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Dezzani: Bergoglio scelto dal superclan Usa oggi perdente
Ratzinger “deposto” da un complotto gestito dai servizi segreti anglosassoni, con anche la collaborazione di Gianroberto Casaleggio. Obiettivo: insediare in Vaticano l’attuale pontefice “modernista”. Un piano del massimo potere, gestito da personaggi come George Soros e ora messo in pericolo dalla vittoria di Trump. Lo sostiene Federico Dezzani, che evoca “padrini occulti” dietro al pontificato di Bergoglio, di cui profetizza l’imminente fine. Nonostante il flop del Giubileo e «il sostanziale fallimento dell’Anno Santo», Papa Francesco oggi accelera la svolta modernista: crea nuovi cardinali a lui fedeli e concede a tutti i sacerdoti la facoltà di assolvere l’aborto. «Forse Bergoglio ha fretta, perché sa che il contesto internazionale che lo ha portato sul Soglio Petrino si è dissolto con l’elezione di Donald Trump», scrive Dezzani, secondo cui furono «l’amministrazione Obama e George Soros» a introdurre il gesuita argentino, «in forte odore di massoneria», dentro le Mura Leonine. Bergoglio? Sarebbe «la versione petrina di Barack Hussein Obama», in coerenza col “cesaropapismo”, grazie al quale il potere civile estende la propria competenza al campo religioso, così da plasmare la dottrina «secondo le esigenze del potere temporale».Una pratica bizantina, ancora viva nell’Occidente moderno? Senz’altro: «La Chiesa di Roma subisce, dalla notte dei tempi, gli influssi del mondo esterno: re francesi, imperatori tedeschi, generali corsi e dittatori italiani hanno sempre cercato di ritagliarsi una Chiesa su misura». Dopo il 1945, il Vaticano è stato «inglobato come il resto dell’Europa Occidentale nell’impero angloamericano», subendone l’influenza politica, economica e ideologica: «Quanto avviene alla Casa Bianca, presto o tardi, si ripercuote dentro le Mura Leonine». Se poi il potere temporale si sente particolarmente forte e ha fretta di imporre la propria agenda alla Chiesa cattolica, «indebolita da decenni di secolarizzazione della società e in preda ad una profonda crisi d’identità», a quel punto – sostiene Dezzani – spinge più a fondo la “modernizzazione” dello Stato pontificio «cosicché il Papa “si dimetta”, come un amministratore delegato qualsiasi, e gli azionisti di maggioranza possano nominare un nuovo “chief executive officer” della Chiesa cattolica apostolica romana, sensibile ai loro interessi».Ratzinger “licenziato” dalla Casa Bianca? «Durante la folle amministrazione di Barack Hussein Obama, periodo durante cui l’oligarchia euro-atlantica si è manifestata in tutte le sue forme, dal terrorismo islamico all’immigrazione selvaggia, dagli assalti finanziari alle guerre per procura alla Russia – continua Dezzani nel suo blog – abbiamo assistito a tutto: comprese le dimissioni di Benedetto XVI, le prime da oltre 600 anni (l’ultimo pontefice ad abdicare fu Gregorio XII nel 1415), e alla nascita di un ruolo, quello di “pontefix emeritus”, sinora mai attribuito ad un Vicario di Cristo vivente». L’interruzione del pontificato di Joseph Ratzinger, seguita dal conclave del marzo 2013 che elegge l’argentino Jorge Mario Bergoglio, è una vera e propria “rivoluzione”: «Ad un pontefice “conservatore” come Benedetto XVI ne succede uno “progressista” come Francesco, a un difensore dell’ortodossia cattolica succede un modernista che vuole “rinnovare” la dottrina millenaria della Chiesa». Non solo: «Ad un Papa che aveva ribadito l’inconciliabilità tra Chiesa Cattolica e massoneria ne subentra uno che è in fortissimo odore di libera muratoria».E ad un pontefice «sicuro che solo nella Chiesa di Cristo c’è la salvezza» segue «un paladino dell’ecumenismo», talmente ardito da dichiarare ad Eugenio Scalfari nel 2013: «Non esiste un Dio cattolico, esiste Dio». Per Dezzani, il fondatore della “Repubblica”, «ben