Archivio del Tag ‘banche’
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Carpeoro: contro Bruxelles, l’Italia la spunta se resta unita
Curiosi, gli allarmisti che ipotizzano di dover portare i soldi all’estero perché saremmo governati da pericolosi incapaci: ma se se è proprio “l’estero” che vuole i tuoi soldi, tu che fai, glieli porti? Certo, ora l’Ue farà scattare la procedura di infrazione, perché cercano di fare dei danni all’Italia prima delle europee. L’attuale assetto europeo capisce che potrebbe pagare dazio, alle elezioni, e quindi accelererà il più possibile le procedure di infrazione. Bisogna vedere noi come riusciremo a rispondere: sarà interessante assistere. Questo scontro può portare a situazioni difficili, anche a livello bancario, come il blocco dei conti correnti? Dipende: se riusciranno a metterci in croce come la Grecia, sì. Ma questo dipende anche da noi. Se credessimo nel nostro governo e nel nostro Stato, saremmo al sicuro: gli italiani avrebbero la forza economica di respingere qualunque attacco. Il risparmio privato degli italiani è praticamente pari al debito pubblico. Invece, anziché difendere il governo del proprio paese dagli attacchi esterni, le opposizioni si alleano con i nemici dello Stato: è successo e succederà ancora, l’Italia è fatta così. Per questo è un paese debole. Tutto è pericoloso, virtualmente: se gli italiani sono i primi a non credere nel proprio Stato, è giusto che il loro Stato soccomba. Noi stiamo pagando i nostri errori e le nostre debolezze: se non smettiamo di accumularne, poi non ci possiamo meravigliare.Mattarella? Farà un po’ di capricci ma poi la firmerà, la manovra finanziaria del governo. E’ vero, è stato detto che lui è espressione dei poteri europei oggi ostili all’Italia, ma in questo caso non può fare diversamente. E’ il presidente della Repubblica, e la volontà politica del Parlamento è questa: come fa, a non firmare? Se ci fosse un “grave pericolo” per il paese? E’ una situazione molto delicata, costituzionalmente. Mattarella potrebbe cercare una sponda nella Corte Costituzionale: se la trova può non firmare – ma se non la trova, no. Le turbolenze nel governo gialloverde? Tra Salvini e Di Maio c’è una competizione in corso, e credo che Di Maio si sia reso conto di aver perso troppo terreno nei confronti della Lega a beneficio di Salvini, e questo incrudelisce un po’ la situazione. Sul fronte opposto spunta Minniti, candidato da una robusta quota di amministratori che ben rappresentano una parte importante del Pd. Minniti può rappresentare una svolta interessante, per la segreteria del partito. E’ un uomo forte, nel Pd, che con lui rischia di avere un leader vero. Finora ha lavorato bene. Certo, è un vecchio collaboratore di D’Alema – che comunque aveva stoffa, come leader politico: paragonarlo a Renzi e a quelli che sono venuti dopo è penoso per quelli a cui lo si paragona.Quantomeno, Minniti potrebbe essere una mera speranza di sopravvivenza, per la cosiddetta sinistra. Peraltro, continuò l’opera avviata da D’Alema quand’era alla guida del Copasir: fece un bel repulisti nei nostri servizi segreti, che infatti da vent’anni funzionano benissimo e hanno evitato all’Italia di subire attentati. Mi preoccupa che il governo gialloverde sia intenzionato a cambiare il vertice dei servizi, che in questi anni hanno dimostrato un’efficienza straordinaria nel garantire la nostra sicurezza. Il terrorismo Isis improvvisamente scomparso, dopo aver prodotto gli effetti che in Europa probabilmente qualcuno attendeva? Io credo che questi riflussi, queste onde, siano anche figlie di un momento particolare che poi, una volta passato, non c’è più bisogno di sollecitare. In questo momento c’è uno stallo, che vede tanti protagonisti: l’atlantismo (l’America), le due facce dell’Asia (Cina e Russia), un certo tipo di Europa, e un’ondata montante – eversiva – di paesi dell’altra sponda del Mediterraneo (che però, non riusciendo a coordinarsi, non riescono ancora a sedersi al tavolo per stabilire degli equilibri). E allora probabilmente questo stallo, oggi, comporta il fatto che determinate attività eversive vengano in qualche modo abbassate di tono.(Gianfranco Carporo, dichiarazioni rilasciate nell’ambito della conversazione in web-streaming “Carpeoro Racconta”, su YouTube, con Fabio Frabetti di “Border Nights” il 18 novembre 2018).Curiosi, gli allarmisti che ipotizzano di dover portare i soldi all’estero perché saremmo governati da pericolosi incapaci: ma se se è proprio “l’estero” che vuole i tuoi soldi, tu che fai, glieli porti? Certo, ora l’Ue farà scattare la procedura di infrazione, perché cercano di fare dei danni all’Italia prima delle europee. L’attuale assetto europeo capisce che potrebbe pagare dazio, alle elezioni, e quindi accelererà il più possibile le procedure di infrazione. Bisogna vedere noi come riusciremo a rispondere: sarà interessante assistere. Questo scontro può portare a situazioni difficili, anche a livello bancario, come il blocco dei conti correnti? Dipende: se riusciranno a metterci in croce come la Grecia, sì. Ma questo dipende anche da noi. Se credessimo nel nostro governo e nel nostro Stato, saremmo al sicuro: gli italiani avrebbero la forza economica di respingere qualunque attacco. Il risparmio privato degli italiani è praticamente pari al debito pubblico. Invece, anziché difendere il governo del proprio paese dagli attacchi esterni, le opposizioni si alleano con i nemici dello Stato: è successo e succederà ancora, l’Italia è fatta così. Per questo è un paese debole. Tutto è pericoloso, virtualmente: se gli italiani sono i primi a non credere nel proprio Stato, è giusto che il loro Stato soccomba. Noi stiamo pagando i nostri errori e le nostre debolezze: se non smettiamo di accumularne, poi non ci possiamo meravigliare.
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Spread manipolato, Oettinger e Moscovici denunciati al pm
Sparlate pubblicamente della manovra gialloverde, incidendo sullo spread? E noi vi denunciamo alla magistratura. E’ stata depositata presso le procure di Roma e Bari la denuncia intrapresa da due giornalisti, Francesco Palese e Lorenzo Lo Basso, contro i commissari europei Pierre Moscovici e Günther Oettinger per aggiotaggio e manipolazione del mercato in relazione alle loro dichiarazioni negative sulla manovra del governo italiano. «Nelle ultime settimane – si legge nella denuncia di Palese e Lo Basso – alcune dichiarazioni dei commissari europei Moscovici e Oettinger hanno pesantemente turbato i mercati italiani». Si tratta di dichiarazioni rese alla stampa, «non quindi comunicazioni ufficiali come il loro ruolo istituzionale imporrebbe», per giunta effettuate «a mercati aperti». Interventi che, secondo i due giornalisti, che hanno clamorosamente modificato proprio l’andamento dei mercati, «incidendo in modo significativo sulla fiducia e l’affidamento che il pubblico pone della stabilità patrimoniale di banche e gruppi bancari, alterando contestualmente il valore dello spread italiano».
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TJ Coles: milioni di morti, il neoliberismo minaccia la Terra
Gli esseri umani sono creature complicate. Siamo sia cooperativi che settari. Tendiamo a essere cooperativi all’interno di gruppi (ad es. un sindacato) mentre competiamo con gruppi esterni (ad esempio, una confederazione di imprese). Ma società complesse come la nostra ci costringono anche a cooperare con gruppi esterni – nei quartieri, nel lavoro e così via. Negli ecosistemi sociali, la selezione naturale favorisce la cooperazione. Inoltre, esiste una preferenza per i comportamenti etici, quindi la cooperazione e la condivisione sono qualità apprezzate nelle società umane. Ma cosa succede quando siamo obbligati da un sistema economico che ci vuole competitivi a tutti i livelli? Il risultato logico è il declino o il collasso della società. Ne “L’individuo nella società”, Ludwig von Mises, insegnante di Friedrich Hayek (il padre del moderno neoliberismo), scriveva che, nel contratto sociale, il datore di lavoro è alla mercé della folla. Ma in un’economia di mercato improntata all’utilitarismo, «il coordinamento delle azioni autonome di tutti gli individui scaturisce dal funzionamento del mercato». Quindi, in questo mondo fantastico, i datori di lavoro possono licenziare i lavoratori e sostituirli con quelli più economici senza incorrere nei costi sociali dei sistemi di contratto sociale.Questo tipo di pensiero ha iniziato a permeare la cultura dei pianificatori del “libero mercato” nei corsi di economia delle università di Ivy League, in particolare dopo gli anni ’70. Robert Simons della Harvard Business School nota come l’economia sia di gran lunga la disciplina accademica dominante negli Stati Uniti oggi, e che molti laureati trasferiscono questa ideologia dell’interesse personale acquisita all’università nella loro attività lavorativa di gestione patrimoniale, hedge fund, assicurazioni, credito e così via. Simons critica ciò che definisce «l’accettazione universale e indiscussa da parte degli economisti dell’interesse personale – degli azionisti, dei manager e dei dipendenti – come fondamento concettuale per la progettazione e la gestione aziendale». Simons nota che i lavoratori sono una classe utilitaristica, come lo sono i manager, nel senso che cercano di ottenere maggiori benefici. «Per rimediare a questa situazione potenzialmente catastrofica» dei diritti dei lavoratori, «gli economisti di mercato tentano di canalizzare comportamenti sbagliati usando la teoria dello stimolo-risposta», ossia attraverso una legislazione antisindacale, tagli ai servizi sociali e la minaccia dell’outsourcing. Gli economisti di mercato «hanno elevato l’interesse personale ad ideale normativo».Nel 1988 l’allora cancelliere Tory Nigel Lawson scrisse che negli anni ’70, «il capitalismo, basato sull’interesse personale, è ritenuto moralmente deplorevole» dalla maggioranza dei britannici. Ma altrettanto immorale per Lawson era l’intervento statale: «Non c’è nulla di particolarmente morale in un’azione governativa pesante», sosteneva (a meno che non si tratti di salvare le grandi imprese). Ma, fortunatamente per i Tories, «l’ondata ideologica è cambiata», consentendo loro di ritornare al governo e imporre ulteriori riforme neoliberiste. Forse l’aspetto peggiore del neoliberismo è il fatto di aver contagiato il partito laburista. Per fare alcuni esempi: un neoliberista statunitense, Lawrence Summers (in seguito il Segretario al Tesoro di Bill Clinton), fece da tutore al giovane Ed Balls, che presto sarebbe diventato il consigliere economico del futuro cancelliere britannico Gordon Brown. Quando era ancora un semplice deputato, Brown ebbe degli incontri con il presidente della Federal Reserve statunitense, Alan Greenspan. Ciò diede inizio nel Regno Unito a un periodo di ulteriore deregolamentazione finanziaria sotto l’egida del sedicente “New Labour”.Vi furono tuttavia economisti che, a metà degli anni 2000, poco prima del crack finanziario, iniziarono a vedere crepe nell’ideologia, e osservarono: «Vediamo nel pubblico un diffuso disagio riguardo le soluzioni di mercato. Il libero scambio e la globalizzazione, la privatizzazione della previdenza sociale e la deregolamentazione del mercato dell’energia suscitano l’opposizione di molti consumatori, a volte argomentata ma spesso inadeguata. Non è un caso che il sostegno alle soluzioni di mercato sia concentrato tra le classi di maggior successo economico, e l’opposizione tra chi ne ha meno. La libera scelta ha un fascino morale, ma l’aspetto morale è più forte quando non è mescolato all’interesse personale». Nel 2008 gli Stati Uniti, e quindi l’economia globale, sono entrate in crisi. Greenspan testimoniò alla Camera dei rappresentanti: «Ho commesso un errore nel ritenere che l’interesse personale delle organizzazioni, in particolare delle banche e di altri, fosse tale da essere in grado di proteggere i propri azionisti e le proprie società azionarie». Eppure interesse personale significa proprio interesse personale. Gli amministratori delegati e gli alti dirigenti non vedevano la necessità di onorare i loro presunti doveri verso i loro azionisti, per non parlare della popolazione in generale.Le conseguenze politiche di decenni di neoliberismo hanno portato all’espropriazione democratica, in particolare durante il periodo di espansione (dagli anni ’70 al 2008), segnato dal declino o stagnazione dell’affluenza elettorale e dall’affermarsi di politiche cosiddette estremiste all’indomani della crisi (dal 2009 a oggi). Ma l’ideologia è radicata nella classe dominante. Così, anche dopo l’inevitabile incidente del 2008, sia la Banca Centrale Europea che la Banca d’Inghilterra hanno continuato a portare avanti il neoliberismo imponendo austerità