte – non demorde, continua il suo lavoro sotterraneo tra rocce di amianto e vene radioattive di uranio. Scava il buco, la talpa, mentre l’Italia continua ad affondare, insieme a quel che resta dell’Europa, sempre più in bilico tra una pace precaria e l’assedio di una guerra deflagrante, con la certezza – ormai cronica – della cosiddetta “stagnazione secolare”, che condanna le economie del Pil alla non-crescita. Ma tutto questo, la talpa di Chiomonte non lo sa.