Archivio del Tag ‘Bashar Assad’
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La Cina accorre nel Baltico, con i russi assediati dalla Nato
Che cosa avverrebbe se l’aereo del segretario Usa alla difesa Jim Mattis, in volo dalla California all’Alaska lungo un corridoio aereo sul Pacifico, venisse intercettato da un caccia russo dell’aeronautica cubana? La notizia occuperebbe le prime pagine, suscitando un’ondata di preoccupate reazioni politiche. «Non si è invece mossa foglia quando il 21 giugno l’aereo del ministro russo della difesa Sergei Shoigu, in volo da Mosca all’enclave russa di Kaliningrad lungo l’apposito corridoio sul Mar Baltico, è stato intercettato da un caccia F-16 statunitense dell’aeronautica polacca che, dopo essersi minacciosamente avvicinato, si è dovuto allontanare per l’intervento di un caccia Sukhoi Su-27 russo». Una provocazione programmata, scrive Manlio Dinucci su “Megachip”, che rientra nella strategia Nato mirante ad accrescere in Europa, ogni giorno di più, la tensione con la Russia, che nel frattempo si prepara ad esercitazioni congiunte, nel Baltico, nientemeno che con la Cina. Giochi di guerra, a tutto campo, mentre Trump torna a minacciare la Siria paventando “nuovi attacchi chimici”, ben sapendo che non è stato Assad, ma i “ribelli” Nato, a usare il gas Sarin contro i civili.Siamo sull’orlo della Terza Guerra Mondiale, come sostengono molti osservatori? La situazione è pericolosa, anche se – secondo altri – lo stato di tensione geopolitica sarebbe una colossale farsa, con l’obiettivo di rafforzare in modo simmetrico le leadership americana e russa, giustificando la nuova corsa agli armamenti. Intanto però l’agenda più o meno sotterranea della guerra è impressionante: dal 1° al 16 giugno, ricorda Dinucci, si è svolta nel Mar Baltico, a ridosso del territorio russo ma con la motivazione ufficiale di difendere la regione dalla “minaccia russa”, l’esercitazione Nato “Baltops”: in campo oltre 50 navi e 50 aerei da guerra di Stati Uniti, Francia, Germania, Gran Bretagna, Polonia e altri paesi tra cui Svezia e Finlandia, non membri ma partner dell’Alleanza. Nel frattempo, dal 12 al 23 giugno si è svolta in Lituania l’esercitazione “Iron Wolf” che ha visto impegnati, per la prima volta insieme, due gruppi di battaglia Nato «a presenza avanzata potenziata»: quello in Lituania sotto comando tedesco (con truppe belghe, olandesi e norvegesi, e dal 2018 anche francesi, croate e ceche) e quello in Polonia sotto comando Usa, comprendente truppe britanniche e rumene.Carri armati Abrams della 3a brigata corazzata Usa, trasferita in Polonia lo scorso gennaio, sono entrati in Lituania attraverso il Suwalki Gap, un tratto di terreno piatto lungo un centinaio di chilometri tra Kaliningrad e Bielorussia, unendosi ai carri Leopard del battaglione tedesco 122 di fanteria meccanizzata. Il Suwalki Gap, avverte la Nato «riesumando l’armamentario propagandistico della vecchia guerra fredda», sarebbe «un varco perfetto attraverso cui i carrarmati russi potrebbero invadere l’Europa». In piena attività anche gli altri due gruppi di battaglia Nato: quello in Lettonia sotto comando canadese, che include truppe italiane, spagnole, polacche, slovene e albanesi, e quello in Estonia sotto comando britannico, con truppe francesi (e dal 2018 anche danesi). «Le nostre forze sono pronte e posizionate nel caso ce ne fosse bisogno per contrastare l’aggressione russa», assicura il generale Curtis Scaparrotti, capo del comando europeo degli Stati Uniti e allo stesso tempo comandante supremo alleato in Europa.Ad essere mobilitati, aggiunge Dinucci, non sono solo i gruppi di battaglia Nato «a presenza avanzata potenziata». Dal 12 al 29 giugno si svolge al centro Nato di addestramento delle forze congiunte, in Polonia, l’esercitazione “Coalition Warrior”, il cui scopo è «sperimentare le più avanzate tecnologie per dare alla Nato la massima prontezza e interoperabilità, in particolare nel confronto con la Russia». Vi partecipano oltre 1000 scienziati e ingegneri di 26 paesi, tra cui quelli del centro Nato per la ricerca marittima e la sperimentazione con sede a La Spezia. Ma Mosca, ovviamente, non sta con le mani in mano: «Dopo che il presidente Trump sarà stato in visita in Polonia il 7-8 luglio, la Russia terrà nel Mar Baltico una grande esercitazione navale congiunta con la Cina. Chissà se a Washington conoscono l’antico proverbio “Chi semina vento, raccoglie tempesta”»Che cosa avverrebbe se l’aereo del segretario Usa alla difesa Jim Mattis, in volo dalla California all’Alaska lungo un corridoio aereo sul Pacifico, venisse intercettato da un caccia russo dell’aeronautica cubana? La notizia occuperebbe le prime pagine, suscitando un’ondata di preoccupate reazioni politiche. «Non si è invece mossa foglia quando il 21 giugno l’aereo del ministro russo della difesa Sergei Shoigu, in volo da Mosca all’enclave russa di Kaliningrad lungo l’apposito corridoio sul Mar Baltico, è stato intercettato da un caccia F-16 statunitense dell’aeronautica polacca che, dopo essersi minacciosamente avvicinato, si è dovuto allontanare per l’intervento di un caccia Sukhoi Su-27 russo». Una provocazione programmata, scrive Manlio Dinucci su “Megachip”, che rientra nella strategia Nato mirante ad accrescere in Europa, ogni giorno di più, la tensione con la Russia, che nel frattempo si prepara ad esercitazioni congiunte, nel Baltico, nientemeno che con la Cina. Giochi di guerra, a tutto campo, mentre Trump torna a minacciare la Siria paventando “nuovi attacchi chimici”, ben sapendo che non è stato Assad, ma i “ribelli” Nato, a usare il gas Sarin contro i civili.
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Flynn: Usa terroristi, l’Isis è in Siria grazie a Obama e Hillary
Un folle pilota americano ha abbattuto un aereo siriano che stava attaccando l’Isis. Questo conferma che Washington non sta combattendo i terroristi, ma li sta proteggendo, in quanto suoi agenti in Siria per rovesciarne il governo. Il generale Michael Flynn, ex direttore della Defense Intelligence Agency, ha rivelato in un’intervista tv che Obama e la Clinton hanno voluto fortemente inviare l’Isis in Siria, contro il suo parere. L’Isis è la scusa per entrare abusivamente in Siria. Russia e Iran vi sono legalmente, invitati da un governo eletto. Gli americani invece sono lì come criminali di guerra. Secondo il diritto internazionale, stabilito dagli stessi yankees, è un crimine di guerra aggredire un paese che non ha sollevato un pugno contro di te. Ora che un pilota americano ha dimostrato che gli Usa sono in Siria solo per sostenere il proprio agente, l’Isis, nemmeno una “presstituta” come Megyn Kelly può credere alla versione di Washington. Russi, siriani e iraniani lo sapevano sin dall’inizio. Tuttavia, queste fonti ufficiali sono tutte considerate sospette dai media occidentali. Per questo, la bugia è rimasta in piedi, fino a quando l’idiota pilota americano ha tolto il velo dalla menzogna.Washington, naturalmente, mentirà spudoratamente. È l’unica cosa che sa fare. Dirà che era un “combattente della coalizione”, cioè che qualcun altro stava guidando gli F-18 americani. Non eravamo noi. Oppure affermeranno che il fighter siriano stava attaccando donne e bambini, oppure un gruppo di transgender o ancora un reparto maternità per donne violentate dalle “brutali truppe” di Assad. Il governo la girerà in qualche modo per rendere un aggressivo crimine di guerra un’eroica difesa di un gruppo di vittime. La domanda è: l’idiota pilota ha fatto tutto da solo, in stile Top Gun, oppure è stata un’iniziativa del complesso militare per iniziare un conflitto Stati Uniti-Russia che impedirebbe a Trump di calmare le tensioni con Putin? Sono in gioco 1 trilione di dollari annui pagati dai contribuenti americani. Non sappiamo se il pilota abbia agito da sé o su ordine. Quel che sappiamo è che non è andata giù ai russi. Il ministro della difesa ha dichiarato oggi che considera la decisione del comando statunitense come una «violazione intenzionale del memorandum per evitare incidenti di voli aerei nelle operazioni in Siria, firmato il 20 ottobre 2015». Che sorpresa! Gli americani hanno rotto un altro accordo fatto con la Russia.Quando capirà Mosca che un accordo firmato con Washington non ha senso? I nativi americani non lo hanno mai fatto. C’è una famosa maglietta in America: “Certo che puoi fidarti del governo: chiedi ad un nativo”. Il ministro della difesa russo ha annunciato oggi che il paese sta interrompendo tutte le interazioni con gli Stati Uniti nell’ambito del memorandum di prevenzione degli incidenti nei cieli siriani. Ha aggiunto inoltre che la difesa missilistica intercetterà qualsiasi aeromobile nella zona delle Forze Aerospaziali russe in Siria, e che «nelle aree in cui l’aviazione sta conducendo missioni di combattimento nei cieli siriani, qualsiasi oggetto volante, inclusi jet e veicoli aerei senza pilota della coalizione internazionale, scoperti ad ovest del fiume Eufrate, verranno seguiti da difese aeree e terrestri russe come bersagli aerei». In altre parole, la Russia ha velatamente indetto una “no-fly zone” in tutte le aree della Siria in cui operano le forze siriane e russe. Ogni intruso verrà colpito. Americani, israeliani, chiunque sarà fatto fuori.Poiché è la Russia, e non Washington, ad avere la superiorità aerea in Siria, tutto ciò che serve è un altro pilota americano sconsiderato, e i totali cretini di Washington dovranno ritirarsi o fare un errore. Date la stupidità e la hybris a D.C., i cretini commetteranno un errore. Non c’è nessuna intelligenza a Washington, solo arroganza. Nel quarto di secolo che ci sono stato ho visto le persone più stupide al mondo. Credo che la Russia e la sua abile leadership ne usciranno vincenti. Tuttavia, penso anche che abbia lasciato troppo che la crisi siriana si sviluppasse. Russia e Siria avrebbero vinto la guerra molto tempo fa, se Mosca avesse evitato di continuare a dichiarare una vittoria prematura, andandosene, dovendo tornare, sperando sempre di raggiungere un accordo con Washington. Raggiungere un accordo con gli americani era quasi più importante che vincere la guerra. Che cosa assurda. Sono gli americani che hanno fomentato il terrorismo in Cecenia.I russi sembrano non capire che non esistono terroristi indipendenti. Il terrorismo è un’arma di Washington. Come può dunque Mosca fare un accordo con un paese che le sta usando il terrorismo contro? Quale crede che sia il piano neocon di conquistare Siria ed Iran, se non portare più terrorismo in Russia? Putin è un leader esperto, forte e capace, forse l’unico fuori della Cina. Palesemente non ce n’è nessuno, in Occidente: un deserto di leadership. Pochi dubbi che sia un capo morale, che si oppone alla guerra e vuole il meglio per tutti i paesi. Tuttavia, cercando accordi con Washington, dà l’idea di essere debole e scavalcabile. Sarebbe molto meglio se Putin dicesse chiaramente: «Se volete la guerra, l’avrete in mezz’ora». Improvvisamente, la Russia verrebbe subito presa sul serio. Ammiro il presidente russo. Ma sta sbagliando mossa. Invece di parare l’aggressione di Washington, dovrebbe costringere Europa e Stati Uniti a venire da lui per una soluzione. Putin, il leader del mondo libero, non dovrebbe essere passivo rispetto ad un governo in bancarotta, corrotto e che si rotola nel male.(Paul Craig Roberts, “Un altro passo verso la guerra totale”, da “Information Clearing House” del 19 giugno, post tradotto da Hmg per “Come Don Chisciotte”. Craig Roberts è stato viceministro del Tesoro nel governo di Ronald Reagan).Un folle pilota americano ha abbattuto un aereo siriano che stava attaccando l’Isis. Questo conferma che Washington non sta combattendo i terroristi, ma li sta proteggendo, in quanto suoi agenti in Siria per rovesciarne il governo. Il generale Michael Flynn, ex direttore della Defense Intelligence Agency, ha rivelato in un’intervista tv che Obama e la Clinton hanno voluto fortemente inviare l’Isis in Siria, contro il suo parere. L’Isis è la scusa per entrare abusivamente in Siria. Russia e Iran vi sono legalmente, invitati da un governo eletto. Gli americani invece sono lì come criminali di guerra. Secondo il diritto internazionale, stabilito dagli stessi yankees, è un crimine di guerra aggredire un paese che non ha sollevato un pugno contro di te. Ora che un pilota americano ha dimostrato che gli Usa sono in Siria solo per sostenere il proprio agente, l’Isis, nemmeno una “presstituta” come Megyn Kelly può credere alla versione di Washington. Russi, siriani e iraniani lo sapevano sin dall’inizio. Tuttavia, queste fonti ufficiali sono tutte considerate sospette dai media occidentali. Per questo, la bugia è rimasta in piedi, fino a quando l’idiota pilota americano ha tolto il velo dalla menzogna.