rispettivamente ai popoli europei e al Regno Unito. In questo contesto, le istituzioni finanziarie transnazionali predatorie traggono profitto dal caos. Il fallimento del gigante immobiliare Carillon ne è un esempio calzante. La società fu lasciata fallire e il suo declino avvantaggiò diversi hedge fund, compresi alcuni con sede negli Stati Uniti. Le conseguenze sociali del neoliberismo sono ancora più gravi. La classe media americana si è ristretta dagli anni ’70, poiché i singoli individui sono diventati o molto poveri o molto ricchi.Uno studio del Harvard Business Review ha rilevato che all’inizio degli anni ’80 almeno il 49% degli americani pensava che la qualità dei loro prodotti e servizi fosse diminuita negli ultimi anni. I tassi di suicidio maschile e femminile hanno continuato a salire a partire dalla metà degli anni ’90. Uno studio recente suggerisce che l’aspettativa di vita è scesa ovunque tra i paesi ad alto reddito. Nel Regno Unito, l’austerità guidata dai Tory ha causato oltre centomila morti in un decennio, secondo il BMJ. Le popolazioni dei paesi più fragili ne hanno risentito ancora di più. Tra il 1990 e il 2005, i paesi sub-sahariani i cui governi hanno chiesto prestiti di adeguamento strutturale al Fondo monetario internazionale e alla Banca di sviluppo africana hanno visto un incremento da 231 a 360 casi di decessi da parto per 100.000 nati vivi, rispettivamente. Secondo un altro rapporto del Bmj, nei paesi dell’America latina un incremento di solo l’1% della disoccupazione tra il 1981 e il 2010 si è tradotto in «significativi peggioramenti nei risultati di salute», tra cui un incremento di 1,14 decessi infantili su 1.000 nascite. Tutto questo equivale a un bollettino di guerra di milioni di morti.Come documentato altrove, le società più vulnerabili, vale a dire le comunità indigene dedite al mantenimento dei loro modi di vita tradizionali, si stanno letteralmente estinguendo man mano che la “civiltà” avanza. Se questo modello decennale continua imporsi in tutto il mondo, specialmente in nazioni con popolazioni massicce come l’India e la Cina che sempre più si stanno allineando a politiche neoliberiste, le attuali condizioni di divisione sociale ed infrastrutture fatiscenti sembreranno al confronto solo un minimo inconveniente, in particolare in contesto di sempre maggiore scarsità di risorse e cambiamenti climatici. Solo se il mutamento culturale contro il neoliberismo cui si assiste oggi, che viene espresso un po’ dappertutto dai movimenti sociali progressisti agli scioperi dei lavoratori, riuscirà a sopravvivere ed espandersi, allora si potrà immaginare un futuro più equo.(T.J. Coles, “Perché una società neoliberista non può sopravvivere”, analisi tradotta e pubblicata da “Voci dall’Estero” il 2 novembre 2018. Coles è ricercatore presso il Cognition Institute dell’Università di Plymouth e autore di svariati saggi sociologici e filosofici).Gli esseri umani sono creature complicate. Siamo sia cooperativi che settari. Tendiamo a essere cooperativi all’interno di gruppi (ad es. un sindacato) mentre competiamo con gruppi esterni (ad esempio, una confederazione di imprese). Ma società complesse come la nostra ci costringono anche a cooperare con gruppi esterni – nei quartieri, nel lavoro e così via. Negli ecosistemi sociali, la selezione naturale favorisce la cooperazione. Inoltre, esiste una preferenza per i comportamenti etici, quindi la cooperazione e la condivisione sono qualità apprezzate nelle società umane. Ma cosa succede quando siamo obbligati da un sistema economico che ci vuole competitivi a tutti i livelli? Il risultato logico è il declino o il collasso della società. Ne “L’individuo nella società”, Ludwig von Mises, insegnante di Friedrich Hayek (il padre del moderno neoliberismo), scriveva che, nel contratto sociale, il datore di lavoro è alla mercé della folla. Ma in un’economia di mercato improntata all’utilitarismo, «il coordinamento delle azioni autonome di tutti gli individui scaturisce dal funzionamento del mercato». Quindi, in questo mondo fantastico, i datori di lavoro possono licenziare i lavoratori e sostituirli con quelli più economici senza incorrere nei costi sociali dei sistemi di contratto sociale.
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Giulietto Chiesa in Rai con Messora, Dijsselbloem al Corsera
«Molto improbabile che nasca un governo politico, a meno che Berlusconi non faccia un passo di lato e lo sostenga dall’esterno». Così Alessandro Trocino, ai microfoni di “Radio Radicale” il 7 maggio scorso, a meno di un mese dall’insediamento di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Due previsioni, entrambe sbagliate: alla fine s’è fatto, eccome, il governo più clamorosamente politico da 25 anni a questa parte, e il Cavaliere si è ben guardato dal sostenerlo. Sei mesi dopo, lo stesso giornalista – in forza al “Corriere della Sera” – spara ad alzo zero contro Giulietto Chiesa, in realtà per colpire i 5 Stelle, “rei” di aver preso per buona l’analisi di Chiesa sull’ultima sparata del signor Jeroen Dijsselbloem, tipico esemplare del potere eurocratico: anonimo e incolore il suo profilo politico, ma micidiale quello tecnocratico, speso al servizio dell’oligarchia finanziaria che ha massacrato la Grecia e imposto il prelievo forzoso a Cipro, scatenando il panico e l’assalto ai bancomat. Cos’ha detto, l’insigne Dijsselbloem? Che l’economia italiana imploderà, per colpa del governo gialloverde. E Giulietto Chiesa? Ha interpretato le parole di Dijsselbloem nell’unico modo possibile: una minaccia. Ovvio, a questo punto, il rilancio dei 5 Stelle sul loro blog.Ovvio per tutti, salvo che per il “Corriere”, secondo cui Giulietto Chiesa ha travisato le parole dell’apollineo, impeccabile, meraviglioso Dijsselbloem. Niente di strano, peraltro: secondo Trocino, Chiesa non sarebbe altro che una specie di mentecatto. Allo storico corrispondente da Mosca (prima per “l’Unità”, poi per la “Stampa” e per il Tg5), il “Corriere” dedica un affondo che merita di essere letto come capolavoro comico, sia pure del genere neo-orwelliano inaugurato dalla popstar Colin Powell, irresistibile nel famoso numero con la fialetta all’antrace. Il grande Powell poté esbirsi all’Onu solo grazie all’altra vicenda spettacolare del secolo, altrettanto cristallina: il crollo delle Torri Gemelle, notoriamente collassate su se stesse in pochi secondi per colpa di aerei dirottati da oscuri energumeni arabi, armati di taglierini e capaci di schiantare a velocità folle, con manovre da top-gun, velivoli che non sapevano pilotare e che la stessa azienda costruttrice, la Boeing, dichiara che – semplicemente – non potrebbero volare a 900 chilometri orari, a quote così basse, senza sbriciolarsi in aria prima ancora dell’impatto.Certo si tratta di trascurabili amenità, sulle quali è impensabile si soffermi il “Corriere della Sera”, impegnato com’è a formulare vaticinii e profezie sui governi italiani, specie l’inguardabile esecutivo gialloverde, i cui azionisti politici osano mancare di rispetto ai sacerdoti della santa eurocrazia, i bramini dai nomi impossibili – Dijsselbloem, Oettinger, Dombrovskis – che gli italiani hanno tuttavia imparato ad amare, in questi anni di benessere, prosperità e serenità per tutto il continente. Come sarebbe bello, cinguetta Massimo Mazzucco – altro incorreggibile mascalzone, del calibro di Giulietto Chiesa – se finalmente, grazie alla presidenza della Rai affidata a Marcello Foa, lo stesso Chiesa potesse lasciare per un attimo la redazione di “Pandora Tv” e partecipare ogni tanto, magari in terza serata, a programmi come quelli che un tempo persino la televisione di Stato produceva, all’epoca in cui faceva anche vera informazione, con signori come Biagi, Minà, Zavoli.Pensate, dice Mazzucco, se – magari all’una di notte – ci fosse la possibilità di assistere a un confronto tra Chiesa e, per dire, il fondatore di “ByoBlu”, Claudio Messora, capace di realizzare servizi su YouTube visionati ogni volta anche da 200.000 utenti. Numeri enormi, sottolinea Mazzucco, se paragonati agli standard televisivi (per esempio, i 600.000 spettatori che faceva registrare “Matrix”, ai bei tempi). Non c’è paragone, conferma Fabio Frabetti di “Border Nights”, in web-streaming con Mazzucco, anche perché la potentissima e ricchissima Tv basta accenderla, mentre un video-blog devi andartelo a cercare: quei click valgono mille volte tanto. E lo sanno, i signori dei “giornaloni”, al punto – oggi – da attaccare Giulietto Chiesa, anche a costo di fare involontariamente pubblicità alla sua web-tv. Lo sanno così bene, che il vento è cambiato, da applaudire a scena aperta l’eroico bavaglio imposto al web da Bruxelles, su iniziativa dei soliti noti – su tutti Oettinger, l’uomo che sussurra ai mercati, proprio come il suo socio Dijsselbloem.Poi, si sa, è noto che le minacce mafiose le fanno appunto i capimafia, non certo i cardinali e ciambellani del superclan euro-finanziario che ha coordinato, sul campo, il più vasto trasferimento di ricchezza, dal basso verso l’alto, che la storia moderna ricordi. Un’operazione ammantata di misticismo e ispirata dal Bene, cioè il rigore di bilancio che vieta i deficit e quindi obbliga ad aumentare le tasse, producendo le meraviglie che fanno dell’Unione Europea e in particolare dell’Eurozona il paradiso terrestre a cui il mondo intero guarda con invidia, non potendo fare a meno di ammirare il commovente spirito di cooperazione e solidarietà che oggi affratella i popoli europei, pronti a correre in soccorso del più debole e a risolvere insieme, da buoni amici, ogni controversia, a cominciare dal problema dei migranti. Un’Europa così sublime non può che primeggiare anche nell’arte del bel canto, visti i soavi gorgheggi giornalistici che si levano da giornali e talkshow. Troppo bello, lo spettacolo del Bene che celebra se stesso, per rischiare di offuscarlo con sgraziate stonature, profeti di sventura e blogger, così impudenti da insolentire il divo Dijsselbloem, l’affabile Juncker, il garbato Moscovici.A chi si fosse curiosamente convinto che lo show quotidiano sia soltanto una tragica farsa piuttosto scadente, affidata a interpreti la cui mediocrità è pari solo all’immenso potere di cui dispongono, protetto dall’anonimato finanziario che ha sequestrato la democrazia nel vecchio continente, Mazzucco va ripetendo un consiglio pratico: insistere, nel raccontare quello che si è scoperto, perché soltanto l’impegno di migliaia di neo-sudditi potrebbe un giorno restituire agli europei lo status di cittadini, a buon diritto membri di una comunità civile vera e propria, con le sue sue regole fondamentali – una su tutte: governa chi è stato designato dai cittadini, mediante regolari elezioni. Il giorno che la maggioranza si accorgesse dell’insostenibile anomalia europea, costituita da mezzo miliardo di persone governate da un consiglio di amministrazione, probabilmente i solisti come Oettinger e Dijsselbloem si troverebbero senza uno spartito e senza più nemmeno il coro, cartaceo e radiotelevisivo, al quale sono abituati: una clacque preziosa e imprescindibile, per evitare fischi e pomodori. E’ come se una lunga marcia fosse cominciata, dice Mazzucco, fino a giungere di fronte alle mura del palazzo, seminando allarme: non si spiega altrimenti tanta permura nel prendere a sberle, in pubblico, gli storici tribuni della trasparenza. Ma in caso di rivoluzione, niente paura: il grande Dijsselbloem potrebbe sempre cantare ancora, nel coro degli autorevolissimi editorialisti del “Corriere”.«Molto improbabile che nasca un governo politico, a meno che Berlusconi non faccia un passo di lato e lo sostenga dall’esterno». Così Alessandro Trocino, ai microfoni di “Radio Radicale” il 7 maggio scorso, a meno di un mese dall’insediamento di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Due previsioni, entrambe sbagliate: alla fine s’è fatto, eccome, il governo più clamorosamente politico da 25 anni a questa parte, e il Cavaliere si è ben guardato dal sostenerlo. Sei mesi dopo, lo stesso giornalista – in forza al “Corriere della Sera” – spara ad alzo zero contro Giulietto Chiesa, in realtà per colpire i 5 Stelle, “rei” di aver preso per buona l’analisi di Chiesa sull’ultima sparata del signor Jeroen Dijsselbloem, tipico esemplare del potere eurocratico: anonimo e incolore il suo profilo politico, ma micidiale quello tecnocratico, speso al servizio dell’oligarchia finanziaria che ha massacrato la Grecia e imposto il prelievo forzoso a Cipro, scatenando il panico e l’assalto ai bancomat. Cos’ha detto, l’insigne Dijsselbloem? Che l’economia italiana imploderà, per colpa del governo gialloverde. E Giulietto Chiesa? Ha interpretato le parole di Dijsselbloem nell’unico modo possibile: una minaccia. Ovvio, a questo punto, il rilancio dei 5 Stelle sul loro blog.
