Archivio del Tag ‘banche’
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Ma questa Europa non è affatto annoiata: è disperata
«Se l’Europa facesse un selfie, mostrerebbe il volto della noia», dice Renzi al Parlamento Europeo. Noia? «No, il volto di paesi come la Grecia, il Portogallo, la Spagna e la stessa Italia non è annoiato, è disperato», protesta il “Keynes Blog”. «L’Europa attuale non è un sogno, men che meno ha un’anima. E’ un insieme di regole – quelle che Renzi non vuole cambiare – basate su una teoria economica che si è dimostrata palesemente incapace non solo di prevedere, ma anche di guarire la crisi iniziata nel 2008». Il tutto – regole e istituzioni – è «orientato a garantire i paesi creditori e bastonare quelli debitori». Aggiunge il blog: non stiamo camminando lentamente, stiamo tornando indietro. «La “generazione Erasmus” (ora ribattezzata “generazione Telemaco”) di cui Renzi si sente parte, è la più colpita, con tassi di disoccupazione oltre ogni soglia di tollerabilità: stiamo distruggendo capitale fisico e umano, ponendo le basi perché la crescita non ritorni in tempo utile affinché questa generazione possa goderne».Si è antitaliani se si afferma che il discorso di Renzi al Parlamento Europeo è «una montata di fumo a manovella», fatta solo per cercare facile consenso? Anche la confusa metafora di Telemaco, dice Giorgio Cremaschi su “Micromega”, resta sospesa a mezz’aria. La storia del figlio di Ulisse che aiuta il padre a sterminare gli usurpatori di Itaca e liberare Penelope la sanno anche gli studenti delle medie, ma chi sono i Proci per Renzi? «Non lo sapremo mai, perché tutta la sua comunicazione politica si fonda sulla allusione», lasciando le conclusioni al pubblico, per tenersi le mani «libere di continuare a fare quel che si è sempre fatto». Renzi allude a un’Europa «diversa da quella che con le politiche di austerità ha prodotto 40 milioni di disoccupati», ma quando si va sul concreto «l’unica affermazione chiara è che l’Italia rispetterà tutti i micidiali vincoli del Fiscal Compact, dei patti di stabilità, del rigore», e andrà avanti con le micidiali “riforme strutturali” raccomandate dall’oligarchia neoliberista, ovvero «flessibilità del lavoro, bassi salari, privatizzazioni e mercato, mercato, mercato».È la ricetta che è stata definita come “precarietà espansiva”, ricorda Cremaschi. Puro ossimoro: l’austerity che produce crescita, secondo Mario Monti e colleghi. «Come disse Padoan prima di diventare ministro, dal dolore nasce lo sviluppo». Tutti i dati economici italiani e anche quelli dell’Eurozona «dimostrano che il dolore cresce, ma lo sviluppo no». Tuttavia, continua l’ex leader Fiom, Renzi rivendica per l’Italia il ruolo di primo della classe nell’applicazione di queste politiche, aggiungendo assieme a tutti i socialdemocratici europei che esse dovranno essere “accompagnate dalla crescita”. «Che vuol dire? Niente. Le politiche di austerità sono un sistema compiuto», che produce solo danni. «O si abbandona l’austerità – cioè pareggio di bilancio, vincolo del debito, divieto di intervento pubblico, bassi salari – oppure si rinuncia alla crescita o almeno a quella crescita che viene promessa da “Telemaco” Renzi». Domanda: ma se queste politiche non producono veri risultati, come mai tutti i governi, e il governo europeo delle larghe intese appena varato, continuano a portarle avanti?«Per due ragioni di fondo, di cui la seconda è inconfessabile», sostiene Cremaschi. La prima è che «le politiche di rigore e austerità europee sono figlie di più di trent’anni di politiche economiche liberiste». Oggi si teme la deflazione, cioè l’assenza di inflazione come ulteriore spinta alla stagnazione economica, ma «tutta la costruzione europea fino alla Bce ha come presupposto la lotta all’inflazione». La scala mobile che tutelava i salari italiani «è stata abolita nel nome della lotta all’inflazione». Il debito pubblico «si è gonfiato dei costi degli interessi pagati alla finanza perché si è rinunciato, ben prima dell’euro, a stampare moneta». La lotta all’inflazione, insiste Cremaschi, è il nocciolo materiale e ideologico delle politiche di austerità. E tutte le istituzioni, tutti i gruppi dirigenti, politici e sindacali «sono stati selezionati nel suo nome». Altro che la contestazione a qualche casta marginale: «Per cambiare politica bisognerebbe cambiare tutta una classe dirigente che non sa produrre altro se non austerità». E poi c’è la seconda ragione per cui si va avanti così, «quella inconfessabile». E cioè: «Purtroppo non è vero che il dolore non dia risultati: gli indici di Borsa da quasi tre anni sono in crescita. Chi ha investito nel momento più basso della crisi finanziaria oggi ha fatto un bel po’ di soldi. Per una parte delle imprese i profitti sono in ripresa, così pure i super-guadagni dei manager».Banche e finanza, continua Cremaschi, hanno ripreso a fare affari come prima. E anche i derivati e tutti i titoli-spazzatura son di nuovo in campo, come prima del crack. «Il punto inconfessabile è proprio che la crescita delle disuguaglianze e della povertà non sono un danno collaterale, ma parte integrante del modello economico che si vuole affermare». La creisi era parte del piano: nel fango il 99%, per far volare i maxi-proifitti dell’1%. «La Grecia, prima cavia dell’austerità, non ha più stato sociale, ha il 20% di disoccupazione e i salari calati del 30%. Socialmente e moralmente è una catastrofe, ma oggi in Grecia si fanno buoni affari. Certo il rischio è che la brutalità delle misure adottate faccia vincere alle elezioni Tsipras e le forze anti-austerità, per questo in Italia si è aggiustato il tiro». Se in Grecia il troppo bastone rischia di provocare una rottura, «in Italia per continuare con l’austerità si è usata più carota, e la carota si chiama Renzi».Ecco perché «le politiche di austerità non possono essere abbandonate se non si rovesciano i presupposti, gli interessi, le istituzioni che le impongono», conclude Cremaschi. «Io non credo che questa Unione Europea sia riformabile, ma anche chi ci crede ha oggi il dovere di respingere il gattopardismo di Renzi, Schultz, Juncker, Merkel e dei loro finti scontri», nell’ambito delle sostanziali larghe intese con cui i politici eletti fingono di governare, limitandosi in realtà a obbedire ai tecnocrati militarizzati dall’élite finanziaria, uomini-ombra potentissimi che impongono l’agenda, le leggi, le direttive europee attraverso le lobby insediate a Bruxelles in rappresentanza delle grandi multinazionali. Secondo Cremaschi «bisogna che il semestre italiano fallisca, cioè che fallisca la mistificazione politica che copre la continuazione del rigore liberista». Giù la maschera, Renzi: «Noi sappiamo bene chi sono i Proci della finanza, delle banche, delle multinazionali che ci saccheggiano».«Se l’Europa facesse un selfie, mostrerebbe il volto della noia», dice Renzi al Parlamento Europeo. Noia? «No, il volto di paesi come la Grecia, il Portogallo, la Spagna e la stessa Italia non è annoiato, è disperato», protesta il “Keynes Blog”. «L’Europa attuale non è un sogno, men che meno ha un’anima. E’ un insieme di regole – quelle che Renzi non vuole cambiare – basate su una teoria economica che si è dimostrata palesemente incapace non solo di prevedere, ma anche di guarire la crisi iniziata nel 2008». Il tutto – regole e istituzioni – è «orientato a garantire i paesi creditori e bastonare quelli debitori». Aggiunge il blog: non stiamo camminando lentamente, stiamo tornando indietro. «La “generazione Erasmus” (ora ribattezzata “generazione Telemaco”) di cui Renzi si sente parte, è la più colpita, con tassi di disoccupazione oltre ogni soglia di tollerabilità: stiamo distruggendo capitale fisico e umano, ponendo le basi perché la crescita non ritorni in tempo utile affinché questa generazione possa goderne».
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Crepi Lampedusa, meglio soldi sporchi da migranti ricchi
Mentre l’Unione Europea chiude le sue porte a migliaia di migranti che naufragano sulle coste siciliane, alcuni dei candidati desiderosi di stabilirsi hanno trovato un comitato d’accoglienza. Non c’è più bisogno di conoscere la lingua del paese di accoglienza, di fare prova di un particolare interesse per la sua storia e la sua cultura… basta avere il portafoglio pieno ed essere pronti ad alleggerirsi di qualche decina di milioni di euro a beneficio di un’azienda o di uno Stato. La Lettonia è stato uno dei primi paesi a vedere una fonte di guadagno potenziale nell’appartenenza all’Unione Europea. Dal 2010, questo piccolo paese sulle rive del Mar Baltico è diventato uno dei porti d’accesso all’Eldorado europeo. Nella capitale Riga, lontano dalle spiagge di Lampedusa e dei suoi “boat-people”, i candidati al permesso di soggiorno sbarcano invece negli uffici lettoni dell’immigrazione con il proprio agente immobiliare e l’interprete. La maggior parte sono russi e cinesi.La conditio sine qua non per ottenere un permesso di soggiorno è possedere un bene immobile sul suolo lettone – d’un valore minimo di 150 mila euro nella capitale, della metà di tale cifra in provincia. Alcuni, meno numerosi, hanno scelto una delle altre opzioni offerte: investire in un’azienda nazionale o piazzare 300 mila euro in una banca lettone. In cambio, un permesso di soggiorno di 5 anni che, in seguito, può diventare definitivo. Immigrati, sì, ma facoltosi. Per il governo questa manna finanziaria deve aiutare a risanare l’economia nazionale, ma anche a sostenere la demografia. In dieci anni, il paese ha perso più del 10% della sua popolazione, in parte a causa di un saldo migratorio negativo. Tra il 2010 e il 2011, data d’inizio d’entrata in funzione del dispositivo, il numero di permessi di soggiorno è raddoppiato. Il primo anno, sono stati consegnati 1.700 certificati di residenza rispondenti ai criteri d’investimento economico. Abbastanza per rilanciare gradualmente l’immigrazione – facoltosa – verso questo paese. Per il poco che la gente ci resta!Agli arrivanti non è imposta nessuna condizione di residenza sul territorio nazionale: in quanto residenti di un paese dell’Unione Europea e dell’area Schengen, sono liberi di spostarsi in Europa. In base a certi criteri, possono anche ottenere un diritto di soggiorno in un altro Stato membro. Basta provare che possiedano le risorse necessarie e un’assicurazione sanitaria, spiega Cecilia Malmström, commissario europeo per gli Affari Interni. La Lettonia non è il solo paese in Europa a proporre i nuovi visti. Quanti altri praticano questo scambio nell’Unione? Due? Cinque? Una quindicina! Ungheria, Portogallo, Malta, Paesi Bassi…da nord a sud, dai più toccati dalla crisi ai più risparmiati. La maggior parte hanno iniziato tale pratica tra il 2010 e il 2014, certi vedendoci un mezzo per attirare nuovi capitali, altri per ridinamizzare un mercato immobiliare duramente colpito dalla crisi, come la Spagna.Le condizioni iniziali variano da un paese all’altro: investimenti finanziari nell’industria, aiuto al riscatto del debito pubblico, acquisizione di un bene immobile… Si tratta soltanto di essere ricchi. La differenza sta negli importi imposti e nel monitoraggio dei nuovi residenti. Nei Paesi Bassi, dove il sistema esiste da ottobre 2013, la soglia imposta è tra le più elevate 1,25 milioni di euro piazzati nell’economia locale per ottenere un visto definitivo. Quasi allo stesso livello della Spagna che, da settembre 2013, chiede due milioni di euro di riscatto del debito pubblico. Per i “più modesti”, la penisola iberica concede anche permessi di soggiorno per un investimento immobiliare di 500 mila euro. Dal canto suo, Cipro propone dal 2012 dei permessi di soggiorno per l’acquisto di un bene per 300.000 euro, ma esige che i candidati abbiano la fedina penale immacolata, per prevenire le cattive sorprese.Dall’Irlanda a Malta: come ci si compra il diritto di vivere in Europa? Verificare chi sono i nuovi arrivanti è una condizione che forse il Portogallo avrebbe dovuto applicare quando ha lanciato il suo dispositivo nel 2012. In questo paese colpito dalla crisi, con l’avallo della Troika (Commissione Europea, Bce e Fmi), il governo portoghese di Pedro Passos Coelho (centro-destra) decide di creare a sua volta un “permesso di soggiorno per attività d’investimento”. Permessi soprannominati nel paese “vistos durados”, visti dorati. I candidati possono scegliere tra un acquisto immobiliare di almeno 500.000 euro, il trasferimento di minimo un milione di euro, o la creazione di 10 impieghi. Dalla sua applicazione, secondo le stime ufficiali il Portogallo avrebbe rilasciato 772 permessi di soggiorno, di cui 612 a cinesi. Tra questi Xiadong Wang, sistematosi dal 2013 a Cascais, sontuosa città alle porte di Lisbona. Nel marzo 2014, il cittadino cinese viene arrestato dalle autorità portoghesi. Come rivelato da un giornale locale, “Diario de Noticias”, l’uomo è ricercato in Cina per frode fiscale. Su di lui