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Terrorismo, il bugiardo copione della morte. Fino a quando?
Qualcuno crede ancora che sia stato Osama Bin Laden, cioè il socio storico della famiglia Bush, poi agente speciale della Cia in Afghanistan, a far radere al suolo le Torri Gemelle, il giorno in cui – per la prima e unica volta nella storia degli Stati Uniti – l’aviazione era stata interamente impegnata in una decina di esercitazioni concomitanti, dall’Alaska alla West Cost, lasciando solo 4 aerei a guardia del cielo di New York e Washington? E qualcuno crede ancora che lo stesso Bin Laden sia stato davvero ucciso il 2 maggio 2011 ad Abbottabad in Pakistan, su ordine di Obama, dai Navy Seals poi tragicamente a loro volta uccisi (tutti) da un razzo dei Talebani all’aeroporto di Kabul? Qualcuno, davvero, crede che il fantomatico Abu Bakr Al-Baghdadi, misteriosamente scarcerato nel 2009 dal centro di detenzione iracheno di Camp Bucca e poi fotografato in Siria in amena compagnia del senatore John McCain, non c’entri nulla con le reti di intelligence occidentale che hanno organizzato a tavolino la “guerra infinita” fabbricando, allo scopo, prima Al-Qaeda e poi lo Stato Islamico?Mentre si prolunga il silenzio assordante dei media mainstream, che ignorano deliberamente le ormai migliaia di fonti – da Wikileaks in giù – che raccontano tutta un’altra storia, come quella dell’ambasciatore americano a Bengasi saltato in aria con tutte le sue carte dopo che il network di Assange aveva scoperto il traffico di ami chimiche dalla Libia verso la Siria (da cui l’emailgate di Hillary Cinton, con 1.400 messaggi precipitosamente cancellati), ammonta a ormai molti milioni di persone la platea internazionale degli “webeti” che vogliono sapere, informarsi, scoprire perché agli europei oggi tocca morire per strada, al bar, in metropolitana, al concerto, allo stadio. Voci eminenti hanno squarciato un velo di omissioni, falsità e depistaggi. Giornalisti, premi Pulitzer, ex ministri americani, ex militari d’alto rango, massoni, analisti, specialisti dell’intelligence. Raccontano tutti la stessa storia: un’élite impazzita ha il terrore di perdere il potere assoluto conquistato negli ultimi trent’anni, da quando – afflosciatasi la minaccia sovietica – il “partito della guerra”, il business degli armamenti, aveva assoluta necessità di “inventare” un altro nemico, necessario a giustificare il boom inesauribile della spesa militare, e così ha “fabbricato” la minaccia islamista.Lo ammette l’anziano Zbigniew Brzezisnki nelle sue memorie: fu lui a reclutare Bin Laden, fu lì che tutto cominciò. Il seguito è stato solo una tragica farsa, sanguinosissima: l’11 Settembre, le “armi di distruzione di massa” di Saddam, l’esercito barbarico del Califfo, le armi chimiche di Assad e quelle di Gheddafi, l’atomica dell’Iran. Ora siamo ai kamikaze, veri o presunti, ma comunque non sopravviventi: immancabilmente “già segnalati dall’intelligence”, regolarmente “sfuggiti al controllo”, prontamente individuati e riempiti di piombo. Terrorizzare un paese come la Francia, strategico per l’oligarchia finanziaria Ue, secondo alcuni osservatori è una misura preventiva: le leggi speciali frenano la protesta per le misure di rigore sociale in arrivo, e concorrono all’elezione in carrozza di un soggetto come Macron, creatura in vitro della supermassoneria reazionaria incarnata dall’onnipresente Jacques Attali, l’uomo che derise la “plebaglia europea”, illusasi che l’euro fosse stato creato per la sua felicità. Fino a quando durerà, questa recita, che attualmente insanguina il Regno Unito colpevole di aver scelto la Brexit? Se è vero che i signori del terrore hanno paura di perdere il regno, come sostiene qualcuno, c’è ragione di temere un maxi-attentato, stile 11 Settembre. A meno che, a monte, non accada qualcosa, e l’élite “nera” sia sconfitta. Ma non c’è caso che gli “webeti” vengano a saperlo da giornali e televisioni. Siamo nel 2017, e la verità non è mai stata così incerta e rischiosa, avara e tristemente clandestina.Qualcuno crede ancora che sia stato Osama Bin Laden, cioè il socio storico della famiglia Bush, poi agente speciale della Cia in Afghanistan, a far radere al suolo le Torri Gemelle, il giorno in cui – per la prima e unica volta nella storia degli Stati Uniti – l’aviazione era stata interamente impegnata in una decina di esercitazioni concomitanti, dall’Alaska alla West Cost, lasciando solo 4 aerei a guardia del cielo di New York e Washington? E qualcuno crede ancora che lo stesso Bin Laden sia stato davvero ucciso il 2 maggio 2011 ad Abbottabad in Pakistan, su ordine di Obama, dai Navy Seals poi tragicamente a loro volta uccisi (tutti) da un razzo dei Talebani all’aeroporto di Kabul? Qualcuno, davvero, crede che il fantomatico Abu Bakr Al-Baghdadi, misteriosamente scarcerato nel 2009 dal centro di detenzione iracheno di Camp Bucca e poi fotografato in Siria in amena compagnia del senatore John McCain, non c’entri nulla con le reti di intelligence occidentale che hanno organizzato a tavolino la “guerra infinita” fabbricando, allo scopo, prima Al-Qaeda e poi lo Stato Islamico?
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Il vero Brzezinski, grande architetto del terrorismo moderno
Era lui il vero “inventore” del cosiddetto “terrorismo islamico”. Zbigniew Brzezinski, già consulente per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, spentosi il 26 maggio 2017 all’età di 89 anni, è stato «il grande architetto del terrorismo moderno», secondo il blog “The AntiMedia”, che prova a riassumerne l’eredità. «Mentre il Regno Unito si destreggia con la “minaccia terroristica” ai più alti livelli, dopo un attacco devastante ispirato dall’Isis, e mentre le Filippine entrano in uno stato di legge marziale quasi totale, dopo la devastazione ispirata dall’Isis, la morte di Brzezinski giunge al momento giusto, come stimolo a una comprensione più profonda dell’origine del terrorismo moderno». Come spiega il “New York Times”, «il profondo odio di Brzezinski contro l’Unione Sovietica» ha guidato molta della politica estera americana, «nel bene e nel male». Brzezinski sostenne l’invio di miliardi di dollari ai militanti islamisti che combattevano contro l’invasione delle truppe sovietiche in Afghanistan. E incoraggiò tacitamente la Cina a mantenere il suo sostegno al brutale regime di Pol Pot in Cambogia, nel timore che i vietnamiti, sostenuti dall’Urss, prendessero il controllo del paese. Ma il “New York Times” «non non rende giustizia al vero orrore dietro le politiche di Brzezinski».Dopo che un colpo di stato in Afghanistan, nel 1973, aveva istituito un nuovo governo laico favorevole ai sovietici, gli Usa si impegnarono a rovesciarlo con una serie di tentativi di colpi di Stato «tramite i paesi lacché dell’America, il Pakistan e l’Iran (che a quel tempo era sotto il controllo dello Shah, sostenuto dagli Usa», scrive “The AntiMedia” in un post tradotto da “Voci dall’Estero”. Nel luglio 1979 Brzezinski autorizzò ufficialmente il sostegno ai ribelli mujaheddin in Afghanistan, tramite il programma della Cia denominato “Operazione Ciclone”. «Molti oggi difendono la decisione dell’America di armare i mujaheddin in Afghanistan, perché credono che fosse necessario per difendere il paese, e l’intera regione, dall’aggressione sovietica. Tuttavia le stesse affermazioni di Brzesinski contraddicono in pieno questa giustificazione». In un’intervista del 1998, Brzezinski ammise che, nel condurre questa operazione, l’amministrazione Carter stava «consapevolmente aumentando la probabilità» che i sovietici intervenissero militarmente. In altre parole, Brzezinski suggerisce che gli Usa «avessero iniziato ad armare le fazioni islamiste già prima dell’invasione sovietica».Brzezinski disse poi: «Pentirci di cosa? Quella operazione segreta fu un’idea eccellente. Ebbe l’effetto di attirare i russi nella trappola afghana e volete che me ne penta? Il giorno in cui i sovietici varcarono ufficialmente il confine afghano scrissi al presidente Carter: ora abbiamo l’opportunità di dare all’Urss il suo Vietnam». Questa affermazione, annota “The AntiMedia”, andava al di là del semplice vanto di avere istigato una guerra e il collasso definitivo dell’Unione Sovietica. Nelle sue memorie, intitolate “From the Shadows“, Robert Gates – ex direttore della Cia sotto Ronald Reagan e George W. Bush, nonché segretario alla difesa sia sotto Bush junior che sotto Obama – confermò direttamente che quella operazione segreta iniziò sei mesi prima dell’invasione sovietica, proprio con l’intento di attirare i russi in un pantano in stile vietnamita. «Brzezinski sapeva esattamente cosa stava facendo. I sovietici si impantanarono in Afghanistan per circa dieci anni, combattendo contro una riserva interminabile di armi fornite dagli americani e di combattenti addestrati dagli americani. A quel tempo i media si spinsero al punto di elogiare Osama Bin Laden – una delle figure più influenti dell’operazione segreta di Brzezinski. Sappiamo tutti come è andata a finire».Perfino dopo la piena consapevolezza di ciò che era diventata la sua creazione finanziata dalla Cia, nel 1998 Brzezinski fece queste dichiarazioni ai suoi intervistatori: «Cos’è più importante per la storia del mondo? I Talebani o il crollo dell’impero sovietico? Un po’ di musulmani scalmanati o la liberazione dell’Europa Centrale e la fine della guerra fredda?». L’intervistatore, allora, si rifiutò di lasciar passare questa risposta come se nulla fosse, e ribatté: «Un po’ di musulmani scalmanati? Ma è stato detto e ripetuto che il fondamentalismo islamico rappresenta una minaccia per il mondo moderno». Brzezinski troncò questa affermazione dicendo: «Nonsense!». Cose di questo genere, osserva il blog, «succedevano quando i giornalisti facevano ancora domande pressanti ai funzionari di governo, cosa che oggi accade assai di rado». Di fatto, il sostegno di Brzezinski a questi elementi radicali portò direttamente alla formazione di Al-Qaeda, che letteralmente significa “la base”, perché era in effetti la base da cui si lanciava la controffensiva contro l’invasione sovietica che si stava anticipando. «Ciò portò anche alla creazione dei Talebani, la mortale creatura che oggi sta combattendo una battaglia all’ultimo sangue contro le forze Nato».Inoltre, nonostante le affermazioni di Brzezinski, che cerca di far passare l’idea di una sconfitta definitiva dell’impero russo, «la verità è che, per Brzezinski, la guerra fredda non è mai terminata», sottolinea “The AntiMedia”. «Sebbene sia stato critico riguardo all’invasione dell’Iraq nel 2003, Brzezinski ha mantenuto un forte controllo sulla politica estera americana fino al momento della sua morte: non è una coincidenza che, in Siria, l’amministrazione Obama abbia adottato una strategia del tipo “pantano afghano” contro un altro alleato della Russia: il regime di Assad». Un comunicato divulgato da Wikileaks, datato dicembre 2006 e firmato da William Roebuck, a quel tempo incaricato d’affari presso l’ambasciata americana a Damasco, allude esplicitamente alla possibilità concreta di scommettere su «una crescente presenza di estremisti islamisti». Un po’ come con l’Operazione Ciclone in Afghanistan, sotto Barack Obama «la Cia ha speso circa un miliardo di dollari all’anno per addestrare i ribelli siriani, affinché si impegnassero in tattiche terroristiche». E la maggioranza di questi ribelli «condivide l’ideologia fondamentalista dell’Isis e ha l’obiettivo esplicito di stabilire la legge della Sharia in Siria».Proprio come in Afghanistan, la guerra in Siria ha coinvolto formalmente la Russia nel 2015, e l’eredità di Brzezinski è stata mantenuta viva attraverso gli “avvertimenti” di Obama al presidente russo Vladimir Putin, che avrebbe spinto la Russia verso un altro pantano in stile afghano. «Da chi può aver acquisito, Obama, queste tecniche “alla Brzezinski”, gettando la Siria nell’orrore