Archivio del Tag ‘Bce’
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Se il popolo di Vasco marciasse contro il governo zootecnico
Accorrono in 220.000 al concerto oceanico di Vasco, ma nessuno che muova un dito contro il “governo zootecnico mondiale”, ovvero «la riduzione del cittadino a pollame». Maurizio Blondet commenta così l’ultimo lavoro editoriale dell’avvocato Marco Della Luna, “Oltre l’agonia”, ovvero “Come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari” (Arianna Editrice). I giovani ipnotizzati dal Blasco? «Dico: pensate se fossero capaci di farlo per uno scopo politico. Se arrivassero in 220.000 a Roma, una volta, per protestare contro la sottrazione di diritti come cittadini, lavoratori, elettori. Che so, contro le vaccinazioni come inaudita “pretesa dello Stato, giuridicamente obbligatoria, di metterci dentro sostanze di cui non sappiamo la composizione”, manco fossimo animali», oppure «contro l’immigrazione senza limiti al costo di 4,5 miliardi l’anno, mentre “in Italia gli indigenti sono passati in 5 anni da 1,5 e 4 milioni”». Si potrebbe protestare, «per un insieme di scelte politico-economiche “assurde”, ostinatamente imposte dalle oligarchie nonostante i “risultati rovinosi”, il che “non può essere accidentale ma il prodotto di un sistema progettato, implementato e difeso”».Bisognerebbe «gridare che le mitiche speranze dell’europeismo sono state tradite», e che «nel mondo reale, il liberismo di mercato non ha gli effetti promessi dal modello ideale, ossia che il mercato non è “libero” ma gestito da cartelli: non tende a evitare o assorbire le crisi, ma le genera e amplifica», onde «non a distribuire le risorse, ma concentrarle in mano a pochi monopolisti». E’ un sistema che «dissolve la società invece di renderla più efficiente», anzi «dissolve l’idea stessa dell’uomo», scrive Della Luna. «Se i giovani per una volta dormissero all’addiaccio, pagassero i trasporti verso Roma, si comportassero per qualche giorno da soldati politici – dice Blondet nel suo blog – farebbero paura al governo che ci è stato imposto dalla Banca Centrale e da Bruxelles, ai parlamentari che dipendono dalle lobbies e comitati d’affari, e che hanno svenduto l’Italia, le sue industrie e la sua sovranità agli interessi stranieri». Della Luna, annota Blondet, è stato «il primo in Italia ad avvertirci che il capitalismo terminale globale fa soldi non più producendo merci ma bolle finanziarie per poi farle scoppiare: non ha più bisogno di lavoratori, produttori, operai, eserciti di massa – né quindi di mantenere sani, efficienti, istruiti, men che meno prosperi e soddisfatti i popoli». Non servono più, i popoli, e neppure i consumatori (risale infatti al 2010 il suo saggio “Oligarchie per popoli superflui”).In questo nuovo saggio, Della Luna ci avverte che il sistema è entrato in una fase ulteriore e più letale, anti-umana. Ormai persino il profitto finanziario «ha perso importanza, sia come scopo che come mezzo». Basta ricordare «le migliaia di miliardi che le banche centrali (appartenenti alla finanza privata) creano dal nulla per mantenere a galla il sistema, mettendoli a disposizione di chi comanda in misura illimitata». E il denaro creato dal nulla «genera un flusso di cassa positivo, ossia un reddito, che la banca incassa, ma su cui non paga le tasse», perché a pagare sono i contribuenti. Della Luna giunge a preconizzare perfino «il tramonto della finanza», inteso come «sistema di dominio della società». Un tramonto che però non coinciderà con la nostra liberazione: è già in arrivo «il dominio diretto e materiale sulla società», attraverso la «gestione coercitiva del demos, potente e unilaterale, e insieme non responsabile delle scelte verso i suoi amministrati». Questo nuovo potere, «non diversamente dalla zootecnia», non è responsabile verso gli animali che “alleva”, cioè noi. Governo zootecnico: «L’allevamento-condizionamento di masse umane per l’utilità degli allevatori». Già lo fanno per via mediatica, «restringendo e omogeneizzando le rappresentazioni che gli umani hanno della realtà».Di fatto, continua Della Luna, stanno già «tabuizzando e psichiatrizzando il dissenso e la contro-informazione», fino a renderla penalmente perseguibile. Lo fanno con “la Buona Scuola”, l’attuale sistema educativo congegnato in modo da non sviluppare facoltà cognitive, né l’attenzione sostenuta, né la capacità di auto-dominio: è il metodo perfetto per «produrre persone deboli, dipendenti, condizionabili, incapaci di opporsi». Non si tratta di risultati fallimentari e ideologie erronee. Al contrario, dice Della Luna: sono effetti perseguiti deliberatamente per «semplificare» l’uomo, standardizzandolo in vista dell’allevamento zootecnico. «Impressionante – aggiunge Blondet – è l’esempio che fa della scomparsa della borghesia produttiva, culturalmente vivace e reattiva, rovinata dalle crisi deflattive continue e dal fisco rapacissimo». Non è un caso malaugurato. E’ che «la piramide sociale va interrotta lasciando uno spazio vuoto sotto il suo apice», il famigerato 1% che concentra l’80% delle ricchezze, «così che l’apice sia al sicuro dalle scalate (mobilità verticale) e dagli attacchi delle classi intermedie erudite».L’obiettivo del vertice è «realizzare tra l’oligarchia e i popoli la medesima distanza e differenziazione qualitativa che c’è tra l’allevatore e gli animali allevati», secondo il modello zootecnico. «Nella chiave del governo zootecnico – scrive Blondet – diventano perfettamente spiegabili la plurivaccinazione obbligatoria dei cuccioli», cioè bambini. Se fossimo cittadini, e non polli d’allevamento, dovremmo rifiutare «la potestà giuridica di immettere nel corpo della gente sostanze attive», fra cui quelle basate su nanotecnologie e biotecnologie, «e molte di esse coperte da segreto militare o commerciale», rileva Della Luna. Sempre nella prospettiva dell’allevamento zootecnico acquista senso anche «il dogma dell’accoglienza e della mescolanza dei popoli», imposto come «evidente, dimostrato», presentando chi li contraddice come «irragionevole, malintenzionato, pericoloso, immorale». La verità è che, oltre ad essere in Italia un business, il «circuito dell’affarismo parassitario» che succhia denaro pubblico, il “dogma” pro-migranti «ha perfettamente senso dal punto di vista dell’allevatore: la trasformazione dall’alto del popolo, il popolo-bestiame, imponendo l’immigrazione sostitutiva delle popolazioni nazionali» nello stesso modo in cui l’allevatore inserisce nella stalla nuovi tori e nuove fattrici, per “migliorare la razza”.L’immigrazione caotica è anti-economica, diminuisce l’efficienza della società e costa moltissimo? Infatti, conferma l’autore: ciò dimostra che «la comprensione economicistica del divenire attuale è palesemente scavalcata». Quando la casta politica-amministrativa «lascia senza tetto e senza cibo i cittadini italiani mentre alloggia gli immigrati in alberghi a tre e quattro stelle», scrive Della Luna, quel che attua è «l’annullamento programmatico del concetto di cittadino come titolare di diritti specifici verso la sua polis», cioè «l’annullamento del “demos”, ossia del “popolo” come entità politica, padrona collettivamente delle proprie scelte». Un modello che «non implica affatto pace, sicurezza, efficienza per le popolazioni, esattamente come non le implica il modello zootecnico». Per gli allevatori, gli animali allevati «sono solo fonte di utilità; non hanno diritti né dignità riconosciuta». Dalla robotizzazione dell’industria all’elemosina elettorale degli 80 euro di Renzi: «La mancanza di redditi e servizi sicuri, la dipendenza da interventi anno per anno, rende queste masse sempre più passive, remissive», dunque «politicamente inattive». Ecco lo scopo.Se infatti il “capitalismo finanziario terminale” tende a «togliere alla gente tutto il reddito e tutti i risparmi disponibili», facendo passare a tutti la voglia di pagare le tasse, “lorsignori” sanno come scongiurare la possibile rivolta: «Contrariamente a quel che fa credere la narrativa hollywoodiana – scrive Blondet – le rivoluzioni non le fanno gli affamati», in coda alle mense della Caritas, ma «le classi emergenti nella prosperità», pronte a reclamare diritti politici. «Quelli con la pancia vuota sono passivi e remissivi, aspettano il bonus da 80 euro; i giovani passano da un precariato all’altro e non avranno mai una pensione sufficiente a farli sopravvivere: dunque pietiranno dallo Stato interventi, che saranno anno per anno, incerti, caritativi». Siamo ormai al “precariato ontologico”, lo stato nel quale puntano a ridurci come condizione naturale. La precarietà «assunta a paradigma normativo» ormai è la condizione standard dei giovani: uno “stipendio” da 450 euro al mese o, in alternativa, l’emigrazione in Nord Europa. «Siete già precari ontologici?», conclude Blondet, rivolgendosi ai giovani. «Per Vasco l’avete fatta, la marcia su Modena. Ne rifarete un’altra per rifiutare il governo zootecnico?».Accorrono in 220.000 al concerto oceanico di Vasco, ma nessuno che muova un dito contro il “governo zootecnico mondiale”, ovvero «la riduzione del cittadino a pollame». Maurizio Blondet commenta così l’ultimo lavoro editoriale dell’avvocato Marco Della Luna, “Oltre l’agonia”, ovvero “Come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari” (Arianna Editrice). I giovani ipnotizzati dal Blasco? «Dico: pensate se fossero capaci di farlo per uno scopo politico. Se arrivassero in 220.000 a Roma, una volta, per protestare contro la sottrazione di diritti come cittadini, lavoratori, elettori. Che so, contro le vaccinazioni come inaudita “pretesa dello Stato, giuridicamente obbligatoria, di metterci dentro sostanze di cui non sappiamo la composizione”, manco fossimo animali», oppure «contro l’immigrazione senza limiti al costo di 4,5 miliardi l’anno, mentre “in Italia gli indigenti sono passati in 5 anni da 1,5 e 4 milioni”». Si potrebbe protestare, «per un insieme di scelte politico-economiche “assurde”, ostinatamente imposte dalle oligarchie nonostante i “risultati rovinosi”, il che “non può essere accidentale ma il prodotto di un sistema progettato, implementato e difeso”».