pende una pena di 10 anni di prigione. Il suo paese d’origine non l’aveva segnalato.L’elemento scatenante è stato l’inserimento del suo nome della banca dati dell’Interpol, lo scorso gennaio. Per le autorità portoghesi, il suo arresto è la prova che il governo e la polizia di frontiera hanno fatto il loro lavoro. Ma sul sito Internet di “Diario de Noticias”, numerosi internauti insorgono. «Questo governo è incompetente. Svendono il paese, ne fanno una discarica a cielo aperto dove i [truffatori] vengono a lavare il denaro sporco», si legge. Poco dopo, un’altra persona non esita a dire: «Questo governo [e il suo dispositivo] sono la vergogna dei portoghesi». La faccenda è stato uno shock, rilanciando la domanda delle ragioni di questo ricchi migranti. Far traghettare i ricchi? Un affare redditizio. Alcune aziende si sono specializzate nell’accompagnamento dei migranti facoltosi. Un esempio è la società Henley & Partners, come descrive “Le Figaro” in un articolo. Con base a Jersey, un paradiso fiscale, tale società rappresenterebbe il leader mondiale nel settore. Sul suo sito Internet, sono elencate le destinazioni. L’Europa è largamente rappresentata: Austria, Belgio, Croazia, Cipro, e ancora la Svizzera e il Regno Unito. Per ciascun paese, un programma dettagliato di tappe e condizioni da rispettare.Un autentico manuale d’istruzioni, al quale si aggiungono le attrattive proprie ad ogni regione. Natura verdeggiante e calorosa qui, vantaggi fiscali per i residenti là, e le nicchie di cui si può beneficiare. La società non lascia nulla al caso affinché ognuno trovi il suo paradiso. E per agevolare l’arrivo dei nuovi migranti. Perché perdere tempo con le lunghe e complesse procedure di richiesta dei visti quando un permesso di residenza permette di circolare facilmente in tutta l’Unione? In più, la maggior parte di questi paesi tassa poco o per nulla i residenti in possesso di un permesso di soggiorno a lungo periodo. Per gli stranieri dai migliori portafogli, la ditta propone una soluzione ancor più interessante: regalarsi una nazionalità europea. Sul sito ci sono tre destinazioni: l’Austria, Cipro e Malta. Dal 2013, il governo del più piccolo stato dell’Unione Europea, Malta, ha deciso di “vendere” la cittadinanza del suo paese. Ha affidato l’esclusività della gestione delle pratiche alla società Henley & Partners, in cambio di una commissione di 7.500 euro per candidatura.Una cittadinanza europea da vendere ai migliori offerenti: 650.000 euro, è il prezzo fissato lo scorso autunno dal parlamento maltese. Nessuna condizione di residenza sull’isola, basta questo semplice apporto finanziario. Il primo ministro, Joseph Muscat, vede in ciò un modo di attirare nuovi capitali nel paese. Secondo le stime avanzate dal governo, la misura potrebbe interessare dai 200 ai 300 candidati l’anno. Ossia un minimo di 130 milioni di euro di introiti annui per il paese. Ma secondo un sondaggio realizzato dal quotidiano locale “Malta Today”, la maggior parte della popolazione sarebbe contraria al dispositivo. Un parere condiviso da Bruxelles. La decisione ha provocato un vero terremoto all’interno del Parlamento Europeo, sollevando alcune critiche rispetto alla mercificazione della cittadinanza europea. Nelle istanze dell’Unione, alcuni eurodeputati e membri delle commissioni europee hanno immediatamente manifestato la loro ostilità verso la nuova normativa maltese. Tra questi, Vivianne Reding, commissario incaricato della Giustizia. «La cittadinanza non è in vendita», ha dichiarato a Strasburgo nel mese di gennaio. Subito dopo, il Parlamento Europeo adotta una risoluzione, stimando che «un tale regime di vendita pura e semplice della cittadinanza europea compromette la fiducia reciproca su cui poggia l’Unione».Da allora Malta ha accettato di tornare sul dispositivo, in parte: è oramai obbligatorio risiedere sull’isola la maggior parte dell’anno e dimostrare un legame reale con Malta. È inoltre necessario un investimento di 1,15 milioni di euro, di cui 500.000 in acquisti immobiliari, a cui si aggiunge un importo di 25.000 euro per il coniuge o per il figlio minorenne, e 50.000 euro per il figlio dai 18 ai 26 anni. Concessioni che il governo maltese ha accettato nonostante nulla lo obbligasse a farlo. Nell’Unione Europea, la nazionalità di un paese membro permette di accedere automaticamente alla nazionalità europea, ma le condizioni di rilascio fanno parte di prerogative proprie ad ogni Stato. Ciascuno dei 28 governi decide quindi della propria legislazione e delle sue condizioni. Mentre l’immigrazione clandestina è al cuore dei dibattiti per le elezioni europee, i candidati ignorano completamente la mercificazione dei permessi di soggiorno.Clarisse Heusquin, candidata per “Europe Écologie-Les Verts” nella regione Centro-Massiccio Centrale (Francia), ammette di scoprire il dispositivo: «Sono rimasta scioccata, mortificata venendone a conoscenza. Si sta costruendo un’Europa a due velocità. Da un lato, si chiudono le frontiere e dall’altro si accolgono i capitali. Questa Europa-fortezza è indegna». Secondo lei la soluzione passa da un’Europa federale e politiche armonizzate in materia d’immigrazione. Dal canto suo, Pierre Henry, direttore generale dell’Ong “France Terre d’Asile” si rammarica che il dibattito sulle questioni migratorie non sia affrontato nel suo insieme. «Tra quelli che si augurano di uscire da Schengen, quelli che vogliono punire gli Stati che non rispettano alcune regole, quelli che pensano che la nomina di un commissario europeo per l’immigrazione risolverebbe il problema e quelli che si accontentano di criticare senza proporre. In realtà, non c’è un vero dibattito sulla questione migratoria».La vendita della nazionalità è tenuta a debita distanza dalla pubblica piazza, ma si popolarizza tra i governi. La Lituania affina il progetto e dovrebbe essere il prossimo paese a porre le sue condizioni. Il prezzo: 260.000 euro versati a un’azienda lituana e la creazione di cinque posti di lavoro. Il governo non attende altro che il via del Parlamento. E in Francia? L’Esagono non propone le stesse condizioni agevolate dei suoi vicini. Tuttavia, in un documento della Commissione Europea, si precisa che in Francia si possono attribuire dei permessi di residenza per “contributi economici eccezionali” ad azionisti (almeno il 30% del capitale) di grandi società. Le condizioni: creare 50 posti di lavoro sul territorio nazionale o investire almeno 10 milioni di euro. Per ora non è prevista l’applicazione di clausole più vantaggiose o più severe per i ricchi investitori. Nulla di sorprendente, secondo Pierre Henry: «Oggi, in Francia, il governo cerca ad ogni costo di evitare il dibattito sull’immigrazione, come per paura del populismo. Ciò non risolve niente e non è in questo modo che si arrestano le polemiche». Quelle e quelli che non dispongono dei visti “business class” ne pagano caro il prezzo: in 14 anni, 23.000 migranti sono morti alle porte dell’Europa.(Morgane Thimel, “Quando la cittadinanza europea diventa mercanzia”, da “Bastamag” del 21 giugno 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte).Mentre l’Unione Europea chiude le sue porte a migliaia di migranti che naufragano sulle coste siciliane, alcuni dei candidati desiderosi di stabilirsi hanno trovato un comitato d’accoglienza. Non c’è più bisogno di conoscere la lingua del paese di accoglienza, di fare prova di un particolare interesse per la sua storia e la sua cultura… basta avere il portafoglio pieno ed essere pronti ad alleggerirsi di qualche decina di milioni di euro a beneficio di un’azienda o di uno Stato. La Lettonia è stato uno dei primi paesi a vedere una fonte di guadagno potenziale nell’appartenenza all’Unione Europea. Dal 2010, questo piccolo paese sulle rive del Mar Baltico è diventato uno dei porti d’accesso all’Eldorado europeo. Nella capitale Riga, lontano dalle spiagge di Lampedusa e dei suoi “boat-people”, i candidati al permesso di soggiorno sbarcano invece negli uffici lettoni dell’immigrazione con il proprio agente immobiliare e l’interprete. La maggior parte sono russi e cinesi.
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Sull’Italia un patto tra iene e sciacalli, diretto dall’estero
Dopo tutte le campagne giudiziarie, dopo l’euro, dopo Maastricht, l’Ue, il rigore, il sistema paese Italia rimane ad alta corruzione, bassa legalità, bassa efficienza del settore pubblico, alto clientelismo, tendenza declinante in molti settori, forte emigrazione degli elementi migliori, umani e aziendali. Irrazionale pertanto fare progetti di integrazione europea sul presupposto che il sistema Italia cambi, che si corregga. Ciò non sta avvenendo affatto, e sono decenni che doveva avvenire e non avviene. Anzi, oramai, tra il continuo scoppio di scandali sistemici dell’apparato pubblico e degli stessi organi di controllo, perfino i partiti che lottano contro il sistema e che vogliono mandare tutti a casa e che gridavano “arrendetevi, siete circondati!”, perfino questi finiscono per venire a termini con l’espressione partitica di questo sistema e per riconoscergli una più o meno esistente legittimazione “democratica”.Quindi, prima si accetta che un corpo sociale non cambia la sua mentalità e le sue abitudini consolidate per l’effetto di un decreto o per l’azione esterna di una nuova moneta, prima si accetta il principio che bisogna organizzarlo per ciò che esso è e non per ciò che qualcuno vorrebbe che fosse, prima si accetta che il partito che va al potere ci arriva (anche) grazie alle ruberie del suo apparato di gestione, e che pertanto il paese sarà ancora a lungo amministrato da questo tipo di gente – prima si prende atto di tutto questo, cioè della realtà, e meglio è per tutti. O per quasi tutti. Razionale è quindi chiedersi: date le caratteristiche di questa società reale, in attesa che prima o poi se possibile migliorino, come la si deve organizzare per farla vivere al meglio?Per vivere decentemente, un paese che ha le caratteristiche dell’Italia deve innanzitutto tornare a una spesa pubblica larga, elastica e sostenibile,che crei, come creava in passato, coesione sociale contenendo al contempo il conflitto di interesse Nord-Sud; che dia la precedenza al lavoro (dipendente e autonomo) rispetto alle rendite finanziarie, quindi stimoli gli investimenti privati con piani di investimenti pubblici di lungo termine, sostenga il reddito e la domanda, e assorba la disoccupazione involontaria; che renda possibile un fisiologico aggiustamento del cambio (svalutazione competitiva per mantenere le quote di mercato estero); che alimenti un’inflazione idonea a rendere sopportabile l’indebitamento, agganciando ad essa i salari; che si finanzi senza rischio di default e a bassi tassi di interesse, come prima del 1981 (ossia bisogna ritornare a una banca centrale propria, una moneta propria, un controllo del Tesoro di Stato su entrambe, un vincolo per la banca centrale di comperare i titoli del debito pubblico invenduti, un vincolo di portafoglio per le banche a detenere quote di debito pubblico).Quella sopra delineata non è una stampella per un paese malato, ma una razionale e funzionale organizzazione per la generalità dei paesi, ossia anche per quelli poco corrotti e molto efficienti. Soltanto che questi ultimi possono vivere abbastanza bene anche senza di essa e con la cosiddetta austerità, mentre un paese come l’Italia, con l’impostazione monetaria e finanziaria attuale, semplicemente consuma le sue risorse interne e poi muore. Se non si attuano queste condizioni, la grande intesa tra tutti i partiti intorno al leader oggi o domani trionfante si tradurrà in un’alleanza consociativa per salire tutti sul carro del vincitore e spremere ulteriormente i cittadini e la repubblica, senza più limiti né pudori, dato che non c’è più opposizione, cioè concorrenza e contrasto: un patto fra jene e sciacalli, sotto la direzione dell’avvoltoio d’oltralpe.(Marco Della Luna, “L’Italia: come farla funzionare”, dal blog di Della Luna del 16 giugno 2014).Dopo tutte le campagne giudiziarie, dopo l’euro, dopo Maastricht, l’Ue, il rigore, il sistema paese Italia rimane ad alta corruzione, bassa legalità, bassa efficienza del settore pubblico, alto clientelismo, tendenza declinante in molti settori, forte emigrazione degli elementi migliori, umani e aziendali. Irrazionale pertanto fare progetti di integrazione europea sul presupposto che il sistema Italia cambi, che si corregga. Ciò non sta avvenendo affatto, e sono decenni che doveva avvenire e non avviene. Anzi, oramai, tra il continuo scoppio di scandali sistemici dell’apparato pubblico e degli stessi organi di controllo, perfino i partiti che lottano contro il sistema e che vogliono mandare tutti a casa e che gridavano “arrendetevi, siete circondati!”, perfino questi finiscono per venire a termini con l’espressione partitica di questo sistema e per riconoscergli una più o meno esistente legittimazione “democratica”.