di sei anni di guerra e di nuovo trascinando una grossa potenza nucleare in un conflitto pieno di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità?». Ecco la risposta: «Le ha acquisite da Brzezinski stesso». Secondo Obama, Brzezinski è stato un suo mentore personale, un «amico eccezionale», dal quale ha imparato moltissimo. «Alla luce di questo, c’è forse da sorprendersi che siano sorti così tanti conflitti dal nulla durante la presidenza Obama?». Un’azione a tutto campo, dal Medio Oriente all’Ucraina: il 7 febbraio 2014, la “Bbc” ha pubblicato la trascrizione dell’intercettazione telefonica di una conversazione tra l’assistente segretaria di Stato, Victoria Nuland, e l’ambasciatore americano in Ucraina, Geoffrey Pyatt. In quella conversazione, i due alti funzionari «stavano discutendo su chi avrebbero voluto piazzare al governo ucraino dopo il colpo di Stato che aveva cacciato il presidente filorusso Viktor Yanukovych».Ed ecco che Brzezinski stesso, nel suo libro del 1998, “La Grande Scacchiera”, sosteneva la necessità di prendere il controllo dell’Ucraina, dicendo che era «uno spazio nuovo e importante sulla scacchiera euroasiatica, un perno geopolitico, perché la sua stessa esistenza come nazione indipendente implicava che la Russia cessasse di essere un impero euroasiatico». Brzezinski ammoniva contro l’eventualità di permettere alla Russia di prendere il controllo dell’Ucraina, perché «la Russia si riprenderebbe automaticamente i mezzi per tornare ad essere un potente Stato imperiale, con influenze sia in Europa che in Asia». Dopo Obama, Donald Trump è salito in carica con tutta un’altra mentalità, con l’idea di lavorare con la Russia e con il governo siriano per combattere l’Isis. «Non c’è da sorprendersi che Brzezinski non abbia sostenuto la campagna di Trump per la presidenza, e abbia ritenuto che le idee di Trump sulla politica estera mancassero di coerenza», aggiunge “The AntiMedia”. Poi, forse, qualche ripensamento in extremis: l’anno scorso, Brzezinski è sembrato aver cambiato posizione sulla “geopolitica del terrore”, iniziando a sostenere una redistribuzione del potere globale, alla luce del fatto che gli Usa non sono più la grande potenza imperiale di un tempo.Tuttavia, Brzezinski sembrava ancora ritenere che, senza il ruolo-guida dell’America, il risultato sarebbe stato solo «il caos globale». Pare perciò improbabile che il suo cambiamento di posizione fosse fondato su un cambiamento reale e significativo sullo scacchiere geopolitico. «La stessa esistenza della Cia è fondata sull’idea di una minaccia russa, come è stato evidenziato dall’aggressione decisa da parte della stessa Cia contro l’amministrazione Trump non appena si è delineata una possibile distensione con l’ex Unione Sovietica», conclude “The AntiMedia”. «Brzezinski è morto nella tranquillità del suo letto di ospedale, a differenza di milioni di civili sfollati e assassinati, risucchiati nel suo contorto gioco di scacchi geopolitico, fatto di sangue e follia. La sua eredità è la militanza jihadista, la formazione di Al-Quaeda, il più devastante attacco su suolo americano che sia mai stato fatto da un’entità straniera nella storia recente, e la demonizzazione della Russia come eterno avversario, con il quale la pace non si può e non si deve fare».Era lui il vero “inventore” del cosiddetto “terrorismo islamico”. Zbigniew Brzezinski, già consulente per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, spentosi il 26 maggio 2017 all’età di 89 anni, è stato «il grande architetto del terrorismo moderno», secondo il blog “The AntiMedia”, che prova a riassumerne l’eredità. «Mentre il Regno Unito si destreggia con la “minaccia terroristica” ai più alti livelli, dopo un attacco devastante ispirato dall’Isis, e mentre le Filippine entrano in uno stato di legge marziale quasi totale, dopo la devastazione ispirata dall’Isis, la morte di Brzezinski giunge al momento giusto, come stimolo a una comprensione più profonda dell’origine del terrorismo moderno». Come spiega il “New York Times”, «il profondo odio di Brzezinski contro l’Unione Sovietica» ha guidato molta della politica estera americana, «nel bene e nel male». Brzezinski sostenne l’invio di miliardi di dollari ai militanti islamisti che combattevano contro l’invasione delle truppe sovietiche in Afghanistan. E incoraggiò tacitamente la Cina a mantenere il suo sostegno al brutale regime di Pol Pot in Cambogia, nel timore che i vietnamiti, sostenuti dall’Urss, prendessero il controllo del paese. Ma il “New York Times” «non non rende giustizia al vero orrore dietro le politiche di Brzezinski».
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Schiavi comprati e venduti nella Libia “liberata” dagli Usa
La Libia “liberata” dagli Usa è diventata un colossale mercato degli schiavi. Lo dimostra un report di Carey Wedler su “Zero Hedge”, che accusa l’Occidente: le stesse menti criminali, che hanno ridotto il territorio libico a disgustoso “business di carne umana”, stanno cercando di fare la stessa cosa in Siria. «È ben noto che l’intervento Nato a guida Usa del 2011 in Libia, con lo scopo di rovesciare Muhammar Gheddafi, ha portato ad un vuoto di potere che ha permesso a gruppi terroristici come l’Isis di prendere piede nel paese», premette Wedler. «Nonostante le conseguenze devastanti dell’invasione del 2011, l’Occidente è oggi lanciato sulla stessa traiettoria nei riguardi della Siria». Ieri Obama ha stroncato Gheddafi con la scusa di “proteggere il popolo libico”, e oggi – senza uno straccio di prova sulle responsabilità di Assad nell’attacco coi gas – Trump minaccia di abbattere il regime di Damasco. Ma, al netto della propaganda, «emergono sempre più chiaramente i pericoli connessi all’invasione di un paese straniero e alla rimozione dei suoi leader politici». Lo conferma il “Guardian”, con «nuove rivelazioni sugli effetti collaterali degli “interventi umanitari”: la crescita del mercato degli schiavi».Il quotidiano inglese scrive che sebbene «la violenza, l’estorsione e il lavoro in schiavitù» siano stati già in passato una realtà per le persone che transitavano attraverso la Libia, recentemente il commercio degli schiavi è aumentato». E oggi «la compravendita di esseri umani come schiavi viene fatta apertamente, alla luce del sole», scrive Wedler, in un post ripreso da “Voci dall’Estero”. «Gli ultimi report sul ‘mercato degli schiavi’ a cui sono sottoposti i migranti si possono aggiungere alla lunga lista di atrocità che avvengono in Libia», afferma Mohammed Abdiker, capo delle operazioni di emergenza dell’Iom, International Office of Migration, un’organizzazione intergovernativa che promuove “migrazioni ordinate e più umane a beneficio di tutti“, secondo il suo stesso sito web. «La situazione è tragica. Più l’Iom si impegna in Libia, più ci rendiamo conto come questo paese sia una valle di lacrime per troppi migranti». Il paese nordafricano viene usato spesso come punto di uscita per i rifugiati che arrivano da altre parti del continente. Ma da quando Gheddafi è stato rovesciato nel 2011, spiega Abdiker al “Guardian”, «il paese, che è ampio e poco densamente popolato, è piombato nel caos della violenza: e i migranti, che hanno poco denaro e di solito sono privi di documenti, sono particolarmente vulnerabili».Un sopravvissuto del Senegal, proveniente dal Niger, racconta che stava attraversando la Libia insieme a un gruppo di altri migranti, tutti in fuga dai paesi di origine. Avevano pagato un trafficante perché li trasportasse in autobus fino alla costa, dove avrebbero corso il rischio di imbarcarsi per l’Europa. Ma, anziché portarli sulla costa, il trafficante li ha condotti in un’area polverosa presso la cittadina libica di Sabha. Secondo quanto riportato da Livia Manente, la funzionaria dell’Iom che intervista i sopravvissuti, «il loro autista gli ha detto all’improvviso che gli intermediari non gli avevano passato i pagamenti dovuti e ha messo i passeggeri in vendita». Molti altri migranti hanno confermato questa storia, aggiunge la Manente: i profughi descrivono «i vari mercati degli schiavi, indipendenti l’uno dall’altro, e le diverse prigioni private che si trovano in tutta la Libia». Le stesse storie, aggiunge la funzionaria, sono confermate dai migranti che hanno trovato asilo nell’Italia del sud.Il sopravvissuto senegalese ha detto di essere stato portato in una prigione improvvisata che, come nota il “Guardian”, in Libia è cosa comune: «I detenuti all’interno sono costretti a lavorare senza paga, o in cambio di magre razioni di cibo, e i loro carcerieri telefonano regolarmente alle famiglie a casa chiedendo un riscatto. Il suo carceriere chiese 300.000 franchi Cfa (circa 450 euro), poi lo vendette a un’altra prigione più grossa dove la richiesta di riscatto raddoppiò senza spiegazioni». Quando i migranti sono detenuti troppo a lungo senza che il riscatto venga pagato, continua il “Guardian”, vengono portati via e uccisi. «Alcuni deperiscono per la scarsità delle razioni e le condizioni igieniche miserabili, muoiono di fame o di malattie, ma il loro numero complessivo non diminuisce mai», sottolinea il quotidiano britannico. «Se il numero di migranti scende perché qualcuno muore o viene riscattato, i rapitori vanno al mercato e ne comprano degli altri», dice ancora Livia Manente. Le fa eco Giuseppe Loprete, capo della missione Iom in Niger: «È assolutamente chiaro che loro si vedono trattati come schiavi», ha detto.Loprete ha gestito il rimpatrio di 1.500 migranti nei soli primi tre mesi dell’anno, e teme che molte altre storie e incidenti del genere emergeranno man mano che altri migranti torneranno dalle coste libiche: «Le condizioni stanno peggiorando, in Libia: penso che ci possiamo aspettare molti altri casi nei mesi a venire». Ora, conclude Wedler, mentre il governo degli Stati Uniti «sta insistendo nell’idea che un cambio di regime in Siria sia la soluzione giusta per risolvere le molte crisi di quel paese», è ormai sempre più evidente che la cacciata dei dittatori – per quanto detestabili possano essere – non è una soluzione efficace. «Rovesciare Saddam Hussein non ha portato solo alla morte di molti civili e alla radicalizzazione della società, ma anche all’ascesa dell’Isis», sottolinea l’analista. «Mentre la Libia, che un tempo era un modello di stabilità nella regione, continua a precipitare nel baratro in cui l’ha gettata “l’intervento umanitario” dell’Occidente». Un pozzo nero e senza fondo, nel quale «gli esseri umani vengono trascinati nel nuovo mercato della schiavitù, e gli stupri e i rapimenti affliggono la popolazione». Chi preme sulla guerra, conclude Wedler, deve sapere che non farà altro che produrre «ulteriori inimmaginabili sofferenze».La Libia “liberata” dagli Usa è diventata un colossale mercato degli schiavi. Lo dimostra un report di Carey Wedler su “Zero Hedge”, che accusa l’Occidente: le stesse menti criminali, che hanno ridotto il territorio libico a disgustoso “business di carne umana”, stanno cercando di fare la stessa cosa in Siria. «È ben noto che l’intervento Nato a guida Usa del 2011 in Libia, con lo scopo di rovesciare Muhammar Gheddafi, ha portato ad un vuoto di potere che ha permesso a gruppi terroristici come l’Isis di prendere piede nel paese», premette Wedler. «Nonostante le conseguenze devastanti dell’invasione del 2011, l’Occidente è oggi lanciato sulla stessa traiettoria nei riguardi della Siria». Ieri Obama ha stroncato Gheddafi con la scusa di “proteggere il popolo libico”, e oggi – senza uno straccio di prova sulle responsabilità di Assad nell’attacco coi gas – Trump minaccia di abbattere il regime di Damasco. Ma, al netto della propaganda, «emergono sempre più chiaramente i pericoli connessi all’invasione di un paese straniero e alla rimozione dei suoi leader politici». Lo conferma il “Guardian”, con «nuove rivelazioni sugli effetti collaterali degli “interventi umanitari”: la crescita del mercato degli schiavi».