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Sono pazzi, dicono ancora che l’Ue si possa democratizzare
Mettetevelo in testa: l’Unione Europea è finita, non è riformabile. E’ la sintesi che fornisce Carlo Formenti su “Micromega”, commentando il numero di maggio-giugno della rivista “Il Ponte”, intitolato “Un’altra Europa”, con 10 mini-saggi firmati da autori come Ernesto Screpanti, Luciano Vasapollo, Giorgio Cremaschi nonché Marco Baldassari, Diego Melegari e Stefano Zai. Fine dell’illusione riformista, nessuna possibile «evoluzione democratica delle istituzioni comunitarie». Tesi scolpite nel marmo: la natura dell’Ue è «costitutivamente oligarchica». Peggio: «Principi e valori dell’ordoliberalismo tedesco ne ispirano il progetto». C’è ormai una «presa d’atto della natura neocoloniale della relazione fra Germania e paesi dell’area mediterranea e dell’Est europeo». Tutti concordi sulla «necessità di rompere con la Ue e di dare avvio a processi alternativi di aggregazione fra paesi periferici». Sbagliato, scrive Formenti, considerare “un errore” la politica economica europea «nel ritorno al dogma dello Stato minimo, tipico del liberismo classico». Sbagliato pensare «che tale errore sia correggibile attraverso il ritorno a politiche neokeynesiane». Con Brxelles la partita è persa, resta solo la fuga.Si insiste sul fatto che la visione ordoliberale, adottata fin dalle origini dalla Germania postbellica, nega la capacità del mercato di autoregolarsi e affida allo Stato – uno Stato forte, dunque – il ruolo di definire un quadro giuridico istituzionale, una vera e propria “costituzione economica”, nel quale i fattori economici possano esplicarsi correttamente (stabilità dei prezzi, protezione della concorrenza da sostegni pubblici e interventi “lobbistici” dei corpi intermedi come i sindacati). La politica non deve dunque compensare gli effetti del mercato (di qui l’obiettivo di smantellare il welfare) ma garantire il libero sviluppo di un’economia che – in quanto “economia sociale di mercato” – si presenta come un vera e propria utopia, una economia “morale” fondata su un mix di spirito imprenditoriale, valore comunitario e ordine sociale armonico. Questa funzione di governance, continua Formenti, non necessita di legittimazione, per cui le critiche alla scarsa democraticità delle istituzioni europee, o alla presunta incompletezza del processo di unificazione politica cadono letteralmente nel vuoto: «l’Unione non è uno stato federale “incompiuto”, bensì una superstruttura parastatale che ha il compito di gestire una governance multilivello». Una superstruttura «rispetto alla quale i trattati assumono valore costituzionale, funzionano come “una costituzione senza Stato e senza popolo”».Di fronte a questa realtà, «l’unico argomento che consente alle sinistre radicali di coltivare l’illusione riformista di poter democratizzare questa Europa è il dogma (fedele a una sorta di internazionalismo astratto che sconfina nel cosmopolitismo borghese) secondo cui il piano sovranazionale sarebbe l’unico sul quale è possibile rappresentare gli interessi delle classi subalterne», osserva Formenti. Altro argomento, la relazione semicoloniale fra la Germania e gli altri paesi, mediterranei e dell’Est, «imposta dai rapporti di forza fra grandi potenze in conflitto reciproco sul mercato globale». Il processo di globalizzazione è stato a lungo trainato «dalla sostanziale convergenza di interessi fra Stati Uniti e Cina: da un lato, la politica americana di espansione della domanda aggregata che alimentava la crescita di consumi, investimenti e importazioni gonfiando il debito pubblico e privato (e facendolo pagare agli altri paesi grazie all’egemonia del dollaro), dall’altro, il mercantislismo cinese che sfruttava la politica americana per alimentare i vertiginosi tassi di crescita del proprio surplus commerciale».La crisi, argomenta Screpanti, ha rotto questi equilibri, inducendo quasi tutti i paesi ad adottare forme di “mercantilismo difensivo” che tendono a rallentare lo sviluppo, nella misura in cui rallentano la domanda mondiale di importazioni. Secondo Screpanti, non è tuttavia corretto parlare di “fine della globalizzazione”, in quanto il processo di internazionalizzazione delle grandi imprese prosegue, anche se entra in contraddizione con il nazionalismo dei grandi Stati. In questo contesto la Germania, «il cui modello di sviluppo è stato fin dall’inizio basto sulle esportazioni», tende ad accentuare ulteriormente la pressione sugli altri paesi dell’Unione, imponendo – come afferma Vasapollo – una divisione del lavoro «che assegna ai paesi mediterranei il ruolo di importatori, mentre trasferisce all’Est il sistema industriale per ridurre ulteriormente il costo del lavoro». Del resto, «il mito della convergenza delle economie nazionali dell’area Ue è tramontato da tempo, di fronte alla forbice che vede un Nord che cresce rapidamente grazie ai surplus commerciali opposto un Sud che cresce lentamente, ha elevati tassi di disoccupazione, debiti pubblici in aumento, bilanci commerciali in deficit e subisce un processo di deindustrializzazione».Ormai, continua Formenti, è evidente che l’euro «è lo strumento che ha consentito alla Germania di imporre ai soci di finanziare i suoi squilibri di bilancio (soprattutto dopo l’unificazione con l’Est), di costruire un nuovo proletariato industriale per le sue multinazionali e di esercitare un inedito colonialismo interno al polo europeo per sostenere le proprie ambizioni di potenza emergente a livello globale». Di fronte a questo scenario, «che rende irrealistico qualsiasi progetto di riforma di questa Europa», tutti gli articoli sostengono l’inevitabilità, per quelle forze politiche che intendano realmente rappresentare gli interessi delle classi subalterne, di lavorare per la rottura della Ue anche prendendo in considerazione l’ipotesi di un’uscita unilaterale (Italexit) del nostro paese – uscita che, scrive Screpanti, mentre rappresenterebbe un processo dirompente per tutta l’Unione, non deve farci dimenticare che implicherebbe un prezzo elevato da pagare. Tema che Vasapollo affronta da un altro punto di vista, sviluppando la prospettiva della costruzione di un’Europa dei popoli mediterranei in analogia all’alleanza politico-economica messa in atto alle rivoluzioni bolivariane in America Latina.Di taglio più politico l’articolo di Cremaschi, che affronta la crisi della globalizzazione dal punto di vista della perdita di consenso delle masse popolari nei confronti delle élite che hanno governato il processo negli ultimi decenni. «A causa della crisi, gli avanzi della ricchezza accumulata non hanno più potuto essere ridistribuiti, aggravando ulteriormente gli effetti di una “guerra di classe dall’alto” che già aveva falcidiato occupazione, salari e welfare, per cui non è un caso se la rivolta è partita proprio in quei paesi – Stati Uniti e Inghilterra, dove quasi mezzo secolo fa è iniziata la controrivoluzione liberista». Che poi questa rivolta abbia assunto connotati di destra (senza dimenticare tuttavia il caso Sanders), sia stata cioè egemonizzata da forze che affidano ogni soluzione a un leader, si concentrano esclusivamente sulla lotta alle caste corrotte e dirottano la rabbia popolare sui migranti, non toglie nulla al fatto che questo dissenso politico di massa sia il punto da cui è necessario partire per produrre qualsiasi cambiamento reale. Le sinistre radicali? Continuano ad allearsi «alle socialdemocrazie in via di estinzione», quando non sono «pienamente convertite al liberismo», e quindi «si autocondannano alla ininfluenza più assoluta». Meglio invece «misurarsi con “l’onda populista”», perché il vero problema ormai «non è se, ma come, usciremo dalla globalizzazione».Mettetevelo in testa: l’Unione Europea è finita, non è riformabile. E’ la sintesi che fornisce Carlo Formenti su “Micromega”, commentando il numero di maggio-giugno della rivista “Il Ponte”, intitolato “Un’altra Europa”, con 10 mini-saggi firmati da autori come Ernesto Screpanti, Luciano Vasapollo, Giorgio Cremaschi nonché Marco Baldassari, Diego Melegari e Stefano Zai. Fine dell’illusione riformista, nessuna possibile «evoluzione democratica delle istituzioni comunitarie». Tesi scolpite nel marmo: la natura dell’Ue è «costitutivamente oligarchica». Peggio: «Principi e valori dell’ordoliberalismo tedesco ne ispirano il progetto». C’è ormai una «presa d’atto della natura neocoloniale della relazione fra Germania e paesi dell’area mediterranea e dell’Est europeo». Tutti concordi sulla «necessità di rompere con la Ue e di dare avvio a processi alternativi di aggregazione fra paesi periferici». Sbagliato, scrive Formenti, considerare “un errore” la politica economica europea «nel ritorno al dogma dello Stato minimo, tipico del liberismo classico». Sbagliato pensare «che tale errore sia correggibile attraverso il ritorno a politiche neokeynesiane». Con Bruxelles la partita è persa, resta solo la fuga.
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La tragedia greca dei salari: vivere con 260 euro al mese
L’alta disoccupazione nella Grecia colpita dall’austerity deprime salari e stipendi. Gli imprenditori vogliono spendere quanto meno possibile in salari, e i lavoratori sono costretti a scendere a compromessi che erano impensabili prima della crisi. Si accetta un posto di lavoro a qualsiasi prezzo, non importa quanto sia basso. Il settore imprenditoriale privato in Grecia ignora spudoratamente le leggi sul lavoro e offre una manciata di noccioline con l’ultimatum “prendere o lasciare”. Un ricatto che i lavoratori disperati non possono rifiutare. Nessuna sorpresa. I dati basati sulle dichiarazioni dei redditi del 2017 relativi all’anno fiscale 2016 mostrano quale sia l’attuale condizione di stipendi e salari nel settore privato greco. Sono spaventosamente bassi, specialmente se si tiene conto del costo della vita nel paese. I dati non rivelano comunque le condizioni di lavoro, se siano lavori a tempo pieno, part time o a turni. I giovani lavoratori sotto 20 anni di età non guadagnano più di 260 euro netti al mese. I lavoratori a 24 anni di età svolgono lavori a tempo pieno per una media di 380 euro netti al mese. I lavoratori fino a trent’anni guadagnano in media 509 euro, e quelli fino a 34 non portano a casa più di 660 euro.La maggiore diminuzione degli stipendi, tra -42% e -25%, colpisce i lavoratori giovani e quelli nell’età più produttiva, cioè i trentenni e i quarantenni. I lavoratori trentenni di solito progettano di formare una famiglia, e quelli verso i 40 e oltre spesso hanno già delle famiglie e dei figli. Hanno quindi da gestire impegni economici maggiori con redditi che diminuiscono. Ci sono 548.000 lavoratori nella fascia di età 40-49 anni. I lavoratori registrati over 50 sono 335.000. Prima della crisi molti di loro guadagnavano più di 1.600 euro lordi al mese. Nel 2012 i salari minimi sono diminuiti da 780 a 580 euro lordi per i lavoratori sopra i 25 anni e sono diminuiti a 510 euro lordi per i lavoratori tra i 15 e i 24 anni. Secondo lo stesso Dataset, le pensioni medie sono diminuite del 13,96% tra il 2012 e il 2016. Nel periodo 2010-2017 le pensioni di base e integrative sono state tagliate 14 volte.Negli ultimi mesi il tasso di disoccupazione è sceso a causa dei lavori stagionali nel settore turistico. Nell’aprile 2017 il tasso di disoccupazione in Grecia era il 21,7% ed è tuttora il più alto dell’Unione Europea. Seconda viene la Spagna, con una disoccupazione al 17,1%. Tuttavia, secondo l’Unione dei Lavoratori nel Turismo e nella Ristorazione, gli imprenditori pongono l’enfasi sull’ingaggio di lavoratori giovani, fino a 25 anni di età, grazie ai loro minori salari. I salari in questo settore per questo gruppo di età sono di 510 euro al mese lordi per un lavoro a tempo pieno, che diventano 410 euro netti dopo aver scalato tasse e contributi previdenziali. Questa tendenza, che i media greci descrivono come “la cattiva cultura degli imprenditori”, impedisce la firma di contratti collettivi che permetterebbero di ingaggiare lavoratori più anziani, con più anni di esperienza e conseguentemente salari più alti.(“La tragedia greca dei salari: la generazione dei 265 euro al mese”, report di “Keep Talking Greece”, 1° agosto 2017, ripreso da “Voci dall’Estero”).L’alta disoccupazione nella Grecia colpita dall’austerity deprime salari e stipendi. Gli imprenditori vogliono spendere quanto meno possibile in salari, e i lavoratori sono costretti a scendere a compromessi che erano impensabili prima della crisi. Si accetta un posto di lavoro a qualsiasi prezzo, non importa quanto sia basso. Il settore imprenditoriale privato in Grecia ignora spudoratamente le leggi sul lavoro e offre una manciata di noccioline con l’ultimatum “prendere o lasciare”. Un ricatto che i lavoratori disperati non possono rifiutare. Nessuna sorpresa. I dati basati sulle dichiarazioni dei redditi del 2017 relativi all’anno fiscale 2016 mostrano quale sia l’attuale condizione di stipendi e salari nel settore privato greco. Sono spaventosamente bassi, specialmente se si tiene conto del costo della vita nel paese. I dati non rivelano comunque le condizioni di lavoro, se siano lavori a tempo pieno, part time o a turni. I giovani lavoratori sotto 20 anni di età non guadagnano più di 260 euro netti al mese. I lavoratori a 24 anni di età svolgono lavori a tempo pieno per una media di 380 euro netti al mese. I lavoratori fino a trent’anni guadagnano in media 509 euro, e quelli fino a 34 non portano a casa più di 660 euro.
