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Aggirare l’euro: moneta sovrana a titolo di credito fiscale
Non ci lasciano evadere dalla prigione dell’euro? E allora, aspettando che l’Eurozona crolli, si potrebbe creare moneta fiscale, stampandone 200 miliardi all’anno. E’ la tesi sostenuta da Biagio Bossone, Luciano Gallino e Stefano Sylos Labini: li chiamano Ccf, certificati di credito fiscale. Sarebbero emessi liberamente dall’Italia, a costo zero, per sostenere l’economia reale, famiglie e aziende. Un escamotage, per aggirare i vincoli feudali europei attraverso cui la Germania, tramite l’Ue e la Bce, impone la “sua” moneta al resto d’Europa, condannando i paesi come l’Italia: persi 11 punti percentuali di Pil, produzione industriale crollata del 25%. Per chi se ne fosse dimenticato, «l’euro è infatti una moneta straniera concepita e creata a somiglianza del marco tedesco, e quindi intrinsecamente deflazionistica», scrivono Marco Cattaneo ed Enrico Grazzini: «Senza moneta nazionale, siamo ingabbiati in una doppia trappola, quella della liquidità e quella del debito».Gli italiani, aggiungono i due analisti su “Micromega”, stanno scoprendo sulla loro pelle che, senza moneta sovrana, lo Stato non può fare nulla per uscire dalla crisi. Uno come Renzi può solo fingere di ribellarsi, ma poi deve sottostare a tutti i diktat dell’austerity varata dai governi Monti e Letta, in esecuzione dell’euro-politica imposta dalla “moneta straniera” governata da Berlino. Retorica a parte, Renzi è un allievo modello: le sue riforme strutturali sono esattamente quelle dettate dalla politica dell’euro imposta da Bruxelles: giù il costo del lavoro, tagli al welfare, privatizzazioni dei beni pubblici, riforme istituzionali, tagli alla spesa pubblica. Tutto questo, riconoscono Cattaneo e Grazzini, avviene perché gli Stati, in particolare quelli dell’Eurozona, non hanno più il controllo della moneta, avendo perso la loro sovranità nazionale: «Solo controllando la moneta si può mettere in moto la spesa pubblica», quella che garantisce i servizi vitali e la salute dell’economia. «Se invece sono le banche private a creare e a controllare il denaro, allora lo Stato diventa inesorabilmente servo delle banche e della loro moneta».Non c’è vera democrazia, riconoscono Cattaneo e Grazzini, senza gestione nazionale della moneta da parte dello Stato e senza il controllo della società civile: «Quando uno Stato per finanziarsi dipende dal sistema finanziario nazionale o, peggio, dai mercati finanziari internazionali perché non crea e non controlla la sua moneta, allora diventa uno Stato subordinato e sostanzialmente eterodiretto, uno Stato costretto a servire i suoi creditori», coi cittadini costretti a pagare le tasse «per ripagare il debito alla finanza», senza poter godere dei servizi pubblici cui avrebbero diritto. La nostra è un’aberrante anomalia a livello planetario: «Non c’è nessun Stato che conta nel mondo che non stampi la sua moneta e non abbia la sua banca centrale per proteggere e governare la moneta nazionale. I grandi Stati e gli Stati emergenti – come Usa, Giappone, Gran Bretagna, Cina, India, Russia, Brasile, Corea, Svizzera, Israele – si basano sulla loro moneta nazionale». Con l’euro, invece, la Germania «impedisce le svalutazioni monetarie dei paesi deboli e le rivalutazioni di quelli forti», esasperando gli squilibri a favore dei paesi con la bilancia commerciale in attivo.Nonostante, ciò – come i contestatori di sinistra, da Landini a Syriza fino alla formazione spagnola “Podemos” – anche Bossone, Gallino e Sylos Labini rinunciano ad affrontare la prospettiva di uscita dall’euro, che ritengono irrealistica e rischiosa, e preferiscono proporre l’emissione dei Ccf, una “quasi moneta” nazionale, parallela all’euro, capace di «aumentare la capacità di spesa dell’economia senza però creare nuovo debito, rispettando cioè i parametri (rigidi e assurdi) imposti dalla moneta unica». Un provvedimento intermedio, «in attesa di poter riformare radicalmente il sistema monetario europeo». Per i tre tecnici, i Ccf dovrebbero essere emessi dallo Stato a costo zero e distribuiti gratuitamente all’economia reale, cioè ai lavoratori e alle aziende, senza passare dal sistema bancario, espressione dell’élite finanziaria che ha spodestato la politica. Siamo o non siamo nell’era della post-democrazia? Nel regno feudale dell’Ue – grazie all’euro – è l’oligarchia finanziaria a esercitare un potere assoluto, attraverso la Bce e la Commissione Europea, che trasformano l’Italia in una colonia da comprare a prezzi stracciati, cominciando dal lavoro sottopagato delle maestranze.In più, oggi la Bce boccia le banche italiane e assolve quelle del Nord Europa, che invece «operano con leve finanziarie elevatissime, pari anche a circa 30 volte il loro capitale, e che si dedicano più di quelle italiane al trading speculativo». Così, le nostre banche «dovranno ricapitalizzarsi ricorrendo ampiamente al capitale estero». Cadranno anch’esse in mani straniere, «dopo che gran parte del sistema industriale nazionale – Fiat, Pirelli, Telecom – è migrato o sta migrando all’estero». L’economia italiana? «Si sta smembrando, e le banche italiane sono prede importanti». Inoltre la Bce sta favorendo la creazione di banche “troppo grandi per fallire”, cioè «sta esattamente creando le condizioni per la prossima grande crisi finanziaria in Europa (e la probabile rottura dell’euro)». E’ infatti chiaro che, «senza un comune fondo pubblico europeo – sul quale il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble ha posto il veto – qualsiasi grande banca europea in difficoltà non potrebbe essere salvata, e crollerebbe trascinando in rovina l’intero sistema bancario e l’eurosistema», aggiungono Cattaneo e Grazzini.Tutto questo, per un motivo semplicissimo: gli Stati dell’Eurozona non hanno più alcun controllo democratico sulla moneta, che ha cessato – con l’euro – di essere uno strumento a disposizione della comunità nazionale. La creazione di moneta “dal nulla” oggi è infatti prerogativa del sistema bancario privato: «Nelle economie moderne, il 95% della moneta è creata dalle banche con scrittura elettronica sotto forma di creazione di depositi». Ormai «sono le banche a creare denaro dal nulla, creando prestiti, cioè generando debiti». Nel mondo si contano 100 triliardi di debiti, «una somma insostenibile che non potrà mai essere ripagata». La moneta “fiat” «è diventata un bene privato delle banche per il profitto delle banche stesse». Continuano Cattaneo e Grazzini: «Queste semplici verità, ben conosciute dagli economisti, sono tanto incontrovertibili e clamorose quanto poco note al largo pubblico». Il meccanismo lo spiega un recente report della Bank of England: «Ogni volta che una banca fa un prestito, simultaneamente crea un deposito nel conto della banca del debitore, e perciò crea moneta». Di fatto, la banca crea dal nulla i depositi, «mentre normalmente si pensa che riceva dei depositi legati al risparmio delle famiglie, e che solo successivamente faccia dei prestiti».Più si deregolamenta il mercato finanziario, più il mercato mostra i suoi limiti: l’offerta monetaria delle banche è pro-ciclica, abbondante in caso di crescita e scarsa non appena c’è aria di crisi. «Quando i primi debiti cessano di essere ripagati, quando si verificano i primi fallimenti, improvvisamente il rubinetto delle banche commerciali cessa di fare fluire la moneta nell’economia e arriva allora la crisi». Con la crisi arriva anche la deflazione: «I prezzi stagnano o calano mentre la merce rimane invenduta e la produzione si ferma», così «la disoccupazione impedisce la ripresa dei consumi e della domanda finale». L’attuale caso europeo di “trappola della liquidità” è esemplare: la Bce cerca di dare ossigeno monetario al sistema – con i limiti imposti dal governo tedesco – ma le banche trattengono la liquidità e non fanno prestiti, in particolare alle piccole e medie imprese. Le banche? «Sono cariche di sofferenze, a causa della crisi economica». Inoltre, «preferiscono investire nei titoli di Stato o nella finanza per ottenere remunerazioni elevate piuttosto che rischiare prestando soldi all’economia reale». E’ così che «la moneta non circola, la domanda manca, le aziende chiudono e l’economia langue o va in recessione».Di qui le proposte di ritorno alla sovranità monetaria: la moneta come bene comune, gestito a costo zero dallo Stato democratico, rappresentante legittimo della comunità nazionale. Le banche commerciali, separate da quelle d’affari, dovrebbero mantenere il 100% dei depositi della clientela presso la banca centrale e fungere da intermediari puri. Oggi, sotto il dominio dell’Eurozona, si tratta di obiettivi impossibili da realizzare, Così, in attesa di riforme radicali del sistema finanziario, secondo Bossone, Gallino e Sylos Labini ci sarebbe la strada dei certificati di credito fiscale per rilanciare la domanda e immettere nuova liquidità nel sistema, ridare ossigeno ai consumi e agli investimenti privati e pubblici tagliando le tasse senza però ridurre la spesa pubblica destinata ai servizi. La proposta: emissione gratuita dei Ccf a favore dei lavoratori (occupati, disoccupati e pensionati) e delle imprese. certificati «ad utilizzo differito, validi cioè a partire da due anni dopo l’emissione per pagare qualsiasi tipo di impegno finanziario verso la pubblica amministrazione: tasse, contributi, tariffe, multe».Secondo i proponenti, il governo italiano potrebbe emettere Ccf per 90-100 miliardi di euro il primo anno, da incrementare se necessario nei due anni successivi fino a un massimo di 200 miliardi annui, «almeno fino a quando non si verifichi una consistente ripresa della domanda e dell’occupazione». I Ccf sarebbero scambiabili sul mercato finanziario come qualsiasi altro titolo di Stato. Ed essendo appunto coperti da garanzia statale, «potrebbero essere utilizzati direttamente come mezzi di pagamento nel mercato interno». Risultato: «Aumenterebbero enormemente e immediatamente la capacità di spesa dei consumatori e delle aziende», che però è esattamente quello che gli oligarchi dell’Eurozona a guida tedesca non vogliono. Certo, la proposta sarebbe «compatibile con le regole e i vincoli posti dal sistema dell’euro», ma è difficile credere che Bruxelles, Berlino e Francoforte li accetterebbero, anche se la Bce ha il monopolio sull’emissione di moneta ma non sulla creazione di “quasi-moneta”, in questo caso nient’altro che sconti fiscali.A puro titolo di esempio, spiegano Bossone, Gallino e Sylos Labini, si supponga di assegnare gratuitamente, in tre anni, a partire dal 1° gennaio 2015, circa 70 miliardi di Ccf ai lavoratori, dipendenti e autonomi, in funzione inversa del loro livello di reddito, così da stimolare la spesa per il consumo, e di assegnare l’equivalente di 80 miliardi di euro ai datori di lavoro. «Quest’ultimo importo abbatterebbe del 18% circa il costo del lavoro, una percentuale equivalente alla differenza di competitività dell’economia italiana nei confronti della Germania. Si eviterebbe così che l’espansione della domanda interna produca squilibri nei saldi commerciali con l’estero: l’aumento delle importazioni sarebbe infatti bilanciato dalla crescita delle esportazioni derivato dalla diminuzione del costo del lavoro e dall’aumento conseguente di competitività». Altri 50 miliardi di Ccf, aggiungono i proponentim, dovrebbero essere utilizzati per finanziare investimenti pubblici, forme di reddito garantito, iniziative ambientali e infrastrutture, incentivi per giovani e donne. Ovvio, aumenterebbe l’occupazione e riprenderebbe a crescere il Pil. L’Italia uscirebbe dalla depressione. Ed è esattamente quello che l’élite tedesca teme.Non ci lasciano evadere dalla prigione dell’euro? E allora, aspettando che l’Eurozona crolli, si potrebbe creare moneta fiscale, stampandone 200 miliardi all’anno. E’ la tesi sostenuta da Biagio Bossone, Luciano Gallino e Stefano Sylos Labini: li chiamano Ccf, certificati di credito fiscale. Sarebbero emessi liberamente dall’Italia, a costo zero, per sostenere l’economia reale, famiglie e aziende. Un escamotage, per aggirare i vincoli feudali europei attraverso cui la Germania, tramite l’Ue e la Bce, impone la “sua” moneta al resto d’Europa, condannando i paesi come l’Italia: persi 11 punti percentuali di Pil, produzione industriale crollata del 25%. Per chi se ne fosse dimenticato, «l’euro è infatti una moneta straniera concepita e creata a somiglianza del marco tedesco, e quindi intrinsecamente deflazionistica», scrivono Marco Cattaneo ed Enrico Grazzini: «Senza moneta nazionale, siamo ingabbiati in una doppia trappola, quella della liquidità e quella del debito».