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Addio Merkel, euro e Nato: il voto francese cambia il mondo
La Francia al bivio: Atlantico o Eurasia. «Se il 2017 ha tutte le caratteristiche per essere definito “l’anno della frattura”, lo spartiacque tra il vecchio ordine mondiale “liberale” a guida angloamericana e l’avvento di un nuovo assetto internazionale, ebbene, c’è un appuntamento più decisivo degli altri, quello capace di dispiegare tutto il potenziale rivoluzionario dell’anno in corso: le presidenziali francesi». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, il voto transalpino (primo turno, 23 aprile) è «l’appuntamento chiave del 2017, capace di innescare e/o accelerare dinamiche che travalicano i confini dell’Esagono per abbracciare l’intero scacchiere mondiale». Motivo: «Il malessere sociale e le drammatiche condizioni in cui versa l’economia della Francia, pienamente ascrivibile tra i paesi dell’europeriferia, hanno sgretolato il sistema politico transalpino, aprendo lo scenario di un inedito ballottaggio tra populisti di destra e populisti di sinistra: Marine Le Pen contro Jean-Luc Mélenchon». Secondo Dezzani, la sconfitta dei candidati europeisti accelererà la dissoluzione della moneta unica e dell’Unione Europea, compromettendo irreparabilmente l’intera architettura euro-atlantica edificata negli ultimi 70 anni: «Lo speculare rafforzamento della Russia dopo la vittoria di Marine Le Pen e l’ingrossarsi del blocco euroasiatico rischiano di portare il sistema internazionale al carico di rottura».In un’analisi pubblicata sul suo blog, Dezzani colloca le presidenziali francesi in una più ampia cornice geopolitica: «Solo chi nascondesse la testa sotto terra, potrebbe infatti affermare che l’imminente voto sia scollegato dalle rinnovate tensioni tra Nato e Russia e dai venti di guerra nella Corea del Nord». La Francia ripropone il medesimo schema politico che travaglia l’intera Europa: i partiti tradizionali, «legati a doppio filo all’establishment euro-atlantico», riusciranno o meno a respingere l’assalto “populista”, cioè l’avanzata di quei movimenti che predicano ricette economiche e una politica estera diametralmente opposta a quella dell’oligarchia al potere? «La risposta è quasi certamente “no”», sostiene Dezzani. «Di fronte all’eurocrisi scoppiata nel lontano 2009 e progressivamente incancrenitasi avendo mancato l’obiettivo di fondo (strappare il Tesoro Unico europeo e gli Stati Uniti d’Europa)», la Francia «è scivolata giorno dopo giorno verso l’euro-periferia, mostrando l’illusorietà del “motore franco-tedesco”». A collocare il paese «più vicino al Mediterraneo che al Reno» è ormai, «la galoppante crescita del debito pubblico francese, che dall’introduzione dell’euro è passato dal 60% al 97% del Pil», insieme ad altri indicatori sfavorevoli: «Gli alti deficit in funzione anti-ciclica, il cronico disavanzo della bilancia commerciale e la disoccupazione record (quella ufficiale si attesta attorno al 10% della forza lavoro)».Tra Parigi e Berlino, sottolinea Dezzani, c’è ancora una «parità formale», che attualmente scongiura quelle politiche di austerità imposte al resto dell’europeriferia: misure di austerity che potrebbero «innescare esplosive rivolte in una società come quella francese, abituata a ricevere generose prestazioni dallo Stato». Questo però «non impedisce che qualche “riforma strutturale” sia somministrata anche alla Francia: il “Job Act” gallico, la legge El Khomri, provoca reazioni impensabili in Italia, mobilitando sindacati e lavoratori per settimane e paralizzando diversi settori strategici dell’economia». L’assaggio di neoliberismo, il crescere incessante della disoccupazione e la parallela caduta verticale del presidente François Hollande in termini di popolarità, continua Dezzani, sono accompagnati dall’esplosione del terrorismo “islamista” che, avviato nel gennaio 2015 con la strage di Charlie Hebdo, semina morti fino alla strage di Nizza dello scorso luglio: «E’ la classica strategia della tensione utile a “sedare” un’opinione pubblica sul piede di guerra, a causa dell’impoverimento generalizzato e dei tagli allo Stato sociale».La strategia della tensione, però, secondo Dezzani ha fallito: doveva «compattare i francesi attorno al capo di Stato», quell’Hollande che – dopo aver ripeuto che «la France est en guerre» – è il primo presidente, dall’avvento della Quinta Repubblica, a scegliere di “abdicare”, rinunciando a correre per un secondo mandato: «L’obiettivo è quello di arrestare l’avanzata dei “populisti”, relegando il quinquennio di Hollande ad una triste parentesi, e puntando su volti nuovi». Ma ormai, aggiunge Dezzani, la ribellione dell’elettorato è troppo impetuosa per essere incanalata: «Il “filo-russo” François Fillon conquista la candidatura del centro-destra battendo l’esponente dell’establishment, Alain Juppé. Segue quindi una feroce campagna mediatica-giudiziaria per stroncare la corsa di Fillon verso l’Eliseo e lanciare verso il ballottaggio del 7 maggio il centrista e “outisider” Emmanuel Macron, ex-banchiere Rothschild: il calcolo politico si basa sulla convinzione che tutti i voti moderati si coaguleranno attorno all’europeista e filo-atlantico Macron, sancendo così la sconfitta della populista e filo-russa Marine Le Pen».Nella Francia del 2017, però, come nel resto dell’Occidente, i voti “moderati” sono ormai merce rara: «Il malessere diffuso, tre milioni di disoccupati (che salgono a sei considerando i lavoratori iscritti ad un corso di ricollocamento), l’insofferenza generalizzata verso la cricca di privilegiati che ruota attorno all’Eliseo e ai salotti buoni di Parigi, spinge l’elettorato sulle ali estreme dello schieramento politico: la candidatura del centrista Emmanuel Macron, presentato dalla maggior parte dei sondaggi e dei media compiacenti come il presidente in pectore, rischia di sgonfiarsi addirittura al primo turno, schiantandosi contro lo scoglio dell’elettorato». Ferma restando la possibile vittoria di Marine Le Pen, crescono infatti le probabilità che lo sfidante al ballottaggio del 7 maggio non sia l’ex-banchiere di Rothischild, ma il “populista rosso” Jean-Luc Mélenchon: storico esponente dell’ala sinistra del Partito socialista, fondatore del movimento “France insoumise” (la Francia ribelle). «Abile oratore e figura piuttosto carismatica, Mélenchon è la declinazione “giacobina” di Marine Le Pen». Tanti i tratti i comune: tra questi, «l’avversione all’ortodossia finanziaria di Bruxelles, l’intenzione di manovre fiscali espansive in forte deficit, il rifiuto dei dogmi liberisti e l’apertura al protezionismo».In politica estera, Le Pen e Mélenchon condividono anche «l’intenzione di traghettare la Francia fuori dalla Nato», che dimostra «la volontà di riconciliarsi con Mosca superando le varie discrepanze, in primis sulla Siria». Dezzani scommette che sarà Marine Le Pen a uscire vincitrice dal ballottaggio del 7 maggio, sospinta da diversi fattori: la voglia di cancellare la disastrosa presidenza Hollande, la crisi migratoria, l’emergenza-sicurezza nelle città e il vento nazionalista, sempre più forte a livello europeo. «Nelle attuali condizioni in cui versa l’Unione Europea – ragiona Dezzani – è però chiaro che, se dalle urne del 23 aprile dovesse emergere una sfida tra forze anti-sistema di sinistra e di destra, Bruxelles incasserebbe il colpo di grazia anche senza conoscere il verdetto finale delle presidenziali francesi». Si tratta pur sempre di «istituzioni europee così lacerate da assistere inermi alla ribellione degli Stati alla politica migratoria comune, alla puntuale disapplicazione di norme fino a poco tempo fa presentate come ineludibili (Fiscal Compact e bail-in), al tramonto di qualsiasi ulteriore integrazione necessaria a garantire la sopravvivenza dell’euro (in primis la garanzia unica sui depositi)».L’affermazione dei “populisti” Le Pen e Mélenchon al primo turno, continua Dezzani, «sancirebbe la rottura definitiva del motore franco-tedesco da tempo in panne». Rottura che, «aprendo una drammatica faglia nel cuore dell’Europa, porterebbe al collasso finale le già pericolanti istituzioni di Bruxelles». Al che, la dissoluzione dell’Unione Europea e il simultaneo ricollocamento di Parigi su posizioni filo-russe «sarebbero un vero terremoto geopolitico, scuotendo alle fondamenta l’intera architettura politico-militare consolidatasi in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale: le istituzioni di Bruxelles, sinonimo di Ue ma anche di Nato, sono infatti lo strumento con cui l’impero angloamericano ha prima blindato, e poi allargato, la testa di ponte sul continente euroasiatico, conquistata con due guerre mondiali». Scopo strategico del blocco Ue-Nato, infatti, «è attrarre verso l’Atlantico il maggior numero possibile di potenze europee», impedendo «il sorgere di qualsiasi alleanza tra la Russia e l’Europa occidentale». Il terremoto sovranista francese, quindi, stravolgerebbe «la settantennale strategia dell’establishment atlantico sul Vecchio Continente, incentratala sulla cooperazione franco-tedesca con la benedizione di Londra e Washington, e sul progressivo ampliamento verso est delle organizzazioni “transatlantiche”».Si materializzerebbe così il peggior scenario possibile per gli strateghi angloamericani, tratteggiato da Zbigniew Brzezinski nel suo libro “La Grande Scacchiera”, del 1997: vedremmo all’opera «una Francia nazionalista che, oppressa dall’egemonia della Germania schierata su posizioni filo-atlantiche, parte alla riconquista del primato continentale alleandosi con la Russia e riconoscendo a quest’ultima una legittima zona d’influenza nell’Est europeo». Sarebbe, in sostanza, «un patto franco-russo», progettato «per ridimensionare la Germania» e ridimensionare l’egemonia Usa sull’Europa. «Il quadro – aggiunge Dezzani – si farebbe ancora più drammatico per gli strateghi angloamericani se la Francia “nazionalista” non si saldasse soltanto alla Russia, ma al blocco euro-asiatico, che comprende anche la Cina e l’Iran e si irrobustisce giorno dopo giorno: la Francia, anziché lavorare per la caduta di Assad e il puntellamento del regime filo-saudita in Yemen, passerebbe così ad una condizione di neutralità o larvata ostilità nei confronti degli alleati regionali di Washington e Londra, compromettendo ulteriormente l’opera angloamericana di “contenimento” delle potenze euro-asiatiche».Gli Usa a quel punto, «espulsi dalla massa continentale anche grazie alla cooperazione francese, perderebbero automaticamente lo status di superpotenza mondiale». Per Dezzani, stiamo assistendo al manifestarsi di «una doppia minaccia mortale per l’impero angloamericano: il saldarsi della coalizione tra Russia, Cina e Iran, unito al nascere di un’intesa franco-russa». Si tratta di «quattro potenze distinte, unite dalla comune volontà di archiviare l’egemonia degli Usa e dell’oligarchia atlantica, per ridisegnare l’assetto mondiale». Meglio si spiega, quindi, «il clima di elevata tensione internazionale, caratterizzato dal precipitare delle relazioni russo-americane e dai concomitanti venti di guerra in Corea». La posta in gioco, insiste Dezzani, «supera i confini dell’Esagono». La probabile vittoria di Marine Le Pen «è in grado di compromettere ulteriormente la presa angloamericana sull’Europa, a beneficio di Mosca e delle altre potenze continentali». Attenzione: questo scenario «lascia supporre un ulteriore aumento della tensione in vista del ballottaggio del 7 maggio e negli immediati mesi successivi al voto: più la Ue si sfalda e il blocco euroasiatico si ingrossa, maggiori sono i rischi che il sistema internazionale raggiunga il carico i rottura, imprimendo agli eventi quella drammatica svolta che si sarebbe evitata soltanto se Donald Trump avesse mantenuto le promesse neo-isolazioniste della campagna elettorale».La Francia al bivio: Atlantico o Eurasia. «Se il 2017 ha tutte le caratteristiche per essere definito “l’anno della frattura”, lo spartiacque tra il vecchio ordine mondiale “liberale” a guida angloamericana e l’avvento di un nuovo assetto internazionale, ebbene, c’è un appuntamento più decisivo degli altri, quello capace di dispiegare tutto il potenziale rivoluzionario dell’anno in corso: le presidenziali francesi». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, il voto transalpino (primo turno, 23 aprile) è «l’appuntamento chiave del 2017, capace di innescare e/o accelerare dinamiche che travalicano i confini dell’Esagono per abbracciare l’intero scacchiere mondiale». Motivo: «Il malessere sociale e le drammatiche condizioni in cui versa l’economia della Francia, pienamente ascrivibile tra i paesi dell’europeriferia, hanno sgretolato il sistema politico transalpino, aprendo lo scenario di un inedito ballottaggio tra populisti di destra e populisti di sinistra: Marine Le Pen contro Jean-Luc Mélenchon». Secondo Dezzani, la sconfitta dei candidati europeisti accelererà la dissoluzione della moneta unica e dell’Unione Europea, compromettendo irreparabilmente l’intera architettura euro-atlantica edificata negli ultimi 70 anni: «Lo speculare rafforzamento della Russia dopo la vittoria di Marine Le Pen e l’ingrossarsi del blocco euroasiatico rischiano di portare il sistema internazionale al carico di rottura».