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Economia a rotoli, Draghi pronto a congelare i conti correnti
L’economia dell’Europa “è tornata a crescere”. La disoccupazione “cala” anche in Italia. Le cose vanno così bene, che la Ue sta meditando il congelamento dei depositi, in caso di crisi, per impedire la corsa agli sportelli che trascinerà tutte le banche nell’abisso. Per salvare le banche, vi vieteranno di ritirare i vostri risparmi. Lo ha raccontato la “Reuters” il 28 luglio. La proposta è stata avanzata dall’Estonia, che ha la presidenza pro-tempore della Ue. La questione è discussa dietro le quinte dall’inizio dell’anno, e ha avuto una accelerazione due mesi fa, quando un panico bancario con corsa agli sportelli ha contribuito al fallimento del Banco Popular, poi “salvata” inglobandola in Santander. L’Estonia propone, «in caso di circostanze eccezionali», di bloccare tutti i “movimenti di capitale” da 5 a 20 giorni; fra i “capitali” sono espressamente compresi i depositi bancari, anche quelli sotto i 100 mila euro, che ci hanno fatto credere sono “garantiti” (da che?) anche se la vostra banca è fallita. La Germania è a favore della proposta estone. Altri paesi sono perplessi, e persino la lobby bancaria teme che questa misura non farà che «indurre i risparmiatori a ritirare i soldi prima».Se ne riparlerà da settembre; l’Estonia – questa prima della classe e neofita del liberismo, ma incline al bisogno a tornare all’autoritarismo sovietico – preme perché il decreto sia approvato entro novembre (evidentemente temono qualcosa …). In ogni caso dovrà essere approvato dal Parlamento Europeo. La discussione, e il rimando all’autunno, già basta dimostrare come i “leader politici europei” non abbiano la minima idea di come gestire uniti il problema della banche in fallimento – una conferma dell’incapacità di un decennio fa, quando la Bce ha salvato la situazione, se vogliamo dir così, “stampando” miliardi su miliardi di euro per trattenere l’Europa “unita” dall’abisso. La Banca Centrale, per conto delle banche private, ha assunto il potere reale e totale. Ormai il potere dei politici e della democrazia, ossia del voto, è una finzione di fronte a istituzioni che possono non solo creare denaro dal nulla, ma anche fissare il costo del denaro del tutto artificialmente, «decidere la preferenza fra il presente e il futuro», ma anche «manipolare il rischio e la percezione del rischio». Il che è reso necessario, nella logica della finanza globale, dal fatto che gli attivi delle banche sono una finzione – crediti che non valgono nulla – ma da cui dipende il valore di altri “attivi”.Perché «le banche trasformano il breve termine in lungo termine, il poco rischioso in più rischioso, il poco liquido in liquido; e moltiplicano la moneta, la creano semplicemente concedendo altri crediti; i crediti fanno i depositi. Tutto posa su promesse»: la promessa che qualcuno, un debitore, da qualche parte, continuerà a pagare gli interessi passivi sul suo debito. Se tale debitore è, poniamo, lo Stato italiano, con il suo debito pubblico oltre il 130% del Pil, è chiaro che esso non sarà mai onorato. Ma per le banche quel che conta è l’apparenza della solvibilità degli Stati, perché hanno usato i Bot per garantire altri “attivi” fantastici; se cadono i Bot, cadono tutti gli altri del castello di carte che vi hanno appoggiato sopra. Occorre dunque che lo Stato continui ad apparire solvibile, continuamente rinnovabile; occorre anche che non sia deprezzato; lo Stato deve dunque aumentare la pressione fiscale, pagare gli interessi sul debito – e sui debiti nuovi contratti per rinnovare il debito, ossia rimandarne al futuro la resa dei conti. Bisogna che continuiamo, noi contribuenti, a pedalare la bicicletta della finanza privata (chiamasi usura), perché se si ferma cade.Ora però la finzione è giunta al capolinea, come prova lo stesso fatto che la Banca Centrale sta prestando agli stati, e alle banche, a tasso zero, anzi sottozero. E sul fatto che ormai, il debito mondiale supera il 375% del Pil globale – tale da far sembrare oculata la repubblica italiana. «Se vincono i populisti, la Bce li debellerà provocando una corsa agli sportelli». I banchieri, gli Shylock, che contrariamente a noi hanno la memoria storica lunga, sanno che a questo punto il rischio è che i governi loro servi vengano rovesciati, e arrivino al potere dei “populisti”: che si riprendano la sovranità monetaria ed esercitino la prerogativa sovrana per eccellenza: il default, il rifiuto di pagare Shylock – e magari sbatterlo in galera. Dunque stavolta hanno imparato e sanno come contrastare l’avvento della loro nemesi… La Banca Centrale è già pronta: se dei “populisti” arriveranno al potere in qualche paese, Draghi li sconfiggerà provocando nel paese il panico bancario e la corsa agli sportelli: «Paralizzerà monetariamente il paese, spaventerà la gente per asfissiare le banche – e a meno di chiudere i confini alla fuga di capitali e decretare lo stato d’emergenza – misure decisamente impopolari – i populisti saranno spazzati via in qualche settimana dallo stesso popolo». Così l’economista Bruno Berthez.Non credete? Ma Draghi l’ha già fatto: alla Grecia. Ha sabotato i piani di Varoufakis per strappare una rinegoziazione del debito (impagabile) del paese, proprio favorendo una corsa agli sportelli delle banche greche, che ha fatto cadere nel panico i depositanti; la banca greca centrale ha ridotto la cifra che si poteva prelevare dai bancomat; in pochi giorni, Tsipras ha dovuto cedere. La Grecia è oggi serva eterna dell’usuraio, deve dare a Shylock la sua porzione di carne vicino al cuore. Dunque la Bce può fare il contrario di quello che la misura estone vuole scongiurare, vietando il ritiro dei depositi. Proprio così. Il dittatore totale è prontissimo a fare tutto e il contrario di tutto, per eternare il proprio potere. Mica sono lì per fare il vostro bene e dire la verità; sono lì per il potere, solo quello.(Maurizio Blondet, “L’economia va tanto bene, che l’Ue medita di bloccare i depositi”, dal blog di Blondet del 1° agosto 2017).L’economia dell’Europa “è tornata a crescere”. La disoccupazione “cala” anche in Italia. Le cose vanno così bene, che la Ue sta meditando il congelamento dei depositi, in caso di crisi, per impedire la corsa agli sportelli che trascinerà tutte le banche nell’abisso. Per salvare le banche, vi vieteranno di ritirare i vostri risparmi. Lo ha raccontato la “Reuters” il 28 luglio. La proposta è stata avanzata dall’Estonia, che ha la presidenza pro-tempore della Ue. La questione è discussa dietro le quinte dall’inizio dell’anno, e ha avuto una accelerazione due mesi fa, quando un panico bancario con corsa agli sportelli ha contribuito al fallimento del Banco Popular, poi “salvata” inglobandola in Santander. L’Estonia propone, «in caso di circostanze eccezionali», di bloccare tutti i “movimenti di capitale” da 5 a 20 giorni; fra i “capitali” sono espressamente compresi i depositi bancari, anche quelli sotto i 100 mila euro, che ci hanno fatto credere sono “garantiti” (da che?) anche se la vostra banca è fallita. La Germania è a favore della proposta estone. Altri paesi sono perplessi, e persino la lobby bancaria teme che questa misura non farà che «indurre i risparmiatori a ritirare i soldi prima».
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Una Bad Bank europea per gestire l’Italexit, non più tabù
«All’Italia conviene tornare alla lira». Lo sostiene il tedesco Marc Friedrich, consulente finanziario di fama, in una intervista a “Sputnik Deutschland”. Non solo l’Italia, affondata da un tasso record di debito e disoccupazione, ma «tutti i paesi del Sud Europa starebbero meglio con una moneta sovrana invece che con l’euro. Questi paesi, con i limiti imposti dalla Banca Centrale, non vedranno mai quell’inizio di crescita che permetterebbe loro di rimettersi». Marc Friedrich è co-autore di un saggio “Der groesste Raubzug der Geschichte”, che è stato un best seller nel 2012. «Già allora dimostravamo che l’euro non funziona. Adesso vedo che, per la prima volta, in Italia il concetto di Italexit non è più tabù». Cita «Alberto Bagnai dell’università di Pescara». Ha ragione, Bagnai. «In marzo, sostenendo che l’euro collasserà comunque, qualunque sia il capitale politico investito in esso, questo professore di economia ha sottolineato la necessità di una uscita “controllata” dalla moneta unica, padroneggiando l’inevitabile: la causa più probabile – ha scritto Bagnai – sarà il collasso del sistema bancario italiano, che trascinerà con sé il sistema tedesco. E’ nell’interesse di ogni potere politico, certo dei dirigenti europei declinanti, e probabilmente anche degli Usa, gestire questo evento invece di attenderlo passivamente».Parole di buon senso. Di fronte alle quali non c’è, probabilmente, il vero e proprio terrore delle oligarchie dominanti davanti a quel che hanno fatto col loro malgoverno monetario. Che le paralizza. Pochi sanno che, nell’Eurozona, i prestiti “andati a male” in pancia alle banche assommano alla cifra stratosferica di 1.092 miliardi di euro. L’Italia è la prima del disastro, con 276 miliardi di prestiti inesigibili; ma la seconda è la Francia di Macron con 148 miliardi. Seguono la Spagna con 141, e la Grecia con 115. La Germania ne cova 68, di miliardi; l’Olanda 45, il Portogallo 41. Prima della Germania, ci seguirebbe nel precipizio la Francia – trascinandosi evidentemente giù anche l’Egemone di Berlino. Il rischio è passato inosservato, spiega l’economista francese Philippe Herlin, perché si comparano questi 148 miliardi di prestiti “andati a male” con i bilanci delle grandi banche francesi, il triplo del Pil nazionale (che ammonta a 2.450 miliardi di dollari). Errore, perché in caso di crisi le cifre iscritte a bilancio sono poco o nulla mobilizzabili; «Quel che conta è la liquidità, il cash, i fondi propri».I fondi propri delle banche francesi sono 259,7 miliardi; quasi il 60 per cento (il 57) sarebbero dunque divorati dai prestiti “marciti”; Herlin prevede dunque l’uso di “bad bank” riempite con il denaro dei contribuenti. «Per ora non c’è urgenza, al contrario dell’Italia, ma in caso di aggravamento della crisi finanziaria (aumento dei fallimenti, un qualunque shock finanziario) il governo sarà forzato a intervenire». Non riusciamo ad immaginare i sudori freddi che provoca a Berlino la prospettiva di contribuire coi risparmi dei virtuosi tedeschi ad una “bad bank” pan-europea da mille miliardi. Eppure, continua Friedrich, «se l’Italia deve restare nella Ue, allora l’economia più forte del blocco, la Germania, deve accollarsi il fardello delle sovvenzioni all’Italia e agli altri Stati membri del Sud». Ovviamente, anche lui ritiene che l’immane “compra” di titoli di debito che sta facendo la Bce al ritmo di 60 miliardi di euro al mese, non fa che nascondere il problema e guadagnare tempo.«Per farlo, i vertici hanno rotto tutte le regole, a cominciare dalle loro. Ma collasserà, e possiamo solo sperare che i politici responsabilmente cercheranno allora di minimizzare i guasti e di eliminare l’euro in modo controllato. In ogni caso ciò costerà caro». Si potrà contare sulla Merkel come la politica che responsabilmente smonterà la moneta unica in modo controllato? E’ assorbita non tanto dalle prossime elezioni, ma dalla strategia che ha (espresso anche a nome nostro) dopo il disastroso G7 di Taormina, e lo scontro con Trump: «Noi europei dobbiamo veramente prendere in mano il nostro destino». Ma come? Per quanto erratico e imprevedibile, in mano a pulsioni emotive incontrollate e sotto schiaffo del Deep State che vuole la sua eliminzione (e lo sta facendo), The Donald è chiaro e costante nella sua ostilità commerciale verso la Germania, che accusa di slealtà e di manipolazione della moneta.(Maurizio Blondet, estratto dal post “Saprà la Merkel gestire in modo razionale l’inevitabile Italexit?”, pubblicato sul bog di Blondet il 26 luglio 2017).«All’Italia conviene tornare alla lira». Lo sostiene il tedesco Marc Friedrich, consulente finanziario di fama, in una intervista a “Sputnik Deutschland”. Non solo l’Italia, affondata da un tasso record di debito e disoccupazione, ma «tutti i paesi del Sud Europa starebbero meglio con una moneta sovrana invece che con l’euro. Questi paesi, con i limiti imposti dalla Banca Centrale, non vedranno mai quell’inizio di crescita che permetterebbe loro di rimettersi». Marc Friedrich è co-autore di un saggio “Der groesste Raubzug der Geschichte”, che è stato un best seller nel 2012. «Già allora dimostravamo che l’euro non funziona. Adesso vedo che, per la prima volta, in Italia il concetto di Italexit non è più tabù». Cita «Alberto Bagnai dell’università di Pescara». Ha ragione, Bagnai. «In marzo, sostenendo che l’euro collasserà comunque, qualunque sia il capitale politico investito in esso, questo professore di economia ha sottolineato la necessità di una uscita “controllata” dalla moneta unica, padroneggiando l’inevitabile: la causa più probabile – ha scritto Bagnai – sarà il collasso del sistema bancario italiano, che trascinerà con sé il sistema tedesco. E’ nell’interesse di ogni potere politico, certo dei dirigenti europei declinanti, e probabilmente anche degli Usa, gestire questo evento invece di attenderlo passivamente».