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Il bonus-bebè nasconde 600 euro di rincari per famiglia
«Quando Renzi promette, davanti alle tv del suo alleato Berlusconi, che, bontà sua, darà 80 euro di bonus-bebè, non dice che ad ogni famiglia ne taglierà 606», scrive “Senza Soste”, citando le cifre fornite da “Wall Street Italia”. «Matteo Renzi è un noto venditore di pentolame di scarsa qualità e a caro prezzo: finché la cosa resta tutto nel giro della circonvenzione di incapace, cioè nel suo partito, si può passare oltre, come è accaduto per quelle elezioni finte che chiamano primarie lo scorso anno». Il problema è che Renzi è diventato premier, continua il blog: non raggira più solo i militanti del Pd, ma gli italiani tutti. «Anche chi investe in Borsa si è accorto che Renzi tira fregature». Gli 80 euro alle famiglie con bebè in arrivo? Prontamente compensati «dall’aumento, previsto nella bozza di finanziaria, di pane, pasta, latte». “Wall Street Italia” definisce infatti “una partita di giro” la legge di stabilità: «Entrate e uscite, ma da dove prende i soldi Renzi? Si parla di bonus-bebé e Tfr in busta paga, ma ricadute negative arrivano a 606 euro sulle famiglie».La manovra da 36 miliardi promette un taglio a tasse e spesa, risparmi per 15 miliardi (6 da Regioni ed enti locali, 2 miliardi dalla sanità), un recupero di 3,8 miliardi dall’evasione fiscale. E poi una stretta su fondazioni e fondi pensione, sgravi per partite Iva e figli, uno stop all’Irap sul lavoro e zero contributi nei primi tre anni per le imprese che assumono, nonché il Tfr (volontario) in busta paga. Tutto questo, scrivono su “Wall Street Italia” Elio Lannutti di Adusbef e Rosario Trefiletti di Federconsumatori, «oltre ad infliggere l’ennesimo colpo allo stato sociale, nasconde l’ennesima stangata sui consumatori che potrebbe essere stimata in circa 606 euro per ogni famiglia». Il governo, infatti, con una manon concede 80 euro a circa 10 milioni di occupati – manovra «ancora insufficiente per far ripartire i consumi, che saranno ancora stagnanti per lunghi mesi in una fase di forte depressione economica e di totale sfiducia nella ripresa produttiva» – e con l’altra «addossa a sanità, Regioni ed enti locali oneri per circa 8 miliardi di euro, «che dovranno essere coperti da nuove tasse, stimate in almeno 330 euro per ogni nucleo famigliare, anche per pagare l’Irap delle imprese».Dunque, a conti fatti, si tratta di 330 euro a famiglia dagli 8 miliardi tagli a Regioni e Sanità, coperti con maggiori aliquote fiscali; a questi si aggiungono 14 euro dall’inasprimento della tassazione sulla previdenza e la nuova imposta sui fondi pensione, più 23 euro dall’anticipo Tfr delle banche, e qualcosa come 239 euro «con la prevista clausola di salvaguardia rincaro Iva dal 4 al 10% su pane, latte, pasta». Totale, 606 euro. «Una manovra recessiva con coperture aleatorie, come il recupero di 3,8 miliardi dall’evasione fiscale», annotano Lannutti e Trefiletti. «Mentre i 15 miliardi di revisione della spesa e tagli lineari che dovrebbero arrivare da ministeri (6,1 miliardi) ed enti locali (4 miliardi dalle Regioni, 1,2 miliardi dai Comuni, 1 miliardo dalle Province), addossano in parte alle famiglie, sottoposte ad ulteriori stangate fiscali, il taglio dell’Irap e delle altre provvidenze alle imprese». Tutto da dimostrare che, incassati gli sgravi, le imprese assumeranno in Italia oltre 800.000 lavoratori nel triennio, come enfatizzato dal ministro dell’economia Padoan, invece di delocalizzare in aree più allettanti. «Una manovra che, continuando a salvaguardare con ulteriori garanzie statali gli interessi delle banche, che prendono i soldi dalla Bce al tasso dello 0,15% prestando al 15%, senza destinare risorse adeguate a ricerca ed innovazione, non avrà alcuna capacità di rimettere in moto l’economia e i processi produttivi».«Quando Renzi promette, davanti alle tv del suo alleato Berlusconi, che, bontà sua, darà 80 euro di bonus-bebè, non dice che ad ogni famiglia ne taglierà 606», scrive “Senza Soste”, citando le cifre fornite da “Wall Street Italia”. «Matteo Renzi è un noto venditore di pentolame di scarsa qualità e a caro prezzo: finché la cosa resta tutto nel giro della circonvenzione di incapace, cioè nel suo partito, si può passare oltre, come è accaduto per quelle elezioni finte che chiamano primarie lo scorso anno». Il problema è che Renzi è diventato premier, continua il blog: non raggira più solo i militanti del Pd, ma gli italiani tutti. «Anche chi investe in Borsa si è accorto che Renzi tira fregature». Gli 80 euro alle famiglie con bebè in arrivo? Prontamente compensati «dall’aumento, previsto nella bozza di finanziaria, di pane, pasta, latte». “Wall Street Italia” definisce infatti “una partita di giro” la legge di stabilità: «Entrate e uscite, ma da dove prende i soldi Renzi? Si parla di bonus-bebé e Tfr in busta paga, ma ricadute negative arrivano a 606 euro sulle famiglie».
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Barnard: fuga dai nostri bond, lo spread tornerà a ucciderci
Dai giorni di Monti, quando Berlusconi fu suicidato dalla Bce, abbiamo tutti visto lo spread e i tassi d’interesse che l’Italia paga sui suoi titoli di Stato abbassarsi man mano. E naturalmente tutti i buffoni del “Corriere” o del “Sole 24” ad attribuire il merito a Mario Macellaio-umano Monti, a Letta, alle riforme, a Renzi, all’Italia che obbedisce al rigore ecc. Pagliacciate, menzogne da conati. L’unico, e ripeto L’UNICO l’unico, motivo per cui lo spread è calato assieme agli interessi sui titoli di Stato in Italia (e altrove), sono state le dichiarazioni del defunto Draghi che promise ai Mercati di intervenire “senza limiti” (“whatever it takes”) per sostenere l’euro e il valore di qualsiasi titolo in euro. Quindi avrebbe fatto sortilegi come il Ltro, Omt, Tltro, Abs Purchases e, alla fine, un bel Quantitative Easing all’americana, il Qe! Ok, hanno detto gli investitori dei Mercati, se questa è la promessa ottima occasione: oggi compriamo un titolo Eurozona a 10, poi quando la Bce spara quelle cartucce il titolo ci va a 30 e ci facciamo su una fortuna!Ok, compriamoli, e tanti, subito, anche quelli italiani, a man bassa. E siccome la regola è che più si comprano titoli di Stato più si abbassano gli interessi che quello Stato ci paga sopra, allora abbiamo visto scendere lo spread e appunto gli interessi da pagare. La marmaglia di puzze parlamentari o governative italiane non HA NESSUN MERITO non ha nessun merito in questo, ZERO zero. Ma adesso arrivano quelli seri, i Veri Padroni – non le puzzette renziane alla Poletti e Padoan, Serra e scemi assortiti (inclusi i giornalisti) – ma Goldman Sachs e Morgan Stanley a pubblicare un rapporto dove semplicemente si dice che, mentre appunto fino a oggi il Mercato ha dato il lancio di Omt, Tltro, Abs Purchases e Qe (il regalino di Natale ai Mercati) come certo all’80-100%, per cui ci compravano i titoli di Stato a quintalate…… No signori, non sarà così per una bella serie di serissime ragioni (fra cui il “no” della Germania). Firmato Goldman Sachs e Morgan Stanley. Ops.E siccome hanno ragione, quando finalmente i Mercati capiranno che non ci sarà nessun regalino di Natale per la montagna di titoli di Stato italiani e spagnoli che stanno comprando, semplicemente li butteranno al cesso svendendoli come pazzi. E, siccome ho detto che la regola è che più si comprano titoli di Stato più si abbassano gli interessi che quello Stato ci paga sopra, vale anche la regola contraria: più si svendono titoli di Stato più SI ALZANO si alzano gli interessi che quello Stato ci paga sopra, e schizza su lo spread. Quindi, cari amici che siete tutti attenti alla popò di piccione dello Sblocca Italia, i Vampiri dello spread e dei tassi alle stelle torneranno e ci taglieranno la gola ancora. Disoccupazione, deficit negativo alle stelle, aziende a puttane, agenzie di rating che ci macellano ecc. ecc. Ma come sempre un boato gastrico di Grillo ci salverà. Per non dire gli 80 euro al mese. Knock, knock… is there anybody out there?(Paolo Barnard, “Lo spread tornerà e vi taglierà la gola”, dal blog di Barnard del 1° novembre 2014).Dai giorni di Monti, quando Berlusconi fu suicidato dalla Bce, abbiamo tutti visto lo spread e i tassi d’interesse che l’Italia paga sui suoi titoli di Stato abbassarsi man mano. E naturalmente tutti i buffoni del “Corriere” o del “Sole 24” ad attribuire il merito a Mario Macellaio-umano Monti, a Letta, alle riforme, a Renzi, all’Italia che obbedisce al rigore ecc. Pagliacciate, menzogne da conati. L’unico, e ripeto l’unico, motivo per cui lo spread è calato assieme agli interessi sui titoli di Stato in Italia (e altrove), sono state le dichiarazioni del defunto Draghi che promise ai Mercati di intervenire “senza limiti” (“whatever it takes”) per sostenere l’euro e il valore di qualsiasi titolo in euro. Quindi avrebbe fatto sortilegi come il Ltro, Omt, Tltro, Abs Purchases e, alla fine, un bel Quantitative Easing all’americana, il Qe! Ok, hanno detto gli investitori dei Mercati, se questa è la promessa ottima occasione: oggi compriamo un titolo Eurozona a 10, poi quando la Bce spara quelle cartucce il titolo ci va a 30 e ci facciamo su una fortuna!