introdotto negli ambienti “illuminati” nostrani ed internazionali», in effetti «è un’ottima cartina di tornasole per afferrare il mutamento in seno alla Chiesa», strettamente sorvegliato dall’élite di potere. Si passa dall’editoriale “Da Pacelli a Ratzinger, la lunga crisi della Chiesa” del maggio 2012, dove Scalfari ragiona a distanza sul pontificato “lezioso” di Ratzinger, rinfacciandogli una scarsa apertura alla modernità, a Lutero ed all’ecumenismo, al dialogo tête-à-tête del novembre 2016, dove Scalfari discetta amabilmente con Bergoglio di “meticciato universale”, «tema tanto caro alla massoneria», interprete del sincretismo culturale che è alla base della modernità stessa, alla cui creazione proprio il network libero-muratorio contribuì, a partire dal ‘700.Federico Dezzani si concentra su Bergoglio, che considera «la versione petrina di Barack Obama», al punto che «si potrebbe sostenere che sia stato il presidente americano ad installare il gesuita ai vertici della Chiesa»? Sarebbe un’affermazione «soltanto verosimile», precisa, visto che «sono gli stessi ambienti che hanno appoggiato Barack Obama (e che avevano investito tutto su Hillary Clinton nelle ultime elezioni) ad aver preparato il terreno su cui è germogliato il pontificato di Bergoglio». In altre parole, è il milieu «della finanza angloamericana, di George Soros e dell’establishment anglofono liberal». Se si riflette sugli ultimi tre anni di pontificato, continua Dezzani, l’azione del Papa sembra infatti ricalcata sull’amministrazione democratica. Obama si fa il paladino della lotta al surriscaldamento globale, culminata col Trattato di Parigi del dicembre 2015? Bergoglio risponde con l’enciclica ambientalista “Laudato si”. Obama «ed i suoi ascari europei, Merkel e Renzi in testa», incentivano l’immigrazione di massa? Bergoglio «ne fornisce la copertura religiosa, finendo col dedicare la maggior parte del pontificato al tema». Ancora: Obama legalizza i matrimoni omosessuali? «Bergoglio si spende al massimo affinché il Sinodo sulla famiglia del 2014 si spinga in questa direzione».Gli “automatismi” continuano, estendendosi anche al welfare. La Casa Bianca vara una discussa riforma sanitaria che incentiva l’uso di farmaci abortivi? «Bergoglio allarga all’intera platea di sacerdoti, anziché ai soli vescovi, la facoltà di assolvere dall’aborto». Ma è possibile «insediare in Vaticano» un pontefice «in perfetta sintonia con l’amministrazione democratica di Obama» e, sopratutto, «espressione degli interessi retrostanti», che Dezzani definisce «massonici-finanziari»? E’ il tema della ricostruzione di Dezzani, che parte dalla “resa” di Ratzinger. Se si vuole attuare un “regime change”, il primo passo è «sbarazzarsi della vecchia gerarchia». Dinamica classica, «già vista in Italia con Tangentopoli, che spazzò via la vecchia classe dirigente italiana spianando la strada ai governi “europeisti” di Amato e Prodi». In Germania, la Tangentopoli tedesca «decapitò la Cdu e favorì l’emergere della semi-sconosciuta Angela Merkel». A Firenze, lo scandalo urbanistico sull’area Castello «eliminò l’assessore-sceriffo Graziano Cioni e avviò la scalata al potere di Matteo Renzi». O ancora, in Brasile, dove «lo scandalo Petrobas ha causato la caduta di Dilma Rousseff e la nomina a presidente del massone Michel Temer».Stesso schema, sempre: «Accuse di corruzione (fondate o non), illazioni infamanti, minacce, sinistre allusioni, carcerazioni preventive, battage della stampa, false testimonianze, omicidi: qualsiasi mezzo è impiegato per “scalzare” i vecchi vertici indesiderati». In Vaticano, nel mirino finirono «Ratzinger e il suo seguito di cardinali conservatori, da defenestrare a qualsiasi costo per l’avvento di un pontefice modernista». Ed ecco, puntale, lo scandalo “Vatileaks”, cioè lo smottamento – lungamente incubato – che ha condotto al ritiro di