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Foa: non toccate i blog, le fake news vengono dalla stampa
Ebbene sì, i blogger, i “liberi pensatori”, i giornalisti davvero liberi continuano ad aver ragione e la grande stampa mainstream torto, nel senso che quest’ultima tradisce da troppo tempo quella che dovrebbe essere la sua funzione primaria e irrinunciabile, di voce critica e coraggiosa della società democratica. Mettiamoci nei panni di un analista – politico o finanziario o strategico – che vuole capire come va il mondo. Se si fosse limitato ai principali media internazionali o di grandi paesi come Francia, Gran Bretagna, Germania o Italia, i suoi report sarebbero stati lacunosi e, soprattutto, per nulla preveggenti. Le analisi più accurate e le denunce più coraggiose non le avrebbe infatti trovate su quelle colonne, bensì sui blog e sui siti della cosiddetta stampa alternativa, di qualunque orientamento politico, che negli ultimi anni ha saputo leggere molto meglio la realtà. Ecco qualche esempio: per anni, economisti alla Bagnai o alla Sapir, quelli che partecipano ai convegni di “A/Simmetrie”, hanno denunciato l’assurdità, per evidente inefficacia e crudeltà sociale, delle cosiddette misure di salvataggio della Grecia. In perfetta solitudine, perché la stampa “ortodossa” ripeteva la solita litania.A distanza di anni il Fmi ha ammesso i propri errori e oggi veniamo a scoprire che gli unici ad arricchirsi sono stati i tedeschi, che non solo hanno evitato di sopportare i costi di un default greco ma hanno poi lucrato 1,34 miliardi sui bond della salvezza. Idem sull’euro: era un tabù persino parlarne in maniera dubitativa. La grande stampa ha negato spazio alle voci critiche, come invece avrebbe dovuto, salvo ricredersi… a distanza di 16 anni. Ora, timidamente, anche sui giornali color salmone si odono voci critiche. In Siria, i grandi media hanno evidenziato denunce clamorose come quelle su “esecuzioni di massa e corpi bruciati nei forni crematori di Saydnaya“, subito messe in dubbio da diversi blogger, esperti di politica estera e di comunicazione. Era chiaramente un’operazione di “spin”, ma chi dubitava veniva ignorato o tacciato di complottismo. Dopo qualche settimana il Dipartimento di Stato Usa ha rettificato la notizia, che però è stata comunicata in sordina dalla stampa mainstream.Il flop mediatico sulla vittoria di Trump e sul sì Brexit è ormai noto a tutti. Immigrati e Ong: c’è voluto un giovane di 23 anni, Luca Donadel, per documentare un fenomeno sconcertante per la sua vastità, quello delle navi delle Ong che vanno a prendere gli immigrati al largo della Libia. Nessun giornalista se n’era accorto e, per settimane, i grandi media hanno ignorato lo scoop del bravo Donadel (a proposito: dargli un premio di giornalismo, no?) rompendo il silenzio solo quando il rumore mediatico sul web è diventato così alto da non poter essere più ignorato. Potrei continuare con tanti altri esempi, ma mi fermo qui. Mi limito a due considerazioni. La prima: la grande stampa internazionale si segnala soprattutto per conformismo e per eccessiva compiacenza con l’establishment. Quando diventa coraggiosa lo fa sempre in coro e sempre in modo strumentale, sapendo di avere le “spalle coperte”.Quel che accade negli Stati Uniti è emblematico: “Washington Post” e “New York Times” sono diventate delle “caselle postali”, in cui mani compiacenti depositano anche documenti coperti dal segreto di Stato, con una disinvoltura senza precedenti, che sarebbe stata denunciata come scandalosa e perseguita legalmente con qualunque altro presidente, ma che diventa bene accetta se è frutto di un’evidente saldatura tra il cosiddetto Deep State e il 90% della stampa. Una saldatura che, peraltro, non riguarda solo gli Usa, ma quasi tutte le grandi democrazie occidentali, che è nefasta per la democrazia ed è una delle ragioni della crescente sfiducia di ampie fasce di lettori. La stampa non rinascerà se non recupererà il senso della propria missione e tornerà a servire innanzitutto i lettori, anziché l’establishment.La seconda: l’ho già scritto e lo ribadisco. La polemica sulle “fake news” mira non a garantire un’informazione più corretta ma, innanzitutto, a mettere a tacere le voci davvero libere, quelle che rompono la narrativa ufficiale. Ogni proposta di regolamentazione in realtà punta a imporre una censura, a intimidire chi esercita davvero la propria funzione critica, ignorando, e questo è davvero gravissimo, che a generare fake news e disinformazione sono, troppo spesso, gli spin doctor al servizio delle istituzioni. Quelle proposte vanno respinte. E il giornalismo davvero libero, davvero coraggioso va difeso con forza.(Marcello Foa, “I blogger avevano ragione, la grande stampa torto”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 9 agosto 2017).Ebbene sì, i blogger, i “liberi pensatori”, i giornalisti davvero liberi continuano ad aver ragione e la grande stampa mainstream torto, nel senso che quest’ultima tradisce da troppo tempo quella che dovrebbe essere la sua funzione primaria e irrinunciabile, di voce critica e coraggiosa della società democratica. Mettiamoci nei panni di un analista – politico o finanziario o strategico – che vuole capire come va il mondo. Se si fosse limitato ai principali media internazionali o di grandi paesi come Francia, Gran Bretagna, Germania o Italia, i suoi report sarebbero stati lacunosi e, soprattutto, per nulla preveggenti. Le analisi più accurate e le denunce più coraggiose non le avrebbe infatti trovate su quelle colonne, bensì sui blog e sui siti della cosiddetta stampa alternativa, di qualunque orientamento politico, che negli ultimi anni ha saputo leggere molto meglio la realtà. Ecco qualche esempio: per anni, economisti alla Bagnai o alla Sapir, quelli che partecipano ai convegni di “A/Simmetrie”, hanno denunciato l’assurdità, per evidente inefficacia e crudeltà sociale, delle cosiddette misure di salvataggio della Grecia. In perfetta solitudine, perché la stampa “ortodossa” ripeteva la solita litania.
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L’ex banchiere del Papa: Italia spacciata, crocifissa dall’euro
L’euro è stato utilizzato come scusa per ridimensionare il nostro paese da un punto di vista economico e morale. Le altre giustificazioni sono insostenibili da più punti di vista. Usano un modello irrazionale che confonde cause con effetti, è lo stesso usato per spiegare decisioni che provocano le condizioni per giustificarle, come è successo per l’immigrazione (gap di popolazione) o l’ambientalismo (neomalthusianesimo). Così le pressioni fatte al nostro paese per difendere l’euro (tedesco) sono state giustificate dall’alto debito pubblico italiano – che è un falso problema, perché è il debito complessivo di un paese che va misurato, come il caso Usa 2008-2010 ha ben dimostrato (in situazione di insolvenza, tutto il debito privato diventa debito pubblico). Ma dette pressioni ci hanno ridotto allo stremo economico, con rischio morale. La carta stampata ha ignorato la mia considerazione perché può avere indirizzi politici da rispettare: “No touch issues”, che sono tabù e vanno trattati in un certo modo. Per esempio appunto l’immigrazione, l’ambientalismo, l’Europa, l’euro, Bergoglio. L’Europa e l’euro non devono essere messi in discussione, a meno che non lo autorizzi la signora Merkel.Poiché l’economia non è una scienza, è piuttosto arduo prevedere con un minimo di certezza ciò che può succedere con l’uscita dalla moneta unica. Troppo spesso, politici ed economisti fanno prognosi senza aver fatto una corretta diagnosi. Ne consegue che, se non sono state intese le cause delle nostre difficoltà attuali nel sistema euro, difficilmente si potrà esser credibili nelle proposte di soluzione degli effetti. Oggi ci ricordiamo in che situazione economica era l’Italia prima dell’entrata nell’euro, quali condizioni le vennero imposte per entrare e come realizzò dette condizioni? Ci ricordiamo quanto pesava negli anni ’90 l’economia “di Stato” direttamente e indirettamente sul Pil? Quasi il 65%. E quanto pesavano le banche private sul sistema creditizio? Qualche percentuale minima. Ci ricordiamo come si realizzarono le privatizzazioni? Molto male. Il lettore ricorda il famoso algoritmo Prodi per passare da un deficit di 7 punti al deficit di 3 punti percentuali? Ho spiegato questo per far intendere che i problemi riferiti all’euro sono un po’ più complessi di quanto spesso vengano spiegati. Ma temo che la nostra capacità decisionale in proposito sia piuttosto bassa, e il rischio di pagar cara l’uscita piuttosto alto.Si deve riflettere su cosa significhi “pagar caro” la decisione di uscire, comparata con il costo di restare – costo che temo non sia solo economico, ma di libertà democratica di cui potremmo venir privati. Per giustificare l’economia, si potrà forzare la libertà. La moneta unica, per funzionare, necessita di un governo unico europeo, che dovrà coesistere con il governo del mondo globale. A questo si sta arrivando, in modo sempre più accelerato dopo la crisi globale scoppiata nel 2007, grazie agli organismi sovranazionali che impongono leggi, discipline, modelli democratici, governanti cooptati, e soprattutto visione morale omogenea. Il nostro destino è sottostare a questo “supergoverno mondiale”? Probabilmente sì. L’ attuale situazione mi fa pensare che dobbiamo riconoscere la nostra impotenza, che non possiamo più fare nulla. I giochi son fatti e noi non giochiamo più, siamo diventati un gioco in mano ad altri. Il nuovo mondo globale aspira ad un’omogeneità culturale, e pertanto morale, che significa relativizzare le norme morali. Tutto questo porta ad una forma di sincretismo religioso, che necessariamente tende ad arrivare a una religione globale panteista, ambientalista (animalista e vegana), neomalthusiana e orientata alla decrescita.Se questo è vero, e l’euro venisse usato come strumento per forzare chi non è d’accordo, si spiega la mia preoccupazione. Se fossi stato un governante nel nostro paese, negli ultimi 6-7 anni, avrei fatto il contrario di ciò che è stato invece fatto. Con la scusa di difendere l’euro dai problemi italiani, il nostro futuro non potrà che essere terrificante. Attenzione, però: il problema non è nell’euro in sé, ma nell’avere un euro gestito “abusivamente” da altri, grazie alle nostre debolezze politiche. Darei due esempi, per ora solo immaginabili: in una siffatta Europa a governo unico, per ridurre il debito pubblico ci potrebbe venir imposto di espropriare i beni dei cittadini. Per ridurre il deficit di bilancio ci potrebbe venir imposta l’eutanasia per i pensionati ultrasessantacinquenni, per tagliare la spesa pubblica di pensioni e sanità. Se si andrebbe persino verso il superamento del principio della dignità umana? E chi la afferma più? Ormai legge civile, la salute, la vita, la morale, che significato hanno? Quello deciso dall’Oms all’Onu? Se così fosse, la vita e la salute sarebbero benessere psicosociale.Se riconoscessimo che un governo, “cooptato o gradito”, è sottoposto alla “moral suasion” internazionale (che si può immaginare possa utilizzare anche i vincoli di una moneta unica), e se convenissimo che i paesi influenti, al di là delle forme diplomatiche, ci disprezzano, ci boicottano e ci vedono come un vantaggio da acquisire per rafforzare se stessi, che concluderemmo? Quale governo, non cooptato, saprebbe oggi decidere le specifiche soluzioni necessarie al nostro paese, rifiutando, se il caso, l’applicazione di leggi economico-morali, da altri ritenute necessarie ma che danneggiano economicamente e, soprattutto, possono privare i cittadini di libertà democratica e personale? Che dire del futuro dell’Ue? I padri fondatori quali De Gasperi, Adenauer, Schuman e Monnet avevano progettato un’ Europa sussidiaria ai vari paesi, destinata a valorizzarne le identità. Ma il progetto di moneta unica doveva essere destinato a valorizzare le singole economie dei paesi europei. Poi sono sopravvenute “modifiche genetiche” di carattere cultural-politico, che hanno cambiato lo spirito originario facendo persino rinnegare le radici cristiane. Poi è arrivata la crisi economica del 2007 che fa esplodere le contraddizioni economiche, politiche e morali, facendo trionfare gli stessi egoismi arroganti che avevano snaturato il progetto originario.L’Europa è fatta da tre “culture religiose”: quella protestante-calvinista, quella cattolica e quella illuminista-laicista. Quando le cose vanno male, quale visione di cosa è bene o male prevale secondo voi? Secondo “loro” deve prevalere una forma di pragmatismo egoistico che rifiuta morali forti e dogmatiche e pretende morali relative, in evoluzione, pluraliste, dove l’autorità morale non deve più intervenire nel confronto con le leggi (etiche) dello Stato, ormai leggi globali di uno Stato globale. Che succede se l’autorità morale è invitata ad occuparsi di socio-economia e non più di morale? E chi ci difende e tutela allora? Ecco perché sono sempre più preoccupato. Il diritto a emigrare? Quanto ci manca Benedetto XVI, mai come ora! Le migrazioni son sempre più manifestamente state volute e pianificate, soprattutto per “aiutare” il nostro paese, dove risiede la massima autorità morale al mondo, a correggersi e aprirsi al “multiculturalismo” orientato a un sincretismo religioso necessario a prevenire “guerre di religione”. Temo che non riusciremo a metter in discussione più nulla, ahimè. Qui bisogna produrre un vero progetto per il paese e dotarsi delle capacità di gestirle (un paio di nomi io li avrei), invece di sperare di prender voti coccolando cani e gatti in Tv. Risposta provocatoria: bisogna andare a cercare all’estero, anche fuori Europa, i consensi necessari, facendo alleanze e compromessi a destra e a manca. Risposta realistica e rassegnata: fare atto di sottomissione alla Germania.(Ettore Gotti Tedeschi, dichiarazioni rilasciate a Paolo Becchi e Cesare Sacchetti per l’intervista “Per difendere l’euro ci attende un futuro terrificante”, pubblicata dal quotidiano “Libero” l’8 agosto 2017. Economista e banchiere, già docente universitario, Gotti Tedeschi è stato presidente dello Ior, la banca vaticana, dal 2009 al 2012, dopo una lunga carriera nel mondo dell’economia e finanza, iniziata con l’americana McKinsey e proseguita con la co-fondazione di Akros Finanziaria. È stato consigliere del ministro del Tesoro Giulio Tremonti dal 2008 al 2011, consigliere della Cassa Depositi e Prestiti per tre mandati e presidente del Fondo infrastrutture F2i).L’euro è stato utilizzato come scusa per ridimensionare il nostro paese da un punto di vista economico e morale. Le altre giustificazioni sono insostenibili da più punti di vista. Usano un modello irrazionale che confonde cause con effetti, è lo stesso usato per spiegare decisioni che provocano le condizioni per giustificarle, come è successo per l’immigrazione (gap di popolazione) o l’ambientalismo (neomalthusianesimo). Così le pressioni fatte al nostro paese per difendere l’euro (tedesco) sono state giustificate dall’alto debito pubblico italiano – che è un falso problema, perché è il debito complessivo di un paese che va misurato, come il caso Usa 2008-2010 ha ben dimostrato (in situazione di insolvenza, tutto il debito privato diventa debito pubblico). Ma dette pressioni ci hanno ridotto allo stremo economico, con rischio morale. La carta stampata ha ignorato la mia considerazione perché può avere indirizzi politici da rispettare: “No touch issues”, che sono tabù e vanno trattati in un certo modo. Per esempio appunto l’immigrazione, l’ambientalismo, l’Europa, l’euro, Bergoglio. L’Europa e l’euro non devono essere messi in discussione, a meno che non lo autorizzi la signora Merkel.