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Tisa, accordo segreto: privatizzare anche scuola e sanità
Si chiama “Tisa”, acronimo di “Trade in services agreement”, ovvero “accordo di scambio sui servizi”. E’ un trattato che non riguarda le merci, ma i servizi, ovvero il cuore dell’economia dei paesi sviluppati, come l’Italia, che è uno dei paesi europei che lo sta negoziando attraverso la Commissione Europea. Obiettivo: privatizzare tutti i servizi fondamentali, oggi ancora pubblici – sanità, istruzione, trasporti – su pressione di grandi lobby e multinazionali. «Un accordo che viene negoziato nel segreto assoluto e che, secondo le disposizioni, non può essere rivelato per cinque anni anche dopo la sua approvazione», spiega Stefania Maurizi su “L’Espresso”, che pubblica – in esclusiva un team di media internazionali – l’ultimo scoop di Wikileaks, l’organizzazione di Julian Assange. Gli interessi in gioco sono enormi: il settore servizi è il più grande per posti di lavoro nel mondo e produce il 70% del Pil globale. Solo negli Usa rappresenta il 75% dell’economia e genera 8 posti di lavoro su 10 nel settore privato.Dopo il Gats del 1995 e il Ttip, il Trattato Transatlantico tuttora in discussione (anche quello a porte chiuse) per vincolare l’Europa alle regole commerciali americane sulle merci, mettendo fine alle tutele europee sul lavoro, l’ambiente, l’energia, la salute, l’agricoltura e la sicurezza alimentare, il Tisa punta dritto alla deregulation privatizzata dei servizi, coinvolgendo i mercati più importanti del mondo: gli angolassoni Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda e Canada, i 28 paesi dell’Unione Europea, e poi Svizzera, Islanda, Norvegia, Liechtenstein, Israele, Turchia, Taiwan, Hong Kong, Corea del Sud, Giappone, Pakistan, Panama, Perù, Paraguay, Cile, Colombia, Messico e Costa Rica. «Con interessi in ballo giganteschi: gli appetiti di grandi multinazionali e lobby sono enormi», scrive “L’Espresso”, che indica la “Coalition of Services Industries”, lobby americana che porta avanti un’agenda di privatizzazione dei servizi, come «la più aggressiva». Per la “Coalition”, «Stati e governi sono semplicemente visti come un intralcio al business». Infatti ammette: «Dobbiamo supportare la capacità delle aziende di competere in modo giusto e secondo fattori basati sul mercato, non sui governi».Bozze del trattato e informazioni precise sulle trattative non ce ne sono, scrive Stefania Maurizi. Per questo è cruciale il documento Wikileaks che “L’Espresso” rivela: «Per la prima volta dall’inizio delle trattative Tisa, viene reso pubblico il testo delle negoziazioni in corso sulla finanza: servizi bancari, prodotti finanziari, assicurazioni». Il primo testo risale al 14 aprile, mentre altre comunicazioni dimostrano divergenze tra i vari paesi, separati da ambizioni differenti. A colpire subito è il carattere di segretezza: «Questo documento deve essere protetto dalla rivelazione non autorizzata», si prescrive. Il documento potrà essere desecretato solo «dopo cinque anni dall’entrata in vigore del Tisa e, se non entrerà in vigore, cinque anni dopo la chiusura delle trattative». Osserva Maurizi: «Pare difficile credere che, nonostante la crisi senza precedenti che ha travolto l’intera economia mondiale, distruggendo imprese, cancellando milioni di posti di lavoro e, purtroppo, anche tante vite umane, le nuove regole finanziarie mondiali vengano decise in totale segretezza».Il carattere top secret si spiega forse con la paura che si scatenò dopo il fallimento del “Doha Round”, cioè i negoziati avviati nel 2001 a Doha, nel Qatar, che scatenarono un’ondata di proteste contro la globalizzazione selvaggia, culminata con il bagno di sague al G8 di Genova. Il forcing per la mondializzazione forzata – da una parte Usa, Ue e Giappone, dall’altra Cina, India e America Latina – è fallito nel 2011, dopo dieci anni di trattative. «Con il fallimento del Doha Round – continua “L’Espresso” – gli Stati Uniti e i paesi che spingono per globalizzazione e liberalizzazioni hanno spostato le trattative in un angolo buio (impossibile definirlo semplicemente discreto, vista la segretezza che avvolge le negoziazioni e il testo dell’accordo), lontano dall’Organizzazione mondiale del Commercio, per sfuggire alle piazze che esplodevano in massicce, e a volte minacciose e violente, proteste “no global”». Il risultato è il Tisa, «di cui nessuno parla e di cui pochissimi sanno», anche se questo accordo «condizionerà le vite di miliardi di persone».«Il più grande pericolo del Tisa è che fermerà i tentativi dei governi di rafforzare le regole nel settore finanziario», spiega Jane Kelsey, professoressa di legge dell’Università di Auckland, Nuova Zelanda, nota per il suo approccio critico alla globalizzazione. «Il Tisa è promosso dagli stessi governi che hanno creato nel Wto il modello finanziario di deregulation che ha fallito e che è stato accusato di avere aiutato ad alimentare la crisi economica globale», sottolinea Kelsey. «Un esempio di quello che emerge da questa bozza filtrata all’esterno dimostra che i governi che aderiranno al Tisa rimarranno vincolati ed amplieranno i loro attuali livelli di deregolamentazione della finanza e delle liberalizzazioni, perderanno il diritto di conservare i dati finanziari sul loro territorio, si troveranno sotto pressione affinché approvino prodotti finanziari potenzialmente tossici e si troveranno ad affrontare azioni legali se prenderanno misure precauzionali per prevenire un’altra crisi».L’articolo 11 del testo fatto filtrare da Wikileaks non lascia dubbi su come i dati delle transazioni finanziarie siano al centro delle mire dei paesi che trattano. L’Europa richiede che nessun paese «adotti misure che impediscano il trasferimento o l’esame delle informazioni finanziarie», ma propone che il diritto dello Stato di proteggere i dati personali e la privacy rimanga intatto, a condizione che «non venga usato per aggirare quanto prevede questo accordo». Un paradiso fiscale come Panama, invece, chiede di specificare che «un paese parte dell’accordo non sia tenuto a fornire o a permettere l’accesso a informazioni correlate agli affari finanziari e ai conti di un cliente individuale di un’istituzione finanziaria o di un fornitore cross-border di servizi finanziari». Gli Stati Uniti invece sono netti: i paesi che aderiscono all’accordo permetteranno al fornitore del servizio finanziario di trasferire i dati dentro e fuori dal loro territorio, in forma elettronica o in altri modi, senza alcun rispetto della privacy.«Quello che colpisce di questo articolo del Tisa sui dati – scrive Stefania Maurizi – è che risulta in discussione proprio mentre nel mondo infuria il dibattito sui programmi di sorveglianza di massa della Nsa innescato da Edward Snowden, programmi che permettono agli Stati Uniti di accedere a qualsiasi dato: da quelli delle comunicazioni a quelli finanziari. Ma mentre la Nsa li acquisisce illegalmente, nel corso di operazioni segrete d’intelligence e quindi la loro utilizzabilità in sede ufficiale e di contenziosi è limitata, con il Tisa tutto sarà perfettamente autorizzato e alla luce del sole». In altre parole, il Tisa rende manifesto che la stessa Europa, che ufficialmente ha aperto un’indagine sullo scandalo Nsa in sede di Parlamento Europeo, «sta contemporaneamente e disinvoltamente trattando con gli Stati Uniti la cessione della sovranità sui nostri dati finanziari per ragioni di business». E sui dati, i lobbisti americani della “Coalition of Services Industries” che spingono per il Tisa non hanno dubbi: «Con il progresso nella tecnologia dell’informazione e delle comunicazioni, sempre più servizi potranno essere forniti all’utente per via elettronica e quindi le restrizioni sul libero flusso di dati rappresentano una barriera al commercio dei servizi in generale».Fino a che punto può arrivare il Tisa? Davvero arriverà a investire servizi fondamentali come l’istruzione e la sanità? “L’Espresso” ha contattato “Public Services International”, (Psi), una federazione globale di sindacati che rappresentano 20 milioni di lavoratori nei servizi pubblici di 150 paesi del mondo. L’italiana Rosa Pavanelli, prima donna alla guida del Psi dopo una vita alla Cgil, è sicura che il Tisa vorrà allungare le grinfie anche su sanità e istruzione. L’Italia? E’ nelle mani della Commissione Europea, delegata a trattare. Daniel Bertossa, che per “Public Services International” sta cercando di informarsi sulle trattative segrete, racconta che, anche se nessuno lo ha reso noto, «per ragioni tecniche che hanno a che fare con il Wto, noi sappiamo che il Tisa punta a investire tutti i servizi», come ammettono gli stessi paesi negoziatori. Bertossa sottolinea quanto sia problematica la riservatezza intorno ai lavori del trattato e il fatto che sia condotto al di fuori del Wto, che, «pur con tutti i suoi problemi, perlomeno permette a tutti i paesi di partecipare alle negoziazioni e rende pubblico il testo delle trattative». Invece, per sapere qualcosa del Tisa c’è voluta Wikileaks. «Ai signori del mercato, stavolta, è andata male».Si chiama “Tisa”, acronimo di “Trade in services agreement”, ovvero “accordo di scambio sui servizi”. E’ un trattato che non riguarda le merci, ma i servizi, ovvero il cuore dell’economia dei paesi sviluppati, come l’Italia, che è uno dei paesi europei che lo sta negoziando attraverso la Commissione Europea. Obiettivo: privatizzare tutti i servizi fondamentali, oggi ancora pubblici – sanità, istruzione, trasporti – su pressione di grandi lobby e multinazionali. «Un accordo che viene negoziato nel segreto assoluto e che, secondo le disposizioni, non può essere rivelato per cinque anni anche dopo la sua approvazione», spiega Stefania Maurizi su “L’Espresso”, che pubblica – in esclusiva un team di media internazionali – l’ultimo scoop di Wikileaks, l’organizzazione di Julian Assange. Gli interessi in gioco sono enormi: il settore servizi è il più grande per posti di lavoro nel mondo e produce il 70% del Pil globale. Solo negli Usa rappresenta il 75% dell’economia e genera 8 posti di lavoro su 10 nel settore privato.