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Berlino ci divora barando, come ha fatto con la Germania Est
Verso la fine della II Guerra Mondiale gli Usa avevano un piano, il Piano Morgenthau (poi non eseguito per ovvie ragioni connesse alla guerra fredda), per eliminare dopo la guerra tutte le industrie tedesche, facendo della Germania un paese puramente agricolo. Il mezzo per ottenere ciò era semplice: imporre alla Germania l’unione monetaria con gli Usa, la cui moneta era allora molto forte: il prezzo delle merci tedesche si sarebbe moltiplicato e le aziende avrebbero chiuso, non potendo più esportare, e l’industria yankee avrebbe preso i suoi mercati e i suoi assets migliori gratis o quasi. Gli Stati Uniti non fecero questo alla Germania dopo la sua resa, però la Germania Ovest lo fece poi alla Germania Est negli anni ’90. E ora lo fa all’Italia. Oramai è stato acquisito: essendosi inchiodata a un cambio elevato e fisso – elevato sia rispetto agli altri paesi dell’Eurozona, che rispetto agli altri – e non potendo più svalutare la moneta per mantenersi competitiva sui mercati internazionali, l’Italia, per restare competitiva e limitare la sua deindustrializzazione, ha dovuto svalutare i lavoratori, riducendo i salari/redditi, tassandoli di più, tagliando e differendo le pensioni.Ma la riduzione dei redditi ha automaticamente causato il crollo della domanda interna e della capacità della gente di pagare i debiti già contratti, quindi un crollo degli incassi di chi produce per il mercato interno e un’impennata delle insolvenze e dei fallimenti. La riduzione dei salari viene in parte compensata con ammortizzatori sociali finanziati con più tasse e contributi, in parte scaricando i disoccupati e i sottoccupati sui risparmi della famiglia e sulle pensioni dei genitori o dei nonni. Tutto ciò sta consentendo una parziale conservazione dell’industria e dei mercati esteri, ma, abbisognando di drenare risparmi e andando a colpire il settore immobiliare (quello che innesca le fasi di espansione e di contrazione), non può tirare avanti ancora a lungo. Inoltre, i vincoli di bilancio, il limite del 3% al deficit sul Pil, la botta dei trasferimenti al Meccanismo Europeo di Stabilità (57 miliardi), la connessa ascesa della pressione fiscale, fa chiudere o emigrare le aziende. Emigrano anche tecnici, professionisti, capitali. Questi sono i risultati dei “compiti a casa”.Sostanzialmente, la recessione è guidata da una costante sottrazione di liquidità voluta politicamente da Berlino via Draghi, che garantisce di fare tutto ciò che serve per sostenere i debiti pubblici, ma a condizione che si facciano quei compiti a casa, ossia che si demolisca l’economia e la si doni a un capitalismo di conquista, apolide e antisociale. Tutti questi meccanismi operano costantemente, appunto come meccanismi, e giorno dopo giorno demoliscono l’Italia e la rendono dipendente, sottomessa, povera rispetto alla Germania. Un po’ più di flessibilità e un po’ meno di spread o un po’ più di spesa e inflazione in Germania non risolverebbero quanto sopra, non fermerebbero la macchina della deindustrializzazione, anche se Renzi cerca di distogliere da ciò l’attenzione attirandola su di sé con la sua azione frenetica e inconcludente (se non nel male). Non la fermerebbe nemmeno un aumento della domanda interna, perché questo si dirigerebbe verso beni di importazione, avvantaggiati dalla forza dell’euro.E poi ci sono gli utili tromboni dell’europeismo idealista, che evocano le favole moralistiche di Spinelli e soci per coprire una realtà di scontro di interessi oggettivamente contrapposti, di sopraffazioni spietate, di colonizzazione. Sarebbe molto utile, a coloro che cercano di tutelare gli interessi italiani in relazione alle politiche europee e monetarie della Germania attuale, a coloro che trattano questi temi nelle sedi europee e nazionali, conoscere come il grande capitale privato tedesco occidentale, durante il processo di riunificazione della Germania iniziato nel 1989, usò una serie di mezzi, alcuni dei quali terroristici, altri formalmente criminali, per impadronirsi delle aziende, dei beni immobili, delle risorse naturali, dei mercati della Germania Orientale senza pagare o quasi, espropriandone la popolazione che era giuridicamente proprietaria di questi assets, e trasferendo i costi dell’operazione a carico dei conti pubblici, ossia dei contribuenti della Germania Occidentale nonché a carico dei lavoratori della Germania Orientale, di cui persero il posto di lavoro circa 2 milioni e mezzo, su circa 16 milioni di abitanti.E’ tutto descritto nel recentissimo saggio di Vladimiro Giacché “Anschluss”. Queste cose vanno sapute per poterle sbattere sul muso a Merkel, Schäuble, Katainen, smascherando i loro veri fini, quando si mettono a predicare i compiti da fare a casa, mentre dovrebbero finire davanti a una Norimberga finanziaria assieme ai loro mandanti. I metodi usati per depredare la Germania Orientale furono molteplici, iniziando con la creazione di allarme default della Germania Est, nella prima fase, in tutto analogo a quello che i banchieri tedeschi scatenarono nel 2011 contro il Btp per sostituire Berlusconi con un premier che li servisse bene. E anche: l’imposizione di un’unione monetaria con cambio uno a uno tra marco orientale e marco tedesco per le partite correnti, che determinò di punto in bianco la quadruplicazione dei prezzi delle merci della Germania Orientale, con la conseguente perdita dei mercati in favore di aziende concorrenti della Germania Occidentale, e naturalmente la chiusura delle imprese orientali con massicci licenziamenti.Poi il sistematico ricorso al falso in bilancio per far apparire irrecuperabili molte aziende sane della Germania orientale, onde poterle comperare a costo nullo o quasi; quindi la rimozione dei pochi funzionari onesti, che rifiutavano di dichiarare il falso; l’imposizione delle “regole di mercato” – in realtà, della potenza economica e politica – onde occupare i mercati della Germania Orientale con merci di produzione occidentale e così favorire le aziende che producevano queste merci a danno della produzione locale; la costante collaborazione del governo federale (Kohl) con gli avidi criminali del grande capitale – e l’autorevole appoggio di… Jean Claude Juncker! Eh sì, le “integrazioni” sono sempre, nella realtà, business sfrenato e disumano, ora come allora. La Germania fa le integrazioni col disintegratore. L’agenzia fiduciaria incaricata della vendita dei beni del popolo della Germania Orientale, la Treuhandanstalt, un veicolo per realizzare questi fini e, in luogo di concludere la suggestione con un utile netto derivato dalla vendita-privatizzazione dei beni pubblici orientali, produsse un buco di oltre 1 miliardo di marchi, sicché i cittadini orientali, ciascuno dei quali aveva ricevuto l’assegnazione di una quota azionaria nell’agenzia fiduciaria del valore teorico di 40.000 marchi, alla fine dei conti non ricevettero nemmeno un pfennig per l’espropriazione dei beni popolari che avevano subito.Dopo il saccheggio, furono intentati processi penali e civili, indagini formali sull’operato dell’agenzia fiduciaria e su altre vicende relative all’annessione della Germania Orientale, ma, grazie all’opposizione del governo, all’inerzia del Parlamento, agli insabbiamenti giudiziari, al fatto che tutta la gestione della missione era stata impostata e imperniata su tecnocrati a bassa o nulla responsabilità e ad alta opacità, come gli attuali eurocrati, i processi e le indagini finirono nel nulla. Il profitto compera tutti i poteri dello Stato. Per contro, mentre il Pil della Germania Orientale crollava (-40,8% nei primi 2 anni, export -60%), quello della Germania Occidentale, grazie alle acquisizioni sottocosto di cui sopra, fece un balzo all’insù di circa il 7%. A dispetto della vulgata ufficiale, ancora oggi la Germania Orientale rimane un paese, un pezzo di paese, arretrato, che non ha agganciato la parte occidentale, che vive di trasferimenti posti a carico del contribuente occidentale, in quanto il deficit commerciale dell’Est è del 45% mentre quello del Meridione è solo il 12,5%: quindi la Germania orientale è messa molto peggio della cosiddetta Terronia. Ma, ovviamente, non è colpa sua, bensì effetto di una rapina assistita dal governo di Bonn, nell’interesse del capitalismo tedesco occidentale, e con la giustificazione pseudo-scientifica dell’ideologia del mercato e delle sue regole, in cui si nasconde il fatto che il mercato non è libero ma è l’arena di scontri e rapporti di forza e sopraffazione.Qualcosa del genere dell’unificazione tedesca del 1990 era già avvenuto in Italia, con la annessione del Sud, un’area complessivamente meno produttiva del Nord – annessione che aveva portato non a una convergenza delle due parti d’Italia, ma a una maggiore divergenza in termini di efficienza e produttività e competitività, in quanto il Nord attraeva e distoglieva capitali e competenze dal Sud, che quindi si deindustrializzava e si votava a diventare o restare un’area agricola e marginale. Analoga operazione sta avvenendo oggi sotto il pretesto della unificazione europea e della unione monetaria, ossia dell’euro. La Germania entrò nell’euro a condizione che vi entrasse d’Italia, l’altro paese ad alta capacità manifatturiera. Perché? Perché se l’Italia fosse rimasta fuori avrebbe fatto una forte concorrenza alla Germania, mentre per contro l’euro avrebbe alzato il corso della valuta italiana e abbassato il corso della valuta tedesca, in tal modo favorendo le esportazioni tedesche soprattutto entro l’unione monetaria europea e limitando quelle italiane, che diventavano meno competitive.Così è avvenuto: contrariamente alla quasi totalità dei paesi dell’Eurozona, in cui la quota manifatturiera del Pil è calata fortemente, la Germania, con l’euro, ha avuto un aumento di circa il 25% di questa quota, dovuto soprattutto ad esportazioni nei mercati dei paesi partners dell’Eurozona, ossia dovuta a quote di mercato sottratte ad essi. Esportazioni che i banchieri tedeschi hanno sostenuto facendo prestiti e investimenti verso i paesi euro-deboli, Grecia e Spagna in testa, ben sapendo che prima o poi quei paesi non sarebbero riusciti a sostenere le scadenze di pagamento – anche poiché i loro conti erano stati truccati ad hoc – e che, a qual punto, sarebbe scoppiata quella crisi che ha poi in effetti consentito alla Germania di imporre le sue regole, i suoi interessi e i suoi uomini al potere, grazie al suo controllo sulla Bce, e a costringere altri paesi, Italia in testa, a svenarsi per prestare a Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda i soldi necessari a realizzare i loro lucri usurari e fraudolenti.Anche se a molti può venire il pensiero che il vero compitino da fare a casa sia liberarsi della Germania una volta per sempre, quanto sopra descritto non va letto e presentato in chiave nazionalistica, ossia come una colpa della popolazione tedesca – sostanzialmente inconsapevole – bensì in chiave di guerra di classe, perché, sotto mentite spoglie ideologiche, è una campagna di conquista del capitalismo finanziario a spese della popolazione generale. L’Italia ha un’arma negoziale molto potente nei confronti della Germania: minacciare di uscire dall’Eurosistema (cosa che farebbe saltare l’euro e condannerebbe la Germania a una rivalutazione monetaria fortissima, che metterebbe fuori mercato le sue produzioni e in ginocchio la sua economia). Non usare quest’arma e lasciare che il paese sia fatto a pezzi giorno dopo giorno, è un delitto capitale. Ai governanti italiani che, facendo finta di non vedere la realtà, hanno collaborato e collaborano a questo disegno a danno di tutti noi, vorrei chiedere: lo fate perché minacciati, perché ricattati, o perché pagati? Quanto?(Marco Della Luna, “Euro-Anschluss, il fantasma di Morgenthau”, dal blog di Della Luna del 17 ottobre 2014).Verso la fine della II Guerra Mondiale gli Usa avevano un piano, il Piano Morgenthau (poi non eseguito per ovvie ragioni connesse alla guerra fredda), per eliminare dopo la guerra tutte le industrie tedesche, facendo della Germania un paese puramente agricolo. Il mezzo per ottenere ciò era semplice: imporre alla Germania l’unione monetaria con gli Usa, la cui moneta era allora molto forte: il prezzo delle merci tedesche si sarebbe moltiplicato e le aziende avrebbero chiuso, non potendo più esportare, e l’industria yankee avrebbe preso i suoi mercati e i suoi assets migliori gratis o quasi. Gli Stati Uniti non fecero questo alla Germania dopo la sua resa, però la Germania Ovest lo fece poi alla Germania Est negli anni ’90. E ora lo fa all’Italia. Oramai è stato acquisito: essendosi inchiodata a un cambio elevato e fisso – elevato sia rispetto agli altri paesi dell’Eurozona, che rispetto agli altri – e non potendo più svalutare la moneta per mantenersi competitiva sui mercati internazionali, l’Italia, per restare competitiva e limitare la sua deindustrializzazione, ha dovuto svalutare i lavoratori, riducendo i salari/redditi, tassandoli di più, tagliando e differendo le pensioni.