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Qe, truffa da record: soldi facili alle banche, solo per i ricchi
Sembra che l’enorme trasferimento di ricchezza verso i ricchi, durato circa un decennio e noto come ‘quantitative easing’, stia per volgere al termine. Delle quattro principali banche centrali del mondo – la Federal Reserve americana, la Bank of England, la Banca Centrale Europea e la Banca del Giappone – due hanno già abbandonato la politica di acquisto di attività finanziarie (la Fed e la BoE), e la Bce intende smettere gli acquisti da dicembre. La Fed dovrebbe infatti iniziare a vendere nei prossimi due mesi i 3500 miliardi di dollari di titoli acquistati in tre cicli di Qe. Dal momento che – valutato alla luce degli obiettivi ufficiali – il Qe è stato un completo disastro, ciò appare perfettamente sensato. Grazie ad un’“iniezione” di denaro nell’economia, il Qe avrebbe dovuto portare le banche a prestare nuovamente, rilanciando gli investimenti e la crescita economica. In realtà, dopo l’introduzione del Qe il credito bancario totale nel Regno Unito è invece diminuito, e il credito a piccole e medie imprese – responsabili per il 60% dell’occupazione – è in caduta verticale.Come notato da Laith Khalaf, senior analyst presso Hargreaves Lansdown, «dopo la crisi finanziaria, le banche centrali hanno inondato l’economia globale con denaro a buon mercato, ma la crescita globale è tuttora in una situazione di stallo, in particolare in Europa ed in Giappone, dove sono state prese imponenti misure di stimolo per fronteggiare il problema». Persino “Forbes” ammette che il Qe ha «in gran parte fallito nel rivitalizzare la crescita economica». Ciò non sorprende, o quanto meno non dovrebbe. Il Qe era destinato fin dall’inizio a mancare i suoi obiettivi dichiarati, perché il motivo per cui le banche non finanziavano investimenti produttivi non era la carenza di denaro – al contrario, già nel 2013, molto prima degli ultimi cicli di Qe, le imprese inglesi disponevano di quasi 500 miliardi di riserve liquide – ma piuttosto perché l’economia globale si trovava (e si trova tuttora) in una profonda crisi di sovrapproduzione. In poche parole, i mercati erano (e sono) saturi, e non ha senso investire in un mercato saturo.Per questo motivo, tutto il nuovo denaro creato dal Qe ed “iniettato” nelle istituzioni finanziarie – come fondi pensione e compagnie d’assicurazione – non è stato poi investito nelle attività produttive, ma si è invece riversato nei mercati azionari ed immobiliari, gonfiando i prezzi delle azioni e degli immobili, senza generare nulla in termini di ricchezza reale o occupazione. I titolari di beni come azioni e immobili hanno tratto molti vantaggi dal Qe, che in Uk si stima abbia accresciuto la ricchezza del 5 percento più ricco mediamente di 128.000 sterline a testa. Com’è stato possibile? Da dove è venuta tutta questa nuova ricchezza? Dopo tutto, anche se il denaro – a dispetto degli slogan dei Tory – può essere effettivamente creato “dal nulla”, precisamente come è stato fatto col Qe, non è così per la ricchezza reale. Ed il Qe non ha prodotto ricchezza reale. Eppure, il 5% più ricco oggi dispone di 128.000 sterline extra da spendere in yacht, ville principesche, diamanti, caviale e così via. Ma da dove viene questo denaro?Semplice. La ricchezza che il Qe ha trasferito ai titolari di asset proviene, in primo luogo, direttamente dai salari dei lavoratori. Poiché ha praticamente svalutato la moneta, il Qe ha ridotto la capacità d’acquisto del denaro, il che ha causato nei fatti una svalutazione dei salari reali, che in Uk sono tuttora del 6% al di sotto dei loro livelli pre-Qe. Il denaro sottratto ai salari forma dunque parte di quel dividendo di 128.000 sterline. Ma viene anche dagli ultimi arrivati nei mercati gonfiati dal Qe – principalmente gli acquirenti di una prima casa e chi è recentemente andato in pensione. Chi oggi acquista una casa (che il Qe ha reso molto più cara), ad esempio, dovrà lavorare migliaia di ore in più per pagare un mutuo a prezzi più alti. Sono queste ore in più a creare la ricchezza che sovvenziona le stravaganti spese del 5% più ricco. Ovviamente, questi prezzi immobiliari più alti sono pagati da chiunque acquisti una casa, non solo da chi lo fa per la prima volta – ma per chi è già proprietario il costo aggiuntivo è compensato dall’aumento di prezzo della casa già di proprietà (o delle azioni, per chi è abbastanza ricco da possederne).Un’altra conseguenza del Qe è che chi va in pensione adesso è costretto a sovvenzionare il 5% più ricco. I nuovi pensionati usano il loro fondo pensione per acquistare una ‘rendita’ – un pacchetto di titoli azionari fruttiferi che produce reddito. Ma poiché il Qe ha causato un’inflazione del prezzo dei titoli, ciò ha ridotto il numero di titoli acquistabili con questo fondo. E dato che all’aumento di prezzo dei titoli non corrisponde un aumento dei dividendi, ciò si traduce in una pensione ridotta. In realtà, la teoria che il Qe servisse ad incoraggiare gli investimenti e stimolare l’occupazione e la crescita è sempre stata un artificio fantasioso creato per dissimulare quello che stava realmente accadendo – un colossale trasferimento di ricchezza verso i più ricchi. L’economista Dhaval Joshi faceva notare nel 2011: «La cosa più sconvolgente è che, dopo due anni di apparente ripresa, i lavoratori [inglesi] in realtà guadagnano meno che nel momento più drammatico della recessione. Salari e stipendi reali sono calati di 4 miliardi di sterline. I profitti sono aumentati di 11 miliardi. I benefici della ripresa sono stati distribuiti nel modo più iniquo possibile».Nel marzo di quest’anno il “Financial Times” riportava che, nonostante il Pil della Gran Bretagna sia ritornato ai livelli pre-crisi già dal 2014, i salari reali sono ancora più bassi del 10% rispetto al 2008. «La contrazione dei salari reali in Uk si è arrestata nel 2015», aggiungeva, «ma ciò non è destinato a durare». Così è stato. Nello stesso mese di pubblicazione di quell’articolo, i salari reali hanno iniziato nuovamente a scendere, e sono da allora in costante diminuzione. Lo stesso è successo in Giappone, dove, secondo “Forbes”, «il reddito delle famiglie si è effettivamente ridotto dopo l’introduzione del Qe». Il Qe ha sortito un effetto simile nei paesi del sud del mondo: aumentare la ricchezza dei detentori di asset a spese di chi non ne ha. Così come l’afflusso di nuovo denaro crea bolle nei mercati immobiliari e finanziari, allo stesso modo crea una bolla nei prezzi delle materie prime, dovuta ad esempio alla corsa degli speculatori all’acquisto di quote di petrolio e di materie prime alimentari.Per alcuni paesi produttori di petrolio ciò ha comportato effetti positivi, con la messa a disposizione di denaro inatteso da investire in programmi sociali, come inizialmente è accaduto nel caso di Venezuela, Libia ed Iran. In tutti e tre i casi, le forze imperialiste sono state costrette a ricorrere a vari livelli di intervento militare per contrastare queste conseguenze indesiderate. Ma l’aumento del prezzo del petrolio è certamente deleterio per paesi che non ne producono – e qualsiasi aumento dei prezzi alimentari è sempre devastante. Nel 2011 il “Daily Telegraph” sottolineava «la correlazione tra i prezzi alimentari e gli acquisti da parte della Fed di titoli di Stato americani (ossia, programmi di quantitative easing)…Si può notare come l’indice dei prezzi alimentari si è pressoché stabilizzato tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010, ed è poi nuovamente salito a partire dalla metà del 2010 dopo il nuovo avvio del quantitative easing… con un aumento dei prezzi di circa il 40% durante un periodo di tempo di otto mesi».L’aumento dei prezzi ha spinto 44 milioni di persone in povertà nel solo 2010 – il “Telegraph” riteneva che ciò stesse alla base del malcontento manifestato nelle cosiddette Primavere Arabe. Robert Zoellick, ex presidente della Banca Mondiale, all’epoca commentava: «L’inflazione dei prezzi alimentari è oggi la più grave minaccia incombente sui poveri del mondo… basta un episodio di maltempo estremo per finire nel baratro». Sono questi i costi del quantitative easing. I paesi Brics erano anche critici nei confronti del Qe per un altro motivo: lo consideravano un metodo subdolo di svalutazione competitiva. Riducendo artificialmente il valore delle loro monete, la “triade imperiale” Usa, Ue e Giappone causavano a tutti gli effetti un apprezzamento delle valute di tutti gli altri paesi, danneggiando così le loro esportazioni.Nel 2015 “Forbes” scriveva: «Gli effetti si iniziano già a sentire anche nei paesi esportatori più dinamici al mondo, nell’est asiatico. Le loro esportazioni in dollari americani hanno subito una drammatica variazione, da una crescita annua del 10% ad una contrazione del 12% nella prima metà di quest’anno, e questi risultati non cambiano, che si tenga conto o no della Cina». Il vantaggio principale del Qe per i paesi in via di sviluppo avrebbe dovuto essere l’enorme afflusso di capitali da esso innescato. Si stima che circa il 40% del denaro generato dalla prima espansione di credito Qe della Fed (‘Qe1’) si è spostato all’estero – in particolare nei cosiddetti ‘mercati emergenti’ del sud del mondo – e circa un terzo durante il Qe. Tuttavia, contrariamente alle apparenze questo non è necessariamente un vantaggio. Gran parte del denaro, come si è visto, è stato utilizzato per acquistare scorte di materie prime (rendendo così beni essenziali come il cibo esorbitanti per i poveri) invece di essere investito in attività di produzione, ed un’altra buona parte è servita per acquistare scorte valutarie, causando ancora una volta un apprezzamento nocivo alle esportazioni.Per di più, un afflusso di ‘hot money’ (capitali speculativi erranti, in contrapposizione al capitale per gli investimenti di lungo termine) accentua la volatilità e vulnerabilità delle valute in caso, ad esempio, di aumenti dei tassi esteri. Se, ad esempio, i tassi d’interesse dovessero nuovamente salire in Usa ed in Europa, ciò rischierebbe di scatenare una fuga di capitali dai mercati emergenti, che potrebbe innescare un tracollo valutario. Fu infatti proprio un afflusso di ‘hot money’ nei mercati valutari asiatici, molto simile a quello visto durante il Qe, a precedere la crisi valutaria asiatica del 1997. La prossima fine del Qe, con il conseguente innalzamento dei tassi d’interesse, rischia di riproporre proprio questa vulnerabilità come una possibilità – se non addirittura come un’opportunità speculativa.(Dan Glazebrook, “Quantitative Easing, il più grande trasferimento di ricchezza della storia”, da un editoriale su “Rt” del 22 luglio 2017, tradotto e ripreso da Margherita Russo per “Voci dall’Estero”. Glazebrook è un giornalista politico freelance che collabora, fra gli altri, con “Russia Today Rt”, “Counterpunch”, “Z Magazine”, il “Morning Star”, il “Guardian”, il “New Statesman”, l’“Independent” e “Middle East Eye”. I suoi saggi esaminano i legami tra la crisi economica, l’ascesa dei Brics, le guerra in Libia e in Siria e l’“austerità” europea. Attualmente conduce ricerche per un libro sull’impiego degli “squadroni della morte” contro Stati sovrani e movimenti politici, dall’Irlanda del Nord e dall’America Centrale negli anni ‘70 e ‘80 fino al Medio Oriente e all’Africa di oggi).Sembra che l’enorme trasferimento di ricchezza verso i ricchi, durato circa un decennio e noto come ‘quantitative easing’, stia per volgere al termine. Delle quattro principali banche centrali del mondo – la Federal Reserve americana, la Bank of England, la Banca Centrale Europea e la Banca del Giappone – due hanno già abbandonato la politica di acquisto di attività finanziarie (la Fed e la BoE), e la Bce intende smettere gli acquisti da dicembre. La Fed dovrebbe infatti iniziare a vendere nei prossimi due mesi i 3500 miliardi di dollari di titoli acquistati in tre cicli di Qe. Dal momento che – valutato alla luce degli obiettivi ufficiali – il Qe è stato un completo disastro, ciò appare perfettamente sensato. Grazie ad un’“iniezione” di denaro nell’economia, il Qe avrebbe dovuto portare le banche a prestare nuovamente, rilanciando gli investimenti e la crescita economica. In realtà, dopo l’introduzione del Qe il credito bancario totale nel Regno Unito è invece diminuito, e il credito a piccole e medie imprese – responsabili per il 60% dell’occupazione – è in caduta verticale.