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Prelievo forzoso dei risparmi in Borsa: la trappola Draghi
Mai nella storia, in nessun paese e in nessuna civiltà, il denaro è costato meno: giovedì 5 giugno Mario Draghi ha portato i tassi della Bce allo 0,15 per cento, praticamente zero; ha introdotto tassi negativi per i depositi bancari presso la Bce e ha annunciato nuovi prestiti a lungo termine per le banche, come pure acquisti di titoli e cartolarizzazioni. Inoltre, ha comunicato che la Bce non sterilizzerà più gli acquisti sul mercato secondario, il che significa aumento della liquidità nel sistema. Draghi stesso ha ammesso che la Bce ha raggiunto il limite del costo del denaro. Il passo successivo è quello di gettare soldi dall’elicottero, come promise il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke in un famoso intervento. Il discorso della Bce, terra terra, è: dobbiamo agire contro il pericolo della deflazione – e quindi creare inflazione. È come muovere la coda del cane per agitarne il corpo.Draghi ha promesso che i prestiti alle banche (si parla di un primo colpo di 400 miliardi) saranno concessi solo a condizione che verranno impiegati per finanziare le imprese. Ma in realtà la liquidità sparata col “bazooka” serve a salvare le banche dal crac dietro l’angolo, denunciato dalla stessa Bce nell’ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria (vedi “Persino la Bce ammette che sta arrivando il crac”). Il modello indicato da Draghi, quello del “funds for lending” della Banca d’Inghilterra, è miseramente fallito. I prestiti alle imprese sono diminuiti invece che aumentare. Draghi, che si è guadagnato il soprannome di “Hjalmario” dal suo predecessore Schacht, persegue un altro piano, di criminalità efferata: eliminando il costo del denaro, egli spinge i risparmiatori a investire in borsa, l’unico posto dove i soldi sono nominalmente remunerati, e dove verranno regolarmente “tosati” quando la borsa crollerà o quando i neoazionisti o obbligazionisti si accorgeranno di essere diventati parte del paniere globale del bail-in, o prelievo forzoso, per salvare le banche.Questo è l’allarme lanciato da Georg Fahrenschon, capo dell’Associazione delle Casse di Risparmio tedesche, in numerose interviste la scorsa settimana. Quando gli è stato chiesto se la politica della Bce costituisce un esproprio dei risparmi, Fahrenschon ha risposto: «Sì, molto chiaramente! Con questa politica di bassi tassi d’interesse della Bce, le famiglie tedesche perderanno circa quindici miliardi all’anno di rendita. Questo fa… circa duecento euro a testa». Di fronte alla prospettiva di perdere entrate sui depositi (attualmente remunerati allo 0,2%) e sulle polizze di assicurazione vita, le famiglie tedesche sposteranno i propri risparmi in borsa, dove i rialzi si susseguono quotidianamente, spinti dalla bolla. Il 5 giugno, dopo l’annuncio della Bce, il Dax ha oltrepassato la soglia dei diecimila punti, e ha chiuso la settimana a 9987,19, un record storico. Mario Draghi è esperto negli espropri: quando era direttore generale del Tesoro e capo del Comitato privatizzazioni, egli fu tra i principali artefici della manovra che portò milioni di famiglie italiane a uscire dai Bot e investire in borsa, dove nel crac della new economy (2001-2002) persero 216 miliardi di euro.(“Draghi fa alzare in volo gli elicotteri mentre prepara il prelievo forzoso”, intervento pubblicato da “Movisol” il 15 giugno 2014).Mai nella storia, in nessun paese e in nessuna civiltà, il denaro è costato meno: giovedì 5 giugno Mario Draghi ha portato i tassi della Bce allo 0,15 per cento, praticamente zero; ha introdotto tassi negativi per i depositi bancari presso la Bce e ha annunciato nuovi prestiti a lungo termine per le banche, come pure acquisti di titoli e cartolarizzazioni. Inoltre, ha comunicato che la Bce non sterilizzerà più gli acquisti sul mercato secondario, il che significa aumento della liquidità nel sistema. Draghi stesso ha ammesso che la Bce ha raggiunto il limite del costo del denaro. Il passo successivo è quello di gettare soldi dall’elicottero, come promise il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke in un famoso intervento. Il discorso della Bce, terra terra, è: dobbiamo agire contro il pericolo della deflazione – e quindi creare inflazione. È come muovere la coda del cane per agitarne il corpo.
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I ladri spolpano il paese e gli italiani credono a un bugiardo
Il Mose di Venezia, la ricostruzione dell’Aquila, l’Expo di Milano, il villaggio della Maddalena, il sistema Sesto (San Giovanni), gli scandali della protezione civile, le mangerie sulla sanità e sui rifiuti nel meridione e nel Lazio, le ruberie sulla Tav e le porcate nei consigli regionali di mezza Italia (tutti quelli su cui si indaga), gli sprechi nei palazzi siciliani: «Tutto questo mostra che gli apparati dei partiti politici e della burocrazia sono strutturalmente dediti a queste cose, che la politica e l’amministrazione vivono di questo». Accusa Marco Della Luna: «La partitocrazia equivale alla mafia: controllo del territorio, lavoro, istituzioni, spesa pubblica». Grazie all’apparato dei partiti, è inevitabile che da noi le opere pubbliche costino il doppio o il triplo. Ed è infantile sperare in qualche politico salvatore della patria: «Qualsiasi premier, qualsiasi statista politico poggia per il potere e per la fiducia in Parlamento su quegli apparati di partito e di burocrazia, che non lo appoggerebbero se egli impedisse i loro traffici».Affarismo generalizzato, sistemico. «Irrazionale è anche pensare che la magistratura di un cosiffatto paese possa risanare il sistema», scrive Della Luna nel suo blog. Il potere giudiziario può colpire singoli imbrogli, non il sistema. Prima di Tangentopoli, la giustizia non interveniva. «Si è mossa solo nel ’92 a seguito del Britannia Party, quando si trattò di arrivare ad altri scopi, soprattutto coprire operazioni di svendita del paese», la super-privatizzazione per la quale fu cooptato Mario Draghi. Dal “sistema”, inoltre, non sono esenti spezzoni della magistratura: dopo lo scandalo Mose, lo stesso Cacciari ha rivelato di aver a suo tempo «presentato un dossier su questo scandalo in una pubblica seduta della Corte dei Conti, senza raccogliere interesse». E un giudice di questa stesa Corte «ha denunciato di aver redatto un rapporto sulle mangerie del Mose già nel 2009, ma di essere stato semi-silenziato da un superiore». Piove sul bagnato: «Gli uomini della casta si riciclano sempre tra di loro, e smettono solo se muoiono». I “Compagni G” sono inarrestabili, «non li fermi con l’interdizione dalle attività pubbliche, ma solo rinchiudendoli a vita», perché «agiscono sott’acqua e non hanno bisogno di assumere cariche pubbliche».Finché vivranno questi uomini, circa 400.000 secondo il libro “La Casta” di Aldo Rizzo e Gian Antonio Stella e almeno un milione secondo altri, «l’Italia continuerà a declinare e non inizierà alcun risanamento». Mose, in fondo, fa rima con Vajont e con Tav: opere inutili, pericolose, inquinate. Idem per lo stillicidio dell’aumento indiscriminato della cementificazione, motivato con la riduzione delle piogge: le precipitazioni sono sì calate su base annua, ma si sono concentrate in periodi rischiosi, moltiplicando le alluvioni. Ma il cemento, si sa, fa comodo al “sistema”. Per non parlare del problema numero uno, la finanza pubblica “privatizzata” dai signori dell’euro. Perché non indagare penalmente anche lì, continua Della Luna, dal momento che l’Italia continua a non avvalersi dell’articolo 123 del Trattato di Maastricht che consente agli Stati di finanziarsi presso la Bce attraverso una banca pubblica? In quel modo, il nostro paese «pagherebbe interessi dello 0,25 o 0,15 % anziché del 5% sul debito pubblico, risparmiando 80 miliardi l’anno». Meglio invece «prelevare 57 miliardi con le tasse dagli italiani già colpiti dalla recessione solo per darle ai banchieri predoni francesi e tedeschi onde assicurare i loro profitti nei prestiti fraudolentemente da loro concessi a Grecia, Spagna e Portogallo».E ancora: «Perché non indagare i cancellieri europei che hanno premuto in tal senso, forse ricattando e limitando nella loro libertà le nostre istituzioni, appoggiati dai banchieri e dalle società di rating? Perché non aprire un fascicolo sull’imposizione all’Italia dell’euro, che si sapeva, tecnicamente, che avrebbe causato ciò che ha poi causato? Lo si era già visto con lo Sme, molti economisti di vaglia l’avevano predetto e gli effetti del blocco dei cambi erano descritti nei libri di testo». Già, perché non indagare? Il solo divorzio tra Stato e Banca d’Italia, nel 1981, ha raddoppiato in pochi mesi il rapporto tra debito pubblico e Pil, cessando la funzione di Bankitalia come “bancomat” del governo a costo zero, per favorire l’interesse speculativo della finanza privata. «La politica italiana degli ultimi decenni è piena di simili scelte distruttive per il paese e lucrative per determinati soggetti finanziari, in termini sia di denaro che di potere». Dunque, «perché non indagare se costituiscano crimini contro gli interessi nazionali? Alto tradimento? Attentato alla sovranità e indipendenza nazionali mediante violenza economico-finanziaria sulla popolazione e sull’economia del paese?». E cosa si scoprirebbe, «rovistando nei circuiti di compensazione bancaria semi-segreti» come Clearstream, Euroclear e Swift? Magari che «i nostri politici, ministri, altri statisti, oltre a prendere soldi dalle grandi imprese per i grandi appalti, hanno preso soldi o altre utilità da finanzieri o statisti stranieri per fare quelle operazioni disastrose per l’Italia».Forse, continua Della Luna, «agli italiani non interessa nulla di ciò che riguarda la sfera della legalità e della moralità, e accettano che i loro governanti siano sleali e traditori». Un nome a caso, Matteo Renzi: «Oggi riscuote successo e consenso un personaggio che ha pugnalato alle spalle il suo compagno di partito, allora premier, dicendoli di stare tranquillo, che non gli avrebbe tolto Palazzo Chigi. Un personaggio che ha violato la promessa fatta pochi giorni prima alla nazione, dicendo che non avrebbe accettato il premierato se non passando per le urne». Davvero ottime credenziali, per un moralizzatore: in qualsiasi altro paese, la sua carriera politica sarebbe finita. In Italia, invece, quei vizi capitali diventano virtù. Lo sanno bene «i poteri che lo hanno scelto», spianandogli la strada con tutta la potenza dei media mainstream. Sapevano che gli italiani ci sarebbero cascati, magari con l’aiutino degli 80 euro – carota per gonzi, immediatamente compensata con più tasse e meno servizi.Chi se ne importa se Renzi «non ha una strategia macroeconomica per rimediare», pazienza se «la disoccupazione, la domanda interna, gli investimenti, il debito pubblico continuano a peggiorare». Tutto ciò che il governo fa è «autofinanziarsi prendendo i soldi del risparmio degli italiani per ridistribuirli senza creare nuove fonti di reddito al paese». L’apparato del partito pigliatutto ha una storia analoga a quella degli altri partiti di potere: il Pd «non ha chiarito come i suoi uomini hanno gestito o lasciato gestire il Monte dei Paschi di Siena, saccheggiando di oltre 10 miliardi». Tutto ciò «non impedisce al novello statista di dichiarare, con la massima e più virginale serietà di espressione, che se fosse per lui condannerebbe per alto tradimento tutti i pubblici funzionari e amministratori che si lascino corrompere. Davvero il personaggio giusto, per ridare la moralità alla Repubblica!». In Italia, chi fa davvero sul serio resta isolato. Come il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, titolare dell’indagine sul Mose: quando nel 1997 scrisse il saggio “Giustizia” che metteva alla berlina il sistema Tangentopoli, permettendosi anche «alcune benevole e mitigatissime critiche alle lobbies dei suoi colleghi e ai parteggiamenti filocomunisti di certuni», secondo Della Luna l’Anm «attaccò il dottor Nordio con toni e contenuti molto preoccupanti, esagerati e sorprendentemente minacciosi per un paese in cui vige libertà di espressione». Avanti Renzi, dunque. Show must go on.Il Mose di Venezia, la ricostruzione dell’Aquila, l’Expo di Milano, il villaggio della Maddalena, il sistema Sesto (San Giovanni), gli scandali della protezione civile, le mangerie sulla sanità e sui rifiuti nel meridione e nel Lazio, le ruberie sulla Tav e le porcate nei consigli regionali di mezza Italia (tutti quelli su cui si indaga), gli sprechi nei palazzi siciliani: «Tutto questo mostra che gli apparati dei partiti politici e della burocrazia sono strutturalmente dediti a queste cose, che la politica e l’amministrazione vivono di questo». Accusa Marco Della Luna: «La partitocrazia equivale alla mafia: controllo del territorio, lavoro, istituzioni, spesa pubblica». Grazie all’apparato dei partiti, è inevitabile che da noi le opere pubbliche costino il doppio o il triplo. Ed è infantile sperare in qualche politico salvatore della patria: «Qualsiasi premier, qualsiasi statista politico poggia per il potere e per la fiducia in Parlamento su quegli apparati di partito e di burocrazia, che non lo appoggerebbero se egli impedisse i loro traffici».