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Nazi-Bolsonaro (e da noi Salvini) grazie alla post-sinistra
Jair Bolsonaro ha vinto in Brasile come Salvini ha vinto in Italia. Il primo è parecchio differente dal secondo. Salvini è uno stampino del Populismo di Bannon, di Le Pen, gente piuttosto puzzolente e ignorante. Bolsonaro non ha nulla a che vedere col Populismo, è un neo-nazista della vecchia scuola dei generali neo-nazisti che Jf Kennedy e suo fratello Bob impiantarono in America Latina dal 1962 in poi, con le conseguenze che sappiamo in tutto il continente. Da militare Bolsonaro disse senza problemi che «ci vuole una strage di almeno 30.000 brasiliani, e nessuno in galera, proprio ammazzati, poi se ci vanno di mezzo gli innocenti, pazienza, capita». E’ dichiaratamente a favore della tortura e degli omicidi extra-giudiziali. Quindi se i Salvini-types sono grezzi fascistoidi, questo è un neo-nazista dichiarato. La domanda che ci poniamo tutti è: ma è possibile che un elettorato, quello brasiliano, che fu moderato o addirittura di sinistra faccia capriole di questa portata? La risposta non la do io, perché ho l’umiltà di ammettere quando qualcuno ne ha formulata una più sinteticamente brillante di quella che pensavo.Eccola: «Dov’erano i centro-sinistra (i liberals in inglese, nda) quando la Wall Street che Barack Obama ha salvato strangolava il popolo del Brasile affinché ripagasse debiti accumulati dai suoi oligarchi? Il centro-sinistra è la linea diretta fra il capitalismo e il fascismo, non la sua antitesi» (Rob Urie, “Counterpunch”). Nel caso di Salvini e del becerismo che oggi trionfa con lui si può dire esattamente la stessa cosa, con minimi ritocchi: «Dov’erano i centro-sinistra (il Pd in primis, nda) quando la Ue che essi hanno voluto strangolava famiglie e aziende italiane affinché ripagassero debiti resi velenosi dalla moneta euro? Il centro-sinistra è la linea diretta fra il capitalismo e il populismo, non la sua antitesi». Ps: a quelli che mi attaccano perché bastono sia guelfi che ghibellini, rispondo: faccio il giornalista, non il politico, meno che meno il cheerleader.(Paolo Barnard, “La sinistra di Obama e del Pd, poi Bolsonaro e Salvini”, dal blog di Barnard del 30 ottobre 2018. Giornalista, già collaboratore dei maggiori quotidiani – “La Stampa”, “Il Manifesto”, “Corriere della Sera”, “Il Mattino”, “Il Secolo XIX” e “La Repubblica” – Barnard ha lavorato alla Rai con Michele Santoro in “Samarcanda”, prima di fondare “Report”, su Rai Tre, con Milena Gabanelli. Ha collaborato con Gianluigi Paragone a “L’ultima parola” su Rai Due e poi a “La Gabbia”, su La7. Fra i suoi libri, “Due pesi e due misure, riconoscere il terrorismo dello Stato d’Israele”, Andromeda, e “Perché ci odiano”, Bur, sullo scontro con l’Islam. Nel saggio “Il più grande crimine”, del 2011, ricostruisce la genesi oligarchica e antidemocratica delle istituzioni comunitarie europee).Jair Bolsonaro ha vinto in Brasile come Salvini ha vinto in Italia. Il primo è parecchio differente dal secondo. Salvini è uno stampino del Populismo di Bannon, di Le Pen, gente piuttosto puzzolente e ignorante. Bolsonaro non ha nulla a che vedere col Populismo, è un neo-nazista della vecchia scuola dei generali neo-nazisti che Jf Kennedy e suo fratello Bob impiantarono in America Latina dal 1962 in poi, con le conseguenze che sappiamo in tutto il continente. Da militare Bolsonaro disse senza problemi che «ci vuole una strage di almeno 30.000 brasiliani, e nessuno in galera, proprio ammazzati, poi se ci vanno di mezzo gli innocenti, pazienza, capita». E’ dichiaratamente a favore della tortura e degli omicidi extra-giudiziali. Quindi se i Salvini-types sono grezzi fascistoidi, questo è un neo-nazista dichiarato. La domanda che ci poniamo tutti è: ma è possibile che un elettorato, quello brasiliano, che fu moderato o addirittura di sinistra faccia capriole di questa portata? La risposta non la do io, perché ho l’umiltà di ammettere quando qualcuno ne ha formulata una più sinteticamente brillante di quella che pensavo.
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Se Trump ha bisogno di Roma per far guerra a Bruxelles
A Washington Dc c’è aria di cambiamento verso l’Italia. Le elezioni di aprile, con la vittoria di Lega e Movimento 5 Stelle, hanno portato al potere il primo governo populista in Europa. Senza contare la vittoria contro l’establishment di Donald Trump. I due paesi ora hanno governi fortemente identitari. Ma non solo. L’America e l’Italia condividono gli stessi interessi nel risolvere problemi come l’immigrazione incontrollata e l’egemonia di Bruxelles. Su altri temi, però, come la politica estera nel Medio Oriente, i due paesi faticano ancora a trovarsi dalla stessa parte, scrive sul “Giornale” Alessandra Bocchi, reduce da una ricognizione nella capitale statunitense per parlare con giornalisti e analisti di orientamento trumpiano. Obiettivo: capire cosa pensa la presidenza americana del nuovo governo italiano. «Il presidente Donald Trump stima molto il nuovo governo italiano, specialmente per avere fermato l’immigrazione», racconta Saagar Enjeti, il corrispondente della Casa Bianca per “The Daily Caller”, uno dei maggiori media conservatori. Enjeti dice che durante la visita del premier Giuseppe Conte alle Casa Bianca ha notato una particolare “affinità” tra i due leader. Trump ha espresso la sua ammirazione verso la posizione del ministro dell’interno Matteo Salvini nel chiudere i porti italiani alle Ong che trasportavano migranti.«Il tema dell’immigrazione è stato fondamentale anche in America per la campagna elettorale di Trump», ricorda la Bocchi. La popolazione americana sta cambiando rapidamente, e quella di origine europea rappresenta il 62% delle persone, mentre qualche anno fa l’85%. E Trump ha un particolare interesse a quello che sta accadendo in Europa. C’è un’affinità culturale tra l’America e l’Europa perché Trump è di origine europea, ma c’è anche un interesse strategico per via del fatto che la sicurezza in Europa è a repentaglio per colpa del terrorismo «importato dagli immigrati», dice Daniel McCarthy, uno scrittore americano ed ex-direttore del “The American Conservative”, un giornale intellettuale alternativo. Un altro tema sulla quale i due paesi condividono interessi è quello dell’Unione Europea, in particolare verso il controllo che la Germania ha su di essa. «Trump non è contro l’Unione Europea in sé, ma lo è per come viene governata al giorno d’oggi dalla Germania», dice ancora Enjeti. «Il rapporto tra questa Casa Bianca e la cancelliera tedesca Angela Merkel è molto conflittuale». Trump era a favore della Brexit durante la sua campagna elettorale e ha cercato di imporre dei dazi sull’Unione Europea in modo tale da danneggiare soprattutto l’industria tedesca.Anche l’Italia ha dei conflitti economici con Bruxelles all’interno della moneta unica, che si sono manifestati particolarmente con il nuovo governo gialloverde. Non a caso, l’America potrebbe comprare i bond (titoli di Stato) italiani per aiutare a tenere in piedi il nostro sistema bancario. Ma non sono tutte rose e fiori, ammette Alessandra Bocchi: Usa e Italia infatti faticano ad allinearsi sulla politica estera, anche se questo non sembra avere alterato i rapporti tra i due Stati, anche perché sarebbe l’establishment repubblicano, e non Trump, a volere continuare la politica americana in Medio Oriente degli ultimi vent’anni. «Fino ad oggi, infatti, un ruolo fondamentale nella politica estera americana è stato ricoperto dai neoconservatori, che hanno spinto per fare guerra in Afghanistan, in Iraq, in Libia e in Siria. Durante la sua campagna elettorale, Trump aveva promesso la fine di queste guerre, rimettendo al centro gli Stati Uniti: “America first”». Una promessa simile a quella del leader della Lega Matteo Salvini, con lo slogan “Prima gli Italiani”. Entrambi si sono opposti agli interventi militari in Iraq, in Libia e in Siria, nonché all’ostilità verso la Russia che aveva caratterizzato la gestione Obama.Detto questo, da quando è diventato presidente, Trump ha bombardato la Siria sotto il controllo del presidente Bashar al Assad due volte, e ha preso una posizione ancora più dura con le sanzioni contro l’Iran. «Non è un segreto che c’è una guerra interna tra l’establishment repubblicano e la linea del presidente», conferma Curt Mills, reporter di politica estera per “The National Interest”, un giornale di relazioni internazionali americano. «L’establishment è fortemente contro la Russia, e non vedo una possibilità di avvicinamento verso quel paese in questo momento», ammette Mills. Da una parte Trump condivide la linea del nuovo governo italiano, che vuole che ci sia una fine all’ostilità verso il presidente russo Vladimir Putin, dall’altro è estremamente ostile all’alleato russo più importante in Medio Oriente: l’Iran. Proprio Teheran è il nemico principale di Israele, che a sua volta è l’alleato più importante dell’America in Medio Oriente, ragiona Alessandra Bocchi.Gli Usa? Dopo l’omicidio di John Kennedy, che aveva contestato a Tel Aviv la costruzione clandestina della centrale nucleare di Dimona, con tecnologia francese, Washington ha sempre «appoggiato Israele quasi incondizionatamente, anche a discapito dei propri interessi». Benché Trump sia riuscito a ottenere un rapporto meno conflittuale in Medio Oriente rispetto ai suoi predecessori Obama e Bush, è ancora da vedere quanto riuscirà a resistere ai neoconservatori del partito repubblicano, sottolinea Alessandra Bocchi. E anche se restano irrisolti i maggiori interrogativi sull’intesa italoamericana per il Medio Oriente e soprattutto per il rapporto problematico con la Russia di Putin, che difendendo la Siria dall’aggressione dei jihadisti armati dalla Nato ha riproposto il ruolo geopolitico di Mosca nel cuore del Mediterraneo, si sta comunque sviluppando «un asse americano e italiano, che insieme ad altre forze populiste in Europa collabora sui temi come la lotta all’immigrazione di massa e l’egemonia di Bruxelles in Occidente». Musica, in altre parole, per il governo gialloverde assediato ogni giorno dal fantasma dello spread, sapientemente pilotato dagli oligarchi Ue d’intesa con Draghi, che non schiera la Bce a difesa dell’Italia.A Washington Dc c’è aria di cambiamento verso l’Italia. Le elezioni di aprile, con la vittoria di Lega e Movimento 5 Stelle, hanno portato al potere il primo governo populista in Europa. Senza contare la vittoria contro l’establishment di Donald Trump. I due paesi ora hanno governi fortemente identitari. Ma non solo. L’America e l’Italia condividono gli stessi interessi nel risolvere problemi come l’immigrazione incontrollata e l’egemonia di Bruxelles. Su altri temi, però, come la politica estera nel Medio Oriente, i due paesi faticano ancora a trovarsi dalla stessa parte, scrive sul “Giornale” Alessandra Bocchi, reduce da una ricognizione nella capitale statunitense per parlare con giornalisti e analisti di orientamento trumpiano. Obiettivo: capire cosa pensa la presidenza americana del nuovo governo italiano. «Il presidente Donald Trump stima molto il nuovo governo italiano, specialmente per avere fermato l’immigrazione», racconta Saagar Enjeti, il corrispondente della Casa Bianca per “The Daily Caller”, uno dei maggiori media conservatori. Enjeti dice che durante la visita del premier Giuseppe Conte alle Casa Bianca ha notato una particolare “affinità” tra i due leader. Trump ha espresso la sua ammirazione verso la posizione del ministro dell’interno Matteo Salvini nel chiudere i porti italiani alle Ong che trasportavano migranti.