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Chomsky: ho paura, questa élite vuole ricorrere all’atomica
Donald Trump sa di non avere nessuna speranza di premiare i milioni di elettori che avevano creduto in lui. Per questo gioca l’ultima carta e indossa i panni dello sceriffo: per distrarre il pubblico, bombardando il mondo. Ma il gioco è pericoloso: tra una provocazione e l’altra, con il solito corredo di notizie false come le responsabilità di Assad sull’uso dei gas contro la popolazione siriana, la Russia stavolta potrebbe reagire. Mosca potrebbe sparare per prima i suoi missili a testata atomica contro l’America, prima che sia troppo tardi. Mai, nella sua storia, l’umanità ha corso un pericolo così grande. Lo afferma Noam Chomsky in un’intervista concessa al “Manifesto”, nella quale esprime la massima preoccupazione per i giorni che stiamo vivendo. La sua tesi: l’élite è semplicemente “impazzita”. E il terrore di perdere il potere può spingerla verso la catastrofe nucleare. Gli oligarchi sanno di non avere più alcuna possibilità di recuperare il consenso perduto, come dimostra il fallimento della loro ultima creazione illusionistica, Donald Trump. E allora premono sulla guerra: la vogliono davvero, come unica soluzione per mantenere il controllo totale sull’umanità.Ad aggravare il quadro, aggiunge Chomsky, intervistato da Patricia Lombroso, sarebbe la rottura dello storico equilibrio missilistico tra Usa e Russia, provocata dal colossale programma di riarmo nucleare varato anni fa da Barack Obama. Secondo il grande intellettuale americano, oggi la dotazione balistica degli Stati Uniti sarebbe superiore rispetto a quella di Mosca. E i russi, che sanno di essere minacciati, potrebbero decidere di sferrare per primi un attacco nucleare preventivo, prima che la loro deterrenza venga definitivamente cancellata dall’ipotetica supremazia atomica statunitense. Uno scenario da apocalisse, confermato da un altro acuto analista indipendente come Paul Craig Roberts, secondo cui i russi – che a suo parere non dispongono affatto di un arsenale inferiore a quello americano – potrebbero comunque scegliere di colpire per primi, dato che gli Usa e la Nato li stanno letteralmente assediando, in modo sempre più subdolo, ormai anche alle frontiere della Federazione Russa, sul Baltico e nell’Europa orientale.Altri osservatori, come il francese Thierry Meyssan, sono meno pessimisti: tendono a pensare che Trump stia essenzialmente “facendo teatro”. Per Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’eventuale bluff muscolare di Trump avrebbe lo scopo di illudere (e tacitare, a suon di commesse miliardarie) l’apparato militare-industriale che fa capo al potentissimo clan dei Bush. Lo stesso Carpeoro, tuttavia, non si nasconde la pericolosità del potere oligarchico mondiale ormai pronto a tutto, come dimostra l’auto-terrorismo targato Isis. Sullo sfondo, la situazione allarmante del pianeta: «Gli oligarchi sanno che le risorse terrestri si stanno esaurendo, a cominciare dalle fonti energetiche, e ciascun gruppo sgomita per prepararsi a imporre il suo Piano-B». Lo stesso Giulietto Chiesa teme gli effetti della doppia crisi in atto: la pericolosità di un’America in declino, arginata da Russia e Cina, in un mondo che non sa come affrontare né l’esplosione demografica, né l’incombente catastrofe climatica, che secondo l’Onu sta già innescando esodi mai visti prima, nella storia. Tante angolazioni diverse, molte analisi e una sinistra caratteristica comune: l’assenza di soluzioni, in vista.Nella sua visione, Chomsky si concentra sulla politica estera Usa: «Le aggressioni unilaterali da parte degli Stati Uniti in Siria e in Afghanistan – afferma – sono state preparate a tavolino da questa nuova amministrazione, incurante del crimine commesso, che viola tutte le norme del diritto internazionale». Obiettivo: nient’altro che «uno show rivolto all’opinione pubblica in attesa della promessa “America First”». Dietro la propaganda di Trump, Noam Chomsky vede un «progetto selvaggio di smantellamento, passo dopo passo, dell’intera legislazione federale istituita 70 anni fa per proteggere l’intera popolazione americana dalla logica dei profitti immediati e dalla massima concentrazione del potere». Operazione abilmente nascosta dallo “sceriffo” Trump, che prova a rassicurare gli americani «con questo messaggio diretto: i brillanti risultati conseguiti dai nostri uomini del Pentagono nelle ultime otto settimane sono superiori a quanto conseguito durante gli ultimi otto anni dalla presidenza Obama». E ancora: «Siamo in grado di effettuare operazioni coraggiose. Insomma, ecco il nuovo sceriffo che dimostra di essere l’uomo forte che voi volete. E che ha dato mano libera a chi voleva intraprendere le cosiddette azioni coraggiose. Come quella di sganciare la superbomba in Afghanistan senza aver neppure idea quale territorio abbiamo distrutto, né di quanti civili abbiamo ucciso».Paradossalmente – ma non è una novità – negli Stati Uniti «l’applauso è stato univoco e totale anche da parte dei democratici, visto che in Siria il nuovo sceriffo Trump ha inviato un messaggio alla comunità internazionale per dimostrare che l’America è ancora una superpotenza che sa reagire con la nuova forza dell’“America First”». Passo dopo passo, continua Chomsky, «dietro le quinte viene approvata una legislazione che toglie ogni speranza alla popolazione americana nel rivendicare i benefici di protezione sociale ed economica istituiti 70 anni fa». Per l’insigne linguista, «è questa l’organizzazione di potere più pericolosa nella storia del mondo». Una “cupola” che, «per continuare ad avere più profitti e sempre più potere, è capace anche di usare l’arma nucleare. Sino alla distruzione dell’umanità». Secondo Chomsky, grazie al riarmo nucleare finanziato in silenzio da Obama, oggi «l’arsenale atomico statunitense ha raggiunto un livello da strategia atomica avanzata e radicale, tale da poter annientare la deterrenza dell’arsenale atomico russo». E dato che Mosca non ne è certo all’oscuro, «con l’intensificarsi della tensione diretta, specialmente nei paesi baltici ai confini della Russia», tutto questo «determina il rischio di un confronto nucleare diretto con la Russia».Se così stanno le cose, secondo Chomsky, si sono «assottigliati i margini per la sicurezza mondiale» e ci stiamo pericolosamente avvicinando a una catastrofe nucleare provocata dalla “mutual destruction”, la distruzione reciproca. Si è infatti «messa in moto una situazione in base alla quale la Russia, con l’intensificarsi delle provocazioni degli Stati Uniti, possa decidere di sferrare un “preemptive strike”», un colpo preventivo nucleare, «nella speranza di sopravvivere, dal momento in cui non ha più la capacità di un arsenale deterrente». Per Chomsky, «ci troviamo in una situazione gravissima e pericolosa», dove «il rischio è dato dalle reazioni imprevedibili di Trump», sempre più debole sul piano della politica interna, e quindi preoccupatissimo. «Un Trump che, se non sarà in grado di mantenere le promesse di cambio fatte alla “working class” a cui si è riferito in campagna elettorale (e che sarà la prima vittima della sua presidenza), prima o poi seguirà un dilagare di accuse di terrorismo islamico verso gli immigrati per giustificare misure repressive eccezionali e nuovi bandi. Prefabbricando prove di un attacco all’America, tanto da giustificare il ricorso all’arma nucleare». I missili in Siria e la superbomba Moab sganciata in Afghanistan? «Sono l’esemplificazione dell’America di Trump pronta a ritorsioni militari che superano ogni più perversa immaginazione. Un disegno politico che è prassi storica, per questo paese, sin dai tempi della Guerra Fredda».Donald Trump sa di non avere nessuna speranza di premiare i milioni di elettori che avevano creduto in lui. Per questo gioca l’ultima carta e indossa i panni dello sceriffo: per distrarre il pubblico, bombardando il mondo. Ma il gioco è pericoloso: tra una provocazione e l’altra, con il solito corredo di notizie false come le responsabilità di Assad sull’uso dei gas contro la popolazione siriana, la Russia stavolta potrebbe reagire. Mosca potrebbe sparare per prima i suoi missili a testata atomica contro l’America, prima che sia troppo tardi. Mai, nella sua storia, l’umanità ha corso un pericolo così grande. Lo afferma Noam Chomsky in un’intervista concessa al “Manifesto”, nella quale esprime la massima preoccupazione per i giorni che stiamo vivendo. La sua tesi: l’élite è semplicemente “impazzita”. E il terrore di perdere il potere può spingerla verso la catastrofe nucleare. Gli oligarchi sanno di non avere più alcuna possibilità di recuperare il consenso perduto, come dimostra il fallimento della loro ultima creazione illusionistica, Donald Trump. E allora premono sulla guerra: la vogliono davvero, come unica soluzione per mantenere il controllo totale sull’umanità.
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Medici svedesi: Siria, bambini uccisi per incastrare Assad
L’attore Gerge Clooney tace, ma sa perfettamente che i bambini di Idlib esposti in televisione non sono stati uccisi dall’esercito di Assad, e neppure dal gas Sarin (sganciato sulla Siria da droni israelo-sauditi, secondo fonti d’intelligence Usa). Quei bimbi sarebbero stati uccisi con iniziezioni letali. L’accusa, frontale, proviene da Gordon Duff, una delle firme di “Veterans Today”, il blog che dà voce alla rabbia di molti ex militari statunitensi mandati a uccidere (e morire) in Medio Oriente. «Quando arriveranno al pettine, anche per l’America, i nodi dei sensi di colpa, come fu per la guerra della Germania nazista?», si domanda Duff, che rilancia la clamorosa denuncia firmata dai medici svedesi impegnati in Siria: quei bambini visti in televisione non sono stati “uccisi da Assad”, e nemmeno dalle armi chimiche. Sarebbero stati atrocemente assassinati dai cosiddetti “Elmetti Bianchi”, per alimentare l’orrore dell’opinione pubblica attraverso la sapiente manipolazione affidata a filmati raggelanti. Siamo dunque in un film dell’orrore? «Dimostreremo oltre ogni dubbio che si tratta di una fiction organizzata dallo “Stato Profondo”, un misto tra Cia, Al-Qaeda e servizi segreti britannici: ora abbiamo la prova “sicura” che Trump e le “fake news” che arrivano dal Medio Oriente sono sempre stati in sincronia, per prendersi gioco di tutti».In un post su “Veterans Today” tradotto da “Come Don Chisciotte”, Gordon Duff accusa nientemeno che George Clooney, peraltro noto per aver finanziato – con le pubblicità “Nespresso” della Nestlè, si dice – la messa in orbita di un satellite-spia, messo a disposizione della Cia. Cloonely, sostiene Duff, «sapeva che l’organizzazione svedese “Doctors for Human Rights” aveva già detto che i “Caschi Bianchi” avevano ucciso dei bambini quando stava producendo il video-propaganda da premio Oscar». Per “Veterans Today”, si tratta un «ultimo oltraggio» alla verità. L’organizzazione svedese Swedhr, molto autorevole, accusa direttamente gli “Elmetti Bianchi” dell’uccisione di bambini, «per mettere in scena un video di propaganda». Fatti che «sarebbero stati noti sia a Clooney che a Netflix che, malgrado tutto sono andati avanti: perché?». Inoltre, sempre secondo Duff, «anche Google è coinvolta nella guerra contro questo gruppo di ricercatori svedesi e contro altri, avendo censurato i loro articoli dai suoi motori di ricerca».Un silenzio tombale che caratterizza tutti i media occidentali anche sull’operato dei “Caschi Bianchi”: vicinissimi all’Isis, continua Duff, questi “eroi” siriani riceverebbero 100 milioni di dollari l’anno dalla Cia e dal Foreign Office del Regno Unito: «Sembra che ammazzare bambini sia uno dei loro compiti, come avremo modo di dimostrare». La condivisione della loro sede con l’intelligence di Ankara a Gaziantep, inTurchia, «rende questa organizzazione, di gran lunga, più simile a uno “squadrone della morte” che ad un ente di protezione civile», continua Duff, che su “Veterans Today” esibisce svariati video nei quali gli “Swedish Doctors For Human Rights” mostrano di aver scoperto che i video degli “Elmetti Bianchi” erano stati contraffatti, fino a lasciar intuire che «il presunto “rescue” è in realtà un omicidio». Dopo accurate indagini, il team medico di Swedhr ha accertato che uno dei ragazzini esibiti dai “Caschi Bianchi” a Idlib «era privo di sensi per effetto di una overdose di oppiacei». Il video «mostra un bambino a cui viene fatta una iniezione sul petto, forse nella zona del cuore: e potrebbe essere stato ucciso mentre si fingeva di somministrargli dell’adrenalina».E’ stato un omicidio, secondo l’analisi dei medici svedesi: con “false” iniziezioni di adrenalina praticate direttamente nel cuore in base a un ipotetico protocollo di soccorso. Peccato che «in nessun modo quelli prestati al bambino sono trattamenti idonei contro danni prodotti da qualsiasi potenziale agente chimico». In più, «la gestione e il trattamento del bambino sono stati effettuati in modo imprudente, pericoloso e in condizioni da causare gravi danni». Eloquenti, sempre secondo Duff, «sono le false e ripetute punture di adrenalina, nel cuore». Il personale medico degli “Elmetti Bianchi”? «A questo punto, credo che possiamo tranquillamente chiamarli attori: non sono riusciti nemmeno a spingere il liquido dalla siringa nell’ago». La diagnosi, «effettuata da un team di veri esperti medici, sulla base di ciò che si osserva nel video», dice che il bambino, probabilmente, stava per morire di overdose: «Non c’è nessuna prova di qualsiasi altro agente, chimico o altro». Di più: «Nessuno dei bambini nei video presentava segni di essere stato vittima di un attacco chimico».Per Duff, l’analisi dei sanitari svedesi non lascia dubbi: «E’ chiaro che la falsa iniezione simulata con l’ago lungo ha assassinato il bambino nel video. E’ stato un omicidio intenzionale messo in scena per farlo sembrare un trattamento medico». Dettaglio agghiacciante: «Sotto la falsa traduzione dell’audio, l’originale in arabo dava istruzioni su come posizionare il bambino per riprenderlo nel video, non per le cure mediche». I video sono stati caricati sul canale dei “Caschi Bianchi”, intitolato “Protezione civile siriana nella provincia di Idlib” e prodotto con l’organizzazione “Coordinamento Sarmin”, «il cui logo è una bandiera nera jihadista (Al Qaeda)». A smascherare l’impostura, ora provvede la Ong svedese, presieduta dal professor Marcello Ferrada de Noli: le conclusioni dei sanitari scandinavi «sono in linea con i risultati di altri eminenti scienziati tedeschi e internazionali sulla guerra in Siria», assicura Duff, che ricorda l’impegno della Swedhr: un team di medici impegnati a monitorare «gli effetti delle atrocità di guerra sulle popolazioni civili, sulla tortura dei prigionieri e sulle trasgressioni dei diritti umani». A differenza di altre Ong, quella di Stoccolma «non è sponsorizzata né finanziata da istituzioni governative svedesi». Domanda retorica: le conclusioni dei sanitari nord-europei riusciranno a bucare il muro di silenzio dei media mainstream?L’attore Geroge Clooney tace, ma sa perfettamente che i bambini di Idlib esposti in televisione non sono stati uccisi dall’esercito di Assad, e neppure dal gas Sarin (sganciato sulla Siria da droni israelo-sauditi, secondo fonti d’intelligence Usa). Quei bimbi sarebbero stati uccisi con iniziezioni letali. L’accusa, frontale, proviene da Gordon Duff, una delle firme di “Veterans Today”, il blog che dà voce alla rabbia di molti ex militari statunitensi mandati a uccidere (e morire) in Medio Oriente. «Quando arriveranno al pettine, anche per l’America, i nodi dei sensi di colpa, come fu per la guerra della Germania nazista?», si domanda Duff, che rilancia la clamorosa denuncia firmata dai medici svedesi impegnati in Siria: quei bambini visti in televisione non sono stati “uccisi da Assad”, e nemmeno dalle armi chimiche. Sarebbero stati atrocemente assassinati dai cosiddetti “Elmetti Bianchi”, per alimentare lo choc dell’opinione pubblica attraverso la sapiente manipolazione affidata a filmati raggelanti. Siamo dunque in un film dell’orrore? «Dimostreremo oltre ogni dubbio che si tratta di una fiction organizzata dallo “Stato Profondo”, un misto tra Cia, Al-Qaeda e servizi segreti britannici: ora abbiamo la prova “sicura” che Trump e le “fake news” che arrivano dal Medio Oriente sono sempre stati in sincronia, per prendersi gioco di tutti».