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Macché patrimoniale, il lavoro rinasce con moneta sovrana
Finanziare la spesa pubblica con le tasse, magari una patrimoniale? Sbagliato due volte. Primo, perché i grandi patrimoni sono finanziari, dunque volatili e sfuggenti. E soprattutto perché chiedere altre tasse significa rassegnarsi al sistema-truffa dell’emissione privatizzata del denaro: per uscire dalla crisi, infatti, basterebbero iniezioni di valuta sovrana a sostegno dell’economia reale, cioè posti di lavoro. Possibile che la sinistra sindacale non lo capisca? Purtroppo sì. Perché «il sindacato e gran parte della sinistra non hanno le basi culturali o la libertà di azione necessarie per poter imporre al dibattito pubblico, politico, sindacale, parlamentare, di trattare i veri temi nodali». Ovvero: «Come viene creato il denaro, da chi, a vantaggio di chi, con che diritto, con quali profitti, con quale tassazione su questi profitti». L’uscita dal tunnel è una sola: «Creazione di denaro direttamente da parte dello Stato, senza che lo Stato lo debba comperare dando in cambio titoli pubblici, cioè indebitandosi». Questo dovrebbero chiedere, Landini e Camusso, e con loro i quasi 5 milioni di italiani iscritti alla Cgil.Secondo Marco Della Luna, il pericolo è lo strapotere del capitale finanziario, cresciuto fino a 15 volte l’economia reale. Come? In due modi: autorizzando le banche a compiere azioni di pirateria speculativa e, prima ancora, concedendo ai mercati finanziari di ricattare gli Stati mediante l’acquisto del debito pubblico, nel momento in cui – in Italia dagli anni ‘80 – si è vietato alla banca centrale di continuare a finanziare il governo, cioè i cittadini, emettendo moneta a costo zero. Ora, con l’euro, siamo all’incubo elevato a sistema. A tutto questo siamo giunti con l’inganno: «Celare all’opinione pubblica questi semplici termini del problema, fare in modo che non capisca o fraintenda ciò che si sta facendo, così da prevenire resistenze organizzate e poter continuare in questo processo di accaparramento della ricchezza, è un bisogno primario delle classi dominanti che lo hanno costruito e ne stanno beneficiando». Il nuovo compito della politica? Assicurarsi che le pecore siano tosate all’infinito, senza protestare.Menzogne, disinformazione, minaccia, psicologia sociale della paura: «I mezzi a disposizione di una classe dominante per far accettare alle classi inferiori le crescenti diseguaglianze di ricchezza e di diritti sono molteplici». Primo: «Nascondere le diseguaglianze o le loro cause», e poi «farle sentire giustificate (dal merito, dalle leggi del mercato, dalla competitività, dalle capacità». Se non basta, si può «reprimere la protesta sociale attraverso strumenti giuridici e polizieschi». E poi «indurre paura, allarme, conflitti (shock economy, divide et impera». Si arriva così a «impiantare un paradigma divide-et-impera, in cui ognuno è imprenditore di se stesso e in competizione con gli altri», un ambiente nel quale «non può nascere consapevolezza di classe e di conflitto». Si tratta di «abituare la gente, gradualmente, a nuove condizioni peggiorative». Il nuovo standard, la diseguaglianza “fisiologica”, «ha già prodotto riforme che la sanciscono e recepiscono anche sul piano formale e giuridico in termini di sottoposizione, mediante trattati internazionali e riforme interne, dalla sfera politica, pubblica, partecipativa a quella finanziaria, privata, capitalistica».Estinto l’interesse pubblico, resta solo quello affaristico privato. Un risultato politico epocale, al quale si è arrivati grazie a una poderosa pedagogia della menzogna, attraverso cui depistare l’opinione pubblica dalle vere cause della crisi. L’economia reale soffre per mancanza di credito e liquidità? Anziché emettere l’ossigeno della valuta, le autorità monetarie hanno inculcato la fobia delle bolle finanziarie come alibi per chiudere i rubinetti. I soldi – tanti, a tassi bassissimi – li hanno dati solo alle banche, per le speculazioni finanziarie e l’acquisto di derivati. E’ lo schema del “quantitative easing” angloamericano e della Ltro, “long term refinancing operation”, della Bce. «Il risultato voluto era prevedibile, previsto, ed è puntualmente arrivato: praticamente pochi o nulli benefici per l’economia reale». Tutti colpevoli, dai ministri delle finanze al Fmi, dai banchieri centrali all’Ue: perché si rifiutano di creare moneta destinata all’economia produttiva? «Ovvio: perché quest’operazione da un lato avrebbe successo, farebbe ripartire l’economia, e si capirebbe che tutto gira intorno a chi ha il potere esclusivo di creare moneta». Il sostegno monetario all’economia reale toglierebbe ai banchieri «il loro potere monopolistico sulle società, smascherando al contempo il loro comportamento essenzialmente distorsivo, antisociale e parassitario».Questo è il disastro da cui discende la cosiddetta crisi. E invece «si è raccontato alla gente che è la spesa pubblica, la spesa per il settore pubblico, ciò che costituisce il problema, il male dell’economia, e che quindi bisogna tagliare servizi pubblici, privatizzare, vendere i beni collettivi, licenziare i pubblici dipendenti, aumentare le tasse cioè fare la cosiddetta austerità, nascondendo così la vera causa del dissesto dei conti pubblici». In realtà sono stati i banchieri che «hanno usato i conti pubblici, cioè i governi, per chiudere i buchi da loro stessi scavati a fini di profitto privato». In Italia è successo col Monte dei Paschi di Siena. Ma la tragedia a monte è la progressiva scarsità di moneta a partire dal 1981, storico divorzio fra Tesoro e Bankitalia. Da allora, «i detentori del debito pubblico italiano sono principalmente soggetti finanziari». Nuove tasse? Ci provò Monti, tagliando le gambe al settore immobiliare provocandone il crollo, determinante per la cronicizzazione della recessione. E oggi sono i sindacati che chiedono altre tasse per uscire dal tunnel?L’atteggiamento della sinistra sindacale, benché giustamente motivato dalla rabbia sociale contro le palesi diseguaglianze alimentate dal governo Renzi, non aiuta a risolvere il problema. «Tutto questo insieme di menzogne e di false rappresentazioni della realtà, somministrato in modo martellante al popolo, serve a fargli accettare una politica tributaria e finanziaria che consente di trasferire sempre più denaro dal contribuente e dalla spesa per la società alle tasche di banchieri e finanzieri attraverso sia gli interessi sul debito pubblico, che gli aiuti di Stato alle banche, che gli stanziamenti multimiliardari in favore di organismi di sostegno alle banche come il Mes», conclude Della Luna. «In sostanza, quindi, lo schema politico è il seguente: compiere operazioni che generano profitto e instabilità; alimentare l’instabilità e usarla per creare allarme sociale; dare di questa situazione una falsa spiegazione alla gente, che la disponga ad accettare non solo i peggioramenti avvenuti, ma anche ulteriori sacrifici in termini sia economici che di diritti anche politici, come necessari per evitare il disastro; usare questi sacrifici per arricchirsi ulteriormente». Ecco perché l’oligarchia si oppone all’unica possibile soluzione democratica: libera emissione di moneta pubblica per sostenere il sistema economico, aziende e posti di lavoro.Finanziare la spesa pubblica con le tasse, magari una patrimoniale? Sbagliato due volte, protesta Marco Della Luna. Primo, perché i grandi patrimoni sono finanziari, dunque volatili e sfuggenti. E soprattutto perché chiedere altre tasse significa rassegnarsi al sistema-truffa dell’emissione privatizzata del denaro: per uscire dalla crisi, infatti, basterebbero iniezioni di valuta sovrana a sostegno dell’economia reale, cioè posti di lavoro. Possibile che la sinistra sindacale non lo capisca? Purtroppo sì. Perché «il sindacato e gran parte della sinistra non hanno le basi culturali o la libertà di azione necessarie per poter imporre al dibattito pubblico, politico, sindacale, parlamentare, di trattare i veri temi nodali». Ovvero: «Come viene creato il denaro, da chi, a vantaggio di chi, con che diritto, con quali profitti, con quale tassazione su questi profitti». L’uscita dal tunnel è una sola: «Creazione di denaro direttamente da parte dello Stato, senza che lo Stato lo debba comperare dando in cambio titoli pubblici, cioè indebitandosi». Questo dovrebbero chiedere, Landini e Camusso, e con loro i quasi 5 milioni di italiani iscritti alla Cgil.
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Orsi: è ufficiale, l’Italia in rottamazione non è più salvabile
Tre articoli firmati da autorevoli commentatori come Ambrose Evans-Pritchard, Roger Bootle (entrambi del “Telegraph”) e Wolfgang Münchau (“Financial Times”) sono recentemente apparsi sulla stampa finanziaria: tema comune, la situazione economica dell’Italia e l’instabilità del suo debito pubblico. Le argomentazioni e le parole usate in questi contributi sono da soppesare con cura, perché potrebbero essere il segnale di un graduale riposizionamento degli operatori di mercato e dei “policy maker” nei confronti del debito sovrano italiano e delle conseguenze della sua attuale traiettoria per l’Eurozona – e non solo. Si tratta di un cambio di prospettiva che implica una prognosi tutt’altro che favorevole sulle possibilità di “guarigione” del nostro paese. Nei tre scritti si solleva una domanda fondamentale: cosa succederebbe se l’economia italiana continuasse a ristagnare (o a contrarsi) anche nel 2015-16? Bootle osserva che «l’Italia è molto vicina a quella situazione che gli economisti chiamano ‘trappola del debito’, quando cioè l’indice di indebitamento comincia a crescere in modo esponenziale».«Per sfuggire a questa trappola ci sono due possibilità: svalutare la moneta o fare default. Non disponendo di una valuta nazionale, l’Italia non può controllare la prima opzione: quindi, se non ci saranno cambiamenti realmente significativi in tempi brevi, il default sovrano diverrà lo scenario più probabile». Sul piano tecnico è obiettivamente difficile stabilire, per qualsiasi paese, una soglia massima oltre la quale il default diventa “matematicamente inevitabile”. Basti pensare al Giappone che, nonostante un rapporto debito/Pil al 230%, è ancora considerato un creditore solvibile. Nel caso dell’Italia, la mancanza di una moneta nazionale complica però le cose. Evans ritiene comunque che «il debito pubblico italiano raggiungerà un livello pericoloso il prossimo anno». Pericoloso al punto che «potrebbe essere superato il punto di non ritorno». L’articolo di Münchau è il più esplicito e allarmistico: «La posizione economica dell’Italia è insostenibile e sfocerà in un default a meno che non vi sia un’immediata e duratura inversione di tendenza sul piano economico». E un default, naturalmente, «comprometterebbe il futuro del paese nell’Eurozona e l’esistenza stessa della moneta unica».I tre pezzi, scrive in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” il professor Roberto Orsi (London School of Economics e Università di Tokyo) potrebbero essere considerati come l’inizio di un’offensiva mediatica indirizzata alla Bce per forzarla ad adottare politiche monetarie espansive simili a quelle della Fed, della Bank of Japan e della Bank of England: un intervento che tutti e tre gli autori auspicano, insieme alla realizzazione di ampie riforme politico-economiche. Queste osservazioni vanno inoltre lette tenendo a mente che le previsioni di crescita dell’economia italiana dal 2011 a oggi sono state sistematicamente smentite. Quanto al 2015, il rallentamento dell’Eurozona e le correzioni attese sui mercati finanziari internazionali rendono ben poco verosimili le stime di aumento del Pil formulate dal nostro governo. I tre analisi invocano le famose riforme strutturali? La natura e la portata delle riforme finora proposte (Senato, pubblica amministrazione, giustizia, scuola, legge elettorale) dimostrano che l’Italia «manca delle fondamenta», scrive Orsi, secondo cui «tutto questo discutere di riforme è una pura e semplice illusione».La tempistica italiana è eterna: nei sei anni successivi al crollo di Lehman Brothers, osserva Orsi, è stata portata a termine una sola riforma strutturale, la drammatica riforma Fornero (pensioni) firmata dal governo Monti, anche perché «l’ordine costituzionale vigente (e la cultura politica sottesa) combina un potere esecutivo debole a un potere legislativo frammentato, con una pletora di autorità e poteri di veto incrociati che finiscono per paralizzare il sistema». E se anche le riforme annunciate fossero realizzate nei tempi previsti, il loro impatto sarebbe sufficiente a evitare il collasso del sistema-paese? Il mondo è cambiato: prima la super-globalizzazione del 2007 e poi il crack di Wall Street del 2008. «In Italia questo contesto sfugge, e si discute a vuoto su questioni quali l’abolizione dell’articolo 18 senza considerarne l’ormai sostanziale irrilevanza in un mondo lavorativo dominato dai contratti “flessibili” e dalla disoccupazione». Quanto