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Deutsche Bank: nessuno è stato massacrato quanto l’Italia
Nessuno si è fatto massacrare, in questi anni, come l’Italia. E nessun altro paese europeo, men che meno la Germania, ha “fatto i compiti a casa” così bene, cioè stroncando la spesa pubblica a danno del popolo, in ossequio al diktat dell’austerity. Che poi tutto ciò si possa trasformare in un comportamento “virtuoso”, è questione di punti di vista: per esempio quello di David Folkerts-Landau, capo economista di Deutsche Bank, il cui recente intervento su “Bloomberg Tv” è stato pubblicato col massimo risalto sul blog di Beppe Grillo, come se l’oligarca della maxi-banca speculativa tedesca ci avesse fatto un complimento di quelli che meritano un applauso. Proprio l’enorme «sforzo fiscale» che il nostro paese sta mettendo in atto, da anni, motiva le parole di Folkerts-Landau, secondo Grillo pronunciate «in sostegno all’Italia». Queste: «L’Italia avrebbe un avanzo di bilancio, se non fosse per il pagamento degli interessi. La cosa più straordinaria è che lo sforzo fiscale dell’Italia è oltre ciò che chiunque altro ha fatto in Europa, ed ha accumulato avanzi primari (al netto degli interessi) per il 13% del Pil, mentre la Germania solo per il 5%. L’Italia, in questo senso, è il paese più virtuoso in Europa».Sempre secondo il banchiere, «ora il fatto di andare da lei con una mazza da baseball e dire “Devi diminuire il tuo deficit affinché sia ’sostenibile’ secondo i criteri della Ue” va contro tutte le ragioni e le logiche politiche». Infatti, aggiunge David Folkerts-Landau, «io credo che questa sorta di minaccia, di pressione, da parte della Ue stia radicalizzando la nazione, stia radicalizzando la politica, stia creando un pericolo per l’esistenza dell’Eurozona». E conclude: «Sì, sono fortemente dalla parte degli italiani su questa particolare discussione». Proprio un bel risultato, commenta Paolo Barnard sul suo blog, dove premette: «Sono oltre 25 anni che cerco di insegnare come vince, il Vero Potere. E infatti eccolo di nuovo trionfante su questo governo di falsari e buffoni, e sulle Curva Ultras dei tristi acritici che li hanno votati e che oggi li adorano». Il Vero Potere, aggiunge Barnard, «lavora con un banale mezzo di manipolazione psicologica conosciuto nei rapporti interni di Think Tanks e Ministeri come “psyops”». E’ centrato «su un preciso rapporto punizione-premio, carnefice-vittima». Metafora: è come se fossimo legati a una catena, in un pozzo. Ogni tanto, ci si lascia credere di essere più liberi, grazie a qualche irrisoria concessione.«Coi suoi usuali immensi mezzi – scrive Barnard – il Vero Potere lega la vittima a un muro, in fondo a un pozzo, con un metro di catena al collo». Quando essa il malcapitato inizia a gemere, lo pesta a bastonate e lo minaccia. «Questo va avanti per molto tempo, poi un giorno il Vero Potere recita la farsa di cedere». Ovvero: «Mette in scena una sconfitta fittizia contro la vittima». E le concede «un metro di catena in più, con uno spiraglio di luce». La reazione della vittima, costretta a pane e acqua e «ormai spezzata psicologicamente», sostanzialmente «è di tripudio», visto che ormai «ha perduto ogni senso della realtà e delle proporzioni dell’esistenza». E quindi esulta: «Ho vinto! Libertà! Festeggiamo!». Secondo Barnard, «questo, e precisamente questo, sta accadendo con il governo gialloverde, che proclama trionfi e nuove libertà per gli italiani perché gli è stato concesso un metro di catena in più al collo chiamato deficit di bilancio al 2,4%, sempre nel contesto di nessuna speranza di uscire dall’euro (il pozzo della metafora), che anzi, viene confermato da Conte come il futuro immutabile dell’Italia. La psyop di Bruxelles ha funzionato come un computer».Ma, sempre secondo Barnard, «non esiste luogo dove quest’orripilante farsa – che prende appunto il nome di stravittoria della Ue e patetico vagheggiamento della vittima (l’Italia gialloverde) – è più splendidamente in vista del blog di Beppe Grillo». Il fondatore del Movimento 5 Stelle ha pubblicato quello spezzone d’intervista a Folkerts-Landau, «un scherano della Deutsche Bank», il quale «riafferma pienamente le virtù del pareggio di bilancio italiano nascosto nell’avanzo primario che da anni stiamo facendo, che altro non è se non il micidiale rigore dei conti di Mario Monti, di Padoan e di Cottarelli, ovvero il cianuro dell’economicidio dell’Italia da 15 anni». Ma dato che «il veterano sicario tedesco trova il modo, nel mezzo di quello schifo, di lodare l’Italia e di fingere un rimproverino alla Ue», ecco che Grillo «scrive che il banchiere ha pronunciato “parole in sostegno all’Italia”, e gli dà l’enorme visibilità del suo spazio web». In sostegno?«Lodarci perché ci siamo fatti picchiare a sangue con sale sparso sulle ferite per 15 anni, e aggiungere che il torturatore adesso dovrebbe dismettere la frusta e usare solo le mani per picchiarci, è sostegno a famiglie e aziende italiane? Questo è esattamente il succo delle sue parole, che il genovese trova edificanti per noi», aggiunge Barnard. «Ecco come ci hanno ridotti, ecco il livello di assenza cerebrale di tutti quelli che oggi sbraitano il “cambiamento” e la vittoria di Lega e 5 Stelle. Ed ecco come vince, e stravince, il Vero Potere». E non è tutto, chiosa Barnard: «Per essere precisi, va detto che un blocco in ’sto governo osceno è ben contento del carnefice-Ue, per interessi che ho già spiegato, leggasi Salvini». Tradotto: l’elettorato industriale del nord è ben contento delle pietose condizioni dei lavoratori, indotti dal regime neoliberista e ordoliberista europeo a rassegnarsi a non avere più diritti, ma solo precaria flessibilità. Se Grillo segnala l’esternazione dell’uomo di Deutsche Bank per rompere l’assedio che l’establishment europeo sta muovendo all’Italia, dal canto suo Barnard ribadisce la sua sfiducia espressa sin dalla prima ora nel governo gialloverde, che a suo parere si limita a fingere di sfidare Bruxelles.Nessuno si è fatto massacrare, in questi anni, come l’Italia. E nessun altro paese europeo, men che meno la Germania, ha “fatto i compiti a casa” così bene, cioè stroncando la spesa pubblica a danno del popolo, in ossequio al diktat dell’austerity. Che poi tutto ciò si possa trasformare in un comportamento “virtuoso”, è questione di punti di vista: per esempio quello di David Folkerts-Landau, capo economista di Deutsche Bank, il cui recente intervento su “Bloomberg Tv” è stato pubblicato col massimo risalto sul blog di Beppe Grillo, come se l’oligarca della maxi-banca speculativa tedesca ci avesse fatto un complimento di quelli che meritano un applauso. Proprio l’enorme «sforzo fiscale» che il nostro paese sta mettendo in atto, da anni, motiva le parole di Folkerts-Landau, secondo Grillo pronunciate «in sostegno all’Italia». Queste: «L’Italia avrebbe un avanzo di bilancio, se non fosse per il pagamento degli interessi. La cosa più straordinaria è che lo sforzo fiscale dell’Italia è oltre ciò che chiunque altro ha fatto in Europa, ed ha accumulato avanzi primari (al netto degli interessi) per il 13% del Pil, mentre la Germania solo per il 5%. L’Italia, in questo senso, è il paese più virtuoso in Europa».