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Fonti Usa: Siria, l’attacco coi gas è opera di Israele e sauditi
Il giornalista pluripremiato che indagò sul caso Iran-Contra, Robert Parry, sostiene che l’attacco con armi chimiche in Siria sia stato lanciato da una base congiunta saudita-israeliana per le operazioni speciali situata in Giordania, secondo quanto gli hanno riferito le sue fonti di intelligence. Gli analisti dei servizi segreti Usa hanno stabilito che un drone è stato responsabile dell’attacco e «alla fine sono giunti a ritenere che il volo sia stato lanciato in Giordania da una base per operazioni speciali saudita-israeliana a sostegno dei ribelli siriani», secondo la fonte. «La ragione sospettata per l’uso del gas velenoso era quella di creare un incidente che avrebbe rovesciato l’annuncio dell’amministrazione Trump di fine marzo sul fatto che non stesse più cercando la rimozione del presidente Bashar al-Assad», scrive Parry. Come evidenziammo già nel 2013, dopo un altro attacco con armi chimiche presso Al-Ghouta che venne attribuito ad Assad, i ribelli ammisero spontaneamente al corrispondente della “Associated Press” Dale Gavlak che erano stati riforniti delle armi dall’Arabia Saudita, ma avevano «maneggiato le armi in modo improprio e fatto partire le esplosioni».Il retroterra professionale di Parry conferisce credibilità alle informazioni. A suo tempo aveva dato copertura informativa allo scandalo Iran-Contra per l’“Associated Press” e per il settimanale “Newsweek” e successivamente fu insignito del premio George Polk per il suo lavoro sulle questioni di intelligence. La tesi secondo cui l’incidente ha costituito un’operazione “false flag” intesa a creare una giustificazione per degli attacchi aerei è stata ventilata anche dall’ex parlamentare Ron Paul così come da numerose altre voci di spicco, compreso lo stesso Vladimir Putin, che ha continuato a mettere in guardia sul fatto che i ribelli potrebbero ora mettere in scena un incidente simile a Damasco per pungolare gli Stati Uniti al rovesciamento di Assad. A chiunque si attribuisca la responsabilità dell’attacco, ciò non toglie nulla all’orrore di questo evento e al fatto che persone innocenti e bambini siano morti. Nel riscontrare quanto sia pesante nelle asserzioni ma priva di prove vere e proprie, Parry ha respinto la relazione di quattro pagine pubblicata dal Consiglio di Sicurezza Nazionale e diffusa dal presidente Trump, che accusa il governo siriano per l’attacco chimico.Il libro bianco afferma che «non possiamo rilasciare pubblicamente tutte le notizie di intelligence disponibili su questo attacco a causa della necessità di proteggere fonti e metodi», anche se, come sottolinea Parry, «in situazioni altrettanto tese in passato, i presidenti Usa hanno rilasciato dati sensibili di intelligence per dare man forte alle asserzioni del governo Usa, tra cui la divulgazione dei voli di spionaggio U-2 da parte di John F. Kennedy nel corso della crisi missilistica cubana del 1962 e la rivelazione di Ronald Reagan sulle intercettazioni elettroniche dopo l’abbattimento sovietico del volo 007 della Korean Airlines nel 1983». Parry ha sfidato l’amministrazione Trump a rendere le sue prove disponibili pubblicamente, ma ha anche chiesto lumi sul motivo per cui sia il direttore della Cia, Mike Pompeo, sia il direttore della National Intelligence, Dan Coats, non apparivano in una foto rilasciata dalla Casa Bianca, che mostra il presidente e una dozzina dei suoi consiglieri monitorare l’attacco missilistico del 6 aprile da una stanza nella sua tenuta di Mar-a-Lago in Florida. «Data la casistica sporadica in cui dal presidente Trump si ottengono i fatti correttamente, lui e la sua amministrazione dovrebbero fare uno sforzo in più per presentare prove inconfutabili a sostegno delle sue valutazioni, non solo insistendo sul fatto che il mondo deve “fidarsi di noi”», conclude Parry.(Paul Joseph Watson, “Fonti intelligence Usa: l’attacco chimico in Siria partito da base saudita”, da “Infowars” del 13 aprile 2017, tradotto e ripreso da “Megachip”).Il giornalista pluripremiato che indagò sul caso Iran-Contra, Robert Parry, sostiene che l’attacco con armi chimiche in Siria sia stato lanciato da una base congiunta saudita-israeliana per le operazioni speciali situata in Giordania, secondo quanto gli hanno riferito le sue fonti di intelligence. Gli analisti dei servizi segreti Usa hanno stabilito che un drone è stato responsabile dell’attacco e «alla fine sono giunti a ritenere che il volo sia stato lanciato in Giordania da una base per operazioni speciali saudita-israeliana a sostegno dei ribelli siriani», secondo la fonte. «La ragione sospettata per l’uso del gas velenoso era quella di creare un incidente che avrebbe rovesciato l’annuncio dell’amministrazione Trump di fine marzo sul fatto che non stesse più cercando la rimozione del presidente Bashar al-Assad», scrive Parry. Come evidenziammo già nel 2013, dopo un altro attacco con armi chimiche presso Al-Ghouta che venne attribuito ad Assad, i ribelli ammisero spontaneamente al corrispondente della “Associated Press” Dale Gavlak che erano stati riforniti delle armi dall’Arabia Saudita, ma avevano «maneggiato le armi in modo improprio e fatto partire le esplosioni».
