Archivio del Tag ‘bancarotta’
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Pritchard: Europa alla fame, se l’euro dura ancora 5 anni
Il problema centrale all’origine di tutta la crisi della zona euro è il conflitto fondamentale d’interesse e di destino tra i paesi del sud e la Germania su come risolvere l’immenso gap di competitività. Questa questione rimane irrisolta e, secondo me, è semplicemente senza soluzione. I paesi del sud sono costretti ad una permanente svalutazione interna ed hanno bisogno di imporre politiche espansionistiche che rilancino la domanda, ma che costringerebbero la Germania ad uscire dall’euro per un tasso d’inflazione che Berlino non potrebbe accettare. E’ un rebus senza soluzione. La situazione non può essere risolta e prima la zona euro finirà, meglio sarà per tutti. L’alternativa? Sono 15-20 anni di depressione per la periferia imposti dall’attuazione delle regole del Fiscal Compact, che, in una fase di calo demografico e diminuzione della forza lavoro, produrranno scenari drammatici al tessuto economico e sociale di queste nazioni.Questa strategia assurda non aiuterà nessuno. E la domanda che le leadership devono porsi è: quanto può durare questa situazione senza che ci sia una reazione politica? In Francia e in Italia sta prendendo sempre più piede l’idea che, per salvare il resto del progetto europeo, è necessario pensare ad uno smantellamento coordinato dell’euro. E’ su questo punto che la politica deve iniziare a ragionare in modo costruttivo per evitare future reazioni a catena fuori controllo. Al momento non è utile fare previsioni sul futuro della zona euro, e proverei a ribaltare la questione in questo modo: non bisogna più parlare di rischio di rottura, ma il rischio reale e drammatico è che l’euro possa sopravvivere per altri cinque anni, producendo danni inimmaginabili ai paesi del sud dell’Europa. Il “decennio perso” dell’Europa si concluderebbe poi con uno scenario economico mondiale molto diverso da come era iniziato e l’intero continente vivrebbe totalmente ai margini. Il rischio vero è che l’euro sopravviva ancora. Ed è un rischio terribile per il futuro delle nazioni europee.In Italia, ad esempio, la disoccupazione giovanile è al 46% e questo in una fase di espansione globale. Riflettete su questo: a 5 anni dall’inizio della ripresa globale dopo la crisi Lehman Brothers, la disoccupazione giovanile in Italia è al 46%! E’ il tragico risultato delle scelte perseguite all’interno dell’Unione Europea e nella zona euro. Detto in altri termini è l’inevitabile suicidio di scegliere contemporaneamente politiche fiscali e monetarie restrittive. Questo, perlopiù, in una fase in cui le banche hanno ristretto l’accesso al credito all’economia reale per rispettare i nuovi regolamenti e la contrazione dei prestiti ha portato al fallimento di un numero incredibile di piccole imprese in Italia e in tutta l’Europa del sud. Anche nel Regno Unito abbiamo utilizzato misure di austerità fiscale, ma accompagnate da una grande spinta monetaria e lo stesso è accaduto negli Usa. In Europa si è scelto il suicidio economico di intere nazioni.L’economia italiana si è contratta nel primo trimestre dell’anno. E la ripresa, a differenza di quello che avevano annunciato, semplicemente non sta avvenendo. Lo stesso accade in Olanda, in Portogallo e in Spagna. La sola ragione per cui c’è un’apparente crescita in Spagna è il modo in cui viene ora calcolato il Pil. Un’analisi accurata mostra, tuttavia, come anche Madrid non sta crescendo. E tutti i paesi del sud, in ultima analisi, si stanno contraendo, con la Francia che è in stagnazione. Si tratta di una situazione paradossale, se si ragiona in un quadro di ripresa globale ormai consolidata: se a 5 anni dalla crisi Lehman Brothers, e con un contesto internazionale migliorato, l’economia dell’area euro non è ancora al sicuro e ha ancora una situazione di disoccupazione di massa drammatica e duratura, vuol dire che c’è qualcosa di profondo che non funziona.La contrazione del Pil nominale italiano negli ultimi due anni è un fallimento politico di proporzioni storiche e non sarebbe mai dovuto accadere. La riduzione del debito pubblico e privato per i paesi del sud è praticamente impossibile in una situazione di deflazione. Ho intervistato recentemente l’ufficiale del Fmi nelle operazioni della Troika in Irlanda e lui mi ha detto che Italia e Spagna per avere un debito sostenibile nel medio periodo hanno bisogno di un tasso d’inflazione della zona euro al 2% per oltre cinque anni consecutivi. E questo è confermato in una serie di paper del Fmi che hanno sottolineato come la traiettoria del debito sia fuori controllo in un contesto di bassissima inflazione. Se la periferia della zona euro ha “successo” nell’adempiere a quanto prescritto da Bruxelles-Berlino-Francoforte, crea una situazione di svalutazione interna e per riguadagnare competitività con la Germania si abbatte il Pil nominale, rendendo fuori controllo la traiettoria del debito. Se raggiungi quello che Bruxelles ti sta chiedendo, in poche parole, vai in bancarotta. E’ la conseguenza del “successo”.Non so se le autorità monetarie europee si siano mai poste questa domanda: perchè hanno imposto queste politiche ai paesi se il loro successo rende la situazione peggiore di quella precedente? Esiste una ragione credibile a livello economico sul perché la Bce non vuole raggiungere gli obiettivi di politica monetaria e per un periodo così lungo? No, non c’è. Un’inflazione prossima allo zero costa all’Italia il 2,6% del Pil per raggiungere lo stesso obiettivo che potrebbe essere raggiunto se solo la Bce rispettasse gli obiettivi imposti dai trattati. Questa situazione di bassissima inflazione è disastrosa per il futuro economico dell’Italia. Quando Mario Draghi ha lanciato il programma Omt – Outgriht Monetary Transactions – nell’agosto del 2012 è cambiato tutto. L’euro stava per fallire a luglio, con Italia e Spagna che erano in una grande crisi di finanziamento del proprio debito e la moneta unica era molto vicina al collasso. Angela Merkel stava pensando di espellere la Grecia dalla zona euro e solo quando ha accertato che ci sarebbero stati troppi pericoli per il contagio di Italia e Spagna, Berlino ha accettato il piano ideato dal ministero delle finanze tedesco, che si è trasformato poi nel programma Omt.Poche persone hanno compreso bene questa fase storica: non è la Bce, ma la Germania che ha cambiato politica, trasformando l’istituto di Draghi in una prestatore di ultima istanza. Da allora la crisi della zona euro è completamente diversa e non c’è più il rischio che l’euro possa esplodere per un fallimento bancario. Ma bisogna stare attenti perché la Corte Costituzionale tedesca ha stabilito che l’Omt di Draghi rappresenta una violazione dei trattati. Il pericolo sistemico esiste ancora e si può arrivare ad una rottura per ragioni differenti: i paesi del sud vivranno una situazione di depressione economica permanente, che produrrà danni ai settori industriali nevralgici per la vita dei diversi paesi e una situazione politicamente insostenibile nel lungo periodo. Le elezioni di partiti radicali potrebbero quindi forzare il cambiamento e modificare l’intero progetto.In Gran Bretagna, l’Ukip costringerà il partito conservatore di Cameron – che è personalmente pro-Europa rispetto ad un’ala sempre più influente di Tory che la pensa come l’Ukip – a cambiare posizione, perché il messaggio a Bruxelles nelle ultime elezioni è stato chiaro: il popolo britannico non tollera più una perdita di sovranità continua. Quando in Francia a vincere è un partito che, una volta al potere, vuole – come mi ha confermato Marine Le Pen in un’intervista – ordinare al Tesoro francese di attivarsi per il ritorno immediato al franco, la questione rimane centrale nel dibattito. Come reagiranno ora i gollisti e i conservatori moderati a questo messaggio del popolo francese alle elezioni europee e alla distruzione dell’industria storica francese? Se il Fronte Nazionale dovesse vincere le elezioni, la Francia non rispetterà il Fiscal Comapct e questa ridicola legislazione decisa da Bruxelles. Gli altri partiti non possono più ignorarlo.Ci sono due possibili vie: i paesi della periferia comprenderanno che la permanenza nella zona euro richiede un numero di sacrifici non più tollerabili e decideranno di uscirne; oppure, ad esempio insieme all’Olanda che è in una situazione similare, prenderanno possesso in modo coordinato delle istituzioni che controllano la politica economica dell’Ue, imponendo il cambiamento in linea con le loro esigenze. Sarei molto sorpreso se si realizzasse quest’ultima alternativa, dato che questi paesi non hanno certo il coltello da parte del manico e già in passato Hollande ha fallito nel creare un consenso con i paesi mediterranei. Ma anche se dovessero riuscirci, il rischio della zona euro sarebbe poi l’opposto, vale a dire un’uscita della Germania, che non accetterebbe mai politiche inflazionistiche.(Ambrose Evans-Pritchard, dichiarazioni rilasciate ad Alessandro Bianchi per l’intervista “Il vero rischio non è la sua fine, ma che l’euro sopravviva altri cinque anni: le conseguenze sarebbero drammatiche”, pubblicata da “L’Antidiplomatico” il 4 giugno 2014).Il problema centrale all’origine di tutta la crisi della zona euro è il conflitto fondamentale d’interesse e di destino tra i paesi del sud e la Germania su come risolvere l’immenso gap di competitività. Questa questione rimane irrisolta e, secondo me, è semplicemente senza soluzione. I paesi del sud sono costretti ad una permanente svalutazione interna ed hanno bisogno di imporre politiche espansionistiche che rilancino la domanda, ma che costringerebbero la Germania ad uscire dall’euro per un tasso d’inflazione che Berlino non potrebbe accettare. E’ un rebus senza soluzione. La situazione non può essere risolta e prima la zona euro finirà, meglio sarà per tutti. L’alternativa? Sono 15-20 anni di depressione per la periferia imposti dall’attuazione delle regole del Fiscal Compact, che, in una fase di calo demografico e diminuzione della forza lavoro, produrranno scenari drammatici al tessuto economico e sociale di queste nazioni.