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Zoffi: la Germania bara, il suo debito vero è il 287% del Pil
Stando ai conti pubblici, il grande malato dell’Eurozona non è l’Italia o un altro dei paesi oggi considerati periferici, addirittura ribattezzati “Pigs”, maiali, nel pieno della crisi del debito sovrano. La pietra dello scandalo è proprio la Germania di Angela Merkel, che continua a fare la voce grossa con la Bce e gli altri condòmini del Vecchio Continente. A raccontare al “Giornale” il lato oscuro di Berlino è Fabio Zoffi, veneziano, che da vent’anni vive con la famiglia a Monaco di Baviera. Zoffi conduce attività che spaziano dall’alimentare al Big Data: tra i suoi clienti Luxottica, Pirelli, Bnl, Banco Popolare e Benetton. «ll debito pubblico complessivo tedesco non è pari all’80% del Pil, come certificano i documenti ufficiali, ma al 287%», assicura il “venture capitalist” italiano, dopo essersi preso la briga di rielaborare tabelle e proiezioni statistiche. La colpa è del debito «implicito», che con approssimazione possiamo definire «nascosto», prodotto dalle costose riforme concesse dai governi che si sono succeduti negli ultimi decenni. Tutto questo, nel 2020 comporterà pesanti aggravi alla spesa per le pensioni, le assicurazioni sanitarie e l’assistenza ai malati cronici.«Berlino è finora stata molto brava a nascondere la polvere sotto il tappeto, ma ormai è impossibile non vedere le gobbe. E anche in Germania gli economisti più capaci hanno iniziato a lanciare l’allarme», spiega Zoffi, citando tra i primi profeti di sventura proprio i presidenti dei due maggiori think-tanks economici del paese: Hans-Werner Sinn, temutissima voce dell’Ifo (per la verità più noto a sud della catena alpina per i giudizi tranchant che ci ha riservato) e Marcel Fratzscher, capo del Diw e autore del libro “Die Deutschland-Illusion” (l’illusione tedesca). A titolo di raffronto, scrive Massimo Restelli sul “Giornale”, il debito complessivo (implicito ed esplicito) italiano si attesterebbe invece al 160% del prodotto interno lordo. In sostanza, negli ultimi anni Palazzo Chigi e Parlamento italiano fatto “i compiti a casa”, mentre Frau Merkel e il Bundestag no. A contribuire al disastro annunciato della Germania, insiste Zoffi, è poi il suo quadro demografico squilibrato: è lo Stato con meno nascite al mondo.L’altra falla aperta è rappresentata da un mercato del lavoro ormai composto per un quarto da precari (tra part-time, stagisti e mini-job). Ne consegue una distribuzione dei redditi sempre più squilibrata: nel 2011 il 10% della popolazione deteneva il 66% della ricchezza contro il 44% del 1970. Per non parlare delle grane del sistema del credito: le banche tedesche, sebbene tutte promosse ai recenti esami patrimoniali della Bce (ma Berlino ha ottenuto di esentare le problematiche casse di risparmio e le “landesbank”) da un lato «contano debiti complessivi per 8.000 miliardi di euro» (raccolta alla clientela, prestiti di varia natura e obbligazioni), e dall’altro – e questo sembra il problema principe – ci sono «impieghi in asset di qualità sovente discutibile: Abs, derivati, prestiti alle banche greche e spagnole». In pratica, avrebbero investito male (e con una certa dose di pericolo) il denaro raccolto: «Deutsche Bank assomiglia a un grande hedge fund», dice Zoffi.L’imprenditore italiano sottolinea di essere tornato a investire sulle imprese dello Stivale all’apice della crisi, sfruttando i saldi provocati dallo sferzare dello spread. «Insomma – scrive Restelli – da uomo d’affari è convinto di aver fatto bene a credere nell’Italia: stima che le sue attività (il gruppo Ors, specializzato nel Big Data, la tenuta vitivinicola in Monferrato Noceto Michelotti e l’azienda friulana di insaccati di selvaggina Bertolini Wild, insieme alle potenzialità di sviluppo del portale Gourmitaly) abbiano oggi un valore potenziale di 50 milioni. «La Germania – chiosa Zoffi – resta però un esempio per la penisola sotto molti altri aspetti fondamentali, sia per la qualità di vita dei cittadini, sia per la buona riuscita di un’impresa: a partire da un apparato pubblico-burocratico e da un sistema della giustizia che funzionano a dovere».Lo stesso Zoffi è anche esponente del Movimento Roosevelt, fondato da Gioele Magaldi. Dalla sua analisi, scrive il vipresesidente Marco Moiso sul blog del movimento, emerge come, dal punto di vista del debito, la Germania sia “messa peggio” del Bel Paese. «Eppure – scrive Moiso – questa non deve assolutamente essere l’occasione per puntarle il dito contro», chiedendo anche ai tedeschi di «sottomettersi alla cura venefica dell’austerità, in nome di un miope e mal riposto senso di riscatto». Al contrario: meglio se anche in Germania si aprissero gli occhi, scoprendo cosa significano le ricette del neoliberismo. «La sconfitta della democrazia tedesca – in un contesto internazionale in cui la sovranità delle democrazie stesse viene progressivamente rimpiazzata dall’econocrazia neoliberista – significherebbe la vittoria di quei poteri apolidi che supportano il neoliberismo e hanno interesse nello svuotare le istituzioni pubbliche di democrazia sostanziale, in nome del mantenimento del valore assoluto del denaro da loro accumulato». Lo choc dei conti truccati? Ottima cura, se serve a tornare alla sovranità popolare, in ogni paese Ue. Missione impossibile? Si domanda Moiso: «È pronto, il popolo tedesco, a lottare insieme agli altri popoli europei contro l’econocrazia neoliberista e a favore di democrazia e politiche monetarie ed economiche sviluppate nell’interesse del popolo europeo sovrano?».Stando ai conti pubblici, il grande malato dell’Eurozona non è l’Italia o un altro dei paesi oggi considerati periferici, addirittura ribattezzati “Pigs”, maiali, nel pieno della crisi del debito sovrano. La pietra dello scandalo è proprio la Germania di Angela Merkel, che continua a fare la voce grossa con la Bce e gli altri condòmini del Vecchio Continente. A raccontare al “Giornale” il lato oscuro di Berlino è Fabio Zoffi, veneziano, che da vent’anni vive con la famiglia a Monaco di Baviera. Zoffi conduce attività che spaziano dall’alimentare al Big Data: tra i suoi clienti Luxottica, Pirelli, Bnl, Banco Popolare e Benetton. «ll debito pubblico complessivo tedesco non è pari all’80% del Pil, come certificano i documenti ufficiali, ma al 287%», assicura il “venture capitalist” italiano, dopo essersi preso la briga di rielaborare tabelle e proiezioni statistiche. La colpa è del debito «implicito», che con approssimazione possiamo definire «nascosto», prodotto dalle costose riforme concesse dai governi che si sono succeduti negli ultimi decenni. Tutto questo, nel 2020 comporterà pesanti aggravi alla spesa per le pensioni, le assicurazioni sanitarie e l’assistenza ai malati cronici.
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Moncalvo: Agnelli segreti, il potere Usa dietro a Marchionne
Chiedetevi chi mise Sergio Marchionne alla guida della Fiat, e capirete anche perché – alla morte di Gianni Agnelli, nel 2003 – la figlia Margherita fu clamorosamente estromessa dal futuro della famiglia, cioè dal controllo della impalpabile ma potentissima società “Dicembre”, vera e propria cassaforte e cabina di regia dell’Avvocato. E’ la tesi che propone Gigi Moncalvo, autore del dirompente saggio “Agnelli segreti”, misteriosamente sparito dalle librerie ma acquistabile online attraverso il sito dello stesso Moncalvo, giornalista di lungo corso. In un intervento-fiume alla trasmissione web-radio “Forme d’onda”, Moncalvo sintetizza: il potere finanziario globalizzatore si è sostanzialmente “ripreso” la holding torinese, imponendo le sue decisioni (Marchionne, John Elkann) dopo che i nomi più celebri della finanza planetaria – Rothschild, Rockefeller – avevano “soccorso” l’allora giovane Agnelli, erede del complesso industriale torinese che si era immensamente arricchito soprattutto con la guerra fascista. Armi e mezzi, treni e camion, motori: forniture pagate in lingotti d’oro. Poi, i bombardamenti alleati e la ricostruzione degli stabilimenti, con il Piano Marshall. Da allora, “l’amico americano” non mollò più la Fiat. E alla morte del carismatico Avvocato fece emergere in modo evidente le sue scelte: Marchionne e la Chrysler, al culmine di una internazionalizzazione già avanzatissima, con la sede fiscale in Gran Bretagna e il lavoro sostanzialmente portato via dall’Italia.Autore di una minuziosa ricostruzione, basata essenzialmente sulle carte processuali prodotte dalla clamosa “guerra familiare” aperta da Margherita Agnelli per difendersi da quello che lei considera “il golpe del 2003”, Moncalvo ha riempito di voluminosi dossier un intero appartamento. Un lavoro di scavo giornalistico, il suo, magistralmente riproposto – a puntate – anche nelle trasmissioni “Reteconomy”, diffuse su YouTube. Focus: la controversia giudiziaria (non ancora esaurita, ma silenziata dai media) sulla vastissima eredità di Gianni Agnelli, in gran parte costituita da beni collocati all’estero: «Dal testamento emerse un ammontare che si aggirava sui 300 milioni di euro, inferiore a quelli di Pavarotti e Lucio Dalla, mentre oggi la vedova dell’Avvocato, Marella Caracciolo, è accreditata di una fortuna pari ad almeno 20 miliardi di euro, forse in parte custoditi in un bunker super-blindato all’aeroporto di Ginevra». Singolare, rileva Moncalvo, che tanto denaro sia stato parcheggiato all’estero, da un uomo a capo di un’azienda così pesantemente foraggiata dallo Stato italiano: straniera, oggi, anche la domiciliazione fiscale dell’ex Fiat, senza calcolare i conti (personali) nei vari paradisi fiscali del pianeta.Proprio la ricostruzione della reale entità patrimoniale del padre, ricorda Moncalvo, è stata il punto di partenza della clamorosa azione legale condotta da Margherita Agnelli, ex moglie di Alain Elkann e madre di Lapo e John, vistasi improvvisamente isolata: all’apertura del testamento, Margherita Agnelli scoprì che sua madre Marella e suo figlio John si erano accordati con i due plenipotenziari dell’anziano “monarca”, vale a dire Gianluigi Gabetti (amministratore dei beni di famiglia) e Franzo Grande Stevens, divenuto l’avvocato più importante, nella vita di Gianni Agnelli, dopo la perdita dello storico legale Vittorio Chiusano. L’intento di Margherita, spiega Moncalvo, era quello di riunire la famiglia – lei, la madre e il figlio – nella piena condivisione paritetica della “Dicembre”, vero e proprio forziere dell’impero Fiat, pur essendo una “società semplice” (senza neppure l’obbligo di presentare bilanci). Ma nello stesso giorno della lettura testamentaria, continua Moncalvo, Margherita Agnelli ebbe la più amara delle sorprese: sua madre Marella cedette gran parte delle sue quote della “Dicembre” all’allora giovanissimo nipote John, che a quel punto divenne formalmente l’unico vero padrone dei destini della “royal family”, senza però che vi fosse traccia di un’investitura (scritta) da parte del nonno. Come se, appunto, l’operazione fosse stata il frutto di una occhiuta regia esterna, affidata all’abilissima “manovalanza” di Gabetti e Grande Stevens.Il primo a protestare per lo strano ingresso nel board Fiat dell’imberbe John Elkann era stato Edoardo Agnelli, che nella “Dicembre” non aveva mai neppure voluto mettere piede. Poco prima di essere ritrovato senza vita ai piedi di un viadotto dell’autostrada Torino-Savona, il figlio “ribelle” dell’Avvocato confidò al “Manifesto” che trovava inappropriata la nomina del 21enne John nel Cda della Fiat, a pochi giorni dalla morte del cugino “Giovannino” (Giovanni Alberto) Agnelli, figlio di Umberto, lanciatissimo nella carriera aziendale ma stroncato da un tumore a soli 33 anni. John Elkann, ricorda Moncalvo, in fondo deve la sua attuale posizione a una serie terribile di decessi: il nonno Gianni, lo zio Umberto, il cugino Giovannino e, ovviamente, lo stesso Edoardo, sulla cui fine – l’ipotetico volo dal viadotto di Fossano – le prime ombre furono sollevate dal regime iraniano, secondo cui il figlio dell’Avvocato sarebbe stato “suicidato dai sionisti”. Evidente l’allusione (velenosa) ad Alain Elkann, il padre di John, ebreo osservante. Secondo lo studioso italiano Gianfranco Carpeoro, Alain Elkann sarebbe un autorevole esponente nel B’nai B’rith, esclusiva massoneria ebraica strettamente controllata dal Mossad, mentre lo sfortunato Edoardo Agnelli, fratello di Margherita, aveva aderito all’Islam e addirittura al Sufismo. Una celebre foto lo ritrare in preghiera a Teheran, di fronte all’ayatollah Alì Khamenei.Nella visione di Moncalvo (autore non solo di “Agnelli segreti”, ma anche de “I lupi e gli agnelli”) la tragica fine di Edoardo è ben presente, ma il giornalista evita accuratamente qualsiasi tentazione complottistica. Moncalvo preferisce stare ai fatti: e le carte (specie quelle prodotte da Margherita Agnelli) raccontano di una sostanziale svolta, nel management e nella proprietà dell’impero ex-Fiat, che appare imposta da lontano, come se i veri dominus del destino del gruppo non risiederesso più a Torino. Un “trasloco” reso lampante dall’avvento di Marchionne, ma in realtà risalente – nelle intenzioni – a un passato assai meno recente. Ai microfoni di “Forme d’onda”, Moncalvo parla addirittura del primissimo dopoguerra, quando l’allora giovane “vitellone” Gianni Agnelli, rinomato playboy, «viveva in una sfarzosa villa in Costa Azzurra, disertata però dal bel mondo dell’epoca, che non perdonava al rampollo torinese la fortuna del nonno, costruita con le commesse militari del