alle “riforme” evocate da Renzi e dei poteri forti – Bce, Troika Ue, finanza – restano sfocate. Quando Münchau scrive che «l’Italia ha bisogno di modificare il proprio sistema legale, ridurre le tasse e migliorare la qualità e l’efficienza del settore pubblico», secondo Orsi offre certamente «consigli ragionevoli e condivisibili, ma troppo generici. Quali regole potrebbero funzionare? Come dovrebbero essere attuate? Ci sono i presupposti perché ciò accada? Quali ostacoli andrebbero superati?».Riguardo poi al suggerimento di «cambiare l’intero sistema politico», ciò appare impossibile a meno che non si sostenga la rottura della continuità costituzionale e l’ascesa di un “dispotismo illuminato” come quello che contraddistinse le riforme Stein-Hardenberg nella Prussia del primo Ottocento, rileva Orsi. «Il “consenso di Washington” è ormai in declino, e oggi non ci sono chiare indicazioni sulle politiche che potrebbero garantire condizioni economiche migliori a un determinato paese. Questo ci conduce al più generale problema dell’inadeguatezza dei modelli socio-economici oggi dominanti, il “neo-keynesiano” e quello fondato sull’austerità. E, andando ancora più a fondo, ci porta a constatare quanto poco utile sia pensare ancora nei termini “positivistici” propri di paradigmi e modelli economici – come se il governo dell’economia potesse essere completamente de-politicizzato». L’ansiosa ricerca di una soluzione definitiva e “scientificamente corretta” ai problemi economici «tradisce un implicito anti-intellettualismo e una drammatica carenza di leadership da parte delle élite politiche». Al riguardo, aggiunge Orsi, è sintomatico il paradosso implicito nell’aver trasferito il problema della “guida” sulle spalle dei banchieri centrali, figure tecniche originariamente de-politicizzate.A oggi, le proposte di riforma avanzate dai governi italiani sono «prive di una chiara logica e idonee a produrre effetti in tempi troppo dilatati». Per lo più derivano da «dottrine neo-liberal ormai superate». Visione del futuro? Non pervenuta. Dell’Italia non resta altro che l’astrazione contabile del Def, puro e semplice documento di bilancio finanziario e fiscale. «Lavorare e accettare pesantissimi sacrifici per migliorare uno Stato così concepito non ha molto senso». Vere riforme, serie ed eque, ben diverse da quelle finora proposte? «Arriverebbero comunque troppo tardi: il paese è esausto e si trova sull’orlo di un’irreversibile implosione demografica, economica e sociale». Per Orsi, «le riforme dovevano essere fatte vent’anni fa, quando il contesto nazionale e globale era molto più favorevole e si dovevano introdurre i cambiamenti necessari per accedere all’Eurozona ancora in gestazione. Al punto in cui siamo oggi, le riforme potrebbero addirittura essere tanto pericolose quanto l’immobilismo, spingendo il paese verso un’ulteriore destabilizzazione: la Francia del 1789 e l’Unione Sovietica degli anni Ottanta sono solo due esempi storici di come il tentativo di introdurre riforme fuori tempo massimo possa innescare il crollo del sistema che si vorrebbe salvare».L’articolo di Münchau menziona esplicitamente la parola “default”. Anticipare ciò che è probabile (o inevitabile) che avvenga in futuro, scrive Orsi, è un vecchio espediente: la verità fa meno male quando diventa manifesta e ineludibile. «Dovrebbe essere chiaro che l’Italia, a questo punto, non può più essere salvata. La perdita di capacità industriale è irreversibile, e il debito pubblico continuerà a crescere fino a quando non si renderà necessaria una qualche forma di ristrutturazione». Il blogger Stefano Bassi ipotizza un progressivo “smantellamento” del paese, mirato a trasferire l’ancora ingente patrimonio privato degli italiani verso il debito pubblico secondo la logica dei vasi comunicanti. I “mercati” potrebbero cambiare la propria percezione di rischio nei confronti dell’Italia e agire di conseguenza, innescando la speculazione al ribasso e il panico. Lo scenario di un’implosione controllata e a lungo termine dell’Italia (e, in prospettiva, di molti altri paesi europei, Germania inclusa) è realistico solo se accompagnato da una parallela strategia di “manipolazione monetaria” della Bce, da cui dipende la sopravvivenza dell’euro. La Germania però resta inflessibile – niente espansione monetaria – e per contro «non ci sono garanzie sul fatto che ciò che ha “funzionato” negli Usa e nel Regno Unito produrrebbe gli stessi effetti nell’Eurozona».Un nuovo accordo politico che sostituisca Maastricht potrebbe certamente essere raggiunto a livello europeo, dice Orsi, ma richiederebbe anni di lavoro e appare tutto sommato improbabile. Senza contare che è illusorio pensare che gli organi di governo dell’Ue e la dirigenza tedesca «abbiano in serbo idee migliori di quelle attuali». Sicché, «l’Italia potrà essere “tenuta a galla” artificialmente per un periodo di tempo piuttosto lungo, ma non indefinitamente, perché nel frattempo l’economia reale continuerà a deteriorarsi e il rapporto debito/Pil continuerà ad aumentare». Nessuna speranza, all’interno dell’attuale struttura Ue. L’euro? «Non può certamente crollare dalla sera alla mattina, e la probabilità che l’attuale leadership politica e finanziaria annunci la fine della moneta comune è paragonabile a quella che un pilota informi i propri passeggeri di aver perso il controllo dell’aereo: semplicemente, non accadrà mai». Forse si può sperare nella graduale transizione verso un distema duale, a doppia moneta, che permetta di ridenominare i debiti nazionali. «In realtà, si tratterebbe del primo passo verso l’abbandono del sistema. Una strada accidentata, se vogliamo, ma preferibile all’esplodere di forze centrifughe difficilmente controllabili». Quanto all’Italia, per dirla con Bassi, «non ci sono soluzioni, e solo ammetterlo porterà a una soluzione».Tre articoli firmati da autorevoli commentatori come Ambrose Evans-Pritchard, Roger Bootle (entrambi del “Telegraph”) e Wolfgang Münchau (“Financial Times”) sono recentemente apparsi sulla stampa finanziaria: tema comune, la situazione economica dell’Italia e l’instabilità del suo debito pubblico. Le argomentazioni e le parole usate in questi contributi sono da soppesare con cura, perché potrebbero essere il segnale di un graduale riposizionamento degli operatori di mercato e dei “policy maker” nei confronti del debito sovrano italiano e delle conseguenze della sua attuale traiettoria per l’Eurozona – e non solo. Si tratta di un cambio di prospettiva che implica una prognosi tutt’altro che favorevole sulle possibilità di “guarigione” del nostro paese. Nei tre scritti si solleva una domanda fondamentale: cosa succederebbe se l’economia italiana continuasse a ristagnare (o a contrarsi) anche nel 2015-16? Bootle osserva che «l’Italia è molto vicina a quella situazione che gli economisti chiamano ‘trappola del debito’, quando cioè l’indice di indebitamento comincia a crescere in modo esponenziale».
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Servire il Popolo, anzi il business (e addio alla sinistra)
Ieri il motto era “Servire il Popolo”, e oggi? Tutti ai posti di comando, dall’altra parte della barricata: giornali, televisione, grandi aziende, partiti di governo. Dov’è finita la sinistra, quella che dovrebbe difendere gli italiani, per esempio dagli abusi del regime euro-Ue? Bisognerebbe chiederlo a loro, gli ex trotzkisti, che secondo i numerosi detrattori «stanno alla sinistra esattamente come i “neocon” e i “teocon” stanno alla destra», scrive Sebastiano Caputo, alludendo ai vari Oriana Fallaci, Giuliano Ferrara e Alessandro Sallusti. «Accecati da un anticomunismo in assenza di comunismo, furono Gianfranco Fini e i suoi seguaci a sposare definitivamente il liberismo economico di Silvio Berlusconi». E furono i loro “intellettuali di complemento” a «consegnare le chiavi della biblioteca» agli ultras della destra. E a sinistra? Idem, se si pensa agli ex trotzkisti, da Santoro a Lerner: «Stessi finanziatori, stessi interessi, stessi nemici». Destino speculare: «La la nazione per gli uni, la rivoluzione per gli altri», ma – si sa – la rivoluzione non c’è stata e la nazione sta sparendo, assorbita dall’Eurozona.«L’esistenza di una destra e di una sinistra – premette Caputo – aveva ancora senso qualche decennio fa». A prescindere dalla guerra fredda, quello che separava (e allo stesso tempo univa) i due schieramenti, «era un profondo spirito di appartenenza ideale e una forte identità culturale». Eppure «entrambi, come le subculture degli anni Sessanta e Settanta, sono stati inglobati dal sistema dominante per diventare progressivamente forze antinazionali e conservatrici». Il “tradimento” della sinistra, continua Caputo sul blog “Da dietro il sipario”, è tuttavia anteriore a quello della destra. E affonda le sue radici nell’eccentrica parabola dei trotzkisti italiani. Riuniti sotto diverse sigle (“Gruppo Comunista Rivoluzionario”, “Servire il Popolo”, “Avanguardia Operaia”, “Lotta Continua”, “Potere Operaio”) ed eredi del pensiero di Lev Trockij (internazionalismo e anti-sovietismo), dopo la contestazione studentesca del ‘68 adottarono la strategia dell’“entrismo”, cioè l’infiltrazione nei sindacati, nel Pci di Berlinguer e nei giornali di area.Tutto questo, probabilmente, secondo Caputo è avvenuto anche «con il sostegno economico dei servizi statunitensi, i quali finanziavano tutte le forze anti-sovietiche e di destabilizzazione dell’epoca», indipendentemente dal loro colore politico, «come del resto si è potuto verificare nei decenni successivi: non è un caso che quegli stessi trotzkisti che militavano nelle organizzazioni extra-parlamentari si siano successivamente ritrovati a occupare posizioni di potere in ambienti che spaziano da quello accademico a quello mediatico-giornalistico, passando per quello politico». La lista di quelli che Caputo chiama “i traditori dei principi della sinistra” è pressoché sterminata. Da “Servire il Popolo” provengono il sondaggista Renato Mannheimer, collaboratore del “Corriere della Sera” e docente dell’Università Bicocca di Milano, nonché Antonio Polito, membro dell’Aspen Institute ed editorialista del “Corriere”, e Barbara Pollastrini, ministro delle Pari opportunità del governo Prodi e attualmente deputata del Pd.Sempre da “Servire il Popolo” arrivano Linda Lanzillotta, senatrice di “Scelta Civica” di Mario Monti, e il popolarissimo Michele Santoro, mattatore della Tv-contro. E’ invece “Lotta Continua” la casa-madre di Adriano Sofri, editorialista di “Repubblica” come l’ex compagno Gad Lerner. Sono ex di “Lc” anche Paolo Liguori, giornalista Mediaset e conduttore televisivo, e il sociologo Luigi Manconi, docente universitario e senatore Pd. “Potere Operaio”, di Toni Negri, ha invece allevato Francesco Pardi, detto Pancho, già senatore Idv e promotore del “No Cav Day”. Con lui Ritanna Armeni, conduttrice televisiva di “Otto e Mezzo” con Giuliano Ferrara, e un peso massimo della cultura italiana come Paolo Mieli, storico, già direttore del “Corriere”, ora dirigente di Rcs. Infine, dal “Gruppo Comunista Rivoluzionario” è emerso Paolo Flores D’Arcais, direttore di “Micromega” (Gruppo Espresso), nel quale spicca il direttore di “Repubblica”, Ezio Mauro, che archivia il suo passato di sinistra con editoriali come quello intitolato “L’Occidente da difendere”, in cui «identifica il nemico russo e quello islamico, legittimando di conseguenza l’Occidente capitalista, pseudo-democratico, imperialista e a trazione statunitense». Mala tempora currunt: persino l’ex “zapatista” salottiero Bertinotti arriva a dire: «Abbiamo sbagliato tutto, sono anche un liberale». Poi uno si chiede dov’è finita la sinistra. E si domanda perché nessuno alzi mai la voce, neppure una volta, per difendere gli italiani massacrati dal rigore dell’élite tecno-finanziaria di Bruxelles, braccio armato dell’oligarchia ultraliberista.Ieri il motto era “Servire il Popolo”, e oggi? Tutti ai posti di comando, dall’altra parte della barricata: giornali, televisione, grandi aziende, partiti di governo. Dov’è finita la sinistra, quella che dovrebbe difendere gli italiani, per esempio dagli abusi del regime euro-Ue? Bisognerebbe chiederlo a loro, gli ex trotzkisti, che secondo i numerosi detrattori «stanno alla sinistra esattamente come i “neocon” e i “teocon” stanno alla destra», scrive Sebastiano Caputo, alludendo ai vari Oriana Fallaci, Giuliano Ferrara e Alessandro Sallusti. «Accecati da un anticomunismo in assenza di comunismo, furono Gianfranco Fini e i suoi seguaci a sposare definitivamente il liberismo economico di Silvio Berlusconi». E furono i loro “intellettuali di complemento” a «consegnare le chiavi della biblioteca» agli ultras della destra. E a sinistra? Idem, se si pensa agli ex trotzkisti, da Santoro a Lerner: «Stessi finanziatori, stessi interessi, stessi nemici». Destino speculare: «La la nazione per gli uni, la rivoluzione per gli altri», ma – si sa – la rivoluzione non c’è stata e la nazione sta sparendo, assorbita dall’Eurozona.