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I leader Ue sono marci: tangenti da 120 miliardi l’anno
L’Europa è malata. Quanto gravemente è questione non sempre facile da giudicare. Ma tra i sintomi ce ne sono tre di cospicui, e interrelati. Il primo, e più familiare, è la svolta degenerativa della democrazia in tutto il continente, di cui la struttura della Ue è a un tempo la causa e la conseguenza. Lo stampo oligarchico delle sue scelte costituzionali, a suo tempo concepite come impalcatura di una sovranità popolare a venire di scala sovranazionale, nel tempo si è costantemente rafforzato. I referendum sono regolarmente sovvertiti se intralciano la volontà dei governanti. Gli elettori le cui idee sono disdegnate dalle élite rigettano i governi che nominalmente li rappresentano, l’affluenza alle urne cala di elezione in elezione. Burocrati che non sono mai stati eletti controllano i bilanci dei parlamenti nazionali espropriati del potere di spesa. All’involuzione generalizzata si è accompagnata una corruzione pervasiva della classe politica, argomento su cui le scienze politiche, parecchio loquaci a proposito di quello che nel linguaggio dei contabili è definito il deficit democratico dell’Unione, solitamente tacciono.Le forme di tale corruzione devono ancora trovare una tassonomia sistematica. C’è la corruzione pre-elettorale: il finanziamento di persone e partiti da fonti illegali – o legali – contro la promessa, esplicita o tacita, di futuri favori. C’è la corruzione post-elettorale: l’uso delle cariche per ottenere fondi mediante malversazioni sulle entrate o mazzette sui contratti. C’è l’acquisto di voci o voti nei parlamenti. C’è il furto puro e semplice dalle casse pubbliche. C’è la falsificazione di credenziali per vantaggi politici. C’è l’arricchimento dalla carica pubblica dopo l’evento, così come durante o prima di esso. Il panorama di questa malavita è impressionante. Un affresco di esso potrebbe cominciare con Helmut Kohl, governante della Germania per sedici anni, che accumulò due milioni di marchi di fondi neri da donatori illegali i cui nomi, quando fu denunciato, rifiutò di rivelare per timore che venissero alla luce i favori che aveva fatto loro. Oltre il Reno, Jacques Chirac, presidente della Repubblica Francese per dodici anni, fu condannato per appropriazione di fondi pubblici, abuso di ufficio e conflitti d’interesse, una volta caduta l’immunità. Nessuno dei due ha subito pene. Questi erano due dei più potenti politici dell’epoca in Europa.In Germania il governo di Gerhard Schroeder garantì un prestito da un miliardo di euro alla Gazprom per la costruzione di un gasdotto sul baltico poche settimane prima che egli si dimettesse da cancelliere e andasse a libro paga della Gazprom con uno stipendio maggiore di quello che aveva ricevuto governando il paese. Dopo la sua partenza, Angela Merkel ha visto due presidenti della repubblica, uno dietro l’altro, costretti a dimettersi da screditati: Horst Koehler, ex capo del Fmi, per aver spiegato che il contingente della Bundeswehr in Afghanistan stava proteggendo interessi commerciali tedeschi; e Christian Wulff, ex capo cristiano-democratico della Bassa Sassonia, per un prestito discutibile ricevuto da un affarista amico per la sua casa. Due ministri eminenti, uno della difesa e l’altro dell’istruzione, hanno dovuto andarsene quando sono stati privati dei loro dottorati – una credenziale importante per una carriera politica nella Repubblica Federale – per violazione dei diritti di proprietà intellettuale. Quando il secondo, Annette Schavan, un’intima amica della Merkel (che aveva manifestato piena fiducia in lei) era ancora in carica, il “Bild Zeitung” ha osservato che avere un ministro dell’istruzione che aveva falsificato le sue ricerche era come avere un ministro delle finanze con un conto segreto in Svizzera.In Francia il ministro socialista del bilancio, il chirurgo plastico Jérôme Cahuzac, la cui direttiva era di difendere la probità e l’equità fiscale, è stato scoperto detenere qualcosa tra i 600.000 e i 15 milioni di euro in depositi segreti in Svizzera e a Singapore. Nicolas Sarkozy, nel frattempo, è accusato da testimoni concordi di aver ricevuto circa 20 milioni di dollari da Gheddafi per la campagna elettorale che lo portò alla presidenza. Christine Lagarde, il suo ministro delle finanze, che oggi dirige il Fmi, è sotto inchiesta per il suo ruolo nella concessione di 420 milioni di dollari di ‘risarcimento’ a Bernard Tapie, un ben noto truffatore con un passato in carcere, negli ultimi tempi amico di Sarkozy. Contiguità disinvolta con la criminalità è bipartisan. François Hollande, attuale presidente della repubblica, usava come pied-à-terre per gli incontri con la sua amante un appartamento della donna di un gangster corso, ucciso l’anno scorso in una sparatoria sull’isola.In Gran Bretagna, circa nello stesso periodo, l’ex premier Blair consigliava a Rebekah Brooks, che rischiava il carcere per cinque accuse di cospirazione criminale («Sii forte e prendi pastiglie per dormire. Passerà») e la sollecitava a «pubblicare un rapporto in stile Hutton», come aveva fatto lui per sterilizzare qualsiasi parte il suo governo potesse aver avuto nella morte di una fonte interna che aveva fatto rivelazioni sulla sua guerra in Iraq: un’invasione dalla quale ha poi proseguito a raccogliere – naturalmente per la sua Fondazione Faith – mance e contratti assortiti in giro per il mondo, considerevoli fondi in contanti da una compagnia petrolifera della Corea del Sud gestita da un delinquente condannato con interessi in Iraq e presso la dinastia feudale del Kuwait. Quali ricompense possa essersi guadagnato più a est resta da vedere («I progressi del Kazakistan sono splendidi. Comunque, signor Presidente, lei ha toccato nuovi vertici nel suo messaggio alla nazione». Alla lettera.).In patria, in uno scambio di favori a proposito dei quali ha mentito compuntamente al Parlamento, le sue mani sono state unte da un milione di sterline versate alle casse del partito dal magnate delle corse automobilistiche Bernie Ecclestone, attualmente sotto giudizio in Baviera per tangenti al ritmo di 33 milioni di euro. Nella cultura del New Labour, figure di spicco della cerchia di Blair, ministri di gabinetto un tempo – Byers, Hoon, Hewitt – non sono stati in grado di offrirsi in vendita al successore. Negli stessi anni, indipendentemente dal partito, la Camera dei Comuni è stata denunciata come un pozzo nero di meschine malversazioni di denaro dei contribuenti. In Irlanda, contemporaneamente, il leader del Fianna Fàil, Bertie Ahern, avendo canalizzato più di 400.000 euro di pagamenti non spiegati prima di diventare “taioseach”, si è votato lo stipendio più elevato di qualsiasi premier in Europa – 310.000 euro, più persino del presidente degli Stati Uniti – un anno prima di doversene andare con disonore per assoluta disonestà.In Spagna l’attuale primo ministro, Mariano Rajoy, alla guida di un governo di destra, è stato colto con le mani nel sacco mentre riceveva mazzette per contratti di costruzione e di altro genere per un totale di un quarto di milione di euro nel giro di un decennio, passategli da Luis Bàrcenas. Tesoriere del suo partito per vent’anni, Bàrcenas è oggi sotto arresto per aver accumulato un tesoro di 48 milioni di euro in conti svizzeri non dichiarati. I libri mastri, compilati a mano, contenenti i dettagli dei suoi versamenti a Rajoy e ad altri notabili del Partito del Popolo – tra cui Rodrigo Rato, altro ex capo del Fmi – sono apparsi in facsimile in abbondanza sulla stampa spagnola. Una volta scoppiato lo scandalo Rajoy ha inviato a Bàrcenas un messaggio con parole virtualmente identiche a quelle di Blair alla Brooks: «Luis, io capisco. Resta forte. Ti chiamerò domani. Un abbraccio». Pur con uno scandalo in cui l’85% del pubblico spagnolo ritiene che egli menta, resta incollato alla poltrona nel Palazzo della Moncloa.In Grecia, Akis Thochatzopoulos, del Pasok – ministro, in successione, dell’interno, della difesa e dello sviluppo – in un’occasione arrivato a un soffio dalla guida della socialdemocrazia greca, è stato meno fortunato: condannato l’autunno scorso a vent’anni di carcere per una formidabile carriera di estorsioni e di riciclaggi di denaro sporco. Oltre il mare Tayyip Erdogan, a lungo celebrato dai media e dall’establishment intellettuale dell’Europa come il più grande statista democratico della Turchia, la cui condotta ha virtualmente dato al paese il titolo di membro onorario della Ue ante diem, ha dimostrato di essere meritevole di essere incluso nei ranghi della dirigenza europea in un altro modo: in una conversazione registrata in cui dava al figlio istruzioni su dove nascondere decine di milioni in contanti, in un’altra in cui alzava il prezzo di una robusta tangente su un contratto di costruzioni. Tre ministri del governo sono caduti dopo scoperte analoghe, prima che Erdogan purgasse le forze della polizia e della magistratura per assicurarsi che non si spingessero oltre.Mentre egli faceva questo la Commissione Europea ha pubblicato il suo primo rapporto ufficiale sulla corruzione nell’Unione, la cui dimensione il commissario autore del rapporto l’ha descritta come “mozzafiato”: secondo una stima prudente, costa alla Ue quanto l’intero bilancio dell’Unione, circa 120 miliardi l’anno, ma la cifra reale è «probabilmente molto più alta». Prudentemente il rapporto si è occupato solo degli stati membri. La stessa Ue, la cui intera Commissione fu costretta in tempi non lontani a dimettersi screditata, è stata esclusa (la Commissione Santer fu costretta a dimettersi nel 1999 per accuse di corruzione contro alcuni suoi membri). Diffuso in un’Unione che si presenta come tutore morale del mondo, l’inquinamento del potere ad opera del denaro e della frode deriva dallo svuotamento di sostanza o dalla caduta del coinvolgimento nella democrazia. Le élite, liberate sia da una reale divisione in alto sia da un significativo dovere di rispondere in basso, possono permettersi di arricchirsi alla follia e impunite. La denuncia cessa di contare molto, poiché l’impunità diviene la regola. Come i banchieri, i politici di spicco non finiscono in carcere.Ma la corruzione non è solo una funzione del declino dell’ordine politico. E’ anche, ovviamente, un sintomo del regime economico che si è impossessato dell’Europa a partire dagli anni ’80. In un universo neoliberista dove i mercati sono il metro del valore, il denaro diventa, più platealmente che mai, la misura di tutte le cose. Se ospedali, scuole e carceri possono essere privatizzati a fini di profitto delle imprese, perché non anche le cariche politiche? Oltre alla ricaduta culturale del neoliberismo, tuttavia, vi è l’impatto del sistema socio-economico, la terza e, nell’esperienza del popolo, di gran lunga più acuta delle malarie che affliggono l’Europa. Che la crisi economica scatenate in occidente nel 2008 sia stata il risultato di decenni di liberalizzazioni nel settore finanziario e di espansione del credito lo ammettono, più o meno, i loro stessi architetti; si veda Alan Greenspan. Collegate oltre Atlantico, le banche e le attività immobiliari europee erano già coinvolte nel disastro tanto quanto le loro omologhe statunitensi. Nella Ue, tuttavia, questa crisi generale è stata aggravata da un altro fattore peculiare dell’Unione, le distorsioni create dalla moneta unica imposta a economie nazionali molto diverse tra loro, spingendo le più vulnerabili di esse sull’orlo della bancarotta quando sono state colpite dalla crisi generale.(Perry Anderson, estratto dall’intervento “Il disastro italiano”, pubblicato da “Sinistra in rete” il 29 maggio 2014).L’Europa è malata. Quanto gravemente è questione non sempre facile da giudicare. Ma tra i sintomi ce ne sono tre di cospicui, e interrelati. Il primo, e più familiare, è la svolta degenerativa della democrazia in tutto il continente, di cui la struttura della Ue è a un tempo la causa e la conseguenza. Lo stampo oligarchico delle sue scelte costituzionali, a suo tempo concepite come impalcatura di una sovranità popolare a venire di scala sovranazionale, nel tempo si è costantemente rafforzato. I referendum sono regolarmente sovvertiti se intralciano la volontà dei governanti. Gli elettori le cui idee sono disdegnate dalle élite rigettano i governi che nominalmente li rappresentano, l’affluenza alle urne cala di elezione in elezione. Burocrati che non sono mai stati eletti controllano i bilanci dei parlamenti nazionali espropriati del potere di spesa. All’involuzione generalizzata si è accompagnata una corruzione pervasiva della classe politica, argomento su cui le scienze politiche, parecchio loquaci a proposito di quello che nel linguaggio dei contabili è definito il deficit democratico dell’Unione, solitamente tacciono.