fascismo». Tutto cambiò, dice Moncalvo, quando Gianni Agnelli incontrò «la donna più importante della sua vita: Pamela Churchill Harriman», nuora dello statista britannico. «Da quel momento, la nuova fidanzata gli aprì porte prima impensabili: le grandi banche d’affari americane, i Rothschild, i Rockefeller. Potenze finanziarie, coinvolte nel Piano Marshall che poi avviò la “resurrezione” della Fiat devastata dalle bombe alleate».Del resto, è noto che lo stesso Gianni Agnelli scrisse la prefazione (nell’edizione italiana) dello storico saggio “La crisi della democrazia”, vero e proprio manifesto del pensiero unico neoliberista, commissionato da quella Commissione Trilaterale di cui lo stesso Avvocato era membro, accanto a personaggi come Henry Kissinger e David Rockefeller. Moncalvo invita a far luce sull’insieme, collegando i fili su cui il giornalismo nostrano sorvola regolarmente. Per poi scoprire, magari, che alla morte dell’Avvocato quel super-potere si è semplicemente ripreso il pieno controllo dell’impero torinese, a lungo affidato alla sapiente guida politica del principe degli industriali italiani. Un monarca intoccabile, ricorda Moncalvo: avvicinandosi la tempesta di Tangentopoli, Gianni Agnelli ottenne l’immunità parlamentare da Francesco Cossiga, che lo nominò senatore a vita, mentre l’avvocato Chiusano “blindò” la Fiat dall’insidioso attacco di Mani Pulite, che aveva già portato all’arresto del numero tre del gruppo, Francesco Paolo Mattioli, la mente finanziaria della holding torinese.Riuscirono a fare della Fiat un’eccezione, dice Moncalvo: grazie al magistrale Chiusano, si stabilì che il tribunale competente non sarebbe stato quello dell’area dove erano stati contestati i reati (Milano) ma quello di Torino, sede dell’azienda. «Un po’ come se la Juventus giocasse sempre e solo in casa». E a proposito di Juve: «Mai, con l’Avvocato in vita, si sarebbe potuta contestare legalmente la gestione Moggi, togliendo scudetti alla squadra fino a retrocederla in Serie B». Moncalvo spiega così sua la passione per il giallo-Agnelli: «La dirompente azione legale di Margherita ha permesso di svolgere finalmente un’attività giornalistica, attorno alla famiglia più potente d’Italia, sempre protetta dalla micidiale autocensura degli stessi giornalisti, e non solo». Pensate, aggiunge, che il film-capolavoro “Il silenzio degli innocenti”, con Anthony Hopkins e Jodie Foster, uscì in tutto il mondo con il titolo originale, “The silence of the lambs”, cioè quello del romanzo di Thomas Harris, da cui era tratto. Solo in Italia, «senza alcun riguardo per l’opera di Harris», al “silenzio degli agnelli” si preferì quello, molto meno rischioso, degli “innocenti”.(Sono due i saggi di Moncalvo sulla famiglia Agnelli, stranamente irreperibili in libreria ma comodamente acquistabili sul sito dell’autore. Il primo: Gigi Moncalvo, “Agnelli segreti”, sottotitolo “Peccati, passioni e verità nascoste dell’ultima ‘famiglia reale’ italiana”, 522 pagine, 20 euro. Contenuto: “Processi di cui nessuno parla, testamenti ’segreti’, amori clandestini, morti sospette, eredità contese, prestanome all’estero, evasioni fiscali: a undici anni dalla morte dell’Avvocato, finalmente senza censure la saga familiare più avvincente d’Italia”. Il secondo: Gigi Moncalvo, “I lupi e gli agnelli”, sottotitolo “Ombre e misteri della famiglia più potente d’Italia”, 476 pagine, 20 euro. Contenuto: “Mi hanno rubato i figli per farne degli eredi Agnelli”. Il racconto delle verità, dei retroscena, delle ‘trappole’, dei documenti inediti che hanno fatto da contorno alla guerra dichiarata da Margherita alla sua famiglia. E viceversa…).Chiedetevi chi mise Sergio Marchionne alla guida della Fiat, e capirete anche perché – alla morte di Gianni Agnelli, nel 2003 – la figlia Margherita fu clamorosamente estromessa dal futuro della famiglia, cioè dal controllo della impalpabile ma potentissima società “Dicembre”, vera e propria cassaforte e cabina di regia dell’Avvocato. E’ la tesi che propone Gigi Moncalvo, autore del dirompente saggio “Agnelli segreti”, misteriosamente sparito dalle librerie ma acquistabile online attraverso il sito dello stesso Moncalvo, giornalista di lungo corso. In un intervento-fiume alla trasmissione web-radio “Forme d’onda”, Moncalvo sintetizza: il potere finanziario globalizzatore si è sostanzialmente “ripreso” la holding torinese, imponendo le sue decisioni (Marchionne, John Elkann) dopo che i nomi più celebri della finanza planetaria – Rothschild, Rockefeller – avevano “soccorso” l’allora giovane Agnelli, erede del complesso industriale torinese che si era immensamente arricchito soprattutto con la guerra fascista. Armi e mezzi, treni e camion, motori: forniture pagate in lingotti d’oro. Poi, i bombardamenti alleati e la ricostruzione degli stabilimenti, con il Piano Marshall. Da allora, “l’amico americano” non mollò più la Fiat. E alla morte del carismatico Avvocato fece emergere in modo evidente le sue scelte: Marchionne e la Chrysler, al culmine di una internazionalizzazione già avanzatissima, con la sede fiscale in Gran Bretagna e il lavoro sostanzialmente portato via dall’Italia.
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Zibordi: deficit, una tempesta-bluff per appena 8 miliardi
Passano gli anni ma in Italia quando un governo deve fare una manovra economica tutto gira sempre intorno al debito pubblico. La Ue e i “mercati” vogliono essere rassicurati che lo Stato pagherà le rate e gli interessi sui Cct, Bot e Btp e l’intero governo impiega mesi a decidere se fare un deficit del 2,4% piuttosto che dell’1,8% del Pil: una differenza dello 0,6% del Pil – cioè 8 miliardi, alla fine. Ma questa differenza di 8 miliardi richiede trattative di settimane, agita i talk show e i giornali e marca la differenza tra un governo “responsabile”, bene accetto alla Ue e ai “mercati” (1,6% di deficit) e uno “populista” che fa esplodere lo “spread” e avviato al default (2,4% di deficit). Se lasci perdere la retorica e ti metti a leggere tabelle e numeri, scrive il trader finanziario Giovanni Zibordi, ti rendi conto che non ha senso, sapendo che di solito si sfora sempre: la Ue voleva un 1,8% al massimo e Tria cercava di tenerlo a questa percentuale, pensando che poi alla fine a consuntivo si arrivava sul 2,2% o 2,4%. Con un Def che indica un 2,4% di deficit come “impegno”, si suppone invece che si arrivi, alla fine, ad un 2,8% di deficit. «Resta che è una differenza di 8 miliardi l’anno e sembra diventi la fine del mondo. E se fosse tutto un bluff?».Ci dicono che “l’Italia ha 2.350 miliardi di debito”, per cui basta ora poco per scivolare giù per la china: le percezioni del resto del mondo (Ue e “mercati”) sono negative, per cui questi poteri vanno accontentati e rassicurati, altrimenti Bruxelles “boccia” la manovra, le agenzie di rating “abbassano” l’Italia e il mercato “ci attacca”. «In pratica ti dicono che se, per la prima volta nella storia, lo Stato italiano non riduce il deficit a zero, ci sarà un patatrac. Ma se guardi la storia anche solo degli ultimi dieci anni – scrive Zibordi, sul blog “Cobraf” – vedi che con deficit maggiori e sempre intorno al 3% di media non è successo niente». Per scoprire che questo discorso non ha senso, Zibordi fa notare che anche se il debito pubblico è sui 2.350 miliardi, i titoli sul mercato sono molti meno (1.800 miliardi) e sono questi di cui preoccuparsi – tra parentesi, Bce e Bankitalia ne hanno comprati 360 miliardi (con soldi “stampati”). «Quindi il totale dei titoli di Stato di cui preoccuparsi è sui 1.500 miliardi». Parlare, come fanno quasi tutti, di “quasi 2.400 miliardi di debito pubblico”, è molto diverso che citare i 1.450 miliardi di titoli da rifinanziare sul mercato. «Supponiamo allora che il governo italiano ignori Ue e mercati e “tiri dritto”, come dice Salvini. Dopo un poco di caos iniziale probabilmente non succede niente di grave. Ha senso, tutta questa messinscena, per 8 miliardi di differenza? Il buon senso dice di no».Tutto quello che può fare l’Ue, scrive Zibordi, è imporre una multa di 3 miliardi. Una misura finora mai applicata, «nemmeno a Stati che hanno violato i limiti del 3% facendo deficit del 10% come Irlanda, Portogallo e Spagna». Per cui, se si colpisse l’Italia per via del suo 2,4%, la sanzione «verrebbe contestata dal governo italiano in sede legale». E le agenzie di rating? Se “abbassano” l’Italia danno la spinta ai mercati per vendere ancora i Btp? «Sicuro, ma ricordatevi che i mercati hanno fatto oscillare i Btp infinite volte, negli ultimi 25 anni, e alla fine lo Stato italiano ha sempre pagato tutto: ha pagato la bellezza di circa 3.000 miliardi di interessi dal 1990». La conseguenza della “turbolenza” dei mercati, aggiunge Zibordi, è che il rendimento può salire ancora, dal 3,3% attuale al 4% o forse anche di più, magari fino al 5%. Ma, tralasciando i titoli dei giornali, l’analista propone di ragionare sui numeri. In Germania, con l’inflazione al 2%, i titoli di Stato «rendono meno di zero, -0,5% sulle scadenze brevi e al massimo 0,4% sui decennali». Quindi, in sostanza, «hai il povero risparmiatore germanico che perde ogni anno 1% o 2% l’anno». In Italia con inflazione più bassa (1,2%, oggi), «il risparmiatore italico godrebbe di un guadagno del 3% al netto dell’inflazione se i Btp salissero oltre il 4% di rendimento». In pratica, «avresti che un tedesco perde sul 2% l’anno sui suoi soldi in titoli di Stato, e l’italiano che guadagna un 2 o 3% l’anno. Una differenza del 4 o 5% per noi».Ma il famoso rischio-Italia? Lo spettro del default? «Discorsi catastrofici simili sono stati fatti nel 2011, quando appunto il rendimento dei Btp salì al 5%». Risultato: chi comprò allora i Btp alla data di oggi, tra cedole e apprezzamento ha guadagnato oltre il 50% cumulativo. «Se vai più indietro, al 2008, negli ultimi dieci anni i Btp avevano resto un totale cumulativo del 70% fino a quando non sono arrivati Salvini e Di Maio. Adesso, anche conteggiando una perdita media intorno al 10% da maggio, il rendimento cumulativo resta intorno al 60%». Nel mondo di oggi, scrive Zibordi, tutto il reddito fisso sta facendo perdere soldi: da inizio anno, i bond globali hanno perso in media il 2%. «Oggi abbiamo i tassi di interesse più bassi della storia dell’umanità», sottolinea l’analista. Tutti i paesi importanti «pagano tra meno di zero e il 3% massimo» (gli Usa, l’Australia o la Cina). E quando pagano il 3%, come gli Usa, «poi hanno anche inflazione al 3%», per cui «il rendimento reale è sempre zero». Attenzione: «L’Italia in pratica è l’unico paese Ocse, ora, che paga rendimenti sui titoli di Stato superiori all’inflazione!».Se dunque un paese come l’Italia, che ha un surplus estero del 2,5% del Pil e un enorme risparmio privato, offrisse rendimenti del 4-5%, di fatto «arriverebbero fondi da tutto il mondo». E pian piano anche i risparmiatori italiani che ora «stanno soffrendo perdite su tutti i loro fondi, gestioni e polizze che le banche hanno loro rifilato», capirebbero che i titoli di Stato sono estremamente più sicuri della cosiddetta “industria del risparmio gestito”. Tradotto: «Se stai perdendo un -3% medio su tutti i prodotti del risparmio gestito della banca, perché ti deve fare schifo un 2-3% dei titoli di Stato?». La manovra di Di Maio e Salvini? Può darsi che non faccia abbastanza per la crescita, «perché troppo infarcita di sussidi e trasferimenti e senza riduzione di tasse vere o investimenti», però – avverte Zibordi – è una manovra «che aumenta il deficit di soli 8 miliardi, alla fine». E tutto il polverone mediatico sul “disastro” in arrivo «è probabilmente il solito bluff del mondo finanziario, che sui titoli di Stato da decenni specula», cioè gioca al ribasso per poi comprare a poco prezzo, al fine di incassare «grasse cedole».La finanziaria del governo gialloverde «non fa molto per i giovani, le imprese e gli investimenti», ma resta «una manovra di entità modesta, che non scassa nessun bilancio pubblico». Salvini? Fa bene a dire che “tira dritto”, denunciando il bluff dell’Ue per ora. «Il difetto della manovra è invece che non sostiene abbastanza l’economia, la quale sta rallentando, e non contiene misure alternative. Ma in termini puramente finanziari c’è tanta retorica, da entrambe le parti, che copre una realtà modesta», insiste Zibordi. «La verità è che alla Ue odiano Salvini per via dell’immigrazione: se la stessa manovra l’avesse fatta il Pd ci sarebbe stata qualche discussione dietro le quinte e poi sarebbe passata con questo famoso 2,4% accampando qualche scusa. Dato che Salvini minaccia tutto l’impianto culturale e sociale della Ue, che punta all’immigrazione di massa dal terzo mondo in Europa, qualunque piccola deviazione dai “parametri” viene amplificata per cercare di indebolirlo». Di qui il terribile can can terribile contro il governo “spendaccione, irresponsabile, venezuelano”, mentre in realtà, se uno guarda i semplici numeri, scopre che la manovra è così modesta che non può portare a nessun default.