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Conflitto mondiale in arrivo? Meyssan: no, è solo teatro
E’ ufficiale: non si capisce più niente, della pericolosa tensione che sta scuotendo il mondo, con epicentro – tanto per cambiare – il Medio Oriente. Sul “Giornale”, Marcello Foa si allarma seriamente: Donald Trump avrebbe appena mobilitato 150.000 riservisti: «Per fare cosa? Un attacco in grande stile alla Siria? Colpire prima Damasco e poi Teheran? In Corea del Nord? Purtroppo la sciagurata svolta di Donald Trump – che si è arreso ai neoconservatori facendo propria l’agenda strategica che in campagna elettorale aveva promesso di combattere – autorizza qualunque ipotesi. Anche quella più drammatica e sconvolgente di una guerra alla Russia di Putin». Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, offre (da mesi) una lettura diversa: quella di Trump, «membro della cordata anti-Bush», sarebbe sempre stata soltanto una tragica farsa, che rivela la guerra interna, ai piani alti, tra gli oligarchi del pianeta: «Sanno che le risorse energetiche stanno finendo, quindi sgomitano per conquistarsi un posto in prima fila da cui sperano di attuare un Piano-B, ciascuno il suo». E, a proposito di “teatro”, dalla Siria un reporter come Thierry Meyssan avverte: l’offensiva anti-siriana, e quindi anti-russa, è solo apparente, affidata a missili “di cartone”, appositamente fuori bersaglio.Se sul suolo siriano sono potuti cadere 59 Tomahawk, scrive Meyssan su “Megachip”, è solo perché Mosca ha “spento” le batterie degli S-400, i suoi missili anti-missile, consentendo cioè a Trump di compiere la sua “performance teatrale”, che rappresenta un disperato tentativo di recuperare consenso interno, dopo i recenti rovesci. Non la pensa così Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan, che – in campagna elettorale – difese la dignità delle istanze di Trump (la distensione con la Russia) denunciando il bellicismo “politically correct” della Clinton, strumento dei “falchi” neocon. Per Craig Roberts, quella di Trump non è cosmesi tattica: si tratta di una svolta vera e propria, che dimostrerebbe la resa del neopresidente all’establishment di Washington, quello che lavora per il “regime change” anche a Mosca, dove spera di rovesciare Putin, che è sotto assedio da anni: la guerra in Siria, quella in Ucraina, le sanzioni alla Russia. Meyssan, al contrario, sostiene che la partita non è ancora chiusa: le «troppe, strane incongruenze» dell’affaire siriano dimostrerebbero che il gruppo di Trump, sottobanco, sta giocando una sfida doppia: cercare di tener buoni i neocon, con concessioni di facciata per salvare la sua poltrona (e forse la sua stessa vita), e sparigliare le carte mettendo in crisi, alla fine, il “partito dell’Isis”, che ha il cervello a Washington e i tentacoli in Medio Oriente.Secondo Meyssan, Trump non ha «improvvisamente cambiato bandiera». Al contrario, asarebbe in corso una complessa pretattica. Lo dimostrerebbero svariati indizi. Tanto per cominciare, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’argomento di un attacco chimico perpetrato da Damasco non era sostenuto dal rappresentante del segretario generale, che infatti ha sottolineto «l’impossibilità, in questa fase, di sapere come questo attacco avrebbe potuto aver luogo». L’unica fonte sono gli “Elmetti Bianchi”, «vale a dire un gruppo di Al Qaeda a cui l’M16 britannico sovrintende ai fini della sua propaganda». Inoltre, aggiunge Meyssan, «tutti gli esperti militari sottolineano che i gas da combattimento devono essere dispersi tramite tiri d’obice e mai, assolutamente mai, tramite bombardamenti aerei». L’attacco americano alla base siriana? «Si è caratterizzato per la sua brutalità apparente: i 59 missili Bgm-109 Tomahawk avevano una capacità combinata equivalente a quasi il doppio della bomba atomica di Hiroshima. Tuttavia, l’attacco è stato anche caratterizzato dalla sua inefficienza: sebbene vi siano stati dei martiri caduti nel tentativo di spegnere un incendio, i danni sono risultati essere così poco importanti che la base funzionava nuovamente già all’indomani».Per Meyssan, è inevitabile constatare sia il fatto questa operazione «è solo una messa in scena: in questo caso, possiamo capire meglio il fatto che la difesa aerea russa non abbia reagito». Ciò implica che «i missili anti-missile S-400, il cui funzionamento è automatico, sono stati disattivati volontariamente in anticipo». Motivazione? «Tutto è accaduto come se la Casa Bianca avesse immaginato uno stratagemma inteso a condurre i suoi alleati in una guerra contro gli utilizzatori di armi chimiche, vale a dire contro i jihadisti. Infatti, fino ad oggi, secondo le Nazioni Unite, i soli casi documentati di uso di tali armi in Siria e in Iraq sono stati attribuiti a loro». Nel corso degli ultimi tre mesi, continua Meyssan, gli Stati Uniti hanno rotto con la politica del repubblicano George Bush Jr. (che firmò la dichiarazione di guerra del “Syrian Accountablity Act”) e di Barack Obama (che sostenne le “primavere arabe”, ossia la riedizione della “Grande rivolta araba del 1916”, organizzata dai britannici). «Tuttavia – aggiunge Meyssan – Donald Trump non era riuscito a convincere i suoi alleati, in particolare tedeschi, britannici e francesi». E ora, «saltando su quel che sembra essere un cambiamento radicale nella politica Usa, Londra ha fatto molte dichiarazioni contro la Siria, la Russia e l’Iran. E il suo ministro degli esteri, Boris Johnson, ha cancellato la sua visita a Mosca».Ma attenzione, ragiona Meyssan: «Se Washington ha cambiato la sua politica, per quale motivo il segretario di Stato Rex Tillerson ha tuttavia confermato la sua visita a Mosca? E perché dunque il presidente Xi Jinping, che si trovava a essere ospite del suo omologo statunitense durante il bombardamento di Chayrat, ha reagito in modo così molle, laddove il suo paese ha fatto uso per ben 6 volte del suo diritto di veto al fine di proteggere la Siria al Consiglio di sicurezza?». Non solo. «In mezzo a questo unanimismo oratorio e a queste incongruenze di fatto – osserva Meyssan – il vice consigliere del presidente Trump, Sebastian Gorka, moltiplica i messaggi che vanno in direzione contraria. Assicura che la Casa Bianca considera sempre il presidente Assad come legittimo e i jihadisti come il nemico». Gorka, spiega Meyssan, «è uno stretto amico del generale Michael T. Flynn che aveva concepito il piano di Trump contro i jihadisti in generale e Daesh in particolare». Come dire: non fatevi incantare dal “teatro” in corso: la verità è molto lontana dalla versione che campeggia nelle prime pagine. All’Onu, la Bolivia ha persino formulato il sospetto che l’attacco coi gas, in Siria, non sia neppure avvenuto. Tempo fa, la Russia esibì la sua potenza missilistica con il lancio di missili Kalibr, supersonici e “invisibili”: partiti da navi nel remoto Mar Caspio, centrarono al millimero tutti gli obiettivi. Il 7 aprile, dal vicinissimo Mediterraneo, gli Usa hanno sparato 59 Tomahawk su una base aerea, senza nemmeno danneggiarne la pista. Strano, no?E’ ufficiale: non si capisce più niente, della pericolosa tensione che sta scuotendo il mondo, con epicentro – tanto per cambiare – il Medio Oriente. Sul “Giornale”, Marcello Foa si allarma seriamente: Donald Trump avrebbe appena mobilitato 150.000 riservisti: «Per fare cosa? Un attacco in grande stile alla Siria? Colpire prima Damasco e poi Teheran? In Corea del Nord? Purtroppo la sciagurata svolta di Donald Trump – che si è arreso ai neoconservatori facendo propria l’agenda strategica che in campagna elettorale aveva promesso di combattere – autorizza qualunque ipotesi. Anche quella più drammatica e sconvolgente di una guerra alla Russia di Putin». Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, offre (da mesi) una lettura diversa: quella di Trump, «membro della cordata anti-Bush», sarebbe sempre stata soltanto una tragica farsa, che rivela la guerra interna, ai piani alti, tra gli oligarchi del pianeta: «Sanno che le risorse energetiche stanno finendo, quindi sgomitano per conquistarsi un posto in prima fila da cui sperano di attuare un Piano-B, ciascuno il suo». E, a proposito di “teatro”, dalla Siria un reporter come Thierry Meyssan avverte: l’offensiva anti-siriana, e quindi anti-russa, è solo apparente, affidata a missili “di cartone”, appositamente fuori bersaglio.
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Buoni e Cattivi, la fiaba della guerra per il Fatto Quotidiano
«Uno spettro si aggira in Medio Oriente. E’ quello della tentazione. La tentazione, cioè, della guerra. Non più “prove di Terza Guerra Mondiale”, come è stato detto. Lo scenario è drammatico, i primi a capirlo sono i mercati finanziari che infatti hanno cominciato a soffrire». A scrivere è Leonardo Coen, sul “Fatto Quotidiano”, all’indomani del raid missilistico ordinato da Trump sulla base area siriana da cui, secondo gli Usa, sarebbero decollati aerei con bombe al gas Sarin destinate a far strage della popolazione di Idlib. Non ci sono ancora prove certe: per il “Fatto Quotidiano” non è importante? Poi, continua Coen, «ad inquietare e ricordare come certe situazioni di oggi assomiglino molto all’inanità del 1938 verso Hitler e alle sue mire d’espansione, c’è il silenzio di Cina ed Europa, che sembrano convitati di pietra». Suggestivo parallelismo: il giornalista del “Fatto” paragona nientemeno che Adolf Hitler, fondatore del nazismo e capo dell’allora maggior potenza militare europea, al presidente di un piccolo paese mediorientale come la Siria, che – come è a tutti noto (tranne che al “Fatto Quotidiano”?) – da cinque anni tenta di sopravvivere all’assalto di sanguinarie milizie terroriste finanziate e protette dall’Occidente.Cina ed Europa, i “convitati di pietra”, secondo Coen «si accontentano di formali condanne appellandosi ai diritti umani». Mosca e Washington? «Per ora si confrontano, ma ancora non si affrontano. Non possono. E’ un braccio di ferro troppo rischioso. E forse, sia per gli Stati Uniti, sia per la Russia, è venuto il tempo di liquidare il dittatore di Damasco e il suo regime criminale». Voilà: il presidente (eletto) diventa “dittatore”, naturalmente a capo di un “regime criminale”: nulla a che vedere con gli altri regimi, amici dell’Occidente, notoriamente campioni in tema di diritti umani: Giordania, Arabia Saudita, Qatar, Turchia e via inorridendo. Ma forse non è il caso di ricordarlo ai lettori del “Fatto”. Meglio il perfido Bashar Assad, che «per la Russia, è un alleato che la scredita e la impiomba». E per l’America, è «l’occasione buona per ricollocarsi in Medio Oriente, e dimostrare che non si è abbassata la guardia». Ricollocarsi in Medio Oriente? Viene da chiedersi dove fosse, Leonardo Coen, quando si scatenavano le “rivoluzioni colorate” in tutti i paesi arabi dopo lo storico discorso di Obama al Cairo. Dov’era, Coen, quando gli americani spianavano la Libia e facevano scannare Gheddafi? Non l’hanno vista, alla redazione del “Fatto”, la foto-ricordo di John McCain in Siria, in intimità con il “califfo” Al-Baghdadi?La narrazione che il “Fatto” offre in questo caso sembra di tipo lunare, genere fantasy. «Così, Trump minaccia. E agisce. Putin minaccia, ma non può agire. Entrambi, giocano una mano di poker: per capire chi bluffa di più. Il magnate americano rischia il salto nel buio. Putin sventola il pericolo del suo “ombrello” militare in Siria. La flotta del Mar Nero è in preallarme. Quella del Baltico, pure. I missili di Kaliningrad, l’enclave russa tra Polonia e Lituania – cioè in piena Unione Europea – sono puntati sulle capitali del Vecchio Continente. L’Alleanza Atlantica è già in allerta». E’ tutto vero, naturalmente. Ma è come spiegare la pioggia senza citare le nuvole. Primo round: nel 2013 gli Usa cercano di far cadere Assad per poter poi minacciare direttamente l’Iran, ma Putin glielo impedisce schierando la flotta russa a difesa della Siria. Secondo round: Washington “risponde” organizzando il golpe in Ucraina con l’intento di sfrattare Mosca dal Mar Nero, ma – di nuovo – Putin riesce a tenersi la Crimea. Terzo round: furioso per le sconfitte a catena, Obama dispone un mostruoso dispiegamento militare in Est Europa a ridosso della frontiera russa, senza precedenti nella storia recente. Al che, ai russi non resta – come contromossa difensiva – che la base missilistica di Kalilingrad. Missili russi puntati sull’Europa? Mai quanto quelli che l’America ha puntato contro la Russia, trasformando la Romania in una rampa di lancio. Possibile che ai lettori del “Fatto” non interessi?«In verità», continua Coen, «Trump ha riscoperto – o meglio, il Pentagono – il ruolo di gendarme globale degli Stati Uniti». Trump, il Pentagono: i Buoni. E Putin, il Cattivo? «E’ rimasto platealmente vittima delle sue ambizioni imperiali», scrive Coen, come se, evidentemente, le uniche “ambizioni imperiali” ammissibili – e davvero imperiali, lontane mille miglia dalle proprie frontiere – fossero quelle americane. Il presidente russo è rimasto addirittura «invischiato nelle complesse trame che ha tessuto per riassegnare al suo paese il ruolo di superpotenza perduto dopo la caduta del Muro di Berlino e lo sbriciolamento dell’Unione Sovietica». Non si premura di rammentare ai suoi lettori, il giornalista del “Fatto”, che – prima di mettere il naso fuori dalla Russia – Putin ha dovuto innanzitutto spegnere l’incendio della Cecenia, acceso dalla Cia, e poi quello dell’Ossezia del Sud, devastata dalla Georgia su mandato di George W. Bush. Due focolai micidiali: uno nella Federazione Russa, l’altro sulla porta di casa. Succedeva nel 2008: non così tanto tempo fa, specie se si hanno a cuore le fatali vicende del lontano 1938.