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Salvare la democrazia: la questione morale della Le Pen
L’inaudito plebiscito pro Renzi, largamente inatteso dallo stesso Pd, relega l’Italia in posizione ancora una volta subalterna e defilata rispetto alla grande partita europea che si è ufficialmente aperta con le storiche elezioni del 25 maggio 2014, con gli euroscettici al comando in due paesi leader come la Gran Bretagna e soprattutto la Francia, dove più è evidente la bancarotta storica (politica, etica e culturale) della socialdemocrazia, la forza che più di ogni altra ha tacitamente supportato l’euro-disastro neoliberista, tradendo il proprio elettorato di sinistra. Se oggi il Pd può raccontare che – insieme a Martin Schulz – tenterà di mitigare l’austerity di Bruxelles imposta dalla Deutsche Bank per tramite della Mekel, potrà farlo solo grazie alla radicale protesta elettorale dei paesi più avanzati, la Francia in primis, che ora costringerà la Troika a fare i conti con la pressante richiesta di sovranità democratica di molti popoli europei, dalla Grecia all’Austria.Nelle ultime settimane, la campagna elettorale italiana ha riesumato – facendone oggetto di contesa polemica – la “questione morale” impugnata da Enrico Berlinguer, indimenticato leader di un partito “eretico” e anomalo, popolare e democratico, impegnato a contrastare energicamente la corruzione della classe politica italiana dell’epoca, cioè la partitocrazia anticomunista cui si perdonavano le tangenti purché facesse argine contro il “pericolo rosso”, in piena guerra fredda contro l’Unione Sovietica. Subito dopo la caduta del Muro, quella storica tolleranza verso la malapolitica italiana cessò di colpo, sotto la scure di Mani Pulite che decapitò la vecchia classe dirigente partitocratica proprio mentre quella nuova, elitaria e tecnocratica, stava già brigando per consegnare il paese all’europeismo delle banche, della grande industria e della finanza. Esattamente il tipo di europeismo al quale, il 25 maggio 2014, milioni di europei (e pochissimi italiani) hanno detto di no.Della questione morale di oggi – quella vera – si è sentito parlare moltissimo nel Regno Unito e soprattutto in Francia, dove «il popolo ha parlato», come ha detto Marine Le Pen, e ha messo al teppeto il socialista Hollande, prono ai diktat del regime affaristico euro-atlantico che ha un solo grande obiettivo: radere al suolo la democrazia, lo Stato di diritto dei cittadini, mediante la privatizzazione definitiva della finanza pubblica, delle banche centrali e della moneta, riducendo a zero la capacità di spesa pubblica. In Italia il nome di Berlinguer è stato speso chiacchierando di auto blu e stipendi d’oro, mentre – come ha ricordato Giorgio Cremaschi alla vigilia delle elezioni – proprio Berlinguer si era opposto al monetarismo dello Sme, il bisnonno dell’euro, intuendo che il controllo delle élite sulla moneta avrebbe messo in ginocchio lo Stato e quindi la democrazia popolare. Questa battaglia, vittoriosa e centrale per il nostro futuro, è stata adottata da Marine Le Pen, contestando il sistema di potere della Francia, cioè dello Stato che fu più decisivo per la nascita di questa insostenibile, oligarchica Unione Europea. Gli italiani? Non pervenuti: il derby era tra Renzi e Grillo, gli 80 euro e le auto blu.L’inaudito plebiscito pro Renzi, largamente inatteso dallo stesso Pd, relega l’Italia in posizione ancora una volta subalterna e defilata rispetto alla grande partita europea che si è ufficialmente aperta con le storiche elezioni del 25 maggio 2014, con gli euroscettici al comando in due paesi leader come la Gran Bretagna e soprattutto la Francia, dove più è evidente la bancarotta storica (politica, etica e culturale) della socialdemocrazia, la forza che più di ogni altra ha tacitamente supportato l’euro-disastro neoliberista, tradendo il proprio elettorato di sinistra. Se oggi il Pd può raccontare che – insieme a Martin Schulz – tenterà di mitigare l’austerity di Bruxelles imposta dalla Deutsche Bank per tramite della Merkel, potrà farlo solo grazie alla radicale protesta elettorale dei paesi più avanzati, la Francia in primis, che ora costringerà la Troika a fare i conti con la pressante richiesta di sovranità democratica di molti popoli europei, dalla Grecia all’Austria.
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Un lavoro dignitoso? Non l’avrai mai più, grazie al Pd
I giovani sono serviti: non avranno mai più un lavoro decente, sicuro, dignitoso. La soddisfazione con cui i partiti di centrodestra hanno salutato l’ultima versione del decreto su contratti a termine e apprendistato è «la miglior certificazione non solo degli ulteriori e quasi incredibili peggioramenti di una legge già pessima, ma della vera e propria bancarotta – non c’è altra parola – della rappresentanza parlamentare del Partito Democratico». Con la sola eccezione di Stefano Fassina, rileva Piergiovanni Alleva, i parlamentari del Pd «si sono lasciati soggiogare da alcuni notissimi nemici storici dei lavoratori e dei sindacati», a cominciare dall’ex ministro Maurizio Sacconi, accettando un testo normativo «che mai i governi Berlusconi sarebbero riusciti ad ottenere a scapito dei lavoratori, e di cui invece il “democratico” Renzi e il “comunista” Poletti vanno invece addirittura fieri». Sono loro, i portabandiera della sinistra ufficiale, a seppellire lo Statuto dei Lavoratori su cui si sono basati decenni di sviluppo sociale nell’Italia del benessere.Col decreto Poletti, osserva Alleva in un articolo sul “Manifesto” ripreso da “Micromega”, i contratti a termine diventano “acausali”: possono essere conclusi senza una motivazione specifica. Unico obiettivo: «Tenere il lavoratore sotto il perpetuo ricatto del mancato rinnovo», senza più neppure sperare in una conferma a tempo indeterminato dopo 36 mesi, perché per questo occorrerebbe un ulteriore contratto: perché mai concederlo, visto che sarebbe più conveniente assumere un nuovo precario? Certo, ricorrere al turn-over dei precari non favorisce certo la competitività dell’azienda sul piano della qualità: ma è appunto questa, come denunciano molti osservatori, la tendenza a cui l’impresa italiana si è andata rassegnando. Meglio produzioni di bassa qualità, ovviamente a basso costo, per tentare di competere sul mercato mondiale globalizzato. Problemi che non esisterebbero se invece si puntasse sul mercato interno dei consumi, sulle filiere corte.Alleva si sofferma sull’ipocrisia del Pd, che ha «trangugiato con la massima indifferenza la “acausalità” e fissato, in cambio, un falso obiettivo, onde poter poi vantare falsi successi». Il falso obiettivo: «Ridurre le possibili proroghe di un contratto “acausale” da 8 a 5», il che però «non sposta di un millimetro il problema del potere ricattatorio consegnato al datore». Anche perché, come subito notato dai giuristi, «una cosa è la proroga di un contratto, altra cosa è il suo rinnovo, ossia la stipula di un altro successivo contratto del tutto analogo». In altre parole, «dopo avere prorogato per cinque volte un contratto acausale a termine, niente impedisce di stipulare un altro contratto simile con le sue cinque proroghe, e così via». Eppure, insiste Alleva, «i parlamentari Pd hanno avuto il coraggio di vantare questo inganno, o autoinganno, come un successo politico».Altro fronte di degradazione definitiva del mercato del lavoro, l’argine del “contingentamento” dei precari, in percentuale ai lavoratori a tempo indeterminato: una misura di salvaguardia, introdotta nel 1987. Nella sua versione originaria, prosegue Alleva, lo stesso decreto Poletti prevedeva una percentuale massima del 20% di contratti a termine per azienda, ma ora il limite è stato aggirato. Restava un ultimo punto: l’obbligo di trasformare in lavoratori stabili i dipendenti a termine, una volta superata la soglia del 20%. «Ebbene, anche su questo i parlamentari del Pd sono stati pronti al grosso passo indietro, a genuflettersi ai Poletti, ai Sacconi, agli Ichino ed ad accettare che il testo normativo preveda, invece della trasformazione, una semplice sanzione amministrativa per lo “sforamento”». Per Alleva, è come se si concedesse a chi dà lavoro in nero di non essere più obbligato a mettere in regola il lavoratore. «Si tratta di un assurdo giuridico, oltre che di una vergogna politica, che l’ineffabile capo dei deputati Pd ed ex ministro del lavoro Cesare Damiano ha avuto il coraggio di definire come “differenza minimale” rispetto al testo originario».Conclude Alleva: «Alla prova dei fatti, tra le forze politiche rappresentate in Parlamento solo i deputati di Sel e del “Movimento 5 Stelle” hanno tenuto un comportamento coerente, limpido e di appassionata difesa della dignità dei lavoratori». Ora, dopo lo scontato voto di fiducia «che consentirà di consumare definitivamente questo vero crimine sociale», la parola dovrà passare «a quanti, nei movimenti e nella società civile, hanno davvero a cuore i diritti dei lavoratori, cercando di rivendicarli anche nelle aule di giustizia italiane ed europee». Sempre che parola “giustizia”, naturalmente, ridiventi coniugabile – in un futuro indefinito – con la parola “Europa”, cioè con la tecnocrazia neoliberista del Fiscal Compact del Trattato Transatlantico che mira esattamente a ridurre a zero le protezioni dello Stato verso i lavoratori, con l’unico obiettivo di far aumentare in modo esplosivo i profitti dei vertici industriali e finanziari, a scapito di lavoratori trasformati in schiavi sottopagati e precari. Operazione a cui, in questi anni – a tappe forzate (trattati europei) – proprio il centrosinistra ha dato un contributo determinante. Buon ultimo Matteo Renzi: sta servendo ai poteri forti, su un piatto d’argento, le atroci “riforme strutturali” invocate da Mario Monti e Elsa Fornero.I giovani sono serviti: non avranno mai più un lavoro decente, sicuro, dignitoso. La soddisfazione con cui i partiti di centrodestra hanno salutato l’ultima versione del decreto su contratti a termine e apprendistato è «la miglior certificazione non solo degli ulteriori e quasi incredibili peggioramenti di una legge già pessima, ma della vera e propria bancarotta – non c’è altra parola – della rappresentanza parlamentare del Partito Democratico». Con la sola eccezione di Stefano Fassina, rileva Piergiovanni Alleva, i parlamentari del Pd «si sono lasciati soggiogare da alcuni notissimi nemici storici dei lavoratori e dei sindacati», a cominciare dall’ex ministro Maurizio Sacconi, accettando un testo normativo «che mai i governi Berlusconi sarebbero riusciti ad ottenere a scapito dei lavoratori, e di cui invece il “democratico” Renzi e il “comunista” Poletti vanno invece addirittura fieri». Sono loro, i portabandiera della sinistra ufficiale, a seppellire lo Statuto dei Lavoratori su cui si sono basati decenni di sviluppo sociale nell’Italia del benessere.