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Bifo: noi e la barbarie dell’Ue, fabbrica di miseria e guerra
Si può fermare l’offensiva liberista in Italia? La manifestazione nazionale indetta a Roma dalla Cgil il 25 ottobre può essere l’inizio di un’onda di rivolta dei lavoratori italiani contro il soffocante austeritarismo dell’Unione Europea, e contro il governo Renzi-Berlusconi, vassalli locali del potere finanziario. Speriamo che lo sia, facciamo tutto quel che possiamo perché lo sia, ma con poche illusioni. Non si può più fermare fermare l’offensiva padronale, la precarizzazione, l’impoverimento, lo smantellamento delle strutture sociali, perché tutto questo è già avvenuto, con la collaborazione dei sindacati. E’ meglio saperlo. Nel 1980, di fronte a 25.000 licenziamenti decisi da Agnelli, Berlinguer chiamò gli operai Fiat a occupare la fabbrica, ma il suo partito negli anni precedenti aveva lavorato a disgregare la forza operaia, e ne aveva isolato le avanguardie fino al punto di avallare il licenziamento di 62 lavoratori “estremisti”. Naturalmente fu una sconfitta dalla quale gli operai italiani non si sono ripresi più.Così oggi il sindacato si mobilita contro la precarizzazione che ormai dilaga, contro l’impoverimento e lo smantellamento del sistema economico italiano che ormai sono cosa fatta. Ancora una volta si chiude la stalla dopo che i buoi sono scappati. L’articolo 18 è un feticcio vuoto perché la precarietà è divenuta forma generale del rapporto di lavoro salariato, e a questo si aggiunge l’espansione continua del lavoro schiavistico, mascherato da lavoro volontario. La cancellazione dell’articolo 18 è il colpo di grazia, il sacrificio rituale che il dio della finanza chiede a Renzi per concedergli in cambio un po’ di flessibilità finanziaria. Nonostante tutto questo la mobilitazione contro la ferocia del ceto politico-finanziario può avere un effetto positivo nel lungo periodo, riaprendo una dinamica di solidarietà e organizzazione che negli ultimi anni si è progressivamente spenta. Ma qual è il contesto?L’Unione Europea è un morto che cammina. A che punto è la notte europea? Purtroppo la notte è appena cominciata, anzi quel che stiamo vivendo forse è solo il tramonto. Il tramonto della speranza di democrazia e di pace nel continente. La democrazia è parola svuotata dalla pratica austeritaria, mentre dovunque cresce il nazionalismo come hanno dimostrato le elezioni del maggio che il ceto finazista europeo non ha voluto neppure considerare. Al finazismo della Bce e al revanscismo tedesco risponde un nuovo nazionalismo nei paesi economicamente più impoveriti dall’offensiva finazista. Il disegno del finazismo globale è stato da sempre ed è oggi più che mai lo smantellamento definitivo dell’Unione Europea, e la sottomissione della popolazione europea alla condizione semi-schiavistica della precarietà. Il punto di precipitazione definitiva dell’Unione, e di inizio della nuova guerra civile europea si trova nel confronto franco-tedesco. La probabile vittoria del Front National è destinata a segnare la fine dell’Unione con conseguenze inimmaginabili, sullo sfondo della guerra russo-ucraina.Non occorre molta sapienza storica per capire che il nazionalismo francese non può tollerare che l’Europa sia unita sotto il dominio tedesco, anche se la Deutsche Bank ha preso il posto che nel 1941 aveva la Wehrmacht. La sceneggiatura è già scritta: crollo del partito di Hollande, affermazione dei nazionalisti, sgretolamento dell’Unione Europea. E dopo? Un articolo di George Soros uscito sulla “Repubblica” del 26 ottobre chiama l’Europa a prepararsi alla guerra con la Russia. Alcuni auspicano l’uscita dell’Italia dall’Unione come se questo fosse la soluzione di qualcosa. L’Italia è uno stato fallito, una società disgregata, depressa, corrotta, un’economia smantellata, un patrimonio industriale distrutto o svenduto come Alitalia. Parlare di Italia è idiota. Occorre parlare della classe operaia che da Torino a Napoli – per quanto decimata, tradita, sconfitta – può mettere in moto un processo che coinvolga il lavoro precario, e soprattutto il lavoro cognitivo disperso fuori dai confini nazionali. Non per la riscossa nazionale di un paese la cui unica azienda in attivo è la mafia, ma per aprire e guidare un processo di rivolta e di autonomia dei lavoratori europei.Siamo entrati in un’epoca oscura e non serve fingere di non vederlo: non si può restaurare la democrazia, l’occupazione non è destinata a crescere ma a diminuire, la pace civile si sta sgretolando, e la crescita non ha più senso economico né ecologico. Occorre prepararsi al pieno dispiegamento delle condizioni che stanno iscritte nella disgregazione sociale, e nella cultura della competizione e della paura: prepararsi alla miseria e alla guerra, per dirlo in chiaro. E’ in questa prospettiva che si devono creare le condizioni per l’autonomia sociale e il dispiegamento delle potenzialità contenute nell’alleanza possibile tra tecnologia e lavoro.Che caratteri avrà un nuovo movimento di emancipazione, dentro e oltre il disastro che liberismo e finazismo hanno preparato con l’aiuto servile della sinistra?Si uscirà dall’epoca buia solo quando la cultura sociale si orienterà verso la riduzione generale del tempo di lavoro. Metà dei posti di lavoro sono inutili, se si applica a pieno la potenza tecnologica. Nelle condizioni del capitalismo questo è un disastro senza rimedio. In condizioni libere dalla stretta del capitalismo questa potenza tecnica può diventare fattore di arricchimento egualitario e di rinascimento culturale. La potenza dell’intelletto generale in rete riduce il tempo di lavoro necessario. L’effetto di questa riduzione è stato finora riduzione del salario, aumento dello sfruttamento relativo e assoluto, aumento della disoccupazione e della miseria. Il sindacato ha testardamente e inutilmente difeso il posto di lavoro mentre si trattava (ormai dagli anni ’80) di scatenare la forza della società e l’immaginazione del lavoro cognitivo per la liberazione di tempo sociale dal lavoro salariato. La sconfitta politica e l’arretramento culturale di questi anni derivano direttamente dall’incapacità della sinistra e del sindacato di allearsi con la tecnologia e il lavoro cognitivo, e di battersi per la riduzione del tempo di lavoro generale.Ora siamo in un tunnel molto nero. La luce verrà soltanto dal rovesciamento della cultura lavorista. Non il produttivismo, non la difesa della composizione esistente del lavoro, non la partecipazione alla corsa del topo liberista. Ma la riduzione generale del tempo di lavoro, la redistribuzione della ricchezza, la liberazione delle energie affettive, educative, culturali dalla morsa imbecille della competizione. Occorre cominciare subito, mentre il tramonto volge verso il buio assoluto. Occorrerà continuare mentre nel buio l’uomo si farà lupo per l’uomo. I lavoratori italiani possono riprendere il ruolo di avanguardia che ebbero nel passato non per salvare il cadavere d’Europa che sta ammorbando l’atmosfera, ma per mettere in moto un processo di lotta europea e internazionalista, per la liberazione del tempo dal lavoro, per la liberazione dell’intelligenza dall’oscurantismo economicista.(Franco “Bifo” Berardi, “Al tramonto d’Europa”, da “Micromega” del 25 ottobre 2014).Si può fermare l’offensiva liberista in Italia? La manifestazione nazionale indetta a Roma dalla Cgil il 25 ottobre può essere l’inizio di un’onda di rivolta dei lavoratori italiani contro il soffocante austeritarismo dell’Unione Europea, e contro il governo Renzi-Berlusconi, vassalli locali del potere finanziario. Speriamo che lo sia, facciamo tutto quel che possiamo perché lo sia, ma con poche illusioni. Non si può più fermare fermare l’offensiva padronale, la precarizzazione, l’impoverimento, lo smantellamento delle strutture sociali, perché tutto questo è già avvenuto, con la collaborazione dei sindacati. E’ meglio saperlo. Nel 1980, di fronte a 25.000 licenziamenti decisi da Agnelli, Berlinguer chiamò gli operai Fiat a occupare la fabbrica, ma il suo partito negli anni precedenti aveva lavorato a disgregare la forza operaia, e ne aveva isolato le avanguardie fino al punto di avallare il licenziamento di 62 lavoratori “estremisti”. Naturalmente fu una sconfitta dalla quale gli operai italiani non si sono ripresi più.
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La guerra dell’Ue contro la nostra civiltà democratica
L’attuale guerra condotta con mezzi commerciali e finanziari sta trasformando l’Ue nel più grande esperimento di riduzione dei diritti umani. Il tema più dibattuto e complesso è quello sullo status dei diritti sociali nell’odierna Europa: si è passati lentamente dalla concezione che le esigenze di protezione sociale potessero costituire sviluppo e potenziamento delle libertà individuali, all’ideologia ultraliberista del “s’aiuti dunque chi può”, tipico pensiero spietato delle classi privilegiate nei riguardi delle classi povere. La polarizzazione della ricchezza e lo svuotamento della classe media ha portato con sé una guerra accanita nella quale i più forti schiacciano inesorabilmente i deboli e gl’inesperti. Gli uomini, senza unità di scopo, guidati dal solo dogma della legge di mercato, vengono manipolati verso il progetto europeo e parallelamente verso una progressiva degradazione strutturale del rango e dell’orgoglio delle nazioni aderenti ad esso.Il dissidio tra democrazia costituzionale italiana e trattati Ue è del tutto evidente, se si analizza il modello sociale ed economico che la Costituzione italiana ha indubbiamente abbracciato nel modello del 1948. Il dovere alla solidarietà, considerato come “base della convivenza democratica”, viene completamente disatteso dall’impianto europeo, in particolar modo in quella che è stata la gestione della crisi economica dal 2008 in poi: comunità nazionali deprivate delle conquiste economico-sociali di oltre un secolo di lotte, con una subdola gradualità che non deve consentirgli di accorgersene in tempo utile (attraverso meccanismi infernali di controllo totalizzante ed anti-democratico come la Troika). La competizione inevitabile e programmatica tra Stati aderenti all’Unione esclude la solidarietà tra i membri: economie di interi Stati si stanno completamente dissolvendo in nome dell’irrazionale equazione Ue = euro, rendendo schiave generazioni di popoli a cui si predicano “i diritti civili”, non consentendo loro di esercitare diritti politici e sociali.Allo sfaldamento della base economica dello Stato democratico italiano corrisponde dunque un’accelerazione della perdita di diritti in toto, che è pericolosamente derivante dall’originaria incompatibilità del disegno di Maastricht coi principi fondamentali della nostra democrazia costituzionale. Le “riforme” pretese dal “cammino di convergenza”, che si è ormai trasformato in un campo di macerie da Berlino ad Atene, non sono altro che il mezzo per accelerare irreversibilmente la caduta del modello socio-economico costituzionale per l’instaurazione dell’impianto ordoliberista, che esclude totalmente la solidarietà e la centralità della persona umana.(Martina Carletti, “L’Unione Europea e la distruzione della solidarietà sociale”, da “Appello al Popolo” del 22 settembre 2014).L’attuale guerra condotta con mezzi commerciali e finanziari sta trasformando l’Ue nel più grande esperimento di riduzione dei diritti umani. Il tema più dibattuto e complesso è quello sullo status dei diritti sociali nell’odierna Europa: si è passati lentamente dalla concezione che le esigenze di protezione sociale potessero costituire sviluppo e potenziamento delle libertà individuali, all’ideologia ultraliberista del “s’aiuti dunque chi può”, tipico pensiero spietato delle classi privilegiate nei riguardi delle classi povere. La polarizzazione della ricchezza e lo svuotamento della classe media ha portato con sé una guerra accanita nella quale i più forti schiacciano inesorabilmente i deboli e gl’inesperti. Gli uomini, senza unità di scopo, guidati dal solo dogma della legge di mercato, vengono manipolati verso il progetto europeo e parallelamente verso una progressiva degradazione strutturale del rango e dell’orgoglio delle nazioni aderenti ad esso.