“Il Fatto”, però, non è prodigo di spiegazioni. Sembra preferire il racconto lineare, unilaterale e semplificato, rassicurante. «In apparenza, dunque, l’imprevedibile Donald ha cambiato di colpo tattica nei confronti dell’amico Vladimir. E ha ritirato la mano tesa, che tanto aveva turbato i sonni dei patrioti Usa». I missili di Trump, continua Coen, «hanno sparigliato le carte della grande partita internazionale: il mondo si è diviso in due, come ai tempi della Guerra Fredda. “Sostegno totale” degli alleati degli Stati Uniti. Condanna dei suoi avversari. Le cancellerie hanno rispolverato il lessico dei blocchi contrapposti». Leonardo Coen sembra pefettamente al corrente dell’accaduto: «Assad, insistono i russi, è innocente (per forza: sono loro che l’armano e lo proteggono). I gas, una balla. I russi negano l’evidenza e le testimonianze: tutto il mondo ha visto gli effetti del gas. E questo li ha moralmente isolati». Ecco, infatti: tutto il mondo ha visto gli effetti dei gas, ma nessuno al mondo, per ora, può provare che li abbia sganciati Assad. Solo che, a quanto pare, l’identità del vero killer non è importante. Nemmeno se, come già accadde nel 2013, poi si scoprisse che l’assassino non è “il dittatore”, ma i suoi avversari?«Certo – concede Coen – la politica e la guerra se ne fregano dell’etica e della morale. Ma al tempo dell’informazione istantanea e globale, la menzogna tanto può essere utile – vedi in caso di elezioni – quanto può diventare micidiale, con le immagini cruente ed atroci dei bimbi sarinizzati». Vero, anche questo: tutto dipende però da chi la impugna, “la menzogna”. Quanto al «nuovo repentino cambio d’atteggiamento di Trump», anche su questo Leonardo Coen ha le idee chiarissime: il presidente americano «ha dovuto arrendersi allo stato delle cose: gli interessi geopolitici Usa non collimano con quelli russi». Perlomeno, «non fin quando al Cremlino ci sarà il clan putiniano, nemico della libertà d’opinione, e il potere resterà saldo in mano agli ex uomini del Kgb». E così l’album dei Cattivi è al completo. E se i russi – quasi 150 milioni di persone – sostengono all’85% un capoclan del Kgb, significa semplicemente che sono cretini? Centocinquanta milioni di cretini?Ma non è tutto: Coen informa i suoi lettori che «Trump ha cozzato contro il mondo reale: quello dei fatti, non delle verità truccate dal suo guru Stephen Bannon, ed ex direttore del sito dell’ultradestra suprematista Breitbart News, messo (finalmente) in un angolo». Bannon, altro membro d’onore del club dei Cattivi, era – per inciso – lo stratega della distensione con Mosca: via lui, infatti, ecco i missili (buoni, ovviamente). Ma, “sistemato” Bannon, l’offensiva (giornalistica) nei confronti di Putin non è ancora esaurita: «Pensava di essere il più astuto del reame, di poter contare per quel che riguardava la Siria di una certa libertà di manovra, forte anche del fatto che in Occidente c’erano movimenti estremisti anti-Ue a lui favorevoli. Invece – scrive Coen – è rimasto intrappolato dalla sua sicumera». Ben gli sta: «I gas che hanno ammazzato decine di bimbi a Khan Sheikhoun hanno dissipato in pochi minuti il paziente lavorìo militare e diplomatico del presidente russo». Non solo: «Persino il nuovo alleato turco Erdogan lo ha clamorosamente contraddetto, invocando addirittura la collera di Allah per l’ignobile azione attribuita ad Assad, o a qualche suo generale, il che non cambia la sostanza». Erdogan, cioè la Turchia (Nato) che ha protetto l’Isis nell’invasione della Siria: nemmeno questo ai lettori interessa?In più, Coen esibisce altre granitiche certezze sul bombardamento con i gas: «Gli americani avevano acquisito le prove – stavolta non inventate da Bush e Blair come al tempo della guerra in Iraq ma documentate dai satelliti – che l’attacco chimico proveniva da un aereo siriano». Le prove, ecco: ma dove sono? Ok, le hanno “acquisite gli americani”. Come le altre volte, in Siria e in Iraq? No, stavolta sono prove vere, “documentate dai satelliti”. Garantisce il “Fatto Quotidiano”. Che si diverte, ancora, a spese di Putin: mentre i Buoni “acquisivano le prove”, dunque, «lo zar si affannava a dire che si trattava di “fake news”, di balle». Chiosa Coen: «Beffardo contrappasso, l’ex tenente colonnello del Kgb che denuncia la disinformatija americana…». E ancora: «Assad è il responsabile di tutto ciò». Chi lo sostiene? Lo dicono «all’unisono» Hollande e la Merkel. Una garanzia: Hollande ha silenziato le indagini su Charlie Hebdo imponendo il segreto militare, dopo che erano emersi collegamenti tra il commando dell’Isis e i servizi francesi, mentre la Merkel, risultata coinvolta nel golpe neonazista di Kiev, ha approvato il piano Obama per militarizzare le frontiere europee con la Russia.«I missili Usa – scrive ancora Coen – sono “un avvertimento”, e pure una forma di “condanna” del “regime criminale” di Assad». La situazione: «Con Washington stanno Arabia Saudita e Giappone, Israele offre il suo “totale” sostegno, sperando che “questo messaggio forte” possa essere inteso da Teheran e da Pyongyang, ha dichiarato il premier Benyamin Netanyahu», campione del mondo in carica riguardo all’uso di armi di distruzione di massa sulla popolazione civile, il fosforo bianco sganciato su Gaza (oltre 1.300 morti, secondo l’Onu, inclusi donne e bambini). E la Turchia, cioè la base logistica settentrionale dell’operazione-Isis contro Damasco? «Ankara vorrebbe una zona “d’esclusione aerea” in Siria, considera che i missili siano stati una buona medicina». Meglio tornare al lessico calcistico: «Il Pentagono ha battuto il Cremlino? La “punizione” americana per la strage provocata dall’attacco chimico che ha un valore soprattutto dimostrativo, trova consenso nella pubblica opinione statunitense e anche in quella mondiale, scossa dall’atrocità del tiranno di Damasco. Assad si è scavato la fossa». Vinceranno i Buoni, è ovvio. E buonanotte, a tutti i lettori. Sogni d’oro.«Uno spettro si aggira in Medio Oriente. E’ quello della tentazione. La tentazione, cioè, della guerra. Non più “prove di Terza Guerra Mondiale”, come è stato detto. Lo scenario è drammatico, i primi a capirlo sono i mercati finanziari che infatti hanno cominciato a soffrire». A scrivere è Leonardo Coen, sul “Fatto Quotidiano”, all’indomani del raid missilistico ordinato da Trump sulla base area siriana da cui, secondo gli Usa, sarebbero decollati aerei con bombe al gas Sarin destinate a far strage della popolazione di Idlib. Non ci sono ancora prove certe: per il “Fatto Quotidiano” non è importante? Poi, continua Coen, «ad inquietare e ricordare come certe situazioni di oggi assomiglino molto all’inanità del 1938 verso Hitler e alle sue mire d’espansione, c’è il silenzio di Cina ed Europa, che sembrano convitati di pietra». Suggestivo parallelismo: il giornalista del “Fatto” paragona nientemeno che Adolf Hitler, fondatore del nazismo e capo dell’allora maggior potenza militare europea, al presidente di un piccolo paese mediorientale come la Siria, che – come è a tutti noto (tranne che al “Fatto Quotidiano”?) – da cinque anni tenta di sopravvivere all’assalto di sanguinarie milizie terroriste finanziate e protette dall’Occidente.
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Craig Roberts: Trump si è arreso, il prossimo sarà Putin?
«Trump si è arreso. Il prossimo sarà Putin?». Se lo domanda Paul Craig Roberts, uno dei più autorevoli osservatori indipendenti della scena internazionale, all’indomani del raid missilistico sulla Siria ordinato dal capo della Casa Bianca senza prima acquisire prove sulle responsabilità di Assad nell’attacco a Idlib con il gas Sarin. «L’establishment di Washington ha ripreso il controllo», scrive sul suo blog l’ex viceministro di Ronald Reagan. «Prima Flynn e ora Bannon», via le “colombe” che avevano trainato la campagna elettorale di Trump, lasciando intravedere il disgelo col resto del mondo. «Tutto ciò che hanno lasciato nell’amministrazione Trump – afferma Roberts – sono i sionisti e i generali impazziti che vogliono la guerra con la Russia, la Cina, l’Iran, la Siria e la Corea del Nord. E non c’è nessuno, alla Casa Bianca, capace di fermarli». Questo è il «bacio d’addio alla normalizzazione delle relazioni con la Russia: il conflitto siriano è impostato per essere riaperto». Incidente gravissimo, strategico: data «l’assenza di qualsiasi prova» sulle responsabilità di Assad, «è del tutto evidente che l’attacco chimico è un evento orchestrato da Washington».Il segretario di Stato americano Rex Tillerson ha messo in guardia la Russia: è scattata l’operazione per rimuovere Assad, e purtroppo Trump è d’accordo, continua Craig Roberts. Conseguenza: «La rimozione di Assad permette a Washington di imporre un altro burattino americano su popoli musulmani». Obiettivo sostanziale:«Rimuovere un altro governo arabo con una politica indipendente da Washington, per eliminare un altro governo che si oppone al furto di Israele della Palestina». Per Tillerson, storico patron della Exxon, far cadere il governo siriano significa anche «tagliare il gas russo destinato all’Europa con un gasdotto controllato degli Stati Uniti, che dal Qatar raggiunga l’Europa attraverso la Siria». Brutte notizie per Mosca, che – combattendo seriamente contro l’Isis – sperava davvero, con Trump, di raggiungere una partnership con Washington attraverso uno sforzo comune contro il terrorismo. Speranze che Craig Roberts oggi definisce «del tutto irrealistiche». Un’idea addirittura «ridicola», visto che «il terrorismo è l’arma di Washington». Un’accusa frontale, dunque: sono gli Usa i mandanti diretti dell’Isis, accusa l’ex stratega di Reagan.Una volta messa fuori gioco la Russia, continua Craig Roberts, «il terrorismo verrà poi diretto contro l’Iran su larga scala». E quando l’Iran dovesse a sua volta cadere, sempre il terrorismo “amico” della Cia, quello che oggi è targato Isis, «inizierà a lavorare sulla Federazione Russa e con la provincia cinese che confina con il Kazakhstan». Possibile? Senz’altro: «Washington ha già dato alla Russia un assaggio del terrorismo sostenuto dagli Usa in Cecenia. E il più è deve ancora arrivare». Craig Roberts rimprovera ai russi una sorta di fatale ingenuità: speravano, davvero in Donald Trump. Per questo, sostiene, hanno evitato di stravincere, dopo aver conquistato il cruciale ovest della Siria, paese che oggi è invece, ancora, a rischio di spartizione, dopo la brutale defenestrazione di Assad. I russi, «ipnotizzati dal sogno di cooperare con Washington, hanno messo la Siria (e se stessi) in una posizione difficile». Avevano «sorpreso il mondo», accettando di difendere la Siria dall’Isis, e allora «Washington era impotente». In pochi mesi, l’intervento russo ha sbaragliato l’Isis. «Poi, all’improvviso, Putin si è fermato: ha annunciato il ritiro, affermando, come Bush sulla portaerei: missione compiuta».Ma la missione non era compiuta, sottolinea Craig Roberts: la Russia è stata costretta a tornare in campo, «nella vana convinzione che Washington si sarebbe messa finalmente a collaborare con la Russia per eliminare l’ultima roccaforte Isis». Al contrario, invece, «gli Stati Uniti hanno inviato forze militari per bloccare i progressi russi sulla scena siriana». Il ministro degli esteri Lavrov ha protestato, ma – ancora una volta – la Russia «non ha usato il suo potere superiore sulla scena per battere le forze americane e portare a termine il conflitto». Ora Washington dà “avvertimenti” a Mosca, a suon di missili: riuscirà il Cremlino a capire che può scordarsi ogni cooperazione e, semmai, prenotarsi per un ruolo di vassallo? Si avvicina una trappola pericolosa, continua Craig Roberts: «La Russia non permetterà a Washington di rimuovere Assad», ma a Mosca esiste una “quinta colonna” «che è alleata con l’Occidente». Per Putin e l’indipendenza della Russia come potenza sovrana, si tratta del pericolo più insidioso, tale da metter fine al ruolo di Mosca come attore euroasiatico capace di imporre stabilità geopolitica, a cavallo dei due continenti.Collaboratori infedeli: spesso si è accennato, in quei termini, al gruppo che fa capo all’ex presidente Dmitrij Medvedev. Questa “quinta colonna”, sostiene Craig Roberts, «insisterà dicendo che la Russia potrà finalmente ottenere la collaborazione di Washington solo se “sacrificherà” Assad». Sarebbe un suicidio: l’acquiescenza di Putin «distruggerebbe l’immagine del potere russo», e sarebbe utilizzata «per privare la Russia di valuta estera dalle vendite di gas naturale verso l’Europa». Putin ha detto che la Russia non può fidarsi di Washington? «Si tratta di una deduzione corretta dai fatti», conclude Craig Roberts. E quindi, perché mai la Russia dovrebbe cedere, in cambio del miraggio della mitica cooperazione con Washington, cioè con il potere che sostiene sottobanco i terroristi dell’Isis? «La cooperazione ha un solo significato: significa arrendersi a Washington». Per il grande analista americano, Putin ha “ripulito” la Russia solo in parte: «Il paese rimane pieno di agenti americani, ed è straordinario vedere quanto poco, i media russi, capiscono il pericolo nel quale la Russia si trova». E dunque: «Sarà Putin il prossimo a cadere vittima dell’establishment di Washington, come è appena accaduto a Trump?».«Trump si è arreso. Il prossimo sarà Putin?». Se lo domanda Paul Craig Roberts, uno dei più autorevoli osservatori indipendenti della scena internazionale, all’indomani del raid missilistico sulla Siria ordinato dal capo della Casa Bianca senza prima acquisire prove sulle responsabilità di Assad nell’attacco a Idlib con il gas Sarin. «L’establishment di Washington ha ripreso il controllo», scrive sul suo blog l’ex viceministro di Ronald Reagan. «Prima Flynn e ora Bannon», via le “colombe” che avevano trainato la campagna elettorale di Trump, lasciando intravedere il disgelo col resto del mondo. «Tutto ciò che hanno lasciato nell’amministrazione Trump – afferma Roberts – sono i sionisti e i generali impazziti che vogliono la guerra con la Russia, la Cina, l’Iran, la Siria e la Corea del Nord. E non c’è nessuno, alla Casa Bianca, capace di fermarli». Questo è il «bacio d’addio alla normalizzazione delle relazioni con la Russia: il conflitto siriano è impostato per essere riaperto». Incidente gravissimo, strategico: data «l’assenza di qualsiasi prova» sulle responsabilità di Assad, «è del tutto evidente che l’attacco chimico è un evento orchestrato da Washington».