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Odessa 2014, strage nazista oscurata dai nostri media
Vediamo i lenzuoli sui corpi di decine di persone, nelle videoriprese di Odessa, in Ucraina. Lì è in atto un pogrom antirusso in pieno XXI secolo, con lancio di molotov, granate artigianali, assedi, bastonature. Squadre nazistoidi di Pravy Sektor (”Settore Destro”), protette e inquadrate anche nel resto del Paese da una giunta insediatasi dopo aver allontanato con la violenza un presidente eletto regolarmente, stanno devastando i luoghi di aggregazione sociale e politica – ossia i partiti, le associazioni, i sindacati – di una parte della popolazione di Odessa (maggioritaria) identificabile come russa, russofona o filorussa. La polizia della città sul Mar Nero ha lasciato fare per ore. Ma le vergognose testate italiane fanno a gara per sopire e troncare la reale portata della notizia. Distinguere fra un generico incidente e una strage politica: il confine per capire quali tempi di fuoco si avvicinano passa da qui, dai 38 morti del 2 maggio di Odessa (per tacere degli altri episodi da guerra civile nel resto di un paese in bancarotta).In materia di guerra la stampa italiana, specie sul web, ci ha già abituati al peggio negli ultimi anni. Con il dramma dell’Ucraina si è già subito portata ai suoi peggiori livelli, già raggiunti nel disinformare i lettori sulla guerra in Libia e poi in Siria. Le pagine web italiote ci farebbero davvero ridere, se non parlassimo di una tragedia: i 38 filo-russi bruciati in una sede sindacale dai nazionalisti ucraini di estrema destra sono diventati delle generiche “38 vittime in un incendio”. «Quasi si trattasse di un incidente e non di un massacro politico», commenta Daniele Scalea, direttore dell’Isag, un istituto di studi geopolitici molto attento alle vicende dell’Europa orientale. Scalea e anche noi ci domandiamo cosa avrebbero scritto nel 2011 il “Corriere della Sera”, o la “Repubblica”, o “Il Fatto Quotidiano”, se dei miliziani di Gheddafi avessero assediato decine di manifestanti fino a farli bruciare vivi.Ecco come il canale televisivo russo “Rt” riferisce i fatti: «Almeno 38 attivisti antigovernativi sono morti nell’incendio della Camera del Lavoro di Odessa a seguito del soffocamento per il fumo o dopo essere saltati dalle finestre dell’edificio in fiamme, ha riferito il ministro dell’Interno ucraino. L’edificio è stato dato alle fiamme dai gruppi radicali pro-Kiev». Così invece li racconta il “Corriere”: «Trentotto persone sono morte in un incendio scoppiato nella città ucraina di Odessa e legato ai disordini tra manifestanti filo russi e sostenitori del governo di Kiev». Così, genericamente, un incendio “legato ai disordini”… Ancora, il pezzo su “Repubblica” suona così: «È di almeno 38 morti anche il bilancio delle vittime degli scontri tra separatisti e lealisti a Odessa, città portuale ucraina sul Mar Nero. “Uno di loro è stato colpito da un proiettile”, ha riferito una fonte all’agenzia Interfax, “mentre per quel che riguarda gli altri non si conosce la causa della loro morte”. La sede dei sindacati è stata data alle fiamme. Le persone sono morte nell’incendio. Gli scontri sono violentissimi».La macabra contabilità si disperde in un groviglio in cui non si capisce chi fa che cosa, quanti muoiono in un episodio o in un altro, chi appicca gl’incendi. “L’Unità” riesce a fare peggio di tutti. La salma del giornale di Gramsci scrive infatti che la sede del sindacato è stata bruciata dai separatisti filo-russi (uno scoop malauguratamente ignorato in tutto il resto del mondo). A ulteriore dimostrazione che all’“Unità” non sanno quel che dicono, aggiungono che sono stati «abbattuti due elicotteri filorussi, Mosca furiosa», come se la rivolta avesse una sua aviazione all’opera. Naturalmente la notizia era inversa: due elicotteri d’assalto Mi-24 delle forze speciali di Kiev (che stanno combattendo assieme a contractors stranieri e milizie naziste), sono stati abbattuti dalle forze ribelli. Notizia molto preoccupante, se vista nelle sue implicazioni, possibilmente quelle esatte, della possibile escalation del conflitto.Se puntiamo di nuovo l’attenzione al rogo di Odessa, la conclusione è dunque chiara: gli organi di informazione nostrani sono reticenti, quando non falsificano, perché non riferiscono che le vittime sono state tutte di una parte, né che la causa immediata della loro morte sia stato un incendio doloso appiccato dalla milizia del partito nazista “Pravy Sektor” presso la sede di un sindacato. Questo accade nell’Odessa del 2014 e non nella Ferrara del 1921 né nella Stoccarda del 1932. A quel tempo c’erano ancora organi di informazione che raccontavano la portata reale della catastrofe, prima di esserne travolti. Non sappiamo ancora se il veleno della catastrofe politica di questo secolo potrà essere evitato, data la risolutezza degli apparati atlantisti nel precipitare nel caos l’Ucraina, paese chiave della sicurezza comune europea. L’unico antidoto esistente può funzionare solo se diventa un fenomeno politico e mediatico di massa: l’antidoto è informarsi e informare, fuori dalla ragnatela mediatica dominante, far sapere tutto su chi vuole estendere il grande incendio, ben oltre i palazzi di Odessa.(Pino Cabras, “L’incendio di Odessa e la stampa italiana”, da “Megachip” del 2 maggio 2014).Vediamo i lenzuoli sui corpi di decine di persone, nelle videoriprese di Odessa, in Ucraina. Lì è in atto un pogrom antirusso in pieno XXI secolo, con lancio di molotov, granate artigianali, assedi, bastonature. Squadre nazistoidi di Pravy Sektor (”Settore Destro”), protette e inquadrate anche nel resto del paese da una giunta insediatasi dopo aver allontanato con la violenza un presidente eletto regolarmente, stanno devastando i luoghi di aggregazione sociale e politica – ossia i partiti, le associazioni, i sindacati – di una parte della popolazione di Odessa (maggioritaria) identificabile come russa, russofona o filorussa. La polizia della città sul Mar Nero ha lasciato fare per ore. Ma le vergognose testate italiane fanno a gara per sopire e troncare la reale portata della notizia. Distinguere fra un generico incidente e una strage politica: il confine per capire quali tempi di fuoco si avvicinano passa da qui, dai 38 morti del 2 maggio di Odessa (per tacere degli altri episodi da guerra civile nel resto di un paese in bancarotta).
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Perché i russi amano Putin? Scoprirlo è molto istruttivo
Pare che i russi siano proprio innamorati di Vladimir Putin. Non tutti, certo, ma una enorme maggioranza. L’ultimo sondaggio dell’istituto Vciom-Levada, considerato il più affidabile del paese, accredita al leader del Cremlino un indice di popolarità del 76 per cento (per la precisione il 75,7). Sì dirà che il dato è falsato dai fatti della Crimea, ma nel maggio del 2012 era il 68,8 per cento a sostenere Putin, e mediamente negli ultimi 13 anni questo dato si è mantenuto sempre più o meno stabile, un po’ sopra al 60 per cento. In questi giorni, poi, come mai prima, arrivano molte telefonate di amici russi che proprio non riescono a spiegarsi l’atteggiamento dei paesi occidentali verso il loro leader e, dunque, semplificando, verso di loro. Chi pensa che sia facile dare una spiegazione convincente, sbaglia di grosso. Perché per spiegare ci vogliono le parole, e le parole hanno un significato molto diverso quando le dici a Roma o a Mosca.Democrazia? Per i russi normali, soprattutto nella periferia del paese, spesso è una parolaccia. La nuova borghesia? Sulle rive della Moscova la parola suona dispregiativa. La prepotenza del regime contro un оligarca democratico come Khodorkovskij che voleva sfidare Putin alle urne? Per moltissimi sotto le mura del Cremlino è il minimo sindacale di un atto di giustizia contro i tanti oligarchi arricchiti e non sazi di soldi e di potere. Ucraina, Crimea, prezzo del gas… una continua commedia degli equivoci che rende impossibile capirsi. E tutto comincia nei “terribili” anni Novanta. La notte del 25 dicembre 1991 i russi non riuscirono a dormire. Il giorno prima erano cittadini di un paese, l’Unione Sovietica; da quel momento, non lo erano più. Fu uno shock. Milioni di persone di nazionalità russa si ritrovarono, abbandonati dalla Madrepatria, cittadini di paesi che non li volevano e che spesso, come è accaduto nelle Repubbliche baltiche, negavano loro i diritti minimi della cittadinanza. Ma non c’era tempo, né forza per occuparsene.Presto le cose cominciarono ad andare peggio di quanto mai si sarebbe potuto immaginare. Arrivò la politica del Fondo monetario e degli Harvard Boys, introdotta dal governo di Boris Eltsin: liberalizzazione e privatizzazione. Fu chiamata “terapia shock”. Uno shock sullo shock. La promessa era che alla fine del tunnel ci sarebbe stato un paese finalmente libero, democratico e benestante. I russi si fidavano, erano pronti ai sacrifici. Pensavano che l’Occidente, essendo stato capace di offrire benessere, democrazia e giustizia a casa propria, lo avrebbe fatto anche da loro. La fiducia crollò lentamente, ma inesorabilmente, sotto i colpi della realtà. Sotto gli occhi impotenti della gente, per il bene del paese, le aziende cominciarono ad essere vendute per un prezzo vicino allo zero, tra l’1,5 e il 2 per cento del loro valore. In tutto, lo Stato realizzò dall’operazione circa il 10 per cento del valore effettivo, beni mobili e immobili inclusi.Alle persone normali fu dato un pezzo di carta, si chiamava voucher, che era l’equivalente della quota a cui avevano diritto. Valevano 10 mila rubli. Natalja Fjodorovna, l’anziana mamma di una mia cara amica, fu la prima a pronunciare quella che credevo fosse una battuta: «Muzhiki prodadut za butilku», gli uomini lo venderanno per una bottiglia. Ci volle poco a capire che non era una boutade. I voucher si vendevano agli angoli delle strade per una vodka, tremila rubli. Come scrive Naomi Klein nel suo “Shock Economy”, «nel 1998, oltre l’80% delle aziende agricole erano in bancarotta, e circa 70 mila fabbriche statali avevano chiuso i battenti, generando un’epidemia di disoccupazione». E «74 milioni di russi vivevano sotto la soglia di povertà, secondo la Banca Mondiale». Lavoro non ce n’era nel modo più assoluto. I ragazzi sognavano di fuggire e chiedevano i computer, le pensioni arrivavano in ritardo, gli stipendi non arrivavano più; medici, insegnanti, professori, chi poteva cercava un lavoretto all’estero.Le file nei negozi erano scomparse, come i soldi per comprare. Ovunque fiorivano tetri negozietti temporanei dove si pagava direttamente in dollari. Gli ospedali non davano più neanche le lenzuola. La criminalità fioriva, al punto che era diventato rischioso girare di notte anche in una città come Mosca. Nel frattempo, tutti i soldi della Russia erano passati nella tasche di pochi intraprendenti, che diventarono miliardari e potenti, i cosiddetti oligarchi. A proposito di Khodorkhovskij, quando fu arrestato, nel 2003, era il padrone della Yukos, il terzo colosso petrolifero del paese, e l’aveva acquistata partecipando ad un’asta, sebbene fosse stato proprietario della banca Menatep che quell’asta aveva gestito. In pratica, come spiegò poi il responsabile del programma di privatizzazione Alfred Kokh, aveva comprato la Yukos con i soldi della Yukos. Ottenne il 77 per cento delle azioni con 309 milioni di dollari. E poiché il valore reale si aggirava intorno ai 30 miliardi, entrò direttamente a far parte degli uomini più ricchi del mondo (“Forbes”).Così la vedono i russi. Che hanno ritrovato un po’ di fiducia il giorno in cui è arrivato Putin e ha ripreso in mano, nel bene e nel male, il paese. Questo dice Natalia Fjodorovna, che ha avuto una vita lunga e difficile, e partorì il suo primo figlio su un treno mentre fuggiva non sapeva dove coi nazisti alle calcagna. Ogni russo ha una storia incredibile da raccontare, una storia che – proprio come ha dimostrato Emmanuel Carrère con “Limonov” – vale un romanzo. Loro sì che possono spiegarci perché non si è ancora formata una vera borghesia in Russia. Ma per favore, almeno a Mosca, non chiamatela così.(Fiammetta Cucurnia, “Come si spiega il consenso russo per Putin”, da “Il Venerdì di Repubblica” dell’11 aprile 2014, ripreso da “Megachip”).Pare che i russi siano proprio innamorati di Vladimir Putin. Non tutti, certo, ma una enorme maggioranza. L’ultimo sondaggio dell’istituto Vciom-Levada, considerato il più affidabile del paese, accredita al leader del Cremlino un indice di popolarità del 76 per cento (per la precisione il 75,7). Sì dirà che il dato è falsato dai fatti della Crimea, ma nel maggio del 2012 era il 68,8 per cento a sostenere Putin, e mediamente negli ultimi 13 anni questo dato si è mantenuto sempre più o meno stabile, un po’ sopra al 60 per cento. In questi giorni, poi, come mai prima, arrivano molte telefonate di amici russi che proprio non riescono a spiegarsi l’atteggiamento dei paesi occidentali verso il loro leader e, dunque, semplificando, verso di loro. Chi pensa che sia facile dare una spiegazione convincente, sbaglia di grosso. Perché per spiegare ci vogliono le parole, e le parole hanno un significato molto diverso quando le dici a Roma o a Mosca.