Ratzinger. L’analisi di Dezzani parte dagli Usa. Aprile 2009: Obama è insediato alla Casa Bianca da appena tre mesi «e con lui quell’oligarchia liberal decisa a sbarazzarsi di Benedetto XVI». In Italia esce “Vaticano SpA”, il libro di Gianluigi Nuzzi che “grazie all’accesso, quasi casuale, a un archivio sterminato di documenti ufficiali, spiega per la prima volta il ruolo dello Ior nella Prima e nella Seconda Repubblica”. Ovvero: «Mafia, massoneria, Vaticano e parti deviate dello Stato sono il mix di questo bestseller che apre la campagna di fango e intimidazione contro Ratzinger».L’autore, secondo Dezzani, «è uno dei pochi giornalisti italiani ad essere in stretti rapporti con il solitamente schivo Gianroberto Casaleggio: Nuzzi ottiene nel 2013 dal guru del M5S una lunga intervista e, tre anni dopo, partecipa alle sue esequie a Milano». Nuzzi è una prestigiosa “penna” del “Giornale”, di “Libero” e del “Corriere della Sera”: è lecito supporre che «confezioni “Vaticano SpA” e il successivo bestseller “Vatileaks”, avvalendosi delle fonti passategli dagli stessi ambienti che si nascondo dietro Gianroberto Casaleggio ed il M5S»? Ipotetici, veri manovratori: «I servizi atlantici e, in particolare, quelli britannici che storicamente vivono in simbiosi con la massoneria». Il biennio 2010-2011 vede Ratzinger «assalito da ogni lato dalle inchieste sulla pedofilia, il tallone d’Achille della Chiesa cattolica su cui l’oligarchia atlantica può colpire con facilità», infliggendo ingenti danni. “Scandalo pedofilia, il 2010 è stato l’annus horribilis della Chiesa cattolica” scrive nel gennaio 2011 il “Fatto Quotidiano”.È lo stesso periodo in cui l’argentino Luis Moreno Ocampo, primo procuratore capo della Corte Penale Internazionale ed ex-consulente della Banca Mondiale, valuta se accusare il pontefice Ratzinger di crimini contro l’umanità, imputandogli i “delitti commessi contro milioni di bambini nelle mani di preti e suore ed orchestrati dal Papa”. Poi arriva il 2012, ancora con gli americani in prima linea. Lo rivela Wikileaks, svelando l’esistenza di un documento «indispensabile per capire le trame che portano alla caduta di Ratzinger». È il febbraio 2012 quando John Podesta, futuro capo della campagna di Hillary, scrive a Sandy Newman un’email intitolata: “Opening for a Catholic Spring? just musing…” ossia: “Preparare una Primavera cattolica? Qualche riflessione…”. Già allora, Podesta era «un papavero dell’establishment liberal», capo di gabinetto della Casa Bianca ai tempi di Bill Clinton, nonché fondatore del think-tank “Center for American Progress”, «di cui uno dei principali donatori è lo speculatore George Soros». E Sandy Newman? Creatore di potenti think-tanks progressisti (“Voices for Progress”, “Project Vote!”, “Fight Crime: Invest in Kids”) in cui si fece le ossa, fresco di dottorato, il giovane Obama.Scrive Newman: «Ci deve essere una Primavera cattolica, in cui i cattolici stessi chiedano la fine di una “dittatura dell’età media” e l’inizio di un po’ di democrazia e di rispetto per la parità di genere». E Podesta: «Abbiamo creato “Cattolici in Alleanza per il Bene Comune” per organizzare per un momento come questo, ma non ha ancora la leadership per farlo. Come la maggior parte dei movimenti di “primavera”, penso che questo dovrà avvenire dal basso verso l’alto». Lo scambio di email hacketrato ora da Wikileaks, aggiunge Dezzani, si inserisce perfettamente nel contesto degli ambienti anglosassoni liberal, «gli stessi dove si discute da anni della necessità di un Concilio Vaticano III che apra a omosessuali, aborto e contraccezione». Il mondo ha bisogno di un nuovo Concilio Vaticano, scrive nel 2010 un membro del “Center for American Progress”, che parla apertamente di una “primavera cattolica” «che ponga fine alla dittatura medioevale della Chiesa, sulla falsariga della “primavera araba” che ha appena