«Se sfori dello 0,6% del Pil rispetto a quello che voleva la Ue, si parla di 8 miliardi», tutto qui. «E lo Stato non smetterà di pagare interessi, visto che incassa 760 miliardi di tasse». E a proposito di fisco: «La manovra non riduce neanche di 1 miliardo le tasse, alla fine». I soldi per ripagare i Btp, al governo, non mancano affatto: «Se il “mercato” vuole rendimenti più alti sulle nuove emissioni ora, bene… il governo spenderà 5, 6 o 7 miliardi in più l’anno prossimo per pagarli». Di questo però beneficia chi compra le nuove emissioni oggi, «perchè i soldi che lo Stato paga di interessi non si volatilizzano, finiscono in tasca a qualcuno: e l’importante, ora, sarebbe che fosse italiano». Meglio per il risparmiatore italico, scrive Zibordi, che i Bpt renderessero di più. «E’ messo molto peggio quello tedesco, che perde un -1 o -2% l’anno quando compra titoli di Stato». Il “collega” italiano invece intasca un 2% netto reale, che diventa 3% se sale lo spread. I bond italiani «battono i rendimenti (reali) di chiunque altro, nel mondo avanzato». E’ perchè sono molto rischiosi? «La nostra economia è deludente fin che vuoi in termini di crescita, ma è stabile, nel senso che rimane nell’euro e non da default, visto che lo Stato preferisce continuare a tassare i suoi cittadini per pagare gli interessi invece che tentare misure alternative».Passano gli anni ma in Italia quando un governo deve fare una manovra economica tutto gira sempre intorno al debito pubblico. La Ue e i “mercati” vogliono essere rassicurati che lo Stato pagherà le rate e gli interessi sui Cct, Bot e Btp e l’intero governo impiega mesi a decidere se fare un deficit del 2,4% piuttosto che dell’1,8% del Pil: una differenza dello 0,6% del Pil – cioè 8 miliardi, alla fine. Ma questa differenza di 8 miliardi richiede trattative di settimane, agita i talk show e i giornali e marca la differenza tra un governo “responsabile”, bene accetto alla Ue e ai “mercati” (1,6% di deficit) e uno “populista” che fa esplodere lo “spread” e avviato al default (2,4% di deficit). Se lasci perdere la retorica e ti metti a leggere tabelle e numeri, scrive il trader finanziario Giovanni Zibordi, ti rendi conto che non ha senso, sapendo che di solito si sfora sempre: la Ue voleva un 1,8% al massimo e Tria cercava di tenerlo a questa percentuale, pensando che poi alla fine a consuntivo si arrivava sul 2,2% o 2,4%. Con un Def che indica un 2,4% di deficit come “impegno”, si suppone invece che si arrivi, alla fine, ad un 2,8% di deficit. «Resta che è una differenza di 8 miliardi l’anno e sembra diventi la fine del mondo. E se fosse tutto un bluff?».
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Moody’s, conflitto d’interessi: è ora di portarli in tribunale
Gli italiani dovevano arrivare sull’orlo del baratro, annusare l’aspro odore di tragico default e immaginare poveri i propri figli per rendersi conto della colossale truffa internazionale che è stata (e continua ad essere) perpetrata da trent’anni ai danni dell’Italia dal capitalismo finanziario globale? Evidentemente sì, sostiene Glauco Benigni su “Megachip”, segnalando che Moody’s declassa il governo Italiano – da Baa2 a Baa3 – nel suo ruolo di emettitore di moneta e titoli di Stato, perché nel suo programma il deficit ipotizzato per il 2019 è troppo alto e le riforme fiscali non sono adeguate a garantire la crescita nel medio termine. In sostanza: attenti italiani, perché l’eventuale prossimo declassamento vi identifica come nazione non affidabile, impedirà la compravendita dei vostri titoli di Stato e aprirà la porta al commissariamento (la Grecia docet). Da notare che Moody’s si arroga il diritto di valutare l’Italia solo conto di un terzo dei creditori (non gli stranieri), esprimendo però un’opinione a beneficio di tutti. Sul “Sole 24 Ore”, Morya Longo si domanda: «Perché mai il destino dell’Italia deve essere determinato da valutatori che in passato non hanno sempre azzeccato le previsioni?». Piaccia o non piaccia, aggiunge Longo, questa è la realtà: il motivo per cui tutti gli occhi sono puntati su Moody’s e Standard & Poor’s è perché l’Italia rischia, prima o poi, di essere declassata a “junk”, spazzatura.Attenzione, obietta Benigni: chi, come, dove, quando e perché ha conferito alle agenzie di rating questa facoltà di esprimere valutazioni che poi, “piaccia o non piaccia”, diventano il parametro per stabilire l’affidabilità nei confronti del mercato obbligazionario? La risposta è semplice e triste: «Le agenzie di rating sono possedute dagli stessi soggetti che compongono, rappresentano e gestiscono di fatto il mercato azionario e obbligazionario. Corporation finanziarie pubbliche e private, istituti di credito strategico, banche, assicurazioni, fondi. Tutte istituzioni quotate nelle maggiori Borse del pianeta. Sono dunque loro i padroni dei “valutatori”. E sono dunque sempre loro i “compratori” dei titoli di Stato: sono loro, esclusivamente loro, che “fanno il prezzo” (in questo caso, di intere nazioni) in deroga a qualsiasi legge sul confronto tra domanda e offerta, che – sempre secondo loro – regolerebbe i mercati». Per Glauco Benigni «siamo dentro un labirinto, le cui chiavi sono detenute da strozzini privi di alcuna etica». A indossare per primo l’Elmo di Scipio, aggiunge Genigni, è stato il Codacons, presieduto da Carlo Rienzi, che ha presentato un esposto alla Procura di Roma in cui si può leggere: «Il declassamento si configura come un atto privato volto ad influenzare il mercato e la Commissione Ue». Vero, è proprio così.«A destare sospetto – continua il Codacons – è proprio la tempistica seguita da Moody’s, che ha proceduto al declassamento pochi giorni prima della decisione Ue, valutando quindi una manovra non formalmente definitiva». Il declassamento «interferisce in un procedimento amministrativo che ha fasi ben precise, le quali non appaiono ancora concluse». Ma c’è di più, secondo il Codacons: «In caso di apertura di un procedimento da parte della Procura, l’associazione potrà avviare un’azione collettiva a tutela dei risparmiatori e dei cittadini italiani palesemente danneggiati da un atto arbitrario assunto con una tempistica del tutto sbagliata e lesiva degli interessi del paese». Secondo Benigni, questa è l’occasione buona per aprire almeno un tavolo di trattative, con le agenzie di rating, avendo dalla nostra parte organizzazioni come Adiconsum e Adoc, Adusbef, Altroconsumo, Assoutenti, Cittadinanzattiva, Federazione Confconsumatori – Acp. E poi Federconsumatori, Movimento Consumatori, Unione Nazionale Consumatori e ogni altra rappresentanza della società civile. Obiettivo: sostenere e aderire alla presentazione dell’esposto, con l’aggiunta di «individui, parrocchie, partiti e comitati di quartiere».Stavolta, sostiene Benigni, deve muoversi l’Italia intera, «altrimenti gli italiani annegheranno nell’ignavia, nella pigrizia, nell’indolenza, nella viltà». In altre parole: «Siamo al Tumulto dei Ciompi, siamo chiamati ad una manifestazione imponente in difesa di ogni brandello di sovranità che ancora non abbiamo già ceduto». Tanto più, che se appena vediamo con chi abbiamo a fare, in questo caso, scopriamo subito che «si tratta di quel famigerato 1% che affama il rimanente 99% della popolazione». Moody’s Corporation? «E’ una società privata con sede a New York che esegue ricerche finanziarie e analisi sulle attività di imprese commerciali e statali». È stata più volte indagata da diverse autorità finanziarie (soprattutto Usa e di Hong Kong) per reati quali aggiotaggio, insider trading, circolazione di report non chiari, inadeguato controllo interno: «Insomma, azioni o omissioni fondate sul crescere o diminuire del costo dei pubblici valori o sul prezzo di certe merci, operate valendosi di informazioni riservate o divulgando notizie inconsistenti, allo scopo di avvantaggiare o far avvantaggiare altri a danno dei risparmiatori o dei consumatori».A Hong Kong, nel 2016: la Sfat ha multato Moody’s per 11 milioni di dollari. L’anno seguente, negli Usa, la società ha subito una multa da 864 milioni di dollari per aver gonfiato il rating dei mutui ipotecari. E lo scorso agosto, sempre negli Stati Uniti, la Sec ha inflitto a Moody’s una doppia sanzione, per un totale di oltre 17 milioni di dollari. «Insieme a Standard & Poor’s, Moody’s finì sotto inchiesta per l’accusa di aver manipolato il mercato con dati falsi sui titoli tossici», ricorda Benigni. «Il magistrato indagava, per aggiotaggio e “market abuse”, Ross Abercromby, l’analista di Moody’s che firmò il report diffuso il 6 maggio del 2010, a mercati aperti, in cui si affermava che il sistema bancario italiano, in seguito al tracollo della Grecia, era tra quelli a rischio. La diffusione del report, che la Procura riteneva basato su “giudizi infondati e imprudenti” provocò il crollo del mercato dei titoli italiani». Il pm e la Guardia di Finanza contestavano alle agenzie di rating anche l’aggravante di «aver cagionato alla Repubblica Italiana un danno patrimoniale di rilevantissima gravità».Sal canto suo, l’Esma (European Securities and Markets Authority, autorità paneuropea di vigilanza sui mercati) il 2 luglio 2012 ha avviato un’indagine sulle procedure seguite dalle tre principali agenzie di rating nella loro valutazione della solidità patrimoniale delle banche. Il presidente dell’Esma, Steven Maijoor, dopo i «downgrade di massa», ha sollevato il dubbio che vi siano «sufficienti risorse analitiche» presso le tre agenzie. A Moody’s si rimprovera anche di aver attribuito un rating di massima affidabilità (la cosiddetta tripla A) alla banca Lehman Brothers, fino a alla vigilia della bancarotta, sebbene l’amministratore dell’istituto, Richard Fuld, avesse esibito da tempo dei bilanci falsi e quantunque si sapesse che negli ultimi dieci anni aveva versato 300.000 dollari a deputati e senatori del Congresso statunitense al fine di corromperli. Per non parlare di tutti gli altri procedimenti che pendono o si sono conclusi a volte con condanne pesanti. E l’Italia, “piaccia o non piaccia”, dovrebbe essere valutata da costoro? Per le attività che analizza, continua Benigni, Moody’s realizza il rating che porta il suo nome: si tratta di un indice che misura la capacità di restituire i crediti ricevuti in base a una scala standardizzata e suddivisa tra debiti contratti a medio e a lungo termine. Insieme a Standard & Poor’s, Moody’s è una delle due maggiori agenzie di rating al mondo. Dal 19 giugno 1998 è quotata al New York Stock Exchange.Il primo azionista di Moody’s, con una quota maggioritaria del capitale, risulta Warren Buffett, con la holding Berkshire Hathaway (24 milioni di azioni). Successivamente, compaiono in ordine (dal sito del New York Stock Exchange): Vanguard (16,8 milioni di azioni), BlackRock (11 milioni), StateStreet (7) e Baillie Gifford (6 milioni). Alcuni critici, si legge su Wikipedia, hanno evidenziato come Moody’s – alla pari di altre agenzie – sia «remunerata dalle stesse società su cui è chiamata a esprimere giudizi di redimibilità». Inoltre, «i suoi stessi azionisti principali (banche, gruppi finanziari, fondi privati), si servono dei suoi rating per acquistare prodotti finanziari sul mercato finanziario, evidenziando una situazione di conflitto di interesse». A causa dei ripetuti e clamorosi errori di valutazione, evidenti dagli anni Novanta, le Borse in vari casi hanno mostrato di ignorare il “downgrade” di Moody’s. Lo stesso Mario Draghi, presidente della Bce, il 24 gennaio 2011 ha detto al pm di Trani: «Bisogna fare a meno delle agenzie di rating: sono altamente carenti e discreditate».Glauco Benigni fa notare che ben 11 milioni di azioni dell’agenzia Moody’s sono gestite da BlackRock, la più grande società di investimento nel mondo. Con sede a New York, Blackrock vanta un patrimonio totale di oltre 6.000 miliardi di dollari – quasi quattro volte il Pil italiano – di cui un terzo collocato in Europa. Cosa gestisce BlackRock in Italia? Dispone di pacchetti azionari tra il 5 e il 6% in Banco Popolare, Unicredit, RaiWay, Banca Popolare Milano, Azimut, Intesa SanPaolo, Atlantia e Telecom Italia, più pacchetti di circa il 3% di Fiat e Generali. «Qualche analista la considera la maggiore potenza finanziaria straniera in Italia», sottolinea Benigni. La giornalista Heike Buchter, autrice di un saggio su BlackRock pubblicato nel 2015, conclude così una sua ricerca su “Handelsblatt”: «Nessun governo, nessuna autorità ha una visione così completa e profonda del mondo finanziario e aziendale globale come BlackRock». Dunque, che farà BlackRock a Piazza Affari dopo il declassamento? E cosa aspettiamo, ribadisce Benigni, a potare Moody’s in tribunale?Gli italiani dovevano arrivare sull’orlo del baratro, annusare l’aspro odore di tragico default e immaginare poveri i propri figli per rendersi conto della colossale truffa internazionale che è stata (e continua ad essere) perpetrata da trent’anni ai danni dell’Italia dal capitalismo finanziario globale? Evidentemente sì, sostiene Glauco Benigni su “Megachip”, segnalando che Moody’s declassa il governo Italiano – da Baa2 a Baa3 – nel suo ruolo di emettitore di moneta e titoli di Stato, perché nel suo programma il deficit ipotizzato per il 2019 è troppo alto e le riforme fiscali non sono adeguate a garantire la crescita nel medio termine. In sostanza: attenti italiani, perché l’eventuale prossimo declassamento vi identifica come nazione non affidabile, impedirà la compravendita dei vostri titoli di Stato e aprirà la porta al commissariamento (la Grecia docet). Da notare che Moody’s si arroga il diritto di valutare l’Italia solo conto di un terzo dei creditori (non gli stranieri), esprimendo però un’opinione a beneficio di tutti. Sul “Sole 24 Ore”, Morya Longo si domanda: «Perché mai il destino dell’Italia deve essere determinato da valutatori che in passato non hanno sempre azzeccato le previsioni?». Piaccia o non piaccia, aggiunge Longo, questa è la realtà: il motivo per cui tutti gli occhi sono puntati su Moody’s e Standard & Poor’s è perché l’Italia rischia, prima o poi, di essere declassata a “junk”, spazzatura.