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E’ la fine: si stanno comprando tutta l’acqua del mondo
Temete la morte per acqua, recitano i versi della “Terra desolata”. Ma certo Eliot non poteva immaginare di quale morte fosse ambasciatrice l’acqua del terzo millennio: morte dei diritti e della democrazia, fine dell’accesso universale alla risorsa più preziosa. E’ il capolavoro finale dell’élite mondiale: i nuovi oligarchi “rubano” l’acqua a intere popolazioni, confiscano terreni acquiferi, finanziarizzano l’oro blu per farne merce speculativa. E naturalmente ordinano ai politici di privatizzare l’acqua nazionale, facendo scomparire lo Stato come gestore dell’acqua pubblica. E’ una razzia colossale, mondiale, quella dell’acqua su cui allungano le grinfie le mega-banche di Wall Street e i baroni neo-feudali dell’economia. «L’acqua è il prossimo petrolio», ammette la Goldman Sachs, in buona compagnia: con lei Jp Morgan Chase, Citigroup, Ubs e Deutsche Bank, Barclays e Credit Suisse, Hsbc e Allianz. Tutti a caccia di acqua. Anche l’ex presidente Bush, il padre di George Walker, in Paraguay sta acquistando terreni che galleggiano sulle falde acquifere più grandi del mondo.Pochi ne parlano, ma lo scenario è sconvolgente, scrive Jo-Shing Yang in un lungo reportage su “Global Research”, il magazine geopolitico canadese. «Stanno comprando acqua in tutto il mondo, ad un ritmo senza precedenti». I boss della finanza planetaria, i maggiori gruppi d’investimento: ricchi magnati, da qualche anno “nuovi baroni dell’acqua”. Grazie alla “crisi” hanno accumulato immense fortune finanziarie, e ora le usano per dare la caccia a «falde acquifere, laghi, diritti di sfruttamento dell’acqua, servizi idrici, società d’ingegneria idraulica ed aziende tecnologiche in tutto il mondo». E mentre i “baroni” sono impegnati in questa inquietante “campagna acquisti”, «i governi stanno rapidamente muovendosi per limitare la capacità dei cittadini di diventare autosufficienti nell’approvvigionamento idrico», rileva Jo-Shing Yang. “Privatizzare” è il verbo neoliberista dell’Ue, così come degli Usa: lo Stato dell’Oregon è giunto a condannare un cittadino, Gary Harrington, per aver osato rendersi autonomo costruendo raccolte per l’acqua piovana.«Il miliardario T. Boone Pickens, ad esempio, può possedere più diritti di sfruttamento dell’acqua rispetto a qualsiasi altra persona in America (compreso il diritto a drenare 65 miliardi di galloni dalla falda acquifera di Ogallala), ma il cittadino Gary Harrington non può raccogliere le acque piovane sui 170 acri del suo terreno privato», protesta Yang, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. «E’ un Nuovo Ordine Mondiale veramente strano quello in cui i multimiliardari e le banche elitarie possono tranquillamente possedere falde acquifere e laghi, ma i cittadini comuni non possono nemmeno raccogliere l’acqua piovana nei propri cortili e nei propri terreni». Del resto, «l’acqua è il petrolio del 21° secolo», dichiara Andrew Liveris, ceo della Dow Chemical. «Wall Street – dichiara la Jp Morgan – appare ben consapevole delle opportunità d’investimento nelle infrastrutture per l’approvvigionamento idrico, nel trattamento delle acque reflue e nelle tecnologie per la gestione della domanda».«La vera storia del settore idrico globale è veramente contorta, e coinvolge il “capitale globalizzato interconnesso”», spiega l’analista di “Global Research”. «Wall Street e le società d’investimento globali, le banche e le altre imprese private – valicando i confini nazionali e collaborando fra loro, ma anche con le banche e gli hedge-funds, con le aziende tecnologiche e con i colossi assicurativi, con i fondi-pensione (pubblici e regionali) e con i fondi-sovrani – si stanno muovendo con molta rapidità non solo per acquistare i diritti di sfruttamento e le tecnologie di trattamento delle acque, ma anche per privatizzare i servizi idrici e le infrastrutture pubbliche». Ci siamo: nel corso del prossimo decennio, Wall Street si sta preparando a impossessarsi delle riserve idriche globali. A partire dal 2006, precisa Jo-Shing Yang, la sola Goldman Sachs ha accumulato più di 10 miliardi di dollari da investire nelle infrastrutture, comprese quelle idriche. Secondo il “New York Times”, i maggiori gruppi finanziari – dalla Morgan Stanley al Carlyle Group – hanno raccolto qualcosa come 250 miliardi di dollari da destinare a investimenti sulle infrastrutture-chiave.«Con il termine “acqua” – continua il ricercatore – intendo i diritti di sfruttamento (acque sotterranee, falde acquifere e fiumi), i terreni dotati di riserve d’acqua (ovvero laghi, stagni, sorgenti naturali o sotterranee), i progetti di desalinizzazione, le tecnologie per la depurazione e il trattamento delle acque, l’irrigazione e le tecnologie per la perforazione dei pozzi, i servizi idrici ed igienico-sanitari di pubblica utilità, la costruzione e la manutenzione delle infrastrutture idriche (condotti per il trasporto su grandi distanze e per la piccola distribuzione, impianti di depurazione per usi residenziali, commerciali, industriali e comunali), i servizi di ingegneria (progettazione e costruzione di impianti idrici), il settore della vendita al dettaglio (produzione e vendita di acqua in bottiglia, distributori automatici, trasporto di acqua in bottiglia e servizi di consegna, autobotti)». In pratica, tutta l’acqua del mondo (occidentale) sarà loro. Proprietà privata.Impressionante il primo dossier presentato già nel 2008 da “Global Research”. Per la Goldman Sachs, la merce-acqua vale 425 miliardi di dollari. Una penuria idrica sarebbe una minaccia molto più grave di una crisi energetica o alimentare. Quindi è venuto il momento di “investire” su un bene così prezioso, in vista di guadagni enormi: «La Goldman Sachs sta preparandosi a divorare aziende del servizio idrico, società d’ingegneria e risorse idriche in tutto il mondo». Veolia, Suez, Uk’s Southern Water: tutte le multi-utility dell’acqua sono nel mirino degli “investitori”, gli stessi che hanno fatto miliardi – inguaiando interi popoli – con i titoli-spazzatura della finanza-truffa. Fanno gola società come la China Water and Drinks, «da quando la Cina è diventata il paese asiatico coi più grossi problemi per le forniture d’acqua». A Reno, nel Nevada, la Goldman ha proposto di “privatizzare” per 50 anni l’acqua dello Stato, in difficoltà a causa del calo delle entrate fiscali. E’ il segno – apocalittico – della nuova éra: per Willem Buitler, capo-economista di Citigroup, «l’acqua (intesa come “asset”) diventerà la più importante commodity fisica, e farà impallidire petrolio, rame, materie prime agricole e metalli preziosi».La piovra dell’acqua non conosce limiti, include la fratturazione idraulica (il fracking), e si espande in tutto il mondo. Per Credit Suisse, l’acqua sta diventando «il principale mega-trend del nostro tempo». La Jp Morgan, controllata dalla famiglia Rockefeller e specializzata nell’allevare insider famosi (Tony Blair) per condizionare governanti (fino a Matteo Renzi) punta dritto all’acquisizione di infrastrutture pubbliche, mediante privatizzazioni. Risale al 2008 il report di 60 pagine intitolato “Watch Water: una guida per valutare i rischi aziendali in un mondo assetato”. Da Wall Street a Berlino: presente in 70 paesi, l’Allianz Group ritiene che l’acqua sia «sottovalutata e sottoprezzata». Per il Water Fund di Francoforte, l’acqua dovrà essere pagata molto di più, così da motivare “investimenti” anche in paesi come la Cina e l’India. Dalla Deusche Bank alla Merryll Lynch (poi Bank of America) sarà un affare d’oro anche l’acqua europea, una volta privatizzata in via definitiva.Fondi d’investimento, fondi pensione, fondi “sovrani”: tutti soci, per il business per secolo. Non mancano i grandi nomi di sempre, come Warren Buffett che s’è comprato la Nalco, società per il trattamento delle acque, e nuovi miliardari come Manuel Pangilinan, che dalle Filippine sta “prenotando” l’acqua del Vietnam. Dal canto suo, la famiglia Bush possiede terreni per quasi mezzo milione di acri in Paraguay, al confine con Brasile e Bolivia: terreni che sovrastano l’Acuifero Guaranì, cioè la più grande falda idrica del mondo, più grande del Texas e della California messi insieme, capace di rifornire tutto il mondo di acqua potabile per 200 anni. «La febbre per la privatizzazione dell’acqua e delle infrastrutture è inarrestabile», conclude Jo-Shing Yang: molti governi a corto di denaro stanno per cedere alle maxi-offerte milionarie della finanza. «Le élites multinazionali e le banche di Wall Street si sono preparate per anni in attesa di questo momento d’oro. Nel corso degli ultimi anni hanno accumulato imponenti war-chests per la privatizzazione dell’acqua, dei servizi comunali e delle “utilities” di tutto il mondo. Sarà estremamente difficile invertire questa tendenza».http://comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=13486Temete la morte per acqua, recitano i versi della “Terra desolata”. Ma certo Eliot non poteva immaginare di quale morte fosse ambasciatrice l’acqua del terzo millennio: morte dei diritti e della democrazia, fine dell’accesso universale alla risorsa più preziosa. E’ il capolavoro finale dell’élite mondiale: i nuovi oligarchi “rubano” l’acqua a intere popolazioni, confiscano terreni acquiferi, finanziarizzano l’oro blu per farne merce speculativa. E naturalmente ordinano ai politici di privatizzare l’acqua nazionale, facendo scomparire lo Stato come gestore dell’acqua pubblica. E’ una razzia colossale, mondiale, quella dell’acqua su cui allungano le grinfie le mega-banche di Wall Street e i baroni neo-feudali dell’economia. «L’acqua è il prossimo petrolio», ammette la Goldman Sachs, in buona compagnia: con lei Jp Morgan Chase, Citigroup, Ubs e Deutsche Bank, Barclays e Credit Suisse, Hsbc e Allianz. Tutti a caccia di acqua. Anche l’ex presidente Bush, il padre di George Walker, in Paraguay sta acquistando terreni che galleggiano sulle falde acquifere più grandi del mondo.