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Il guaio è che Matteo Renzi ha paura della democrazia
«Scansare gli ingombri della democrazia è una tentazione ormai antica, in Italia. Cominciò la P2, poi seguita da Berlusconi», osserva Barbara Spinelli. «Ma il pericolo di una bancarotta dello Stato e i costi di una politica colpita dal discredito hanno dato più forza a queste idee, seducendo governi tecnici e anche il Pd». Memorabile la dichiarazione di Monti allo “Spiegel” il 5 agosto 2012, sul tema dei veti opposti dai paesi nordici alle decisioni dell’Ue: «Capisco che debbano tener conto del loro Parlamento, ma ogni governo ha anche il dovere di educare le Camere». E ancora: «Se i governi si lasciano totalmente ingabbiare dalle decisioni dei Parlamenti senza preservare la propria libertà di agire, avremmo lo sfaldamento dell’Europa». Renzi dunque «completa ragionamenti già in circolazione, e li trasforma in “spirito del tempo”», traduce Spinelli, allarmata dalla tesi secondo cui «la democrazia deve cambiare forma e rimpicciolirsi, a causa della crisi».E’ esattamente il contrario della via scelta dal cancelliere tedesco Willy Brandt nel 1969: «Quel che vogliamo è osare più democrazia», disse, promettendo metodi di governo «più aperti ai bisogni di critica e informazione» espressi dalla società, «più discussioni in Parlamento» e una permanente concertazione «con i gruppi rappresentativi del popolo, in modo che ogni cittadino abbia la possibilità di contribuire attivamente alla riforma dello Stato e della società». Non sembra vadano in questo senso le riforme costituzionali del premier Pd, né le parole di chi gli è vicino, che sostiene che «per governare efficacemente nel XXI secolo serve soprattutto velocità: approvazione o bocciatura rapida dei disegni di legge e capacità di mantenere la sintonia con tutti i componenti della squadra». Velocizzare, semplificare, dilatare i poteri dell’esecutivo: questi gli imperativi, prende nota Barbara Spinelli in un’analisi su “Repubblica” ripresa da “Micromega”.Certo, l’Italia non è l’unica democrazia debilitata dalla crisi: «Ovunque i governi sentono che la terra trema, sotto di loro, e imputano il terremoto a una democrazia troppo lenta, a elezioni troppo frequenti. Denunciano a ragione la fatica dell’azione, ma si guardano dallo smascherarne i motivi profondi», che sono «la perdita di sovranità e il trasferimento dei poteri reali verso entità internazionali spoliticizzate», e non certo gli equilibri interni, oggi definiti “lacci”, cioè «la Costituzione, i sindacati, addirittura il suffragio universale». Il farmaco? «Non è la velocità in sé, ma il cambio di prospettiva», come chiarisce un sociologo come Zygmunt Bauman. «Renzi non smaschera i mali autentici, quando propone l’accentramento crescente dei poteri in mano all’esecutivo, la diminuzione degli organi eletti dal popolo, lo svigorimento di istituzioni e associazioni nate dalla democrazia: Senato in primo luogo, ma anche sindacati e perfino soprintendenze (il cui scopo è quello di occuparsi del patrimonio artistico italiano resistendo ai privati)».Se Cgil o Confindustria si oppongono, dice Renzi, «ce ne faremo una ragione». Dunque i traumi ci saranno, «ma alla lunga la loro razionalità sarà chiara: c’è una differenza, fra la sua accelerazione e quella di Brandt». Quel che non aveva previsto, continua Spinelli, era la critica che sarebbe venuta dal presidente del Senato Pietro Grasso, oltre che l’allarme creatosi fra costituzionalisti come Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà. La riforma potrebbe indebolire la democrazia, sostiene Grasso. Mutare il ruolo del Senato e abolire le Province è importante, ma qui si stanno facendo altre cose: il Senato resta, solo che cessa di essere elettivo. E restano di fatto le Province, anch’esse non più elettive ma governate da dirigenti comunali. «L’ambizione è liberare l’Italia dai lacci che l’imbrigliano, ma la paralisi decisionale non si supera riducendo gli organi intermedi creati per servire l’interesse generale, o rendendoli non elettivi. Tantomeno può imbarcarsi in simile impresa un Parlamento certo legale, ma che la Consulta ha sostanzialmente delegittimato giudicando incostituzionale il modo in cui è stato eletto».Soprattutto, insiste Barbara Spinelli, «l’impotenza dei governi non si sormonta ignorando il male scatenante, che è appunto la loro dipendenza dai mercati, e cioè da forze anonime, non elette, quindi non licenziabili. Sono loro a decidere il lecito e l’illecito». È stata la Jp Morgan, in un rapporto del 28 maggio 2013, a sentenziare che “l’intralcio”, nel Sud Europa, viene da Costituzioni troppo influenzate dall’antifascismo postbellico: Costituzioni «caratterizzate da esecutivi e Stati centrali deboli, dalla protezione dei diritti del lavoro, dal diritto di protesta contro ogni mutamento sgradito dello status quo». Così come dalla crisi europea si esce con “più Europa”, continua Spinelli, anche dalla crisi delle democrazie si esce con più democrazia. «Lo disse fin dall’800 Tocqueville, esaminando i difetti delle società democratiche: si esce ampliando i sistemi del check and balance, dei controlli e contrappesi: frenando con altri poteri la tendenza del potere a straripare».I continui conflitti sociali e istituzionali? «Sono un rischio delle democrazie, non una maledizione. Sbarazzarsene con leggi elettorali non rappresentative o eludendo le obiezioni (“ce ne faremo una ragione”) sfocia nel contrario esatto di quel che si vuole: i conflitti inacidiscono, l’opposizione non ascoltata disimpara a trattare». Alla fine, resta solo «il rapporto diretto fra leader e popolo, non dissimile dall’“unzione” plebiscitaria di Berlusconi». Inoltre, aggiunge Barbara Spinelli, «Renzi neppure è un premier eletto: quando parla di “promesse fatte agli italiani”, non si sa bene a cosa si riferisca». Il dramma è la mancanza di democrazia nell’Unione Europea, per «governare poteri già sconnessi dalle sovranità territoriali: gli interessi finanziari e commerciali, l’informazione, il commercio della droga e delle armi, la criminalità, il terrorismo». Manca un potere democratico che li controlli, uno “spirito cosmopolita della democrazia”: «L’Europa potrebbe incarnarlo, se agisse come argine contro le crisi delle democrazie nazionali, e al contempo contro l’arbitrio dei mercati. Più democrazia e più governabilità non si escludono a vicenda, non si conquistano “in sequenza”: o si realizzano insieme, o perderemo l’una e l’altra».«Scansare gli ingombri della democrazia è una tentazione ormai antica, in Italia. Cominciò la P2, poi seguita da Berlusconi», osserva Barbara Spinelli. «Ma il pericolo di una bancarotta dello Stato e i costi di una politica colpita dal discredito hanno dato più forza a queste idee, seducendo governi tecnici e anche il Pd». Memorabile la dichiarazione di Monti allo “Spiegel” il 5 agosto 2012, sul tema dei veti opposti dai paesi nordici alle decisioni dell’Ue: «Capisco che debbano tener conto del loro Parlamento, ma ogni governo ha anche il dovere di educare le Camere». E ancora: «Se i governi si lasciano totalmente ingabbiare dalle decisioni dei Parlamenti senza preservare la propria libertà di agire, avremmo lo sfaldamento dell’Europa». Renzi dunque «completa ragionamenti già in circolazione, e li trasforma in “spirito del tempo”», traduce Spinelli, allarmata dalla tesi secondo cui «la democrazia deve cambiare forma e rimpicciolirsi, a causa della crisi».
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Padoan, il “dolore utile” che stermina i bambini greci
«Il dolore sta producendo risultati»: fa impressione, proprio ora che è divenuto ministro dell’economia, rileggere quel che Pier Carlo Padoan disse il 29 aprile 2013 al “Wall Street Journal”, quando era vice segretario generale dell’Ocse. Già allora i dati sull’economia reale smentivano una così impudente glorificazione dell’austerità – e addirittura dei patimenti sociali che infliggeva – ma l’ultimo numero di “Lancet”, dedicato alla sanità pubblica in Grecia dopo sei anni di Grande Depressione, va oltre la semplice smentita. Più che correggersi, il ministro farebbe bene a scusarsi di una frase atroce che irresistibilmente ricorda Pangloss, quando imperterrito rassicura Candide mentre Lisbona è inghiottita dal terremoto raccontato da Voltaire: «Queste cose sono il meglio che possa accadere. La caduta dell’uomo e la maledizione entrano necessariamente nel migliore dei mondi possibili».“Lancet” non è un giornale di parte: è tra le prime cinque riviste mediche mondiali. Il suo giudizio sulla situazione ellenica, pubblicato sabato in un ampio dossier (lo ha ripreso Andrea Tarquini sul sito di “Repubblica”), è funesto: la smisurata contrazione dei redditi e i tagli ai servizi pubblici hanno squassato la salute dei cittadini greci, incrementando il numero di morti specialmente tra i bambini, tra gli anziani, nelle zone rurali. Nella provincia di Acaia, il 70 per cento degli abitanti non ha soldi per comprare le medicine prescritte. Emergency denuncia la catastrofe dal giugno 2012. Numerose le famiglie che vivono senza luce e acqua: perché o mangi, o paghi le bollette. Nel cuore d’Europa e della sua cultura, s’aggira la morte e la chiamano dolore produttivo. «Siamo di fronte a una tragedia della sanità pubblica», constata la rivista, «ma nonostante l’evidenza dei fatti le autorità responsabili insistono nella strategia negazionista». Qualcuno deve spiegare a chi agonizza come sia possibile che il dolore e la morte siano “efficaci”, e salvifiche per questo le riforme strutturali fin qui adottate.Né è solo «questione di comunicazione» sbagliata, come sosteneva nell’intervista Padoan: sottolineare gli esiti promettenti del consolidamento fiscale, ammorbidendo magari qualche dettaglio tecnico, non toglie la vittoria al pungiglione della morte. Trasforma solo un’improvvida teoria economica in legge naturale, perfino divina. Moriremo, certo, ma in cambio il Paradiso ci aspetta. Soprattutto ci aspetta se non cadremo nel vizio disinvoltamente rinfacciato agli indebitati-impoveriti: la “fatica delle riforme” (reform fatigue), peccato sempre in agguato quando i governi «sono alle prese con resistenze sociali molto forti». Quando siamo ingrati, come Atene, alle iniezioni di liquidità che l’Unione offre a chi fa bancarotta: nel caso greco, due bailout tardivi, legati a pacchetti deflazionistici monitorati dalla trojka. I contribuenti tedeschi hanno già dato troppo, dicono in Germania. Non è vero, i contribuenti non hanno pagato alcunché perché di prestiti si tratta, anche se a tassi agevolati e destinati in primis alle banche.Difficile dar torto alle “forti resistenze sociali”, se solo guardiamo le cifre fornite su “Lancet” dai ricercatori delle università britanniche di Cambridge, Oxford e Londra. A causa della malnutrizione, della riduzione dei redditi, della disoccupazione, della scarsità di medicine negli ospedali, dell’accesso sempre più arduo ai servizi sanitari (specie per le madri prima del parto) le morti bianche dei lattanti sono aumentate fra il 2008 e il 2010 del 43%. Il numero di bambini nati sottopeso è cresciuto del 19 %, quello dei nati morti del 20. Al tempo stesso muoiono i vecchi, più frequentemente. Fra il 2008 e il 2012, l’incremento è del 12,5 fra gli 80-84 anni e del 24,3 dopo gli 85. E s’estende l’Aids, perché la distribuzione di siringhe monouso e profilattici è bloccata. Malattie rare o estinte ricompaiono, come la Tbc e la malaria (quest’ultima assente da 40 anni. Mancano soldi per debellare le zanzare infette).La rivista inglese accusa governi e autorità europee, ed elogia i paesi come Islanda e Finlandia che hanno respinto i diktat del Fondo Monetario o dell’Unione. Dopo la crisi acuta del 2008, Reykjavik disse no alle misure che insidiavano sanità pubblica e servizi sociali, tagliando altre spese scelte col consenso popolare. Non solo: capì che la crisi minacciava la sovranità del popolo, e nel 2010-2011 ridiscusse la propria Costituzione mescolando alla democrazia rappresentativa una vasta sperimentazione di democrazia diretta. Non così in Grecia. L’Unione l’ha usata come cavia: sviluppi islandesi non li avrebbe tollerati. Proprio nel paese dove Europa nacque come mito, assistiamo a un’ecatombe senza pari: una macchia che resterà, se non cambiano radicalmente politiche e filosofie ma solo questo o quel parametro.Il popolo sopravvive grazie all’eroismo di Ong e medici volontari (tra cui Médecins du Monde, fin qui attivi tra gli immigrati): i greci che cercano soccorso negli ospedali “di strada” son passati dal 3-4% al 30%. S’aggiungono poi i suicidi, in crescita come in Italia: fra il 2007 e il 2011 l’aumento è del 45%. In principio s’ammazzavano gli uomini. Dal 2011 anche le donne. “Lancet” non è ottimista sugli altri paesi in crisi. La Spagna, cui andrebbe assommata l’Italia, è vicina all’inferno greco. Alexander Kentikelenis, sociologo dell’università di Cambridge che con cinque esperti scrive per la rivista il rapporto più duro, spiega come il negazionismo sia diffuso, e non esiti a screditare le più serie ricerche scientifiche (un po’ come avviene per il clima). L’unica istituzione che si salva è il Centro europeo di prevenzione e controllo delle malattie, operativo dal 2005 a Stoccolma.La Grecia prefigura il nostro futuro prossimo, se le politiche del debito non mutano; se scende ancora la spesa per i servizi sociali. Anche in Italia esistono ospedali di volontari, come Emergency. La luce in fondo al tunnel è menzogna impudente. Senza denunciarla, Renzi ha intronizzato ieri la banalità: «L’Europa non dà speranza se fatta solo di virgole e percentuali» – «l’Italia non va a prendere la linea per sapere che fare, ma dà un contributo fondamentale». Nessuno sa quale contributo. Scrive l’economista Emiliano Brancaccio che i nostri governi «interpretano il risanamento come fattore di disciplinamento sociale». Ma forse le cose stanno messe peggio: il risanamento riduce malthusianamente le popolazioni, cominciando da bambini e anziani.Regna l’oblio storico di quel che è stata l’Europa, del perché s’è unita. Dimentica anche la Germania, che pure vive di memoria. Dopo il ‘14-18 fu trattata come oggi la Grecia: sconfitto, il paese doveva soffrire per redimersi. Solo Keynes insorse, indignato. Nel 1919 scrisse: «Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza [...], se miriamo deliberatamente all’umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà». La vendetta non tardò a farsi viva, ed è il motivo per cui ben diversa e più saggia fu la risposta nel secondo dopoguerra. Quella via andrebbe ripercorsa e potrebbe sfociare in una Conferenza europea sul debito, che condoni ai paesi in difficoltà parte dei debiti, connetta i rimborsi alla crescita, dia all’Unione poteri politici e risorse per lanciare un New Deal di ripresa collettiva e ecosostenibile. È già accaduto, in una conferenza a Londra che nel 1953 ridusse quasi a zero i debiti di guerra della Germania. I risultati non produssero morte, ma vita. Fecero rinascere la democrazia tedesca. Non c’era spazio, a quei tempi, per i Pangloss che oggi tornano ad affollare le scene.(Barbara Spinelli, “Gli invisibili d’Europa”, da “La Repubblica” del 26 febbraio 2014, intervento ripreso da “Micromega”).«Il dolore sta producendo risultati»: fa impressione, proprio ora che è divenuto ministro dell’economia, rileggere quel che Pier Carlo Padoan disse il 29 aprile 2013 al “Wall Street Journal”, quando era vice segretario generale dell’Ocse. Già allora i dati sull’economia reale smentivano una così impudente glorificazione dell’austerità – e addirittura dei patimenti sociali che infliggeva – ma l’ultimo numero di “Lancet”, dedicato alla sanità pubblica in Grecia dopo sei anni di Grande Depressione, va oltre la semplice smentita. Più che correggersi, il ministro farebbe bene a scusarsi di una frase atroce che irresistibilmente ricorda Pangloss, quando imperterrito rassicura Candide mentre Lisbona è inghiottita dal terremoto raccontato da Voltaire: «Queste cose sono il meglio che possa accadere. La caduta dell’uomo e la maledizione entrano necessariamente nel migliore dei mondi possibili».