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Morte lenta, fine dell’Italia. Dopo i partiti arriverà Draghi?
Si sono svolte le elezioni in un centinaio di comuni italiani: l’esito delle urne ha spinto i commentatori a parlare di un “risveglio” del centrodestra, ma l’unico dato significativo è l’esplosione dell’astensionismo che, in costante crescita da anni, ha raggiunto il 54% del corpo elettorale. Parallelamente, la legge elettorale proporzionale è in attesa di riapprodare in Parlamento, archiviando così gli esperimenti maggioritari degli ultimi 20 anni. I due elementi si inseriscono nel più ampio disfacimento del parlamentarismo. L’Italia, guidata da una classe dirigente esautorata, piegata dalla depressione economica, sottoposta ad una molteplicità di crisi concomitanti, si dirige rapida verso l’anno zero: è tempo di chiedersi quali istituzioni rimpiazzeranno le attuali. Parlamento? Non sento più il polso. C’è scarsa o nulla volontà di analizzare la condizione in cui versa l’Italia, anche perché discuterne apertamente non farebbe altro che alimentare le spinte anti-sistema e rendere ancora più palese la Caporetto sociale-economica verso cui ci ha portato l’attuale classe dirigente.Eppure, il nostro paese sta attraversando la peggiore crisi dall’Unità: la vituperata epoca giolittiana fu un periodo roseo a confronto, la Grande Depressione inflisse meno danni al tessuto produttivo, il secondo dopoguerra fu meno traumatico grazie alla conservazione dell’apparato industriale pubblico e dei quadri dirigenziali formati durante il Ventennio fascista. Mai capitò che il nostro paese perdesse in tempo di pace il 10% del Pil, il 25% della base industriale e subisse il crollo demografico che stiamo sperimentando oggi. Per non parlare della crisi bancaria che sta corrodendo il nostro sistema finanziario (circa 200 miliardi di euro), della perdita delle poche grandi imprese operanti nei settori strategici (dalle auto alle telecomunicazioni, dal cemento all’alimentare, dal lusso alla banche) e della crisi migratoria che riversa su un paese già esausto ondate di 150.000-200.000 diseredati all’anno. L’Italia sta pagando a carissimo prezzo la sua “doppia perifericità” geopolitica: periferica rispetto al nocciolo dell’Unione Europea e collocata ai limiti meridionali della Nato, il nostro paese incassa i pesantissimi costi della prima e della seconda.Di fronte a questo foschissimo scenario, la politica ha perso ormai da anni qualsiasi iniziativa. Artefice e complice delle scelte che hanno portato l’Italia verso il baratro, la nostra classe dirigente si adopera da anni per allungare il più possibile lo status quo, conscia che uno stravolgimento degli assetti attuali comporterebbe anche la sua scomparsa. Nell’ordine abbiamo prima assistito alla meteora del “tecnico” Mario Monti (2011-2013), che ha somministrato all’Italia massicce (e letali) dosi di austerità e svalutazione interna; poi alla meteora di Matteo Renzi (2014-2016), “l’ultima speranza dell’élite italiana”, che avrebbe dovuto proseguire le “riforme strutturali” con un piglio dinamico e giovanile; nel frattempo si è consumato il boom ed il successivo sgonfiamento (2013-2017) del Movimento 5 Stelle, studiato per catalizzare e neutralizzare la montante protesta sociale, assolvendo così la funzione di “stampella del potere” dell’establishment.L’impotenza della nostra politica è perfettamente fotografata dal sistema elettorale. La Seconda Repubblica, sinonimo di moneta unica ed Unione Europea, nasce col maggioritario, il cui scopo è quello di garantire a formazioni politiche minoritarie nel paese (che siano di sinistra o di destra) di attuare quelle riforme utili ad “agganciarci” all’Europa ed a farci “restare” in Europa. Il culmine di questo processo si ha, non a caso, nella fase terminale dell’eurocrisi: è la riforma costituzionale di Matteo Renzi, riforma con cui un partito che riscuotesse il 25% dei consensi avrebbe ottenuto la maggioranza della Camera. Fallito il tentativo, stiamo assistendo ad un impetuoso reflusso in senso opposto: abbandonati i sistemi iper-maggioritari, si lavora per reintrodurre il vecchio proporzionale della Prima Repubblica. Per la politica italiana è l’implicita ammissione della sconfitta, quasi una resa incondizionata: i partiti neanche più pensano ad un’alternanza studiano soltanto come sopravvivere, compattandosi in Parlamento come i superstiti di una battaglia persa.Di fronte a questo osceno spettacolo offerto dalla politica, la reazione degli italiani, piegati da disoccupazione e povertà record (7 milioni di disoccupati ed inattivi1 e 4,5 milioni in povertà assoluta2) è essenzialmente una: repulsione. In un paese come l’Italia, dove la partecipazione alle elezioni è storicamente alta, l’astensione dilaga a ritmi sostenuti: 42% di astenuti alle europee del 2014, 48% alle regionali del 2015, 50% al secondo turno delle comunali del 2016, 54% al secondo turno delle recenti comunali. Constato l’immobilismo o la complicità della politica rispetto alle molteplici crisi che affliggono il paese, preso atto del bluff del Movimento 5 Stelle (si vedano le disastrose amministrazioni Raggi ed Appendino, ma soprattutto i voltafaccia sul tema Unione Europea), non rimane altro che rifugiarsi nel non voto. Tra i cittadini e gli organi rappresentativi si scava, anno dopo anno, un fossato profondo quanto l’astensionismo. Se la maggioranza degli elettori disertano le elezioni, significa che il 50% più uno ha espresso la propria fiducia verso le istituzioni “democratiche”.I media, in occasione delle ultime amministrative, hanno parlato di ritorno “alle vecchie coalizioni” ed hanno letto nell’affermazione del centrodestra il segnale di un imminente svolta a livello nazionale: il pendolo dell’alternanza, dopo cinque anni a sinistra, starebbe spostandosi a destra. In realtà l’unico dato utile è quello relativo all’affluenza, sintomo che l’interno meccanismo “democratico” è guasto. Proiettando i dati delle ultime comunali sulle prossime politiche e togliendo il “filtro” del doppio turno, si ottiene una buona rappresentazione del futuro Parlamento: un’istituzione delegittimata dall’astensionismo record, spappolata in un inconcludente tripartitismo, costretta, come nella Spagna di Rajoy, ad instabili governi di minoranza. Né il duo Renzi-Berlusconi avrebbe infatti i numeri per governare, né il M5S accetterebbe ormai di sorreggere una coalizioni di sinistra. L’unico obiettivo della prossima legislatura sarà, quasi certamente, il varo di una qualche legge elettorale che consenta a Mario Draghi di assumere la Presidenza del Consiglio allo scadere del mandato di governatore della Bce, nell’ottobre 2019.Nel frattempo, però, il quadro macroeconomico si sarà deteriorato col rialzo generalizzato dei tassi delle banche centrali mondiali: l’apparente quiete che regna oggi sui mercati finanziari sarà sostituita da uno tsunami che coglierà la nave-Italia senza timoniere, già provata da un decennio di crisi sociale ed economica, portando ai limiti la capacità di tenuta del nostro paese. In questo scenario, la democrazia parlamentare italiana non ha alcuna possibilità di sopravvivere: come nella Francia di De Gaulle o nella Russia di Putin, sarà inevitabile una concentrazione verticale del potere, per impedire che le forze centrifughe prendano il sopravvento e gettino il paese nel caos. Il parlamentarismo italiano, già agonizzante oggi, è destinato ad essere spazzato via dalla tempesta che si profila all’orizzonte. Un dibattito costruttivo non dovrebbe quindi focalizzarsi sulla tenuta o meno delle nostre istituzioni parlamentari, perché il loro tramonto è pressoché inevitabile, ma sulle forme con cui rimpiazzarle e sulle forze politiche che colmeranno il vuoto lasciato dagli attuali partiti prossimi alla scomparsa. L’anno zero per l’Italia (e l’intero Occidente) si avvicina rapidamente: l’incertezza sarà altissima ed i pericoli altrettanto grandi, ma le forze vive del paese avranno almeno l’occasione di riplasmare lo Stato a loro immagine e somiglianza.(Federico Dezzani, “L’Italia e l’irreversibile crisi del parlamentarismo”, dal blog di Dezzani del 29 giugno 2017).Si sono svolte le elezioni in un centinaio di comuni italiani: l’esito delle urne ha spinto i commentatori a parlare di un “risveglio” del centrodestra, ma l’unico dato significativo è l’esplosione dell’astensionismo che, in costante crescita da anni, ha raggiunto il 54% del corpo elettorale. Parallelamente, la legge elettorale proporzionale è in attesa di riapprodare in Parlamento, archiviando così gli esperimenti maggioritari degli ultimi 20 anni. I due elementi si inseriscono nel più ampio disfacimento del parlamentarismo. L’Italia, guidata da una classe dirigente esautorata, piegata dalla depressione economica, sottoposta ad una molteplicità di crisi concomitanti, si dirige rapida verso l’anno zero: è tempo di chiedersi quali istituzioni rimpiazzeranno le attuali. Parlamento? Non sento più il polso. C’è scarsa o nulla volontà di analizzare la condizione in cui versa l’Italia, anche perché discuterne apertamente non farebbe altro che alimentare le spinte anti-sistema e rendere ancora più palese la Caporetto sociale-economica verso cui ci ha portato l’attuale classe dirigente.