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Monbiot: di crescita si muore, stiamo esaurendo la Terra
Immaginiamo che nel 3030 avanti Cristo tutte le ricchezze del popolo egiziano potessero entrare in un metro cubo, e supponiamo che questa ricchezza sia cresciuta del 4,5% all’anno: quanto sarebbe diventata grande al tempo della battaglia di Azio, tre milleni dopo? Dieci volte il volume delle piramidi? Tutta la sabbia del Sahara? L’Oceano Atlantico? Il volume di tutto il pianeta? Macché. Secondo il banchiere Jeremy Grantham, avremmo avuto bisogno di 2.5 miliardi di miliardi di sistemi solari. «Una volta compreso il significato e le proporzioni di questa conclusione – dice George Monbiot – non dovreste metterci molto ad arrivare alla paradossale posizione che l’unica salvezza sta nel crollo del sistema». Matematico: «Per continuare a far funzionare il sistema attuale dovremmo distruggerci da soli, ma se il sistema non funziona sarà il sistema stesso a distruggerci: questa è la spirale che abbiamo creato».Non possiamo certo ignorare il cambiamento climatico, il crollo della biodiversità, l’esaurimento di acqua, suolo, minerali e petrolio. Ma anche se, per miracolo, tutti questi problemi dovessero svanire, scrive Monbiot in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, la semplice regola della “crescita composta” rende comunque impossibile la continuità del sistema. L’attuale crescita economica? E’ un artificio, dovuto all’uso dei combustibili fossili. «Prima che si cominciassero a estrarre grandi quantità di carbone, ogni aumento della produzione industriale coincideva con una flessione della produzione agricola, come avvenne quando il carbone e la forza motore necessari per far espandere l’industria ridussero la quantità di terreno disponibile per la coltivazione di cibo. Ogni rivoluzione industriale ha causato il crollo della situazione precedente, perché la stessa crescita non poteva essere più sostenuta. Ma il carbone ha rotto questo ciclo e ha reso possibile – per qualche centinaio di anni – quel fenomeno che oggi chiamiamo crescita sostenibile».Secondo Monbiot, a scatenare il progresso (e le sue patologie moderne: guerra totale, concentrazione della ricchezza globale, distruzione del pianeta) non sono stati né il capitalismo né il comunismo: è stato il carbone, seguito dal petrolio e dal gas. Il filo conduttore di questa espansione? L’ideologia della crescita. E ora che si stanno esaurendo le riserve accessibili, «dobbiamo saccheggiare gli angoli più nascosti del pianeta pur di sostenere la nostra proposta impraticabile». Mentre gli scienziati annunciano il crollo della calotta antartica occidentale, il governo ecuadoriano decide di consentire la trivellazione petrolifera del parco nazionale Yasuni. Il povero Ecuador, che ha chiesto 3,6 miliardi di dollari, ha invece ricevuto solo 13 milioni. Risultato: «Petroamazonas, una compagnia con un medagliere pieno di record di distruzione e rovina, ora potrà entrare in uno dei luoghi dove esiste la maggior concentrazione di biodiversità del pianeta, dove si dice che un ettaro di foresta pluviale contenga più specie di quante ne esistano nell’intero continente nordamericano».Piove sul bagnato: i petrolieri inglesi della Soco sperano di riuscire a penetrare nel Virunga, il più antico parco nazionale africano, in Congo. Il Virunga, sottolinea Monbiot, è una delle ultime roccaforti dei gorilla di montagna e degli okapi, degli scimpanzé e degli elefanti delle foreste. In Gran Bretagna, dove è stato appena idendificato un probabile giacimento di 4.4 miliardi di barili di “shale oil”, «il governo fantastica di trasformare una verdeggiante periferia in un nuovo Delta del Niger: a tal fine sta cambiando le leggi anti-dispersione per consentire la perforazione del terreno senza nessun consenso ma offrendo ricche tangenti alla popolazione del posto». Tutto vano, in ogni caso: «Lo sfruttamento di queste nuove riserve non risolverà comunque niente», dice Monbiot: «Non metteranno fine alla nostra fame di risorse, la esarbeceranno solamente».Si sta infatti avvicinando il pericolo maggiore: «La traiettoria della crescita composta (scalare) mostra che l’isterilimento del pianeta è appena iniziato. Quando il volume dell’economia globale si espande, in tutto il mondo qualsiasi cosa contenga materiale concentrato, insolito, prezioso, sarà scoperta e sfruttata, le sue risorse saranno estratte e disperse», con buona pace delle ultime meraviglie del mondo. Qualcuno, aggiunge Monbiot, ha provato a risolvere questa “equazione impossibile” con il mito della dematerializzazione, sostenendo cioè che i processi stanno diventando più efficienti e gli oggetti sempre più piccoli. Errore: «Non c’è nessun segnale che questo stia accadendo veramente. La produzione di minerale di ferro è aumentata del 180% in 10 anni. I dati commerciali delle Forest Industries dicono che il consumo di carta globale è ad un livello record e continuerà a crescere». Paradossale: «Se nell’era digitale non riusciamo nemmeno a ridurre il consumo di carta, che speranza possiamo avere per le altre materie prime?».Sembra che nessuno se ne accorga, ma una superficie sempre più vasta del pianeta viene utilizzata per le estrazioni di materiali che servono a produrre oggetti inutili, merci di lusso o destinate a trasformarsi istantaneamente in rifiuti. «Forse è sorprendente che le nostre fantasie di colonizzare lo spazio – che ci fanno capire che potremmo esportare i problemi invece di risolverli – stanno riemergendo». Secondo il filosofo Michael Rowan, l’inevitabilità della “crescita scalare” significa che, se fosse sostenibile la crescita globale prevista lo scorso anno per il 2014 (3.1%), «anche se miracolosamente riducessino il consumo di materie prime del 90%, ritarderemmo l’inevitabile di solo 75 anni». Morale: «L’efficentamento non serve a nulla se la crescita continua. Il fallimento inevitabile di una società basata sulla crescita e sulla distruzione dei sistemi viventi della Terra sono i fatti che opprimono la nostra esistenza. Come risultato, non se ne parla quasi mai». E’ il tabù del ventunesimo secolo, blindato dalla disinformazione.Immaginiamo che nel 3030 avanti Cristo tutte le ricchezze del popolo egiziano potessero entrare in un metro cubo, e supponiamo che questa ricchezza sia cresciuta del 4,5% all’anno: quanto sarebbe diventata grande al tempo della battaglia di Azio, tre milleni dopo? Dieci volte il volume delle piramidi? Tutta la sabbia del Sahara? L’Oceano Atlantico? Il volume di tutto il pianeta? Macché. Secondo il banchiere Jeremy Grantham, avremmo avuto bisogno di 2.5 miliardi di miliardi di sistemi solari. «Una volta compreso il significato e le proporzioni di questa conclusione – dice George Monbiot – non dovreste metterci molto ad arrivare alla paradossale posizione che l’unica salvezza sta nel crollo del sistema». Matematico: «Per continuare a far funzionare il sistema attuale dovremmo distruggerci da soli, ma se il sistema non funziona sarà il sistema stesso a distruggerci: questa è la spirale che abbiamo creato».
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Pritchard: Europa alla fame, se l’euro dura ancora 5 anni
Il problema centrale all’origine di tutta la crisi della zona euro è il conflitto fondamentale d’interesse e di destino tra i paesi del sud e la Germania su come risolvere l’immenso gap di competitività. Questa questione rimane irrisolta e, secondo me, è semplicemente senza soluzione. I paesi del sud sono costretti ad una permanente svalutazione interna ed hanno bisogno di imporre politiche espansionistiche che rilancino la domanda, ma che costringerebbero la Germania ad uscire dall’euro per un tasso d’inflazione che Berlino non potrebbe accettare. E’ un rebus senza soluzione. La situazione non può essere risolta e prima la zona euro finirà, meglio sarà per tutti. L’alternativa? Sono 15-20 anni di depressione per la periferia imposti dall’attuazione delle regole del Fiscal Compact, che, in una fase di calo demografico e diminuzione della forza lavoro, produrranno scenari drammatici al tessuto economico e sociale di queste nazioni.Questa strategia assurda non aiuterà nessuno. E la domanda che le leadership devono porsi è: quanto può durare questa situazione senza che ci sia una reazione politica? In Francia e in Italia sta prendendo sempre più piede l’idea che, per salvare il resto del progetto europeo, è necessario pensare ad uno smantellamento coordinato dell’euro. E’ su questo punto che la politica deve iniziare a ragionare in modo costruttivo per evitare future reazioni a catena fuori controllo. Al momento non è utile fare previsioni sul futuro della zona euro, e proverei a ribaltare la questione in questo modo: non bisogna più parlare di rischio di rottura, ma il rischio reale e drammatico è che l’euro possa sopravvivere per altri cinque anni, producendo danni inimmaginabili ai paesi del sud dell’Europa. Il “decennio perso” dell’Europa si concluderebbe poi con uno scenario economico mondiale molto diverso da come era iniziato e l’intero continente vivrebbe totalmente ai margini. Il rischio vero è che l’euro sopravviva ancora. Ed è un rischio terribile per il futuro delle nazioni europee.In Italia, ad esempio, la disoccupazione giovanile è al 46% e questo in una fase di espansione globale. Riflettete su questo: a 5 anni dall’inizio della ripresa globale dopo la crisi Lehman Brothers, la disoccupazione giovanile in Italia è al 46%! E’ il tragico risultato delle scelte perseguite all’interno dell’Unione Europea e nella zona euro. Detto in altri termini è l’inevitabile suicidio di scegliere contemporaneamente politiche fiscali e monetarie restrittive. Questo, perlopiù, in una fase in cui le banche hanno ristretto l’accesso al credito all’economia reale per rispettare i nuovi regolamenti e la contrazione dei prestiti ha portato al fallimento di un numero incredibile di piccole imprese in Italia e in tutta l’Europa del sud. Anche nel Regno Unito abbiamo utilizzato misure di austerità fiscale, ma accompagnate da una grande spinta monetaria e lo stesso è accaduto negli Usa. In Europa si è scelto il suicidio economico di intere nazioni.L’economia italiana si è contratta nel primo trimestre dell’anno. E la ripresa, a differenza di quello che avevano annunciato, semplicemente non sta avvenendo. Lo stesso accade in Olanda, in Portogallo e in Spagna. La sola ragione per cui c’è un’apparente crescita in Spagna è il modo in cui viene ora calcolato il Pil. Un’analisi accurata mostra, tuttavia, come anche Madrid non sta crescendo. E tutti i paesi del sud, in ultima analisi, si stanno contraendo, con la Francia che è in stagnazione. Si tratta di una situazione paradossale, se si ragiona in un quadro di ripresa globale ormai consolidata: se a 5 anni dalla crisi Lehman Brothers, e con un contesto internazionale migliorato, l’economia dell’area euro non è ancora al sicuro e ha ancora una situazione di disoccupazione di massa drammatica e duratura, vuol dire che c’è qualcosa di profondo che non funziona.La contrazione del Pil nominale italiano negli ultimi due anni è un fallimento politico di proporzioni storiche e non sarebbe mai dovuto accadere. La riduzione del debito pubblico e privato per i paesi del sud è praticamente impossibile in una situazione di deflazione. Ho intervistato recentemente l’ufficiale del Fmi nelle operazioni della Troika in Irlanda e lui mi ha detto che Italia e Spagna per avere un debito sostenibile nel medio periodo hanno bisogno di un tasso d’inflazione della zona euro al 2% per oltre cinque anni consecutivi. E questo è confermato in una serie di paper del Fmi che hanno sottolineato come la traiettoria del debito sia fuori controllo in un contesto di bassissima inflazione. Se la periferia della zona euro ha “successo” nell’adempiere a quanto prescritto da Bruxelles-Berlino-Francoforte, crea una situazione di svalutazione interna e per riguadagnare competitività con la Germania si abbatte il Pil nominale, rendendo fuori controllo la traiettoria del debito. Se raggiungi quello che Bruxelles ti sta chiedendo, in poche parole, vai in bancarotta. E’ la conseguenza del “successo”.Non so se le autorità monetarie europee si siano mai poste questa domanda: perchè hanno imposto queste politiche ai paesi se il loro successo rende la situazione peggiore di quella precedente? Esiste una ragione credibile a livello economico sul perché la Bce non vuole raggiungere gli obiettivi di politica monetaria e per un periodo così lungo? No, non c’è. Un’inflazione prossima allo zero costa all’Italia il 2,6% del Pil per raggiungere lo stesso obiettivo che potrebbe essere raggiunto se solo la Bce rispettasse gli obiettivi imposti dai trattati. Questa situazione di bassissima inflazione è disastrosa per il futuro economico dell’Italia. Quando Mario Draghi ha lanciato il programma Omt – Outgriht Monetary Transactions – nell’agosto del 2012 è cambiato tutto. L’euro stava per fallire a luglio, con Italia e Spagna che erano in una grande crisi di finanziamento del proprio debito e la moneta unica era molto vicina al collasso. Angela Merkel stava pensando di espellere la Grecia dalla zona euro e solo quando ha accertato che ci sarebbero stati troppi pericoli per il contagio di Italia e Spagna, Berlino ha accettato il piano ideato dal ministero delle finanze tedesco, che si è trasformato poi nel programma Omt.Poche persone hanno compreso bene questa fase storica: non è la Bce, ma la Germania che ha cambiato politica, trasformando l’istituto di Draghi in una prestatore di ultima istanza. Da allora la crisi della zona euro è completamente diversa e non c’è più il rischio che l’euro possa esplodere per un fallimento bancario. Ma bisogna stare attenti perché la Corte Costituzionale tedesca ha stabilito che l’Omt di Draghi rappresenta una violazione dei trattati. Il pericolo sistemico esiste ancora e si può arrivare ad una rottura per ragioni differenti: i paesi del sud vivranno una situazione di depressione economica permanente, che produrrà danni ai settori industriali nevralgici per la vita dei diversi paesi e una situazione politicamente insostenibile nel lungo periodo. Le elezioni di partiti radicali potrebbero quindi forzare il cambiamento e modificare l’intero progetto.In Gran Bretagna, l’Ukip costringerà il partito conservatore di Cameron – che è personalmente pro-Europa rispetto ad un’ala sempre più influente di Tory che la pensa come l’Ukip – a cambiare posizione, perché il messaggio a Bruxelles nelle ultime elezioni è stato chiaro: il popolo britannico non tollera più una perdita di sovranità continua. Quando in Francia a vincere è un partito che, una volta al potere, vuole – come mi ha confermato Marine Le Pen in un’intervista – ordinare al Tesoro francese di attivarsi per il ritorno immediato al franco, la questione rimane centrale nel dibattito. Come reagiranno ora i gollisti e i conservatori moderati a questo messaggio del popolo francese alle elezioni europee e alla distruzione dell’industria storica francese? Se il Fronte Nazionale dovesse vincere le elezioni, la Francia non rispetterà il Fiscal Comapct e questa ridicola legislazione decisa da Bruxelles. Gli altri partiti non possono più ignorarlo.Ci sono due possibili vie: i paesi della periferia comprenderanno che la permanenza nella zona euro richiede un numero di sacrifici non più tollerabili e decideranno di uscirne; oppure, ad esempio insieme all’Olanda che è in una situazione similare, prenderanno possesso in modo coordinato delle istituzioni che controllano la politica economica dell’Ue, imponendo il cambiamento in linea con le loro esigenze. Sarei molto sorpreso se si realizzasse quest’ultima alternativa, dato che questi paesi non hanno certo il coltello da parte del manico e già in passato Hollande ha fallito nel creare un consenso con i paesi mediterranei. Ma anche se dovessero riuscirci, il rischio della zona euro sarebbe poi l’opposto, vale a dire un’uscita della Germania, che non accetterebbe mai politiche inflazionistiche.(Ambrose Evans-Pritchard, dichiarazioni rilasciate ad Alessandro Bianchi per l’intervista “Il vero rischio non è la sua fine, ma che l’euro sopravviva altri cinque anni: le conseguenze sarebbero drammatiche”, pubblicata da “L’Antidiplomatico” il 4 giugno 2014).Il problema centrale all’origine di tutta la crisi della zona euro è il conflitto fondamentale d’interesse e di destino tra i paesi del sud e la Germania su come risolvere l’immenso gap di competitività. Questa questione rimane irrisolta e, secondo me, è semplicemente senza soluzione. I paesi del sud sono costretti ad una permanente svalutazione interna ed hanno bisogno di imporre politiche espansionistiche che rilancino la domanda, ma che costringerebbero la Germania ad uscire dall’euro per un tasso d’inflazione che Berlino non potrebbe accettare. E’ un rebus senza soluzione. La situazione non può essere risolta e prima la zona euro finirà, meglio sarà per tutti. L’alternativa? Sono 15-20 anni di depressione per la periferia imposti dall’attuazione delle regole del Fiscal Compact, che, in una fase di calo demografico e diminuzione della forza lavoro, produrranno scenari drammatici al tessuto economico e sociale di queste nazioni.