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Rampini: il grande ritorno dei Padroni dell’Universo
C’é un fondo d’investimento che si compra un’intera città della California in bancarotta, c’è quello che controlla da solo il 7% di tutta la ricchezza mondiale, 15.000 miliardi di dollari, e c’è il finanziere d’assalto che sfida Apple. I “Masters of the Universe” sono tornati, osserva Federico Rampini: i giganti della finanza americana rinascono più forti che mai. «Il crac sistemico del 2008, che sembrava averli spezzati, è ormai un ricordo lontano: se ne accorge anche Hollywood, con il duo Martin Scorsese-Leonardo Di Caprio» che proprio a loro dedica a “The Wolf, il Lupo di Wall Street”, alla fine di un 2013 che ha visto Wall Street polverizzare ogni record, con l’indice Standard & Poor’s in rialzo del 30%. rispetto al primo gennaio. L’“Economist” dedica una copertina a Blackrock, il fondo d’investimento più grande del mondo, il primo azionista in metà delle 30 maggiori multinazionali del pianeta. E lo raffigura come una roccia nera che incombe su sfondo di cielo azzurro, «un’immagine che evoca Magritte oppure il monolito di Stanley Kubrick».“Time Magazine” invece sulla copertina di dicembre mette Carl Icahn, un nome che rievoca le prime grandi scalate degli anni Ottanta: «L’epoca in cui il romanziere Tom Wolfe coniò, nel “Falò delle vanità”, quel termine arrogante e superbo, inquietante e gonfio di hubris: i Padroni dell’Universo, appunto», scrive Rampini su “Repubblica” in un’analisi ripresa da “Micromega”. Il fondo che possiede una città si chiama Marathon Asset Management, non è neppure uno dei maggiori colossi, amministra “solo” 11 miliardi di dollari. Ha rilevato l’intera Scotia, città californiana a 250 km a nord di San Francisco, dopo la bancarotta municipale. «È un precedente che potrebbe far scuola per metropoli ben più grandi come Detroit, dove il liquidatore dei beni comunali sta mettendo all’asta fallimentare anche i musei cittadini». Intanto, “Time” saluta il ritorno di Icahn, 77 anni e un patrimonio di 20 miliardi che lo colloca al 18esimo posto della classifica “Forbes” dei Paperoni d’America, con questa presentazione: «È il singolo investitore più ricco di Wall Street, e il più temuto raider di grandi imperi industriali».La sua carriera, ricorda Rampini, cominciò con la scalata alla compagnia aerea Twa nel 1985, un anno prima che i rivali di Kkr lo battessero nella conquista alla Nabisco (raccontata in un altro celebre romanzo-realtà sulla finanza Usa, “Barbari alle porte”). Oggi Icahn fa notizia soprattutto per il braccio di ferro che lo oppone a Tim Cook, il chief executive di Apple nel dopo-Steve Jobs. «E qui viene la sorpresa: invece di assalire Apple con una delle solite scorribande finanziarie mordi-e-fuggi, Icahn si fa il paladino di interessi generali», perché «Apple non è una banca». Icahn vuole che la regina degli iPhone e iPad la smetta di accumulare cash inutilizzato (ben 150 miliardi di dollari, una montagna di liquidità tanto impressionante quanto assurda) e lo distribuisca a tutti gli azionisti – lui incluso, ovviamente, che nel capitale di Apple ha investito due miliardi. Ma l’operazione che Icahn pretende da Apple distribuirebbe benefici anche ai piccoli risparmiatori. «I Padroni dell’Universo si sono convertiti come dei Robin Hood? Tutt’altro. Ma almeno il loro è un capitalismo vero, un’economia di mercato non ingessata».Blackrock è un campione che gioca in una categoria a parte: la sua. «È il King Kong dell’investimento moderno, nessun altro può competere per dimensioni». Fondata nel 1988, oggi Blackrock amministra direttamente 4.100 miliardi di dollari dei suoi clienti. Inoltre fornisce piattaforme tecnologiche e software per la gestione di altri 11.000 miliardi. E quei fondi sotto la sua influenza crescono al ritmo frenetico di 1.000 miliardi all’anno. «Naturalmente compra anche bond, materie prime, immobili. La sua vera specialità però resta l’investimento azionario. Ritrovi Blackrock come primo azionista delle tre regine hi-tech americane: Apple, Google, Microsoft. È il primo azionista anche di due colossi petroliferi (Exxon, Chevron), di due tra le maggiori banche Usa (Jp Morgan Chase, Wells Fargo), sempre primo azionista anche in conglomerati industriali come General Electric, Procter & Gamble». Una peculiarità di Blackrock la distingue da altri protagonisti di epoche precedenti nella storia di Wall Street: «Questo maxi-fondo investe soprattutto attraverso strumenti detti “passivi” come gli exchangetraded funds (Etf) che riproducono esattamente l’andamento di indici di Borsa». Soprattutto, Blackrock investe capitali che le vengono affidati anche dai piccoli risparmiatori, per esempio attraverso fondi pensione. «Dunque, a differenza della famigerata e defunta Lehman Brothers o di altre banche d’affari che si rivelarono fragilissime, un investitore istituzionale come Blackrock ha poco “rischio sistemico”».In un certo senso, continua Rampini, la Blackrock ha obbedito anticipatamente alla nuova regola varata solo da poche settimane dall’amministrazione Obama, quella Volcker Rule che vieta ai banchieri di fare speculazioni rischiose coi propri capitali. «È un altro caso di Padrone dell’Universo che può aiutare l’economia di mercato a evitare catastrofi come quella del 2008? Di certo l’universo capitalistico in cui si muove Blackrock dista anni-luce dalla realtà italiana. Per quanto sia un colosso, e grosso azionista di gruppi come Apple, Google, Shell e Nestlè, Toyota e Novartis, in nessuna di queste aziende la sua quota configura una “minoranza di blocco”. Né fa parte di patti di sindacato, che generalmente non esistono a Wall Street e nei mercati più evoluti. Blackrock può usare la frusta verso un management che giudica inefficiente, ma non ha poteri di veto né si può permettere di paralizzare una grande azienda».Il ritorno dei Padroni dell’Universo, aggiunge Rampini, è un fenomeno dalle molte facce. «L’aspetto negativo lo sottolinea chi teme che la crescita americana sia ripartita su basi vecchie, cioé con gli stessi squilibri che generarono la grande crisi del 2008», in particolare «la finanziarizzazione dell’economia e la dilatazione delle diseguaglianze sociali che le è strettamente legata». Larry Summers, ex consigliere economico di Obama, in un importante discorso al Fmi ha evocato il rischio di una «stagnazione secolare», tra i cui sintomi vi sarebbe la deflazione. Uno studio della Washington University lancia l’allarme sulle disparità nel risparmio: il 5% delle famiglie più ricche sta accumulando troppi risparmi e in questo modo deprime i consumi; mentre il 95% rimanente è costretto a dilapidare lentamente i propri patrimoni per contrastare il peggioramento del tenore di vita.Il “lato positivo” di Wall Street, se esiste, forse lo vedono meglio di tutti gli italiani: per contrasto con la loro realtà nazionale. Il ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni, in una recente visita a New York in cui ha incontrato proprio i dirigenti di Blackrock, oltre agli uomini di Citigroup e George Soros, ha potuto misurare i benefici della loro intraprendenza: «Diversi attori della finanza Usa si sono offerti di liquidare in fretta le sofferenze e i crediti incagliati delle banche italiane, un’operazione che consentirebbe alle aziende di credito di tornare a prestare fondi all’economia reale». Dietro un’economia americana che cresce del 3% e genera 200.000 nuovi posti di lavoro al mese, c’è anche questa finanza “flessibile”, che «ha liquidato in tempi record le scorie tossiche della crisi del 2008, ed è tornata a fare il suo mestiere». La storia di come le banche americane si sono rimesse in piedi, nel corso degli ultimi quattro anni, è lo specchio riflesso — all’incontrario — di tutto quel che non accade nel sistema bancario italiano. «Quando le banche Usa sembravano stremate, al tracollo, sul punto di affondare sotto il peso di investimenti sbagliati e crediti inesigibili, la prima mossa è stata la svendita a prezzi di liquidazione di tutta la “monnezza” che poteva impedire la riemersione».In seguito o in parallelo, ci sono state le grandi ricapitalizzazioni. Le banche hanno cercato capitali freschi sul mercato aperto. Una delle prime operazioni la fece un personaggio emblematico del capitalismo Usa, Warren Buffett, con il suo investimento “salvifico” in Goldman Sachs, fatto in un’epoca in cui sui mercati ancora regnava una sfiducia quasi disperata. Una volta ricapitalizzate, anche con l’intervento dei Padroni dell’Universo, le banche hanno riguadagnato la fiducia dei mercati, sono apparse sufficientemente solide da superare gli “stress test” degli organi di vigilanza. E hanno ripreso a fare credito all’economia reale, famiglie e imprese, alimentando la ripresa attuale. Niente blindature degli assetti azionari, niente “foreste pietrificate” dei soliti noti. Questo è il capitalismo americano, conclude Rampini: è la “macchina del mercato” che, negli Usa, «ha ripreso a girare a pieno ritmo».C’è un fondo d’investimento che si compra un’intera città della California in bancarotta, c’è quello che controlla da solo il 7% di tutta la ricchezza mondiale, 15.000 miliardi di dollari, e c’è il finanziere d’assalto che sfida Apple. I “Masters of the Universe” sono tornati, osserva Federico Rampini: i giganti della finanza americana rinascono più forti che mai. «Il crac sistemico del 2008, che sembrava averli spezzati, è ormai un ricordo lontano: se ne accorge anche Hollywood, con il duo Martin Scorsese-Leonardo Di Caprio» che proprio a loro dedica a “The Wolf, il Lupo di Wall Street”, alla fine di un 2013 che ha visto Wall Street polverizzare ogni record, con l’indice Standard & Poor’s in rialzo del 30%. rispetto al primo gennaio. L’“Economist” dedica una copertina a Blackrock, il fondo d’investimento più grande del mondo, il primo azionista in metà delle 30 maggiori multinazionali del pianeta. E lo raffigura come una roccia nera che incombe su sfondo di cielo azzurro, «un’immagine che evoca Magritte oppure il monolito di Stanley Kubrick».