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Laurea inutile, qui lavoreranno solo schiavi sottopagati
Perché mai formare giovani laureati, in un paese che l’euro-crisi sta declassando al rango di colonia per manovalanza a basso costo? «Continuando a tagliare sul finanziamento di università e ricerca si continuerà ad aggravare una situazione che già ora sembra essere irrecuperabile», afferma Francesco Sylos Labini: «Un folle gioco al ribasso che rende necessario, per supplire alla mancanza d’innovazione, abbassare i costi del lavoro e i diritti dei lavoratori». E’ il “miracolo” dell’Eurozona, che fabbrica concorrenza sleale a beneficio della sola Germania. La Deutsche Bank domina l’Unione Europea attraverso la Commissione e la Bce, col pieno accordo dei super-poteri finanziari atlantici, rappresentati dal Fmi e dalle potentissime lobby che – attraverso trattati-capestro come il Ttip – a Bruxelles dettano le regole per spianare la strada al business, smantellando lo stato sociale e i diritti dei cittadini, consumatori e lavoratori. Lo scalpo dell’Italia? Uno dei punti-chiave del piano: per indossare i panni di kapò della nuova Europa, la Germania ha preteso che venisse rasa al suolo la temutissima concorrenza italiana. Incluso, ovviamente, il capitolo della formazione.“Hanno scelto l’ignoranza”, è il titolo della lettera.-appello che Sylos Labini ha scritto con un gruppo di scienziati di diversi paesi. Ripresa da tutta la stampa europea, la lettera è stata finora firmata da più di 15.000 persone. Il titolo è ispirato a una famosa riflessione di Derek Bok, ex presidente dell’università di Harvard: «Se pensi che l’istruzione sia costosa, prova l’ignoranza». Il progressivo taglio di finanziamenti all’istruzione e alla ricerca – scrive Sylos Labini sul “Fatto Quotidiano” – sta rapidamente portando a una situazione di non ritorno molti paesi in cui l’ignoranza, cioè il deficit di preparazione avanzata, riguarderà, purtroppo, le fondamenta strutturali. L’Italia, ad esempio, ha circa la metà (21%) di laureati nella fascia di popolazione tra 25 e 34 anni della media Ocse (38%). Inoltre, nell’ultimo decennio il numero di immatricolati è diminuito del 20%: «Il capro espiatorio della crisi sembra essere l’università incapace di preparare al mondo del lavoro», ma in realtà, aggiunge Sylos Labini, «c’è una bassissima richiesta di personale con formazione avanzata: la quota di occupati nelle professioni ad alta specializzazione è tra le più basse in Europa, come anche la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese italiane (la metà rispetto alla media europea) mentre i ricercatori delle imprese rispetto agli occupati sono un terzo della Francia e della Germania».Renzi sostiene che, come soluzione, le università italiane dovrebbero imitare i garage della Silicon Valley, dove, nell’immaginario collettivo, nascerebbero l’innovazione e il business grazie a giovani scamiciati e geniali aiutati dalle forze del libero mercato? «In questa fantasiosa rappresentazione della realtà ci si dimentica del fatto che, nel paese per altri versi paladino del libero mercato, la ricerca di base è finanziata dal governo federale per 40 miliardi di dollari all’anno. Se si possono impunemente raccontare queste favole – conclude Sylos Labini – significa che li stiamo toccando con mano, i danni dell’ignoranza». Se n’è sicuramente reso conto il milione di persone che ha manifestato in piazza con la Cgil, un popolo «che si è ritrovato orfano di un qualsiasi riferimento non solo politico ma anche culturale». La farsa, intanto, deve continuare: il governo enfatizza i 150.000 nuovi assunti dell’ultimo periodo, mentre prepara i contratti-spazzatura del Jobs Act. Un lavoro per tutti, magari pagato 450 euro al mese come per i mini-job alla base del super-export tedesco, di cui la Germania non si vergogna. Prima o poi anche gli sfruttati tedeschi esploderanno, avverte Luciano Gallino. Ma intanto si continua a demolire tutto ciò che può dare fastidio all’élite industriale e finanziaria di Berlino.Perché mai formare giovani laureati, in un paese che l’euro-crisi sta declassando al rango di colonia per manovalanza a basso costo? «Continuando a tagliare sul finanziamento di università e ricerca si continuerà ad aggravare una situazione che già ora sembra essere irrecuperabile», afferma Francesco Sylos Labini: «Un folle gioco al ribasso che rende necessario, per supplire alla mancanza d’innovazione, abbassare i costi del lavoro e i diritti dei lavoratori». E’ il “miracolo” dell’Eurozona, che fabbrica concorrenza sleale a beneficio della sola Germania. La Bundesbank domina l’Unione Europea attraverso la Commissione e la Bce, col pieno accordo dei super-poteri finanziari atlantici, rappresentati dal Fmi e dalle potentissime lobby che – attraverso trattati-capestro come il Ttip – a Bruxelles dettano le regole per spianare la strada al business, smantellando lo stato sociale e i diritti dei cittadini, consumatori e lavoratori. Lo scalpo dell’Italia? Uno dei punti-chiave del piano: per indossare i panni di kapò della nuova Europa, la Germania ha preteso che venisse rasa al suolo la temutissima concorrenza italiana. Incluso, ovviamente, il capitolo della formazione.
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Eurogendfor, la Gestapo europea non risponde ai giudici
I Paesi Bassi sono il luogo dove l’Italia ha cambiato la propria storia negli ultimi 25 anni, non solo legandosi al Trattato di Maastricht, con la cessione della sovranità monetaria e legislativa, ma per poter definitivamente abbandonare la veste di Stato sovrano era necessario rinunciare all’esclusività delle funzioni delle forze armate sul proprio territorio, con l’istituzione di una milizia sovranazionale. Questo passaggio è avvenuto nel 2007 a Velsen, piccola municipalità dei Paesi Bassi, dove è stato firmato un trattato congiuntamente a Francia, Spagna, Paesi Bassi e Portogallo che istituisce la gendarmeria europea, l’Eurogendfor, che andrà ad esautorare le forze dell’ordine nella gestione dell’ordine pubblico. Uno scenario irrealistico, ma che è stato messo nero su bianco con la legge di ratifica numero 84 del 14 maggio 2010, votata dal Parlamento con 443 voti favorevoli su 444 presenti, solamente un astenuto. L’Eurogendfor sarà la milizia che si incaricherà della gestione delle crisi (scioperi, manifestazioni) sul territorio italiano, e non risponderà più direttamente alle istituzioni parlamentari.La nuova super-polizia, scrive Cesare Sacchetti su “L’Antidioplomatico”, non risponderà più neppure al presidente della Repubblica, che è il comandante in capo delle forze armate secondo la Costituzione italiana. Eurogendfor obbedirà solo agli ordini del Cimin, l’alto comando interministeriale composto dai rappresentanti dei ministeri delle parti firmatarie, che ha il compito di governare la gendarmeria europea. «Nelle democrazie costituzionali il controllo delle forze armate deve rispondere a criteri di trasparenza e sono previsti precisi meccanismi di controllo sul loro operato», ricorda Sacchetti. Eurogendfor, invece, «si colloca gerarchicamente al di sopra delle forze di polizia italiane, indirizzandone le attività ordinarie e persino d’intelligence». Potrà infatti «condurre missioni di sicurezza e ordine pubblico, monitorare, svolgere consulenza, guidare e supervisionare le forze di polizia locali nello svolgimento delle loro ordinarie mansioni, ivi compresa l’attività d’indagine penale». Inoltre potrà assolvere a compiti di sorveglianza pubblica, gestione del traffico, controllo delle frontiere e attività generale d’intelligence. «I servizi segreti italiani potranno trovarsi tagliati fuori nella gestione dell’intelligence, con gravi rischi per la sicurezza nazionale».Ma l’aspetto più inquietante, secondo Sacchetti, è l’immunità penale che questo trattato attribuisce ai membri della gendarmeria europea: «I membri del personale di Eurogendfor – recita la normativa – non potranno subire alcun procedimento relativo all’esecuzione di una sentenza emanata nei loro confronti nello Stato ospitante o nello Stato ricevente per un caso collegato all’adempimento del loro servizio». Super-polizia sovrana, al di sopra della magistratura: niente informazioni, controlli, perquisizioni, indagini. «Le autorità delle parti non potranno entrare nei locali e negli edifici senza il preventivo consenso del comandante Egf o, ove possibile, del comandante della Forza Egf», si legge. «Gli archivi di Eurogendfor saranno inviolabili». E l’inviolabilità degli archivi «si estenderà a tutti gli atti, la corrispondenza, i manoscritti, le fotografie, i film, le registrazioni, i documenti, i dati informatici, i file informatici o qualsiasi altro supporto di memorizzazione dati appartenente o detenuto da Eurogendfor, ovunque siano ubicati nel territorio delle parti».In linea teorica, segnala Sacchetti, «Egf potrebbe avere già un archivio (illegale) dove vengono schedati cittadini che per qualche motivo sono sotto osservazione». Archivio ovviamente «precluso l’accesso alle autorità italiane». L’obbligatorietà dell’azione penale, alla quale è tenuta la magistratura italiana? «In questo modo è annullata, e viene meno uno dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, attraverso il trapianto di una milizia sovranazionale sul territorio italiano con sede a Vicenza, le cui spese sono a carico dello Stato italiano come previsto dall’articolo 10 del trattato». Milizia che «non risponde all’autorità giudiziaria dello Stato, e non è tenuta ad osservare le sentenze emesse dai suoi tribunali». L’inviolabilità delle sedi e l’impossibilità di intercettare le comunicazioni della gendarmeria europea «è una situazione di extra legem, ovvero la completa inefficacia degli atti giuridici nazionali». Per Sacchetti, «il Trattato di Velsen rappresenta una chiara violazione della Carta, poiché le forze armate non debbono e non possono possedere un’immunità penale nell’esercizio delle loro funzioni, né tantomeno sono escluse dalla possibilità di essere intercettate e le loro sedi possono essere perquisite su mandato della magistratura». Di fatto, «la gendarmeria di Velsen non risponde alle leggi italiane e alla sua Costituzione».Chi ha concepito e firmato quel trattato «ha pensato di istituire una forza di polizia che non appartenesse direttamente agli Stati nazionali, da poter utilizzare violando le fondamentali procedure di controllo democratiche». Storia: «Gli esempi di polizie che non rispondono a principi democratici sono da rintracciare nel passato come la Gestapo della Germania nazista, o la Ceka dell’Unione Sovietica, vere e proprie polizie politiche incaricate di perseguire gli avversari dei rispettivi regimi», scrive Sacchetti. «La gendarmeria europea è stata utilizzata ad Atene nel 2010 durante le manifestazioni contro la Troika, e non è da escludersi che possa operare prossimamente sul nostro territorio per reprimere il dissenso montante nei confronti delle politiche di austerità». Col pretesto dei tagli alla spesa, l’Italia di Renzi torna a parlare di riordino delle forze dell’ordine (troppi corpi di polizia) ma definisce fantascienza la sparizione dell’Arma dei carabinieri, assorbita da altre strutture. Sicuri che siano solo fantasie? L’articolo 3 della legge di ratifica di Velsen dice chiaramente che «la forza di polizia italiana a statuto militare per la forza di gendarmeria europea è l’Arma dei carabinieri».I Paesi Bassi sono il luogo dove l’Italia ha cambiato la propria storia negli ultimi 25 anni, non solo legandosi al Trattato di Maastricht, con la cessione della sovranità monetaria e legislativa, ma per poter definitivamente abbandonare la veste di Stato sovrano era necessario rinunciare all’esclusività delle funzioni delle forze armate sul proprio territorio, con l’istituzione di una milizia sovranazionale. Questo passaggio è avvenuto nel 2007 a Velsen, piccola municipalità dei Paesi Bassi, dove è stato firmato un trattato congiuntamente a Francia, Spagna, Paesi Bassi e Portogallo che istituisce la gendarmeria europea, l’Eurogendfor, che andrà ad esautorare le forze dell’ordine nella gestione dell’ordine pubblico. Uno scenario irrealistico, ma che è stato messo nero su bianco con la legge di ratifica numero 84 del 14 maggio 2010, votata dal Parlamento con 443 voti favorevoli su 444 presenti, solamente un astenuto. L’Eurogendfor sarà la milizia che si incaricherà della gestione delle crisi (scioperi, manifestazioni) sul territorio italiano, e non risponderà più direttamente alle istituzioni parlamentari.