sconquassato il Medio Oriente».Di lì a poche settimane, continua Dezzani, «parte infatti la manovra a tenaglia che nell’arco di una decina di mesi porterà alla clamorose dimissioni di Benedetto XVI: è il cosiddetto “Vatileaks”, una furiosa campagna mediatica che attaccando su più fronti (Ior, abusi sessuali, lotte di palazzo, la controversa gestione della Segreteria di Stato da parte del cardinale Bertone) infligge il colpo di grazia al già traballante pontificato del conservatore Ratzinger, dipinto come “troppo debole per guidare la Chiesa”». L’intero scandalo, insiste Dezzani, poggia sulla fuga di notizie, «un’attività che dalla notte dei tempi è svolta dai servizi segreti». Notizie «trafugate» sono quelle che consentono a Nuzzi di confezionare il secondo bestseller, il libro-terremoto che esce nel maggio 2012: “Sua Santità. Le carte segrete di Benedetto XVI”, poi tradotto in inglese dalla Casaleggio Associati con l’emblematico titolo “Ratzinger was afraid: The secret documents, the money and the scandals that overwhelmed the pope”.Chi è la fonte di Nuzzi, il cosiddetto “corvo”? «Come nel più banale dei racconti gialli, è il maggiordomo, quel Paolo Gabriele che funge da capro espiatorio per una macchinazione ben più complessa», sostiene Dezzani. Notizie “trafugate” sarebbero anche quelle che compaiono sul “Fatto Quotidiano”, utili a dimostrare che lo Ior, gestito da Ettore Gotti Tedeschi, per il giornale di Travaglio «non ha alcuna intenzione di attuare gli impegni assunti in sede europea per aderire agli standard del Comitato per la valutazione di misure contro il riciclaggio di capitali», né di «permettere alle autorità antiriciclaggio vaticane e italiane di guardare cosa è accaduto nei conti dello Ior prima dell’aprile 2011». Gotti Tedeschi, ricorda Dezzani, verrà brutalmente licenziato dallo Ior il 25 maggio, lo stesso giorno dell’arresto del maggiordomo Gabriele, «così da alimentare il sospetto che i “corvi” siano ovunque, anche ai vertici dello Ior, Gotti Tedeschi compreso».Notizie “trafugate”, infine, sarebbero anche gli stralci pubblicati da Concita De Gregorio su “La Repubblica” e da Ignazio Ingrao su “Panorama” nel febbraio 2013, «estrapolati da un presunto dossier segreto e concernenti una fantomatica “lobby omosessuale in Vaticano”: sarebbe la gravità di questo documento, secondo le ricostruzione della stampa, ad aver convinto Ratzinger alle dimissioni». Si arriva così all’11 febbraio 2013: durante un concistoro per la canonizzazione di alcuni santi, Benedetto XVI, visibilmente affaticato, comunica in latino la clamorosa rinuncia al Soglio Pontificio. «Fu costretto alle dimissioni sotto ricatto? Era effettivamente spaventato?». Ratzinger smentisce nel modo più netto. Di recente ha ribadito che «non si è trattato di una ritirata sotto la pressione degli eventi o di una fuga per l’incapacità di farvi fronte». E ha aggiunto: «Nessuno ha cercato di ricattarmi».L’11 febbraio 2013, Ratzinger aveva affermato di «non essere più sicuro delle sue forze nell’esercizio del ministero petrino». Lo si può capire: era «fiaccato da tre anni di attacchi mediatici, piegato dallo scandalo “Vatileaks”». Così, l’anziano teologo – 86 anni – ha scelto le dimissioni. Tutto calcolato? «Le disgrazie del “conservatore” Ratzinger ed il massiccio cannoneggiamento che ha indebolito i settori della Chiesa a lui fedeli, spianano così la strada ad un Papa modernista, che attui quella “Primavera cattolica” tanto agognata dall’establishment angloamericano», scrive Dezzani. «Il Conclave del marzo 2013 (durante cui, secondo il giornalista Antonio Socci, si verificano gravi irregolarità che avrebbero potuto e dovuto invalidarne l’esito), sceglie così come vescovo di Roma l’argentino Jorge Mario Bergoglio: primo gesuita a varcare il soglio pontificio, dai trascorsi un po’ ambigui ai tempi della dittatura argentina». Duro il