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Crisi banche venete, la Germania vuol mangiarsi il Nord-Est
«In caso di una crisi non risolta delle due banche venete che si sono recentemente trovate a navigare in cattive acque, gli effetti non sarebbero molto inferiori a quelli generati dal default della Grecia». Queste le parole che Fabrizio Viola, ad della Banca Popolare di Vicenza, ha rilasciato al “Corriere della Sera” il 2 giugno e poi riportate anche da “Business Insider Italia”. Se consideriamo, infatti, che Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca hanno concesso prestiti “buoni” (ovvero al netto di sofferenze e incagli) per circa 30 miliardi di euro concentrati in gran parte nel nord-est Italia, cioè il territorio più importante per l’economia nazionale, è facile intuire quale sia lo sconquasso che si verrebbe a creare tramite la procedura del bail-in, che impone il rientro forzoso degli impegni a tutela dei depositi. Il debito è il motore dell’economia e intervenire in questo modo sarebbe come togliere ossigeno a tutti quegli imprenditori che fanno affidamento sui prestiti ricevuti dalle due banche; da qui, si innescherebbe la chiusura di un numero importantissimo di piccole e medie aziende, ovvero quelle che caratterizzano il tessuto industriale del nord-est ma anche italiano (le piccolissime, piccole e medie imprese costituiscono circa il 95% del tessuto indistriale italiano).La lente di ingrandimento, secondo opinioni del settore, è stata posta volutamente sulle banche operanti in questo territorio sotto la spinta della Germania; le aziende tedesche hanno un forte interscambio con quelle operanti nel nord-est Italia e potrebbero sostituirsi ad esse o comprarle a basso prezzo in caso di fallimento. Chiudere il motore dell’economia italiana significherebbe per la Germania avere il controllo del mercato e rafforzare sempre più la propria posizione di leader in tutta Europa. Il processo sarebbe quello di usare la medesima strategia usata con la Grecia, ovvero sollecitare da una parte tramite le autorità europee dei piani di risanamento improntati su manovre “lacrime e sangue” e, dall’altro, acquisire le aziende in totale crisi per una manciata di euro (l’aeroporto di Atene è stato acquisito dalla tedesca AviAllance per 600 milioni, così come altri 14 aeroporti, per lo più turistici, erano stati acquisiti in precedenza sempre dai tedeschi per un totale di 1,2 miliardi).Il fondato sospetto prende forma studiando a ritroso le strategie messe in pratiche dalla Germania: prima ha salvato le proprie banche impiegando più di 200 miliardi tenendo impegnata l’Italia a recuperare lo spread (2011/2012), poi ha creato la procedura del bail-il (2015) che vincola l’intervento pubblico ad ultima spiaggia facendo ricorrere gli istituti bancari a salvarsi con i soldi dei correntisti, infine sta cercando di accelerare la chiusura dei due istituti bancari tramite le pressioni fatte in sede europea da Jens Weidmann (presidente della Bundesbank e candidato alla successione di Mario Draghi al vertice della Bce nell’autunno del 2018) visto il rischio di elezioni anticipate, che sotto l’effetto dell’onda populista potrebbe mettere i bastoni tra le ruote al progetto tedesco tramite un cambio di governo italiano.I tedeschi non intendono l’Europa come un processo di progressiva integrazione tra economie tra loro diverse sotto un’ottica di socializzazione, avendone invece una concezione egemonica espressa tramite le misure di austerity fiscale che finora non ha fornito esempi di successo tra gli Stati dell’Unione Europea, se non a favore della Germania stessa. Tutto questo, insieme al colpevole ritardo con cui le autorità italiane hanno compreso il fine del bail-in, potrebbe mettere in serio rischio l’economia italiana dando il definitivo via libera alla Germania per il controllo dell’Europa.(Francesco Puppato, “Dietro il dissesto delle banche venete spunta l’ombra della Germania”, da “Wall Street Italia” dell’11 giugno 2017).«In caso di una crisi non risolta delle due banche venete che si sono recentemente trovate a navigare in cattive acque, gli effetti non sarebbero molto inferiori a quelli generati dal default della Grecia». Queste le parole che Fabrizio Viola, ad della Banca Popolare di Vicenza, ha rilasciato al “Corriere della Sera” il 2 giugno e poi riportate anche da “Business Insider Italia”. Se consideriamo, infatti, che Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca hanno concesso prestiti “buoni” (ovvero al netto di sofferenze e incagli) per circa 30 miliardi di euro concentrati in gran parte nel nord-est Italia, cioè il territorio più importante per l’economia nazionale, è facile intuire quale sia lo sconquasso che si verrebbe a creare tramite la procedura del bail-in, che impone il rientro forzoso degli impegni a tutela dei depositi. Il debito è il motore dell’economia e intervenire in questo modo sarebbe come togliere ossigeno a tutti quegli imprenditori che fanno affidamento sui prestiti ricevuti dalle due banche; da qui, si innescherebbe la chiusura di un numero importantissimo di piccole e medie aziende, ovvero quelle che caratterizzano il tessuto industriale del nord-est ma anche italiano (le piccolissime, piccole e medie imprese costituiscono circa il 95% del tessuto industriale italiano).
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Il “fratello” Romano Prodi, globalizzatore in grembiulino
Caro, vecchio Romano Prodi? Macchè: «Non è certo quel pacioccone bonaccione, quel bravo curato e padre di famiglia che è stato presentato all’immaginario collettivo degli italiani». Nonostante il piglio bonario, il professore bolognese «è un personaggio molto tagliente, molto abile, anche molto attento al proprio “particulare”». Un soggetto a tutto tondo, da raccontare: il Prodi “segreto” sarà tra gli argomenti del secondo volume di “Massoni”, che Gioele Magaldi sta per stare alle stampe. Con una sorpresa: «Prodi è anche lui parte di una rete massonica sovranazionale». Presidente dell’Iri e grande privatizzatore, poi capo del governo, presidente della Commissione Europea, advisor della Goldman Sachs. E, nel frattempo, anche massone: «Tra coloro che hanno contribuito in senso pessimo, per l’Italia e per l’Europa, agli svolgimenti politico-economici nell’era della globalizzazione, cioè nel post-1992, c’è il “fratello” Romano Prodi», il cattolico democristiano che nel 1978 evocò il nome “Gradoli” – per indicare il luogo della prigione di Moro – raccontando di averlo ricevuto nell’ambito di una seduta spiritica. Prodi supermassone? Ebbene sì: parola di Gioele Magaldi. Che, per il secondo volume della serie, potrebbe avvalersi del contributo di una superstar della massoneria mondiale, come il controverso George Soros.Nel “primo round” delle sue clamorose rivelazioni – silenziate dal mainstrem in modo tombale – Magaldi ha scontato una critica ricorrente: non aver documentato le sue affermazioni, spesso esplosive, al punto da ridisegnare la mappa del vero potere, mettendo in relazione personaggi come Monti, Draghi e Napolitano con il mondo internazionale delle 36 Ur-Lodges che rappresentano il supremo vertice delle grandi decisioni. In realtà, Magaldi è stato chiaro dal principio: «Ogni mia affermazione è documentabile, dispongo di 6.000 pagine di dossier. Sono pronto a esibirle, se qualcuno contesterà quanto ho scritto». Ma gli interessati, naturalmente, si sono ben guardati dal fiatare: molto meglio la congiura del silenzio. E ora, dopo “La scoperta delle Ur-Lodges”, si avvicina la pubblicazione del sequel, “Globalizzazione e massoneria”, con retroscena sulla svolta oligarchica che ha svuotato le democrazie occidentali, imponendo politiche di rigore (e oggi anche terrorismo targato Isis) affidate a docili esecutori: come lo stesso Prodi, la cui vera identità – secondo Magaldi – è sfuggita alla maggior parte degli italiani. Un uomo di potere, in grembiulino. L’elettorato di sinistra lo ricorda con nostalgia? Sbaglia: il primo a metterlo in croce, quand’era a capo della Commissione Ue, fu Paolo Barnard su “Report”, che presentò il ritratto di un cinico tecnocrate, schierato con i peggiori oligarchi.Prodi è stato l’unico a battere Berlusconi, due volte su due? Vero, ammette Magaldi, parlando a “Colors Radio”: all’inizio, «quel grande carrozzone che è stato l’Ulivo individuò in modo perfetto, in Prodi, il suo leader». E Berlusconi, «grazie ai buoni uffici della Lega di Bossi, fu defenestrato, nel ‘94». Poi l’interregno di Lamberto Dini e quindi l’arrivo di Prodi nel ‘96. Con che esito? «L’effetto del governo Prodi è stato così ottimo, traghettandoci così bene in Europa, che nel 2001 Berlusconi ha rivinto». Poi c’è stata la seconda vittoria prodiana del 2006, di stretta misura, presto naufragata tra il Pd veltroniano, Bertinotti e Mastella, fino a rimettere Berlusconi al potere nel 2008. Certo, «Berlusconi si è rovinato con le sue mani: non è stato all’altezza della situazione». Ma a pesare, nel fallimento di Prodi, «sono state le pessime azioni di governo, da parte di Prodi e di tutti coloro che l’hanno accompagnato: il centrosinistra italiano, con Prodi e gli altri, non ha saputo produrre una politica lungimirante per questo paese». In altre parole, per Magaldi, «Prodi non ha saputo interpretare il post-1992 in un senso utile a costruire benessere, non dico uguale ma almeno di poco inferiore a quello della Prima Repubblica».Al pari del centrodestra di Berlusconi, il centrosinistra «ha fatto scempio dell’interesse del popolo italiano», piegandosi all’élite eurocratica. E quindi, «che benemerenza c’è nel fatto che Prodi si sia alternato a Berlusconi, battendolo?». In pratica, «sono due facce della stessa medaglia: centrodestra e centrosinistra si sono alternati senza nessuna vera differenza nella gestione di un paese che dipendeva da linee progettate altrove: costoro hanno soltanto fatto da esecutori, secondo una commedia dell’arte per cui, magari, apparentemente, mettevano ingredienti diversi, ma la sostanza rimaneva la medesima». Linee progettate altrove: nei santuari dell’oligarchia finanziaria, industriale, militare, che – partendo dai circuiti esclusivi delle superlogge internazionali – dirama vere e proprie direttive, declinate attraverso think-tank e organismi paramassonici (Trilaterale, Bilderberg, World Bank, Fmi) per poi scendere, a cascata, fino ai governi nazionali, ai leader come D’Alema, Prodi, Renzi. A volte, poi, l’élite supermassonica “commissaria” direttamente un paese: è accaduto con il “fratello” Monti, «che rappresenta quanto di peggio può offrire la rete massonica sovranazionale in senso neo-aristocratico».«Ho più rispetto e stima per un Mario Draghi, che reputo più pericoloso», dice Magaldi. «Monti è un massone che è stato vittima della propria tracotanza, della propria retorica manipolatoria. E appena ha avuto l’occasione di passare dal “back-office” al “front-office”, ha fallito miseramente per eccesso di narcisismo, avendo creduto lui stesso alla retorica che i media italiani avevano creato attorno alla sua figura e alle meraviglie presunte del suo governo». Per Magaldi, Mario Monti è comunque «un grande sconfitto, in questo tentativo di devastazione industriale, economica e sociale dell’Italia: ci ha provato, ha fatto dei danni, ma poi è stato preso a calci nel sedere dall’elettorato». Dopo di lui, è arrivato Enrico Letta, che secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, è un “paramassone”, in realtà in quota all’Opus Dei. «Non ne sentiamo la mancanza», assicura Magaldi. «Nessun rimpianto: se c’è una cosa buona che ha fatto Renzi, a parte la legge sulle unioni civili, è stata quella di aver mandato a casa Enrico Letta e il suo soporifero governo, che peraltro riprendeva e ricalcava pienamente le politiche di Monti». Quanto alle tentazioni massoniche dell’ex premier, Magaldi si è già espresso più volte: «Renzi ha ripetutamente bussato alle porte della supermassoneria reazionaria, attraverso il Council on Foreign Relations, ma non gli è stato aperto». A differenza del “fratello” Romano Prodi, che invece – secondo Magaldi – siede da lunghi anni nel salotto buono della super-massoneria di potere.Caro, vecchio Romano Prodi? Macchè: «Non è certo quel pacioccone bonaccione, quel bravo curato e padre di famiglia che è stato presentato all’immaginario collettivo degli italiani». Nonostante il piglio bonario, il professore bolognese «è un personaggio molto tagliente, molto abile, anche molto attento al proprio “particulare”». Un soggetto a tutto tondo, da raccontare: il Prodi “segreto” sarà tra gli argomenti del secondo volume di “Massoni”, che Gioele Magaldi sta per stare alle stampe. Con una sorpresa, tra le tante: «Prodi è anche lui parte di una rete massonica sovranazionale». Presidente dell’Iri e grande privatizzatore, poi capo del governo, presidente della Commissione Europea, advisor della Goldman Sachs. E, nel frattempo, anche massone: «Tra coloro che hanno contribuito in senso pessimo, per l’Italia e per l’Europa, agli svolgimenti politico-economici nell’era della globalizzazione, cioè nel post-1992, c’è il “fratello” Romano Prodi», il cattolico democristiano che nel 1978 evocò il nome “Gradoli” – per indicare il luogo della prigione di Moro – raccontando di averlo “ricevuto” nell’ambito di una seduta spiritica. Prodi supermassone? Ebbene sì: parola di Gioele Magaldi. Che, per il secondo volume della serie, potrebbe avvalersi del contributo di una superstar della massoneria mondiale, come il controverso George Soros.