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Mistero della Fed, il super-potere che domina il mondo
Le potenze del capitalismo finanziario avevano un piano chiarissimo, un obiettivo di lungo termine: «Creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, capace di dominare il sistema politico di ogni nazione e l’economia del mondo». Questo sistema «doveva essere controllato con modalità feudali delle banche centrali del mondo, attraverso accordi segreti». Cardine del sistema, la Banca per i regolamenti internazionali di Basilea, privata e controllata dalle banche centrali mondiali, a loro volta privatizzate. «Ogni banca centrale punta a dominare il suo governo attraverso la capacità di controllare i prestiti sui titoli di Stato, manipolare le valute estere, influenzare il livello di attività economica del paese e condizionare politici cooperativi e compiacenti attraverso ricompense economiche nel mondo del business». A scattare questa fotografia dello scenario attuale è il globalista Carroll Quigley, nel libro “Tragedia e speranza. Una storia del mondo nel nostro tempo”. L’aspetto sconvolgente, fa notare Mauro Bottarelli, è che quel libro uscì nel lontano 1966.Tutto chiaro: nuovo ordine mondiale. Ovvero: il capitalismo finanziario sfratta le sovranità nazionali, cioè l’economia pubblica e democratica, smantellando il potere degli Stati. Scomparso nel ’77, Quigley era un membro molto influente del “Council on Foreign Relations”, il super-salotto che detta l’agenda economica, finanziaria e geopolitica americana attraverso le sue sedi di Washington e New York. Tra i suoi 1.4000 membri, il vero super-potere mondiale, figurano militari e grandi banchieri, rettori universitari e direttori di giornali e televisioni, i vertici delle fondazioni Ford e Rockefeller, presidenti americani (Hoover, Eisenhower, Johnson e Nixon) e segretari di Stato come Edward Reilly Stettinius, Dean Acheson, John Foster Dulles, Christian Archibald Herter e Dean Rusk. Essendo la banca centrale più potente al mondo, la Federal Reserve – che ha appena compiuto cent’anni – era dunque destinata, fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, a un ruolo egemone per portare a termine il progetto globalista. Obiettivo: imporre la sua agenda ai governi, scavalcando la funzione pubblica.Murray Rothbard, economista americano di scuola austriaca, descrive così la banca centrale Usa: «L’operazione più segreta e meno riconducibile al governo federale non è, come ci si potrebbe aspettare, la Cia, la Dia, o qualche altra agenzia di intelligence super-segreta», perché tutte le strutture di intelligence sono comunque sottoposte al controllo democratico del Congresso. In segretezza, la Fed batte ogni altra struttura: «Il Federal Reserve System non è riconducibile a nessuno, non ha un budget, non è soggetto a nessun controllo e nessuna commissione del Congresso conosce le sue operazioni o le può davvero supervisionare». La Federal Reserve, che ha il controllo totale del sistema monetario statunitense, «non deve rendere conto a nessuno». Ecco perché per la Fed, come anche per le altre banche centrali, «è sempre stato importante investirsi di un’aura di solennità e di mistero». Infatti, «se la popolazione sapesse ciò che sta succedendo, se fosse in grado di strappare la tenda che copre l’imperscrutabile Mago di Oz, scoprirebbe ben presto che la Fed, lungi dall’essere la soluzione indispensabile al problema dell’inflazione, è essa stessa il cuore del problema».Nessuna sorpresa che un liberale puro con Rothbard abbia in odio la Fed, ammette Bottarelli su “Il Sussidiario”, ma il cuore del problema è: le banche centrali, Fed in testa, anche grazie a questa crisi sono oggi il potere principale a livello politico ed economico. «Cosa sarebbe oggi Wall Street senza la Fed e la sua liquidità? Dove sarebbero i tassi dei Treasuries e quindi il cuore stesso del sistema immobiliare dei mutui, già massacrato dai subprime? Cosa sarebbe l’America senza gli stop-and-go della Fed sul “taper”, capaci di livellare tassi e far sgonfiare e rigonfiare – evitando l’esplosione – la bolla di liquidità? Temo sarebbe un paese schiantato dalla più colossale crisi finanziaria dal 1929, superata – un eufemismo, vista l’economia reale e le sue grida di dolore – creando la più grossa bolla speculativa e di credito della storia. E, di fatto, rendendo il Congresso poco più che un’appendice, cui far recitare melodrammi a soggetto come quello dello “shutdown” o del “debt ceiling”, pantomime che tornano ciclicamente».La leva del comando è nelle mani della Fed, molto più che all’epoca di Alan Greenspan: «Lo sta diventando ora, grazie a questa crisi che ha reso tutti – finanza, economia, politica – dipendenti dalla Fed e dalle sue azioni. Se la Fed vuole crolla tutto, se non vuole gonfia bolle come bambini durante una festa e fa sfondare a Wall Street un record dopo l’altro, visto che comunque i suoi “azionisti di maggioranza” grazie a quei record e a quella liquidità fuori controllo, macinano soldi su soldi». E la stessa Bce? «Non è forse diventata il fulcro dell’intero sistema Europa, politico ed economico, grazie a questa crisi?». Unione bancaria, supervisione unica, regolamenti per i fallimenti e le nazionalizzazioni di istituti, tassi d’interesse, operazioni di finanziamento e rifinanziamento: «Quale Stato può andare contro la Bce? Nessuno, e l’Italia ne sa qualcosa. Chi ha creato, infatti, se non l’Eurotower, il cordone ombelicale tra debito sovrano e sistema bancario, con la liquidità offerta a costo zero alle banche affinché con quei soldi comprassero titoli di Stato dei paesi in crisi, abbassando artificialmente lo spread?».Quello che Bottarelli chiama «incesto» è oggi sotto gli occhi di tutti: «Solo le banche italiane hanno 450 miliardi di debito pubblico nei bilanci, quelle greche hanno ricomprato il 99% del debito ellenico detenuto da soggetti esteri, spalancando le porte al fallimento del paese senza conseguenze, quelle spagnole pure, quelle portoghesi anche». I governi di questi paesi possono forse fare qualcosa al riguardo? «No, devono sottostare alle regole della Bce, la quale può uccidere o lasciare in vita un governo come una banca con una semplice decisione sui tassi, visto che non esiste più alcuna leva di sovranità per le nazioni». La Bce di Trichet era così forte? «No, lo sta diventando sempre più e sempre più in fretta quella di Mario Draghi, uomo Goldman Sachs». Eccesso dietrologico? «Forse, ma rileggete le parole di Carroll Quigley, datate 1966». Nient’altro che un’unica, colossale “coincidenza”? Certo, ha il suo peso l’insaziabile avidità dei banchieri affaristi. Ma c’era soprattutto un duplice obiettivo da centrare: «Far purgare un sistema ormai marcio, tra derivati e altre porcherie, e contestualmente preparare il campo per l’ascesa della Fed e delle altre banche centrali a nuovi riferimenti politici».Perché chi ha visto nascere questa crisi è stato deriso e isolato? Evidente: rischiava di rivelare la vera natura dell’operazione. La verità è che il 15 settembre 2008 qualcuno ha deciso che la crisi doveva prendere un’altra piega e un’altra velocità, insiste Bottarelli. Chi ha deciso di far morire Lehman Brothers, salvando tutti gli altri? E’ stata proprio la Fed di Ben Bernanke, di concerto con l’ex segretario al Tesoro, Henry Paulson. Quel fallimento, aggiunge Bottarelli, aveva un scopo preciso: «Tramutare la Fed nel motore immobile del sistema economico-politico-finanziario Usa e mondiale». Inutili le proteste di Dick Fuld, già capo di Lehman Brothers: «Paulson ha fornito dati compromessi agli altri istituti di credito quando c’era bisogno di aiutarci, non avevamo problemi di liquidità». Il riferimento di Fuld è noto: nella notte del 14 settembre 2008, quindi il giorno prima della bancarotta, ci fu un meeting fra Paulson e i vertici delle principali banche di Wall Street. Erano presenti anche il presidente della Fed di New York, Timothy Geithner, il numero uno di Bank of America, Kenneth Lewis, e il capo della Sec, Christopher Cox. Per tenere in piedi la Lehman Brothers servivano 100 miliardi di dollari. Ma a porre il veto furono Paulson e la Merrill Lynch. Gli altri non mossero un dito e Lehman fallì.Attenzione: nella stessa settimana della bancarotta di Lehman Brothers, aggiunge Bottarelli, sono state salvate American International Group e la stessa Merrill Lynch, mentre fu concesso a Goldman Sachs e Morgan Stanley di diventare holding bancarie. Perché invece a Lehman Brothers fu impedito di cambiare statuto? La Lehman non era certo la sola a ottenere liquidità a breve termine “esternalizzando” le perdite, «ma la differenza è che affondando Lehman Brothers si affondava un simbolo e si rimetteva Wall Street, così come il Congresso, nelle mani della Fed, inviando anche uno scossone globale agli altri sistemi finanziari esposti verso l’ex gigante». All’epoca, un maxi-salvataggio pubblico non sarebbe ancora stato facilmente digeribile dagli americani, dalla politica e dai mercati. «Ma poi i tempi cambiano», e alla Casa Bianca arriva il primo presidente di colore, che «promette di far pagare il conto della crisi a Wall Street», e invece «la facilita con ogni mossa, lasciando campo sempre più libero allo strapotere della Fed». Un altro democratico, Bill Clinton, grande alfiere della globalizzazione, fu il primo «a creare le condizioni della crisi subprime con la sua politica di mutui a cani e porci con garanzie zero», facendo «pagare il conto dei fallimenti ai cittadini che compravano qualsiasi cartaccia gli venisse proposta come investimento». Tutte coincidenze?Le potenze del capitalismo finanziario avevano un piano chiarissimo, un obiettivo di lungo termine: «Creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, capace di dominare il sistema politico di ogni nazione e l’economia del mondo». Questo sistema «doveva essere controllato con modalità feudali delle banche centrali del mondo, attraverso accordi segreti». Cardine del sistema, la Banca per i regolamenti internazionali di Basilea, privata e controllata dalle banche centrali mondiali, a loro volta privatizzate. «Ogni banca centrale punta a dominare il suo governo attraverso la capacità di controllare i prestiti sui titoli di Stato, manipolare le valute estere, influenzare il livello di attività economica del paese e condizionare politici cooperativi e compiacenti attraverso ricompense economiche nel mondo del business». A scattare questa fotografia dello scenario attuale è il globalista Carroll Quigley, nel libro “Tragedia e speranza. Una storia del mondo nel nostro tempo”. L’aspetto sconvolgente, fa notare Mauro Bottarelli, è che quel libro uscì nel lontano 1966.