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Altre sanzioni, e addio dollaro: Mosca passa allo yuan
L’asse eurasiatico anti-dollaro sta rapidamente prendendo forma, accelerato dalla politica estera degli Usa in Ucraina: la crisi, osserva Tyler Durden, ha rapidamente spinto la Russia verso la Cina. Il “Financial Times” conferma che le imprese russe si stanno preparando a modificare i loro contratti per accettare pagamenti in renminbi e altre valute asiatiche, nel timore che le sanzioni occidentali possano congelare le loro spettanze una volta tagliate fuori dal mercato del dollaro. Lo conferma Pavel Teplukhin, capo della Deutsche Bank in Russia, mentre un altro super-banchiere come Andrej Kostin, ceo della banca di Stato russa Vtb, ammette che l’allargamento dell’uso di valute alternative al dollaro è uno dei loro «maggiori obiettivi», in vista del poderoso incremento dei volumi del commercio bilaterale con la Cina. Per i pagamenti, dunque, via libera al rublo e allo yuan. «Ci stiamo lavorando», conferma lo stesso Putin. E un altro banchiere europeo in Russia ammette: «Non c’è niente di sbagliato se la Russia vuol provare a ridurre la propria dipendenza dal dollaro».La notevole esposizione in dollari della Russia costringe Mosca ad un’estrema volatilità, pericolosa in tempi di crisi: «Non c’è ragione, per esempio, di pagare i conti in dollari se si commercia con il Giappone». L’amministratore delegato di una importante industria manufatturiera russa, che fattura le esportazioni per il 70% in dollari Usa, spiega che la sua azienda ha già fatto i passi opportuni per modificare la forma di pagamento dei suoi contratti anche in altre valute, nel caso di ulteriori sanzioni: «Se capitasse qualcosa, saremmo pronti ad accettare pagamenti anche in altre valute, per esempio in yuan o in dollari di Hong Kong e Singapore dalla Cina». Mentre i rapporti di Mosca con l’Unione Europea si vanno facendo sempre più tesi, scrive Durden in un post su “Come Don Chisciotte”, è evidente la svolta della Russia verso Pechino: non devono meravigliare gli attacchi improvvisi contro il valore del renmimbi, in vista del suo possibile futuro «come valuta di capitali russi».La domanda più importante: quanto peserà sulla tenuta della valuta cinese la maggiore domanda di yuan per pagare le importazioni russe? «Quello che non si vuol capire, ancora una volta – scrive Durden – è che la Russia sta servendo solamente l’aperitivo di quello che serviranno al G-20 gli altri paesi, molti dei quali sono veramente indispettiti per l’uso prepotente del potere di voto Usa al Fondo Monetario Internazionale». Questo, secondo l’analista, potrebbe portare ad accordi bilaterali che ogni paese potrebbe stipulare con la Cina: «Pratiche che comporterebbero una ulteriore de-dollarizzazione, permettendo al renminbi di diventare progressivamente ancora più importante sul palcoscenico mondiale». Secondo Teplukhin, le società russe sono già pronte ad affrontare il rischio di future sanzioni Usa con un semplice «cambio di clausola nei loro contratti, per permettere di cambiare la valuta di pagamento, ove necessario».Ma forse, continua Durden, è ancora più importante il prossimo passo accennato dal Cremlino: a Mosca c’è chi suggerisce a Putin di rispondere alle sanzioni occidentali con una «completa de-dollarizzazione» della propria economia. Per il momento, Putin valuta e prende tempo. «Fino a quando la Russia non sarà soggetta a sanzioni sistemiche, che potrebbero portare a dei limiti artificiali per la nostra economia nell’accesso al dollaro, non credo che faremo ulteriori passi per raggiungere una artificiosa de-dollarizzazione», dice Andrej Belousov, consigliere economico di Putin. In ogni caso, per Tyler Durden lo scenario è delineato: «Più l’Occidente insisterà con le sanzioni, più rapida sarà la caduta del dollaro americano». La Russia? Oggi «ha in mano la carta vincente», perché «se solo volesse mostrare al mondo che l’asse Russia-Cina non ha bisogno dei verdoni dello Zio Sam, le basterebbe essere appena più “aggressiva” in Ucraina e farsi appioppare altre sanzioni, in modo da essere “obbligata” a de-dollarizare un tantino di più. Poi la vedremmo risciacquarsi la bocca e sputare l’acqua sporca».L’asse eurasiatico anti-dollaro sta rapidamente prendendo forma, accelerato dalla politica estera degli Usa in Ucraina: la crisi, osserva Tyler Durden, ha rapidamente spinto la Russia verso la Cina. Il “Financial Times” conferma che le imprese russe si stanno preparando a modificare i loro contratti per accettare pagamenti in renminbi e altre valute asiatiche, nel timore che le sanzioni occidentali possano congelare le loro spettanze una volta tagliate fuori dal mercato del dollaro. Lo conferma Pavel Teplukhin, capo della Deutsche Bank in Russia, mentre un altro super-banchiere come Andrej Kostin, ceo della banca di Stato russa Vtb, ammette che l’allargamento dell’uso di valute alternative al dollaro è uno dei loro «maggiori obiettivi», in vista del poderoso incremento dei volumi del commercio bilaterale con la Cina. Per i pagamenti, dunque, via libera al rublo e allo yuan. «Ci stiamo lavorando», conferma lo stesso Putin. E un altro banchiere europeo in Russia ammette: «Non c’è niente di sbagliato se la Russia vuol provare a ridurre la propria dipendenza dal dollaro».
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Dopo la Grecia l’Italia, cavia europea rassegnata a Renzi
Il voto alle europee premia con un consenso da anni 50 un partito e un leader che fruiscono di un sistema di potere e sostegno senza precedenti nella storia repubblicana. Con il Pd di Renzi stanno sia Obama che Merkel e soprattutto Goldman Sachs e Bilderberg. Le agenzie di rating lo premiano e la finanza internazionale lo elogia. Da noi poi il sostegno dell’establishment è totale. In nessun momento della storia repubblicana, neppure nel breve periodo della unità nazionale alla fine degli anni 70, c’è stato un tal sostegno comune al governo da parte di banche, Confindustria, Cgil Cisl e Uil, Conferenza Episcopale, terzo settore, enti locali, mondo dello sport e dello spettacolo, giornali, televisioni, tutto. Renzi a sua volta è riuscito a mescolare la vecchia capacità comunicativa di Berlusconi, l’affidabilità finanziaria di Monti, la rivolta contro le caste di Grillo, e a fare di tutto questo un messaggio di speranza privo di agganci concreti, che ha fatto presa su un paese democraticamente stremato.Qui non c’è davvero nulla che sembri una vittoria della sinistra, fondata sulla partecipazione e sulla crescita di lotte e movimenti. Il consenso a Renzi si fonda sulla fine delle illusioni e sulla rassegnazione. La forza di Renzi sta nell’inerzia e nella passività diffusa tra le persone massacrate dalla crisi, che si aggravano con l’assenza di azione sociale e sindacale, mentre tutte le élites investono su di lui. Per fare che? Per costruire con il consenso una gestione neoliberale della crisi in Europa. Potremmo davvero esportare il Gattopardo in tutto il continente. Quando Van Rompuy afferma che finora la Ue ha difeso gli affaristi e ora si deve occupare delle persone parla come Renzi. E naturalmente agisce come lui, visto che continua a portare avanti i negoziati con Usa e Canada per quello sconvolgente via libera alle multinazionali che è il Ttip, e vuole rafforzare il fiscal compact con l’Erf.La Grecia è stata una cavia in tutti i sensi, non solo per la sperimentazione delle più brutali politiche di austerità, ma anche per la comprensione dei limiti del puro esercizio brutale del potere di banche e finanza. Per questo la signora Merkel è una fan ricambiata di Matteo Renzi. Perché bisogna cambiare dosi e modalità di somministrazione di una medicina che però deve restare sempre la stessa. Gli 80 euro nella busta paga sono questo. Come ha detto Tsipras, sono una misura concordata con Merkel per rendere più accettabile la continuazione della politica di austerità. Che non a caso viene contemporaneamente ribadita nei suoi tre cardini: la flessibilità del lavoro, cioè la riduzione dei salari e dei diritti, le privatizzazioni, la riduzione della spesa pubblica sociale nel nome del pareggio di bilancio, che siamo il solo paese euro ad aver inserito nella Costituzione.La Commissione Europea ci chiede nuovo rigore mentre i disoccupati veri sono 6 milioni e quelli ufficiali più della metà. Ma non c’è alcun reale cambiamento nella politica economica, anzi. Renzi non ha mai posto in discussione il vincolo europeo, anzi ha sempre più spesso affermato che i problemi sono da noi e che si cambia l’Europa cambiando l’Italia con le riforme, liberiste. Il vecchio slogan di Monti che dobbiamo fare i compiti a casa diventa l’obiettivo di essere i primi della classe. Siamo la seconda cavia d’Europa dopo la Grecia. Lì si è usato solo il bastone, qui si prova con Renzi. Il futuro della nostra democrazia dipenderà da se e come si costruirà una opposizione a tutto questo dal lato della sinistra. Occorre operare perché il disegno di Renzi e di chi lo sostiene fallisca, altrimenti perderemo altri venti anni scoprendo ora Blair e Clinton, quando ovunque la loro politica è oggi sotto accusa per essere stata una delle cause di fondo della crisi mondiale.(Giorgio Cremaschi, estratti dell’intervento “28 giugno, in piazza contro Renzi e l’Europa del Fiscal Compact”, pubblicato da “Micromega” il 4 giugno 2014).Il voto alle europee premia con un consenso da anni 50 un partito e un leader che fruiscono di un sistema di potere e sostegno senza precedenti nella storia repubblicana. Con il Pd di Renzi stanno sia Obama che Merkel e soprattutto Goldman Sachs e Bilderberg. Le agenzie di rating lo premiano e la finanza internazionale lo elogia. Da noi poi il sostegno dell’establishment è totale. In nessun momento della storia repubblicana, neppure nel breve periodo della unità nazionale alla fine degli anni 70, c’è stato un tal sostegno comune al governo da parte di banche, Confindustria, Cgil Cisl e Uil, Conferenza Episcopale, terzo settore, enti locali, mondo dello sport e dello spettacolo, giornali, televisioni, tutto. Renzi a sua volta è riuscito a mescolare la vecchia capacità comunicativa di Berlusconi, l’affidabilità finanziaria di Monti, la rivolta contro le caste di Grillo, e a fare di tutto questo un messaggio di speranza privo di agganci concreti, che ha fatto presa su un paese democraticamente stremato.