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Il partito che non c’è: quello che direbbe tutta la verità
«Io non sono contro il capitalismo, voglio solo tagliargli un po’ le unghie». Lo disse Olof Palme, grande leader socialdemocratico europeo, assassinato nel 1986 a Stoccolma mentre era premier della civilissima Svezia, dove aveva imposto l’ingresso diretto dello Stato nell’economia per salvare industrie traballanti, assegnando addirittura ai lavoratori una quota azionaria. «Chi ha ucciso Palme voleva “uccidere” il socialismo in Europa: il leader svedese andava abbattuto per poter poi mettere in piedi un obbrobrio come l’attuale Eurozona», sostiene Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che collega l’omicidio Palme (tuttora senza colpevoli) a un telegramma con il quale Licio Gelli annunciò l’imminente “caduta” della “palma svedese” al parlamentare statunitense Philip Guarino, allora braccio destro del politologo supermassone Michael Ledeen, onnipresente nella politica italiana, tanto che – sempre secondo Carpeoro – affiancò «prima Craxi e poi Di Pietro, quindi Renzi e contemporaneamente il grillino Di Maio». Carpeoro aderisce al Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi, già maestro venerabile di una loggia romana del Grande Oriente d’Italia e poi Gran Maestro del Grande Oriente Democratico. Magaldi – sceso in campo a colpi di denunce contro gli abusi di certa massoneria internazionale neoaristocratica e in difesa e promozione della secolare tradizione progressista della libera muratoria – oggi invoca la nascita del “partito che non c’è”.«Chiedetevi come mai ci ritroviamo a domandarci, ogni volta, dov’è finita la politica seria, e perché è scomparsa», ripeteva anni fa Paolo Barnard, ricostruendo – nel saggio “Il più grande crimine” – la genesi dell’Eurozona in chiave economico-finanziaria ma soprattutto criminologica. L’accusa: una élite feudale pre-moderna e pre-democratica, travolta per due secoli dai progressivi successi della democrazia industriale, si sta semplicemente riprendendo tutto: in Europa ha rifondato una sorta di Sacro Romano Impero dove comandano politici non-eletti, a loro volta manovrati da una oligarchia finanziaria che ha imposto una moneta “privatizzata”, l’euro, con l’unico scopo di impoverire le popolazioni, trasferendo ricchezza dal basso verso l’alto. I politici che potevano opporsi sono stati eliminati (come Olof Palme) o più semplicemente “comprati”, cooptati, perché tradissero il loro mandato, il loro elettorato, i loro sindacati di riferimento. Applicarono alla lettera lo storico memorandum di Lewis Powell, adottato dalla Commissione Trilaterale per abbattere la sinistra sociale dei diritti, usando come clava il dogma del neoliberismo: il welfare deve finire, il potere deve tornare in mani neo-feudali come quelle che pilotano l’ordoliberismo germanico.Nel suo libro uscito nel 2014, “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Magaldi (che cita spesso Barnard) completa il quadro: i “campioni” dell’attuale élite, dalla Merkel a Draghi, sono tutti supermassoni affiliati a 36 Ur-Lodges internazionali. «Non sono veri massoni», precisa Carpeoro, «visto che hanno tradito i principi progressisti della massoneria». Magaldi preferisce chiamarli contro-iniziati. Ma ricorda che proprio alla libera muratoria si devono le istituzioni-cardine della modernità: democrazia, elezioni, Stato laico, suffragio universale. Il dono della Rivoluzione Francese, ispirata proprio da massoni. «Solo che poi siamo arrivati a Monti, a Napolitano. Anche Renzi ha bussato a quei circoli, ma non gli hanno aperto. In alternativa ci sarebbero i 5 Stelle, ma non hanno ancora spiegato cosa farebbero, una volta al governo». Sicché, torna in campo la suggestione del “partito che non c’è”, ma sarebbe tanto utile se ci fosse. Un partito che, ad esempio, avesse come frontman un economista di primissimo piano come Nino Galloni, allievo del professor Federico Caffè (come lo stesso Draghi, che però si laureò con una tesi sull’insostenibilità di una moneta unica europea). Galloni ha le idee chiarissime: sbattere la porta in faccia all’Ue, se non accetta di rivedere tutti i trattati-capestro, da Maastricht in poi. Un sogno? Certo, per ora sì: è il sogno del “partito che non c’è”.Negli anni ‘80, quando Olof Palme era ancora vivo, una corrente (non populista) scosse l’Europa: quella del movimento ambientalista, che poi crebbe velocemente “grazie” al disastro nucleare di Chernobyl. Nemmeno i Verdi della prima ora intendevano abbattere il capitalismo, ma solo “tagliargli le unghie”, precisamente quelle più “velenose”, in nome della salute di cittadini e lavoratori. Fu una piccola rivoluzione, anche culturale: prima di degradarsi, il movimento costrinse i paesi europei a dotarsi di legislazioni più “verdi”, più attente alla tutela dell’ambiente. Ma a prendere il sopravvento, in Italia, fu il ciclone Tangentopoli, che solo oggi – dopo oltre vent’anni – si vede cosa ha prodotto: da quella colossale “distrazione di massa” venne fuori il nuovo conio dell’Unione Europea, quella che ha ridotto la Grecia a paese del terzo mondo e ha privato l’Italia del 25% della sua produzione industriale, facendo ricomparire ovunque lo spettro della povertà. E i ruggenti 5 Stelle? Molti si sono stupiti del loro silenzio tombale sul decreto-monstre della ministra Lorenzin sui 12 vaccini obbligatori. Non Carpeoro: «L’unica speranza sta nella base dei 5 Stelle, che è fatta di persone pulite. Vedremo se avranno la forza di prevalere sugli attuali vertici, che sono collusi con il potere».Chiedetevi perché non ci sono più i politici di una volta, insiste Barnard. «Un minuto dopo l’istituzione dell’euro – aggiunge Carpeoro – lo stesso Craxi “profetizzò” che sarebbe stato l’inizio della fine, per l’Italia. Con lui, se lo potevano sognare di fare quel tasso di cambio, rispetto alla lira». Galloni, all’epoca, era in trincea: era stato chiamato nientemeno che da Giulio Andreotti, per tentare di limitare i danni attraverso una “guerra” da condurre al coperto, nel palazzo. «Telefonò l’allora cancelliere Kohl – ricorda – per chiedere che fossi rimosso: lottavo, per cercare di impedire la deindustrializzazione dell’Italia». Ma il piano era partito, inesorabilmente, ed era potentissimo. Banche, grande industria, think-tanks, lobby euro-atlantiche, élite franco-tedesche con frotte di politici, tecnocrati ed economisti di complemento. Morti e feriti, alla distanza: rigore, austerity, Monti e Napolitano, la Fornero. Barnard accusa anche D’Alema, uomo-record nelle privatizzazioni, come il suo alleato Romano Prodi, advisor della Goldman Sachs, e personaggi del calibro di Tommaso Padoa Schioppa e dello stesso Carlo Azeglio Ciampi, l’uomo che chiuse il “bancomat” statale di Bankitalia prima ancora dell’avvento dell’euro, costringendo il paese a dipendere, di colpo, dal credito della finanza privata internazionale, trasformando il debito pubblico in un dramma.Gioele Magaldi segnala che, dal fronte progressista di quella stessa élite neo-massonica, provengono anche segnali di risveglio. Carpeoro “legge” l’inquietudine dell’élite “terrorista” che ora colpisce Londra e Manchester, temendo che il Regno Unito post-Brexit possa smarcarsi dal vertice neocon ultraliberista. Ma se qualcuno ha palpitato per le elezioni francesi, sognando una vittoria “sovranista” di Marine Le Pen, si è dovuto arrendere all’evidenza del supermassone Macron, protetto dal supermassone reazionario Jacques Attali (storico sodale di D’Alema, secondo Barnard). Quanto all’Italia, «rido per non piangere», chiosa Magaldi, tra gli inchini di Gentiloni ai potenti del G7: «I nostri partiti cianciano di legge elettorale “alla tedesca” per ingessare in eterno il sistema con un bell’abbraccio tra Renzi e Berlusconi, che pare piaccia anche a Grillo, dato che porrebbe di fronte alla comoda prospettiva di una nuova stagione di opposizione da “duro e puro”».Tutto ciò, senza una sola parola – da parte di nessuno – su come uscire dalla trappola di questa Ue. Servirebbe, appunto, il “partito che non c’è”. Quelli che ci sono, infatti, servono solo a lasciare l’Italia in letargo, in mezzo alle sue “irrisolvibili” tragedie economiche, che il mainstream si guarda bene dall’approfondire: Barnard (cofondatore di “Report”) è trattato come un appestato, e il libro di Magaldi (decine di migliaia di copie vendute) non ha avuto sinora spazi in tv. Il mainstream preferisce registrare gli slogan di Salvini, fotografare l’anziano Silvio che allatta agnellini, filmare l’ectoplasma di Renzi che si riprende l’ectoplasma del Pd. Il mainstream riesce a stare ancora ad ascoltare persino la controfigura di Bersani che straparla di sinistra dimenticando l’altro Bersani, quello vero, che militarizzò il Parlamento per far votare il pareggio di bilancio imposto dall’élite per tramite dei suoi commissari, Monti e Napolitano. Forse, il “partito che non c’è” è quello degli italiani, che ancora stazionano davanti al televisore godendosi questo spettacolo, mentre altrove i veri capi – gli unici – decidono, ancora e sempre, sulla testa di tutti.«Io non sono contro il capitalismo, voglio solo tagliargli un po’ le unghie». Lo disse Olof Palme, grande leader socialdemocratico europeo, assassinato nel 1986 a Stoccolma mentre era premier della civilissima Svezia, dove aveva imposto l’ingresso diretto dello Stato nell’economia per salvare industrie traballanti, assegnando addirittura ai lavoratori una quota azionaria. «Chi ha ucciso Palme voleva “uccidere” il socialismo in Europa: il leader svedese andava abbattuto per poter poi mettere in piedi un obbrobrio come l’attuale Eurozona», sostiene Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che collega l’omicidio Palme (tuttora senza colpevoli) a un telegramma con il quale Licio Gelli annunciò l’imminente “caduta” della “palma svedese” al parlamentare statunitense Philip Guarino, allora braccio destro del politologo supermassone Michael Ledeen, onnipresente nella politica italiana, tanto che – sempre secondo Carpeoro – affiancò «prima Craxi e poi Di Pietro, quindi Renzi e contemporaneamente il grillino Di Maio». Carpeoro aderisce al Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi, già maestro venerabile di una loggia romana del Grande Oriente d’Italia e poi Gran Maestro del Grande Oriente Democratico. Magaldi – sceso in campo a colpi di denunce contro gli abusi di certa massoneria internazionale neoaristocratica e in difesa e promozione della secolare tradizione progressista della libera muratoria – oggi invoca la nascita del “partito che non c’è”.