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Perché vogliono eliminare il denaro contante (il nostro)
Si può ancora pagare in contanti fino a un tetto di 1.000 euro? Troppi, dice il ministro ed ex banchiere Saccomanni, preannunciando che quella soglia verrà ulteriormente ridotta, in favore della moneta elettronica. Vecchia storia, protesta Paolo Cardenà: le banche finanziano sottobanco i politici, che in cambio proteggono gli istituti di credito. La cui paura, oltre al fallimento, è proprio la corsa agli sportelli da parte dei correntisti che chiedano indietro soldi veri, banconote. Il denaro contante? Semplice e pratico, veloce, economico. Ridurlo o eliminarlo significa costringere chiunque a passare sempre attraverso lo sportello. Di colpo, il cittadino verrebbe privato anche dell’unica forma di dissenso a sua disposizione nei confronti del sistema bancario. Per contro, le banche festeggiano: smaterializzato il denaro (sostituito con un algoritmo astratto e intangibile), viene meno anche il pericolo che la popolazione possa chiedere la restituzione di ciò che non esiste.Nel corso dei secoli, ricorda Cardenà in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, la necessità della politica di contare sempre più sull’appoggio del sistema bancario per il finanziamento degli abusi di spesa della macchina statale e dei privilegi di politici (spesso corrotti e incapaci) ha favorito l’instaurarsi di una connivenza simbiotica tra politica e banche. Reciproca convenienza, scambio di favori – compreso il quadro normativo, “amico” degli affari quando vanno bene e pronto a rimediare con denaro pubblico in caso di dissesti. «Il denaro, per il sistema bancario, è elemento sul quale fonda i propri affari: in buona sostanza è la merce da vendere. Avere il controllo e la gestione di tutto il denaro, per la banca, è un moltiplicatore del proprio business e quindi di redditività». In un sistema basato sulla riserva frazionaria, quale è il nostro, accade che i 1.000 euro che vengono depositati in banca possono diventare (per il sistema bancario) fino a 100.000, ossia cento volte tanto.E’ l’effetto moltiplicativo dei depositi: dato che la banca è tenuta ad accantonare solo l’1% del deposito per far fronte a esigenze di cassa, il 99% viene immesso nel sistema, mediante la concessione di prestiti, con sviluppo esponenziale degli interessi. Il giochino rende fino al giorno in cui la banca dovrà restituire – per davvero – il deposito iniziale. Molto meglio se invece la massa monetaria resta “virtuale”: «Tanto meno sarà il contante in circolazione, tanto più elevata sarà la possibilità riservata alle banche di incrementare il proprio giro d’affari e aumentare la redditività prodotta, che si traduce in bonus milionari pagati ai super manager». Così, il sistema bancario «deterrebbe in deposito la maggior parte della ricchezza del paese», e – oltre a titoli, azioni, obbligazioni e gioielli custoditi nelle cassette di sicurezza – avrebbe “sotto chiave” anche il denaro obbligatoriamente depositato sul conto corrente, non più “invisibile” al fisco.«Il pericolo è proprio quello di essere obbligati, tramite un provvedimento di legge, a privarsi dell’utilizzo del contante per rendere la macchina coercitiva del fisco ancora più efficiente, funzionale, perfetta e micidiale», scrive Cardenà. «Tra qualche giorno, le banche italiane dovranno trasmettere all’anagrafe tributaria tutte le movimentazioni dei nostri conti correnti. Lo Stato, con un semplice click, potrà conoscere in tempo reale ogni vostra ricchezza: sia la sua collocazione che la sua dimensione complessiva. Ricchezza incrementata, ovviamente, dai depositi di denaro contante che, oltre a far aumentare la base imponibile da colpire con un’eventuale imposizione patrimoniale, offre allo Stato la garanzia del buon esito della sua pretesa tributaria». Tutto sotto controllo: significa poter “tosare” i risparmiatori col prelievo forzoso, magari risparmiando i soliti noti e «i privilegi del manipolo di gerarchi da un’eventuale bancarotta». E’ appena accaduto a Cipro, ma accadde già nel ’92 in Italia col governo Amato. Oggi si riparla di “patrimoniale”, ma senza chiarire: quali “grandi patrimoni” potrebbero essere colpiti? «La banca diverrebbe una gigantesca camera di compensazione, soggetto giuridico al servizio dello Stato per espropriare ricchezza». Il perché è chiaro: «Per rendere solvibile il debitore non c’è via più semplice che quella di compensare debiti del debitore con i crediti del creditore. E il gioco è fatto».Si può ancora pagare in contanti fino a un tetto di 1.000 euro? Troppi, dice il ministro ed ex banchiere Saccomanni, preannunciando che quella soglia verrà ulteriormente ridotta, in favore della moneta elettronica. Vecchia storia, protesta Paolo Cardenà: le banche finanziano sottobanco i politici, che in cambio proteggono gli istituti di credito. La cui paura, oltre al fallimento, è proprio la corsa agli sportelli da parte dei correntisti che chiedano indietro soldi veri, banconote. Il denaro contante? Semplice e pratico, veloce, economico. Ridurlo o eliminarlo significa costringere chiunque a passare sempre attraverso lo sportello. Di colpo, il cittadino verrebbe privato anche dell’unica forma di dissenso a sua disposizione nei confronti del sistema bancario. Per contro, le banche festeggiano: smaterializzato il denaro (sostituito con un algoritmo astratto e intangibile), viene meno anche il pericolo che la popolazione possa chiedere la restituzione di ciò che non esiste.
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Jp Morgan si prepara alla cura-Cipro anche negli Usa?
Collasso imminente del sistema bancario e rischio-Cipro anche per gli Usa? Non è ancora calato il sipario sul teatrino dell’innalzamento del tetto del debito pubblico, che già i media americani rilanciano la notizia dello scandalo della Jp Morgan Chase, il colosso finanziario che detesta le Costituzioni antifasciste europee così piene di fastidiosi vincoli democratici. Attenzione: a vacillare – mettendo in pericolo anche l’economia reale – è la più grande banca statunitense per patrimonio, la seconda al mondo dopo l’Hsbc, con attivi da 2,3 trilioni di dollari e filiali in 60 paesi: un americano su sei è suo cliente, annota l’economista russo Valentin Katasonov. A settembre, la super-banca ha patteggiato con le autorità britanniche e statunitensi, riconoscendo di aver commesso reati analoghi a quelli della Lehman Brothers, che occultò perdite per 50 miliardi ed esibì ricavi inesistenti per ingannare clienti, partner e autorità di vigilanza, fino a finire in bancarotta e far collassare Wall Street e il resto del mondo. Ora ci risiamo: il caso “London Whale” rivela che la filiale inglese della Morgan «sopravvalutò il portafoglio crediti dei titoli derivati per nascondere 6,2 miliardi di dollari di perdite».La frode, spiega Katasonov in un post su “Strategic Cultuire” ripreso da “Come Don Chisciotte”, è stata realizzata all’interno dell’unità incaricata di migliorare le attività di “gestione del rischio”, compresa la supervisione sui depositi. «Le spericolate trovate contabili sarebbero state architettate per coprirsi dai rischi su altri investimenti, ma si risolsero solo in ingentissime perdite». La filiale inglese aveva acquistato una tale quantità di derivati “illiquidi”, cioè virtuali e rimasti senza compratori, che il suo responsabile per il trading Bruno Iksil fu soprannominato la “balena di Londra” (London whale, appunto) per la sua condotta spregiudicata. Poi la banca ha ammesso che i dipendenti londinesi avevano compiuto la frode utilizzando i depositi coperti dall’assicurazione statale. Risultato: capitolazione della Jp Morgan Chase, che accetta di pagare più di un miliardo di dollari, in risarcimenti e multe, a cinque autorità di vigilanza. Spiccioli, dice Katasonov, rispetto alle dimensioni di quei colossi. Il danno, semmai, è d’immagine: chi ci assicura che altri trucchi contabili, non ancora scoperti, non possano far esplodere il sistema?Dal 17 ottobre si sa che la super-banca ha introdotto dei limiti sulle transazioni in contanti dei clienti e vietato bonifici internazionali. Altro freno: dal 17 novembre la Jp Morgan limiterà le operazioni in contanti (inclusi depositi e ritiri) a soli 50.000 dollari al mese, e non permetterà più di inviare bonifici internazionali: qualora si superassero le soglie per il contante, saranno comminate penali. «Prima considerazione: queste misure metteranno in difficoltà le piccole e medie imprese americane», scrive Katasonov. «A molte aziende sarà impedito di compiere tutte le più importanti transazioni con l’estero. Sarà un grattacapo anche pagare gli stipendi». E alcuni giornalisti credono che sia solo l’inizio: le misure adottate dall’istituto, così come quelle degli altri “squali” di Wall Street, colpiranno anche le grandi imprese. La lettera non contiene spiegazioni, limitandosi ad accennare ai “nuovi requisiti legali” introdotti nel paese, cui la banca si adeguerebbe. «La domanda è spontanea: a quali “nuovi requisiti legali” si fa riferimento, visto che non vi è stata nessuna nuova legge americana in questo ambito?».Alcuni, continua Katasonov, sostengono che la banca stia cercando di controllare il deflusso di capitali dal paese. «Difficile da credere. Sino ad oggi gli Stati Uniti non hanno adottato misure in tal senso. Sono state preferite misure indirette. Per esempio la norma introdotta nel 2010, “Foreign Account Tax Compliance”, può essere considerata come un modo per limitare l’esportazione di capitali riducendo la convenienza di investimenti all’estero da parte di aziende americane». Misure che «si sono rivelate poco più che inutili, semplici tasse addizionali per coloro che investono all’estero». L’economista russo suggerisce due possibili spiegazioni. Prima ipotesi: le autorità hanno voluto impartire una lezione esemplare. «Se ci si scotta una volta, è difficile che ci si riprovi». Di qui la lettera «piena di buoni propositi sull’antiriciclaggio, sulla prevenzione del terrorismo, sulla lotta alla corruzione limitando le transazioni in contanti». Evidente: «Sono tutte trovate per rifarsi l’immagine, sperando che l’attenzione si sposti su altri istituti finanziari». Ma Katasonov trova più convincente la seconda spiegazione: «La banca si tiene pronta per fronteggiare una crisi» di proporzioni inaudite, come quando i clienti – impauriti per la sorte del proprio conto corrente – corrono allo sportello per prelevare i loro soldi.«E’ vero che la banca è la più importante degli Stati Uniti, ma non sono sicuro che questo basterebbe a salvarla», dice Katasonov. Il precedente di Lehman Brothers testimonia che non è sempre vera la formula del “troppo grande per fallire”, con l’implicito salvataggio pubblico per evitare il disastro dell’economia (solito schema: ai banchieri i profitti pregressi, ai contribuenti il costo del risanamento). La Morgan «ha imparato la lezione impartita a Cipro», quando la Commissione Europea, il Fondo Monetario e la Bce hanno costretto le autorità di Nicosia a far pagare agli innocenti correntisti le ingenti perdite delle banche del paese. «Per salvare il sistema bancario dalla fuga di capitali, la banca centrale cipriota ha introdotto rigidi controlli sul prelievo in contanti e sul trasferimento all’estero di somme depositate sui conti correnti». In attesa che analoghe misure vengano adottate anche negli Usa, in caso di grave crisi bancaria, è possibile che Jp Morgan stia giocando d’anticipo. «Quindi le limitazioni al prelievo, comunicate dall’istituto, potrebbero servire a prepararsi per il futuro. In questo caso – conclude Katasonov – Jp Morgan Chase starebbe agendo proprio come se avesse il presagio di una crisi bancaria imminente negli Stati Uniti».Collasso imminente del sistema bancario e rischio-Cipro anche per gli Usa? Non è ancora calato il sipario sul teatrino dell’innalzamento del tetto del debito pubblico, che già i media americani rilanciano la notizia dello scandalo della Jp Morgan Chase, il colosso finanziario che detesta le Costituzioni antifasciste europee così piene di fastidiosi vincoli democratici. Attenzione: a vacillare – mettendo in pericolo anche l’economia reale – è la più grande banca statunitense per patrimonio, la seconda al mondo dopo l’Hsbc, con attivi da 2,3 trilioni di dollari e filiali in 60 paesi: un americano su sei è suo cliente, annota l’economista russo Valentin Katasonov. A settembre, la super-banca ha patteggiato con le autorità britanniche e statunitensi, riconoscendo di aver commesso reati analoghi a quelli della Lehman Brothers, che occultò perdite per 50 miliardi ed esibì ricavi inesistenti per ingannare clienti, partner e autorità di vigilanza, fino a finire in bancarotta e far collassare Wall Street e il resto del mondo. Ora ci risiamo: il caso “London Whale” rivela che la filiale inglese della Morgan «sopravvalutò il portafoglio crediti dei titoli derivati per nascondere 6,2 miliardi di dollari di perdite».