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I leader Ue sono marci: tangenti da 120 miliardi l’anno
L’Europa è malata. Quanto gravemente è questione non sempre facile da giudicare. Ma tra i sintomi ce ne sono tre di cospicui, e interrelati. Il primo, e più familiare, è la svolta degenerativa della democrazia in tutto il continente, di cui la struttura della Ue è a un tempo la causa e la conseguenza. Lo stampo oligarchico delle sue scelte costituzionali, a suo tempo concepite come impalcatura di una sovranità popolare a venire di scala sovranazionale, nel tempo si è costantemente rafforzato. I referendum sono regolarmente sovvertiti se intralciano la volontà dei governanti. Gli elettori le cui idee sono disdegnate dalle élite rigettano i governi che nominalmente li rappresentano, l’affluenza alle urne cala di elezione in elezione. Burocrati che non sono mai stati eletti controllano i bilanci dei parlamenti nazionali espropriati del potere di spesa. All’involuzione generalizzata si è accompagnata una corruzione pervasiva della classe politica, argomento su cui le scienze politiche, parecchio loquaci a proposito di quello che nel linguaggio dei contabili è definito il deficit democratico dell’Unione, solitamente tacciono.Le forme di tale corruzione devono ancora trovare una tassonomia sistematica. C’è la corruzione pre-elettorale: il finanziamento di persone e partiti da fonti illegali – o legali – contro la promessa, esplicita o tacita, di futuri favori. C’è la corruzione post-elettorale: l’uso delle cariche per ottenere fondi mediante malversazioni sulle entrate o mazzette sui contratti. C’è l’acquisto di voci o voti nei parlamenti. C’è il furto puro e semplice dalle casse pubbliche. C’è la falsificazione di credenziali per vantaggi politici. C’è l’arricchimento dalla carica pubblica dopo l’evento, così come durante o prima di esso. Il panorama di questa malavita è impressionante. Un affresco di esso potrebbe cominciare con Helmut Kohl, governante della Germania per sedici anni, che accumulò due milioni di marchi di fondi neri da donatori illegali i cui nomi, quando fu denunciato, rifiutò di rivelare per timore che venissero alla luce i favori che aveva fatto loro. Oltre il Reno, Jacques Chirac, presidente della Repubblica Francese per dodici anni, fu condannato per appropriazione di fondi pubblici, abuso di ufficio e conflitti d’interesse, una volta caduta l’immunità. Nessuno dei due ha subito pene. Questi erano due dei più potenti politici dell’epoca in Europa.In Germania il governo di Gerhard Schroeder garantì un prestito da un miliardo di euro alla Gazprom per la costruzione di un gasdotto sul baltico poche settimane prima che egli si dimettesse da cancelliere e andasse a libro paga della Gazprom con uno stipendio maggiore di quello che aveva ricevuto governando il paese. Dopo la sua partenza, Angela Merkel ha visto due presidenti della repubblica, uno dietro l’altro, costretti a dimettersi da screditati: Horst Koehler, ex capo del Fmi, per aver spiegato che il contingente della Bundeswehr in Afghanistan stava proteggendo interessi commerciali tedeschi; e Christian Wulff, ex capo cristiano-democratico della Bassa Sassonia, per un prestito discutibile ricevuto da un affarista amico per la sua casa. Due ministri eminenti, uno della difesa e l’altro dell’istruzione, hanno dovuto andarsene quando sono stati privati dei loro dottorati – una credenziale importante per una carriera politica nella Repubblica Federale – per violazione dei diritti di proprietà intellettuale. Quando il secondo, Annette Schavan, un’intima amica della Merkel (che aveva manifestato piena fiducia in lei) era ancora in carica, il “Bild Zeitung” ha osservato che avere un ministro dell’istruzione che aveva falsificato le sue ricerche era come avere un ministro delle finanze con un conto segreto in Svizzera.In Francia il ministro socialista del bilancio, il chirurgo plastico Jérôme Cahuzac, la cui direttiva era di difendere la probità e l’equità fiscale, è stato scoperto detenere qualcosa tra i 600.000 e i 15 milioni di euro in depositi segreti in Svizzera e a Singapore. Nicolas Sarkozy, nel frattempo, è accusato da testimoni concordi di aver ricevuto circa 20 milioni di dollari da Gheddafi per la campagna elettorale che lo portò alla presidenza. Christine Lagarde, il suo ministro delle finanze, che oggi dirige il Fmi, è sotto inchiesta per il suo ruolo nella concessione di 420 milioni di dollari di ‘risarcimento’ a Bernard Tapie, un ben noto truffatore con un passato in carcere, negli ultimi tempi amico di Sarkozy. Contiguità disinvolta con la criminalità è bipartisan. François Hollande, attuale presidente della repubblica, usava come pied-à-terre per gli incontri con la sua amante un appartamento della donna di un gangster corso, ucciso l’anno scorso in una sparatoria sull’isola.In Gran Bretagna, circa nello stesso periodo, l’ex premier Blair consigliava a Rebekah Brooks, che rischiava il carcere per cinque accuse di cospirazione criminale («Sii forte e prendi pastiglie per dormire. Passerà») e la sollecitava a «pubblicare un rapporto in stile Hutton», come aveva fatto lui per sterilizzare qualsiasi parte il suo governo potesse aver avuto nella morte di una fonte interna che aveva fatto rivelazioni sulla sua guerra in Iraq: un’invasione dalla quale ha poi proseguito a raccogliere – naturalmente per la sua Fondazione Faith – mance e contratti assortiti in giro per il mondo, considerevoli fondi in contanti da una compagnia petrolifera della Corea del Sud gestita da un delinquente condannato con interessi in Iraq e presso la dinastia feudale del Kuwait. Quali ricompense possa essersi guadagnato più a est resta da vedere («I progressi del Kazakistan sono splendidi. Comunque, signor Presidente, lei ha toccato nuovi vertici nel suo messaggio alla nazione». Alla lettera.).In patria, in uno scambio di favori a proposito dei quali ha mentito compuntamente al Parlamento, le sue mani sono state unte da un milione di sterline versate alle casse del partito dal magnate delle corse automobilistiche Bernie Ecclestone, attualmente sotto giudizio in Baviera per tangenti al ritmo di 33 milioni di euro. Nella cultura del New Labour, figure di spicco della cerchia di Blair, ministri di gabinetto un tempo – Byers, Hoon, Hewitt – non sono stati in grado di offrirsi in vendita al successore. Negli stessi anni, indipendentemente dal partito, la Camera dei Comuni è stata denunciata come un pozzo nero di meschine malversazioni di denaro dei contribuenti. In Irlanda, contemporaneamente, il leader del Fianna Fàil, Bertie Ahern, avendo canalizzato più di 400.000 euro di pagamenti non spiegati prima di diventare “taioseach”, si è votato lo stipendio più elevato di qualsiasi premier in Europa – 310.000 euro, più persino del presidente degli Stati Uniti – un anno prima di doversene andare con disonore per assoluta disonestà.In Spagna l’attuale primo ministro, Mariano Rajoy, alla guida di un governo di destra, è stato colto con le mani nel sacco mentre riceveva mazzette per contratti di costruzione e di altro genere per un totale di un quarto di milione di euro nel giro di un decennio, passategli da Luis Bàrcenas. Tesoriere del suo partito per vent’anni, Bàrcenas è oggi sotto arresto per aver accumulato un tesoro di 48 milioni di euro in conti svizzeri non dichiarati. I libri mastri, compilati a mano, contenenti i dettagli dei suoi versamenti a Rajoy e ad altri notabili del Partito del Popolo – tra cui Rodrigo Rato, altro ex capo del Fmi – sono apparsi in facsimile in abbondanza sulla stampa spagnola. Una volta scoppiato lo scandalo Rajoy ha inviato a Bàrcenas un messaggio con parole virtualmente identiche a quelle di Blair alla Brooks: «Luis, io capisco. Resta forte. Ti chiamerò domani. Un abbraccio». Pur con uno scandalo in cui l’85% del pubblico spagnolo ritiene che egli menta, resta incollato alla poltrona nel Palazzo della Moncloa.In Grecia, Akis Thochatzopoulos, del Pasok – ministro, in successione, dell’interno, della difesa e dello sviluppo – in un’occasione arrivato a un soffio dalla guida della socialdemocrazia greca, è stato meno fortunato: condannato l’autunno scorso a vent’anni di carcere per una formidabile carriera di estorsioni e di riciclaggi di denaro sporco. Oltre il mare Tayyip Erdogan, a lungo celebrato dai media e dall’establishment intellettuale dell’Europa come il più grande statista democratico della Turchia, la cui condotta ha virtualmente dato al paese il titolo di membro onorario della Ue ante diem, ha dimostrato di essere meritevole di essere incluso nei ranghi della dirigenza europea in un altro modo: in una conversazione registrata in cui dava al figlio istruzioni su dove nascondere decine di milioni in contanti, in un’altra in cui alzava il prezzo di una robusta tangente su un contratto di costruzioni. Tre ministri del governo sono caduti dopo scoperte analoghe, prima che Erdogan purgasse le forze della polizia e della magistratura per assicurarsi che non si spingessero oltre.Mentre egli faceva questo la Commissione Europea ha pubblicato il suo primo rapporto ufficiale sulla corruzione nell’Unione, la cui dimensione il commissario autore del rapporto l’ha descritta come “mozzafiato”: secondo una stima prudente, costa alla Ue quanto l’intero bilancio dell’Unione, circa 120 miliardi l’anno, ma la cifra reale è «probabilmente molto più alta». Prudentemente il rapporto si è occupato solo degli stati membri. La stessa Ue, la cui intera Commissione fu costretta in tempi non lontani a dimettersi screditata, è stata esclusa (la Commissione Santer fu costretta a dimettersi nel 1999 per accuse di corruzione contro alcuni suoi membri). Diffuso in un’Unione che si presenta come tutore morale del mondo, l’inquinamento del potere ad opera del denaro e della frode deriva dallo svuotamento di sostanza o dalla caduta del coinvolgimento nella democrazia. Le élite, liberate sia da una reale divisione in alto sia da un significativo dovere di rispondere in basso, possono permettersi di arricchirsi alla follia e impunite. La denuncia cessa di contare molto, poiché l’impunità diviene la regola. Come i banchieri, i politici di spicco non finiscono in carcere.Ma la corruzione non è solo una funzione del declino dell’ordine politico. E’ anche, ovviamente, un sintomo del regime economico che si è impossessato dell’Europa a partire dagli anni ’80. In un universo neoliberista dove i mercati sono il metro del valore, il denaro diventa, più platealmente che mai, la misura di tutte le cose. Se ospedali, scuole e carceri possono essere privatizzati a fini di profitto delle imprese, perché non anche le cariche politiche? Oltre alla ricaduta culturale del neoliberismo, tuttavia, vi è l’impatto del sistema socio-economico, la terza e, nell’esperienza del popolo, di gran lunga più acuta delle malarie che affliggono l’Europa. Che la crisi economica scatenate in occidente nel 2008 sia stata il risultato di decenni di liberalizzazioni nel settore finanziario e di espansione del credito lo ammettono, più o meno, i loro stessi architetti; si veda Alan Greenspan. Collegate oltre Atlantico, le banche e le attività immobiliari europee erano già coinvolte nel disastro tanto quanto le loro omologhe statunitensi. Nella Ue, tuttavia, questa crisi generale è stata aggravata da un altro fattore peculiare dell’Unione, le distorsioni create dalla moneta unica imposta a economie nazionali molto diverse tra loro, spingendo le più vulnerabili di esse sull’orlo della bancarotta quando sono state colpite dalla crisi generale.(Perry Anderson, estratto dall’intervento “Il disastro italiano”, pubblicato da “Sinistra in rete” il 29 maggio 2014).L’Europa è malata. Quanto gravemente è questione non sempre facile da giudicare. Ma tra i sintomi ce ne sono tre di cospicui, e interrelati. Il primo, e più familiare, è la svolta degenerativa della democrazia in tutto il continente, di cui la struttura della Ue è a un tempo la causa e la conseguenza. Lo stampo oligarchico delle sue scelte costituzionali, a suo tempo concepite come impalcatura di una sovranità popolare a venire di scala sovranazionale, nel tempo si è costantemente rafforzato. I referendum sono regolarmente sovvertiti se intralciano la volontà dei governanti. Gli elettori le cui idee sono disdegnate dalle élite rigettano i governi che nominalmente li rappresentano, l’affluenza alle urne cala di elezione in elezione. Burocrati che non sono mai stati eletti controllano i bilanci dei parlamenti nazionali espropriati del potere di spesa. All’involuzione generalizzata si è accompagnata una corruzione pervasiva della classe politica, argomento su cui le scienze politiche, parecchio loquaci a proposito di quello che nel linguaggio dei contabili è definito il deficit democratico dell’Unione, solitamente tacciono.