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Della Luna: tutti i falsi dogmi che fanno la nostra rovina
E’ tutto falso, ma c’è un problema: sembra vero. Viviamo in mezzo a verità di fede, spacciate per realtà. Basta ripeterle all’infinito, sui giornali e in televisione. I mercati infallibili, la spesa pubblica da tagliare, l’inevitabile Europa dell’euro. Dogmi che servono a occultare il conflitto tra oligarchia parassitaria e cittadini-lavoratori. Economia, legittimazione del potere, interpretazione della storia. Avverte Marco Della Luna: chi osa uscire dal recinto dei dogmi viene etichettato come «antagonista, estremista, antisociale, populista», viene delegittimato ed emarginato, «finché i fatti e le realtà censurate non rompono l’incantesimo del sistema dogmatico». E’ la legge del regime attuale, con la «classe finanziaria» che si prende quasi tutto il reddito disponibile ed erode, «attraverso l’indebitamento pubblico e le tasse», anche il risparmio. Questo, grazie al consenso e all’acquiescenza «ottenuti tanto mediante l’indottrinamento con dogmi, quanto con il sistematico nascondimento di conflitti di interessi, che non devono apparire onde evitare che la gente percepisca il male che le viene fatto».Nel suo blog, Della Luna offre un drammatico “inventario” dei dogmi su cui si fonda la falsa verità spacciata dal sistema. Prima favola, quella dei “mercati efficienti”, cioè liberi e trasparenti: moneta, credito, materie prime ed energia non sono oggetto di monopoli e di cartelli. I mercati «prevengono o correggono efficientemente le crisi e realizzano l’ottimale distribuzione delle risorse e dei redditi», in più «abbassano i prezzi e le tariffe» e inoltre «puniscono gli Stati inefficienti e spendaccioni mentre premiano quelli efficienti e virtuosi». Di conseguenza, «la regolazione della politica va ultimamente affidata ad essi, non ai Parlamenti». Così si arriva al secondo dogma, quello della spesa pubblica concepita come zavorra: «La spesa pubblica è la causa dell’indebitamento pubblico, il quale a sua volta è la causa delle tasse, della recessione e dell’inefficienza del sistema». Obiettivo? Facile: «Tagliare la spesa pubblica come tale e affidare i servizi pubblici alla gestione del mercato, cioè alla logica del profitto».Tutto questo, in Europa, sotto il grande ombrello del terzo dogma, quello dell’integrazione europea: che è al tempo stesso «benefica, possibile e inevitabile». Dunque, chi la contrasta «si oppone a una tendenza naturale e storica, va contro la realtà e gli interessi di tutti». L’Europa quindi «legittimamente detta le regole a cui tutti devono adeguarsi». A cominciare dalla moneta unica, cioè il dogma dell’euro, valuta che «produce la convergenza delle economie europee, quindi sostiene l’assimilazione e l’integrazione tra i paesi europei, favorisce la crescita economica e la loro solidarietà». Bugia per bugia, ecco il quinto dogma: la preziosità e scarsità oggettiva della moneta, che «non è un simbolo prodotto a costo zero, ma è un bene, una commodity, con un costo di produzione che giustifica il fatto che coloro che la producono (come moneta primaria o creditizia), in cambio di essa, tolgano grandi quote del reddito a chi produce beni e servizi reali». Lo fanno anche grazie alla pretesa “indipendenza” della banca centrale, sesto dogma: la banca centrale è indipendente dalla politica, dai governi e dai Parlamenti. «Non è vero che renda la politica dipendente dai banchieri, bensì assicura al paese un’adeguata disponibilità di liquidità e di credito, previene le bolle speculative e le crisi bancarie».Il settimo dogma è quello della contrazione salariale: «Se si riducono i salari e i diritti dei lavoratori, se si rende liberi i licenziamenti e impraticabili gli scioperi, allora i costi di produzione calano, l’economia diventa più competitiva, la disoccupazione viene riassorbita, gli investimenti aumentano e diventiamo tutti più ricchi, e non è vero che la domanda interna cali». Il lavoro scarseggia ma l’immigrazione aumenta? Nessun problema, perché l’immigrazione – ottavo dogma – è sempre benefica: «Va accolta anche sostenendo grosse spese», perché ormai «è indispensabile per compensare l’invecchiamento e il diradamento della popolazione attiva, quindi per sostenere il sistema previdenziale e per coprire i molti posti di lavoro che gli italiani rifiutano; non è vero che tolga posti di lavoro agli italiani, che faccia loro concorrenza al ribasso sui salari, che serva come manovalanza alle mafie, che comporti un apprezzabile aumento della criminalità e dei costi sanitari o assistenziali».Carattere comune di questo catechismo propagandistico, continua Della Luna, è la censura: l’occultamento dei conflitti di interesse e di bisogni, e ancor più della lotta di classe in atto. Il primo conflitto oppone la «classe globale finanziaria, improduttiva, parassitaria e speculatrice» alle classi produttive dell’economia reale, «legate ai loro territori e sempre più private di potere», di istituzioni democratiche nonché di quote di reddito, «in favore delle rendite finanziarie», attraverso «una serie di riforme del sistema finanziario, del diritto del lavoro e delle Costituzioni», e anche attraverso «i trattati internazionali come quelli europei e come il Wto, che modificano dall’esterno le Costituzioni». Forte, in Italia, il conflitto di interessi tra Nord e Sud, con risorse trasferite verso «alcune regioni meridionali, onde tenere unito il sistema paese». Terzo conflitto negato, quello dei bisogni oggettivi tra paesi manifatturieri come Italia e Germania, «nel quale la Germania ha interesse a tenere l’Italia entro una moneta comune per togliere all’Italia il vantaggio di una moneta più debole, quindi di una maggiore competitività rispetto alla Germania, così da prendere anche sue quote di mercato».Poi c’è il conflitto di bisogni oggettivi tra paesi creditori, come la Germania, e paesi debitori, come l’Italia: «I tedeschi, essendo detentori di crediti sia personali, previdenziali, da investimento, sia anche pubblici, sono interessati a mantenere forte il ricorso della valuta in cui quei crediti sono denominati, cioè l’euro». Da qui «l’esigenza di tenere stretti i cordoni della borsa, cioè di far scarseggiare la moneta» per tenerne alto il costo. Per contro, «l’Italia e gli italiani, essendo indebitati e avendo i loro investimenti perlopiù in immobili, hanno bisogno di una moneta meno forte». Quinto conflitto oscurato: quello tra paesi in recessione, che hanno bisogno di politiche monetarie espansive, e paesi in crescita, che hanno bisogno di politiche monetarie restrittive. Poi ci sono paesi ad economia manifatturiera-trasformatrice e paesi ad economia basata sui servizi finanziari e il commercio, come il Regno Unito. «Tutti conflitti che rendono dannosa l’unione monetaria, o meglio che fanno sì che la politica monetaria faccia gli interessi del paese più forte dentro di essa (la Germania) a danno dei paesi meno forti».Gli ultimi due conflitti d’interesse sono fortemente paralleli. Un conflitto classico oppone gli imprenditori ai lavoratori: «I primi hanno interesse a togliere ai lavoratori quanto più possibile forza negoziale e capacità di resistenza, di sciopero, oltre che di salario». L’altro grande conflitto, ormai dilagante, vede da una parte i cittadini-utenti e dall’altra i monopolisti (o al massimo oligopolisti) dei servizi pubblici: «Questi ultimi hanno interesse a imporre tariffe sempre più alte in cambio di servizi sempre più scarsi, onde massimizzare i loro profitti; da qui la privatizzazione sistematica di tali servizi». I pochi che, da sinistra, contestano il trend neoliberista in chiave socialista, spesso «dimenticano che il settore pubblico spende in modo inefficiente e molto condizionato dalla criminalità burocratica, partitica, mafiosa», senza trascurare il «cattivo sindacalismo» che ha incoraggiato «una mentalità e una prassi parassitarie e improduttive», squalificando la pur sacrosanta difesa dei diritti del lavoro, quelli che il neoliberismo oggi confisca.Grazie al mainstream politico e mediatico, «il complesso di dogmi e nascondimenti è stato costruito come senso comune socio-economico, cioè come percezione comune e condivisa della realtà». Proprio questo, scrive Della Luna, «consente a una classe globale parassitaria di perfezionare la spoliazione dei diritti e dei redditi delle altre classi, facendola apparire come espressione naturale di leggi impersonali del mercato, e non come una guerra di classe», come se la storia del genere umano non fosse nient’altro che «una competizione assoluta e totale tra individui per la conquista della ricchezza e del potere». Ideologia del “mercatismo”, individualismo di massa: «Ciascuno è solo davanti allo schermo, davanti alle tasse, davanti alle banche, davanti ai problemi di salute, vecchiaia, disoccupazione». Ognuno è solo «soprattutto davanti a un sempre più impersonale e grande datore di lavoro», e si scopre «senza diritti comuni, senza solidarietà e garanzie».Si vive in un mondo «dove tutto è merce e prestazione, dove la vita è riconosciuta solo come scambio di valori commerciali, dove tutto è quantificato in debiti e crediti, dove è proibito agli Stati persino introdurre tutele alla salute pubblica, se queste possono limitare il profitto delle corporations (norme del Wto e del Ttip)». Lavoro autonomo, piccole imprese, professionisti indipendenti? Tutti «vessati e costretti a cedere il campo o a confluire in grandi aziende», mentre i lavoratori dipendenti «sono impossibilitati a conservare i propri diritti, conquistati con dure e lunghe lotte, dalla scelta politica di mantenere il sistema economico, attraverso la pratica dell’austerità (della anemizzazione monetaria), in una condizione di diffusa disoccupazione e precarietà che, combinata col diritto al libero licenziamento e demansionamento dei lavoratori, priva questi di ogni potere di lotta e contrattazione, rendendo pressoché impraticabile lo sciopero».E’ un modello socio-economico «che viene costruito metodicamente, anche a livello legislativo e costituzionale, nazionale ed europeo, dalle nostre élites», denuncia Della Luna, indicando in Italia «la staffetta dei governi Berlusconi-Monti-Letta-Renzi (sotto la guida dei banchieri centrali e la locale regia di Giorgio I». E’ un modello “markt-konform”, «conforme e ideale per le esigenze del mercato, del capitale e del profitto», ma incompatibile con «le esigenze psicofisiologiche dell’essere umano, inteso sia come individuo che come famiglia, che come comunità sociale». Esigenze che comprendono «una prospettiva stabile per la progettazione e l’impostazione della vita, per la procreazione e l’educazione della prole», ma anche «ambiti di non-mercificazione e di non-competitività», con in più «la garanzia di una dimensione pubblica sottratta alla logica del profitto finanziario». L’Interesse Pubblico, estirpato dalle riforme neoliberiste degli ultimi decenni.Lo spettacolo attuale è desolante: generazioni di giovani senza lavoro o costretti ad accettare salari precari e irrisori, da contendere ai colleghi-coetanei in una spietata gara al ribasso. «E quando iniziano a invecchiare e non riescono più a tenere il ritmo, sono fuori». La prospettiva della pensione? Diventa un miraggio. Nessuna speranza, se a decidere saranno gli yes-men di cui si circonda Renzi. Nessuno che si possa opporre alla “voce del padrone”: «Se guardiamo alla storia, vediamo sempre, solo e dappertutto società che non si gestiscono dal loro interno per i loro interessi, ma sono gestite da padroni (oligarchie) esterni, che perseguono il duplice obiettivo di rinforzare il loro dominio sulla società e di intensificare lo sfruttamento di essa». Tecnologia e globalizzazione, accentramento planetario degli strumenti di controllo: oggi l’élite piò spingersi oltre ogni limite, sottoponendoci a tensioni altissime. Un giorno, però, la corda si spezzerà: «I vari sistemi di dominazione, nel corso dei secoli, si sono rotti tutti, prima o poi». Qualche fattore fa sempre saltare il gioco, conclude Della Luna. E paradossalmente, oggi più che mai, «la più concreta ragione di speranza del genere umano sta proprio in questo, ossia nel fatto che finora tutti i tentativi umani di soggiogare definitivamente l’umanità siano falliti, si siano rotti. Speriamo quindi nel caos, che vinca ancora e presto, nonostante la tecnologia».E’ tutto falso, ma c’è un problema: sembra vero. Viviamo in mezzo a verità di fede, spacciate per realtà. Basta ripeterle all’infinito, sui giornali e in televisione. I mercati infallibili, la spesa pubblica da tagliare, l’inevitabile Europa dell’euro. Dogmi che servono a occultare il conflitto tra oligarchia parassitaria e cittadini-lavoratori. Economia, legittimazione del potere, interpretazione della storia. Avverte Marco Della Luna: chi osa uscire dal recinto dei dogmi viene etichettato come «antagonista, estremista, antisociale, populista», viene delegittimato ed emarginato, «finché i fatti e le realtà censurate non rompono l’incantesimo del sistema dogmatico». E’ la legge del regime attuale, con la «classe finanziaria» che si prende quasi tutto il reddito disponibile ed erode, «attraverso l’indebitamento pubblico e le tasse», anche il risparmio. Questo, grazie al consenso e all’acquiescenza «ottenuti tanto mediante l’indottrinamento con dogmi, quanto con il sistematico nascondimento di conflitti di interessi, che non devono apparire onde evitare che la gente percepisca il male che le viene fatto».