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Galloni: la lettera di Tria, il disavanzo e le bombe d’acqua
I cambiamenti climatici – non dovuti alle emissioni di anidride carbonica, ma all’attività solare – devono farci riflettere su due aspetti: come affrontarli; con quali risorse economiche. La sfida, oggi come domani, non consiste nella velleitaria resistenza ai cambiamenti (che ci sono sempre stati, non sono opera dell’uomo, ma adesso avvengono a fronte di un’antropizzazione ben diversa rispetto al passato), ma nella fattiva predisposizione di tutti gli strumenti disponibili. Da una parte occorre che la cementificazione non significhi la predisposizione di barriere che impediscono all’acqua di defluire; dall’altra che tutte le infrastrutture esistenti subiscano una manutenzione efficace e tempestiva. Ciò implica dei costi di cui la comunità deve farsi carico per non doverne affrontare di ben maggiori, quando le catastrofi – sempre più sovente – accadono: 1) si possono fare delle collette; 2) si possono raccogliere coattivamente delle tasse di vario genere; 3) lo Stato può spendere in disavanzo anche per fornire i mezzi monetari necessari alle istituzioni dedicate; 4) lo Stato può emettere una propria valuta nazionale non a debito che non è contemplata – né, quindi, impedita – dall’articolo 128 del Trattato di Lisbona che si occupa di banconote e di moneta avente corso legale nell’Unione.Delle prime due c’è poco da dire; della spesa in disavanzo – con debito, per di più, in moneta estera, l’euro – si sta parlando in questi giorni tra il nostro governo ed i vertici dell’Unione (sarebbe più esatto Disunione, ma lasciamo stare) e, quindi, cerchiamo di riassumere i termini della questione. I singoli Stati sono liberi di decidere le proprie politiche economiche, ma nel rispetto degli accordi e dei parametri concordati. Di fronte ad una crisi occupazionale, sociale ed ambientale senza precedenti, il “Pacta sunt servanda” viene sempre superato dal “Ad impossibilia nemo tenetur”: se ci fossero milioni di persone per strada a protestare energicamente, nessuno avrebbe dubbi; ma – a differenza di quanto accadeva fino a pochi decenni fa – sembra che, a parte qualche terremotino elettorale, le situazioni reggano… finchè reggono. La spesa pubblica in disavanzo è ed è stato lo strumento principe con cui i governi puntavano alla crescita economica: infrastrutture, scuole e università, welfare, ecc. poi si è riscontrato un indebolimento dello strumento senza, però, che nessun’altra misura l’abbia potuto sostituire.La riduzione delle tasse si è rivelata controproducente se ottenuta con una pari riduzione della spesa; sarebbe efficace e necessaria a parità di spesa: ma, con ciò, il deficit aumenterebbe. Orbene, la minore efficacia della spesa in deficit è stata dovuta a un indebolimento del moltiplicatore della spesa produttiva e per investimenti; il moltiplicatore è il valore – superiore ad 1 – per cui moltiplicare (di qui il nome) la spesa stessa per valutarne l’impatto sul Pil; per gli antikeynesiani – ad esempio il Fmi o la Banca Mondiale – che ne vogliono sminuire l’importanza, esso è 1,5; tempo fa esso era stato stimato, per le grandi infrastrutture, la ricerca, ecc. intorno a 3 e si posizionava tra il 2 e il 3 per quanto riguardava i sussidi di disoccupazione, le pensioni sociali, ecc. Adesso succede che esso non raggiunge il 2 per le grandi infrastrutture e, in generale, gli investimenti produttivi, perché l’intensità del lavoro – grazie alle tecnologie – si è molto ridotta; invece rimane elevato nelle prestazioni cosiddette assistenzialistiche purchè queste ultime raggiungano persone o famiglie attorno alle condizioni di povertà (quei milioni e milioni che non sono in grado nemmeno di garantirsi due pasti completi al giorno).Allora: la lettera che lunedì 22 ottobre mattina il ministro Tria ha inviato ai vertici economici di Bruxelles (e che il presidente Conte ha immediatamente appoggiato) prevede che, se la manovra italiana in corso non produrrà effetti adeguati sul Pil, onde non superare il 2,4 di deficit (rispetto al Pil), la spesa dovrà essere tagliata. In altri termini, questo governo – a differenza dei precedenti – dà priorità alla crescita del Pil (quello, peraltro, che ci chiedono i “mercati”) e non alla tenuta dei conti che, si badi, però, rimane un vincolo, non una variabile residuale. Ma, per far crescere il Pil occorre una spinta notevole; infatti, il rapporto tra spesa pubblica e Pil non è più lineare, ma complesso: se un grande aumento della spesa a deficit assicura un aumento più che proporzionale del Pil, un piccolo aumento può avere un effetto nullo, non un effetto proporzionato. Paradossalmente, come s’è già detto, avrà un effetto maggiore la spesa assistenziale invece che quella – si badi bene, necessaria, necessarissima – per le infrastrutture, l’ambiente, ecc. Siccome le previsioni internazionali per il 2019 non sono buone (si veda, anche il mio ultimo “L’inganno e la sfida, 2019: le ragioni di una crisi finanziaria”, il rischio è che tra qualche trimestre bisognerà ricominciare a tagliare la spesa pubblica.Invece, proprio per affrontare la crisi, occorrerebbe fare il contrario: lo Stato deve occuparsi dei poveri, dei giovani, delle buche, delle bombe d’acqua, degli ospedali, del territorio, delle scuole. Risorse si possono ricavare dalla valorizzazione del patrimonio esistente; ma perché ciò accada e non sia un’inutile svendita della ricchezza, occorrono investimenti anche in disavanzo, collaborazione coi partner privati e stranieri. In uno scenario di spinta alla valorizzazione del nostro immenso patrimonio semiabbandonato, il deficit spending deve spingersi fino al pieno riassorbimento di tutte le risorse disoccupate: tecniche, umane e finanziarie (si pensi che, in Italia, 1 milione e trecentomila persone detengono, oltre tutto il resto, più di 500mila euro inutilizzati nelle banche). Una tale misura dovrebbe valere per tutti i paesi dell’Unione e, quindi, varierebbe a seconda del rispettivo tasso di disoccupazione combinato con la capacità di proporre progetti di valorizzazione delle risorse stesse.Tale scenario non pregiudicherebbe gli interessi dei paesi più forti che, quindi, dovrebbero spendere meno e consentirebbe di superare la più grande remora verso l’Europa: vale a dire che le scelte deflazionistiche dei passati decenni abbiano consentito solo un maggiore impoverimento ed asservimento dei cittadini invece dell’obbiettivo contrario (per cui la politica si sarebbe dovuta battere con determinazione). Infine, ciascuno Stato può eserciate sovranità monetaria nazionale – per qualche punto di Pil, senza esagerare – in quanto tali mezzi avrebbero circolazione solo interna, non sarebbero convertibili, avrebbero, all’emissione, lo stesso segno algebrico delle imposte (quindi ridurrebbero il deficit) e, quindi, ritornerebbero all’emittente in pagamento delle tasse. Tale misura, un po’ più di deficit ed il ritorno a banche di credito legate al territorio ed agli investimenti produttivi, assicurerebbero maggiore occupazione, la crescita sostenuta del Pil ed un miglioramento dei conti pubblici.(Nino Galloni, “La lettera di Tria, la spesa pubblica e le bombe d’acqua”, da “Scenari Economici” del 22 ottobre 2018).I cambiamenti climatici – non dovuti alle emissioni di anidride carbonica, ma all’attività solare – devono farci riflettere su due aspetti: come affrontarli; con quali risorse economiche. La sfida, oggi come domani, non consiste nella velleitaria resistenza ai cambiamenti (che ci sono sempre stati, non sono opera dell’uomo, ma adesso avvengono a fronte di un’antropizzazione ben diversa rispetto al passato), ma nella fattiva predisposizione di tutti gli strumenti disponibili. Da una parte occorre che la cementificazione non significhi la predisposizione di barriere che impediscono all’acqua di defluire; dall’altra che tutte le infrastrutture esistenti subiscano una manutenzione efficace e tempestiva. Ciò implica dei costi di cui la comunità deve farsi carico per non doverne affrontare di ben maggiori, quando le catastrofi – sempre più sovente – accadono: 1) si possono fare delle collette; 2) si possono raccogliere coattivamente delle tasse di vario genere; 3) lo Stato può spendere in disavanzo anche per fornire i mezzi monetari necessari alle istituzioni dedicate; 4) lo Stato può emettere una propria valuta nazionale non a debito che non è contemplata – né, quindi, impedita – dall’articolo 128 del Trattato di Lisbona che si occupa di banconote e di moneta avente corso legale nell’Unione.