giudizio di Dezzani: «La ricattabilità è un tratto saliente dei burattini atlantici, da Angela Merkel a Matteo Renzi». Inoltre, il nuovo vescovo di Roma «è salutato con gioia dalla massoneria argentina, da quella italiana e dalla potente loggia ebraica del B’nai B’rith, che presenzia al suo insediamento».Lo stesso Bergoglio è un libero muratore? «Più di un elemento di carattere dottrinario, dal diniego che “Dio sia cattolico” all’ossessivo accento sull’ecumenismo, fanno supporre di sì», sostiene Dezzani. «Ma è soprattutto l’amministrazione democratica di Barack Obama e quella cricca di banchieri liberal ed anglofoni che la sostengono, a rallegrarsi per il nuovo papa». Bergoglio è il pontefice che «attua nel limite del possibile quella “Primavera Cattolica” tanto agognata (matrimoni omosessuali, aborto e contraccezione)». E’ il Papa che «sposa la causa ambientalista», che «fornisce una base ideologica all’immigrazione indiscriminata», che «sdogana Lutero e la riforma protestante». Ancora: è il pontefice che «sostanzialmente tace sulla pulizia etnica in Medio Oriente ai danni dei cristiani per mano di quell’Isis, dietro cui si nascondono quegli stessi poteri (Usa, Gb e Israele) che lo hanno introdotto dentro le Mura Leonine». È anche il primo Papa ad avere l’onore di parlare al Congresso degli Stati Uniti durante la visita del settembre 2015, prodigandosi per «sedare i malumori nel mondo cattolico americano contro la riforma sanitaria Obamacare».L’ultimo clamoroso intervento di Bergoglio a favore dell’establishment atlantico, continua Dezzani, risale al febbraio 2016, quando il pontefice etichettò come “non cristiana” la politica anti-immigrazione di Donald Trump. Un «incauto intervento», che per Dezzani rivela «il desiderio di sdebitarsi con quel mondo cui il pontefice argentino deve tutto», ma c’era anche «la volontà di mettere al riparo la sua opera di “modernizzazione” della Chiesa». La vittoria di Hillary Clinton, cioè della candidata di George Soros e dell’oligarchia euro-atlantica, «era infatti la conditio sine qua non perché la “Primavera Cattolica” di Bergoglio potesse continuare». Al contrario, «la sua sconfitta ha smantellato quel contesto geopolitico su cui Bergoglio ha edificato la traballante riforma progressista della Chiesa», sostiene sempre Dezzani. «Come François Hollande, come Angela Merkel e come Matteo Renzi, Jorge Mario Bergoglio, benché vescovo di Roma, oggi non è altro che il residuato di un’epoca archiviata». Dezzani lo considera «un figurante senza più copione, fermo sul palco, ammutolito ed estraniato, in attesa che cali il sipario».«Ultimo sussulto», da parte di Bergoglio, per «blindare la sua opera», il conferimento a tutti i sacerdoti della facoltà di assolvere dal peccato dell’aborto. A ciò si aggiunge «una terza infornata di cardinali (più di un terzo del collegio cardinalizio è ora formato da prelati a lui fedeli), così da imprimere un connotato “liberal” anche al futuro della Chiesa di Roma». Ma, per Dezzani, «è ormai troppo tardi», perché «la ribellione dentro la Chiesa alla sua “Primavera Cattolica” è iniziata». Quattro cardinali hanno di recente sollevato gravi contestazioni al documento “Amoris Laetitiae”, con cui Bergoglio ha chiuso i lavori del Sinodo sulla Famiglia, «contestazioni cui il pontefice non ha ancora risposto». E soprattutto: «Alla Casa Bianca non c’è più nessuno a proteggerlo. Anzi, c’è un presidente in pectore che, forte del voto della maggioranza dei cattolici americani, ne gradirebbe forse le dimissioni sulla falsariga di Benedetto XVI». Un’analisi buia, estrema e sconcertante. In premessa, Dezzani la definisce “verosimile”. Poi però la sottoscrive senza più incertezze: per Bergoglio, dice, «la fine si avvicina».Ratzinger “deposto” da un complotto gestito dai servizi segreti anglosassoni, con anche la collaborazione di Gianroberto Casaleggio. Obiettivo: insediare in Vaticano l’attuale pontefice “modernista”. Un piano del massimo potere, gestito da personaggi come George Soros e ora messo in pericolo dalla vittoria di Trump. Lo sostiene Federico Dezzani, che evoca “padrini occulti” dietro al pontificato di Bergoglio, di cui profetizza l’imminente declino. Nonostante il flop del Giubileo e «il sostanziale fallimento dell’Anno Santo», Papa Francesco oggi accelera la svolta modernista: crea nuovi cardinali a lui fedeli e concede a tutti i sacerdoti la facoltà di assolvere l’aborto. «Forse Bergoglio ha fretta, perché sa che il contesto internazionale che lo ha portato sul Soglio Petrino si è dissolto con l’elezione di Donald Trump», scrive Dezzani, secondo cui furono «l’amministrazione Obama e George Soros» a introdurre il gesuita argentino, «in forte odore di massoneria», dentro le Mura Leonine. Bergoglio? Sarebbe «la versione petrina di Barack Hussein Obama», in coerenza col “cesaropapismo”, grazie al quale il potere civile estende la propria competenza al campo religioso, così da plasmare la dottrina «secondo le esigenze del potere temporale».
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La festa è finita, tra un po’ useranno l’esercito contro di noi
Signori, si scende: la globalizzazione è finita. Usa e Cina, Nato, Fmi, Ue, Banca Mondiale? Sono in avaria e lo sanno benissimo, anche se ancora non lo ammettono. Il sistema ha le ore contate, perché l’epoca della crescita è tramontata per sempre. Sta montando la marea del malcontento, ovunque, perché a pagare il conto della globalizzazione forzata sono miliardi di persone: così, se vorrà tenersi il potere, questa élite fallimentare dovrà ricorrere sistematicamente alla polizia e all’esercito, archiviando anche la democrazia. Lo sostiene Raúl Ilargi Meijer, analista indipendente, autore di “The Automatic Earth”. «La fine della crescita espone nella sua nudità la stupidità e ignoranza di tutti». Sotto accusa i leader, assolutamente inadeguati. In periodo di crescita, i politici «non devono fare altro che “sedurre” i votanti», vendendo loro la “certezza” di una crescita infinita. In tempi di contrazione, invece, hanno davanti difficoltà ben più sostanziali: «Gli tocca convincere i votanti di essere in grado di minimizzare “le sofferenze delle masse”. Una massa priva di garanzie, alla quale chiaramente nessuno vuol ritrovarsi a fare parte. E lì è proprio difficile “vendersi”».La fine di ogni ciclo di crescita, inevitabilmente, cambia la struttura democratica, avverte Meijer, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. La crisi produrrà nuovi politici, perché, come sostenne Hazel Henderson, «l’economia non è altro che un travestimento della politica». Tradotto: «Da un lato ti trovi la classe al potere che tenta di tenersi stretta al suo potere in declino, producendo falsi numeri positivi a vagonate e sostenendo che comunque non esiste alternativa possibile alla loro (semmai soltanto dosi maggiori della stessa ricetta), e dall’altro lato c’è una vaga affiliazione, nella misura in cui si può parlare di affiliazione, di destra e sinistra, individui e partiti, in grado di subodorare cambiamenti in corso che potranno usare a proprio beneficio». La classe al potere, i partiti tradizionali, inizieranno progressivamente ad estinguersi: «Gli verranno addossate le colpe, e perlopiù meritatamente, per la caduta del sistema economico». Infatti: «Se sei percepito come parte della vecchia guardia, sei fuori». L’ascesa di Trump, Farage e simili è stata molto più veloce di quanto chiunque potesse pensare. «Si nutrono di malcontento, ma sono in grado di farlo soltanto perchè questo malcontento è stato del tutto ignorato dalle classi dominanti».Il che, aggiunge Meijer, ha molto ha che fare con il fatto che tali governanti si sono senza dubbio arricchiti, mentre i “piani bassi” della società sicuramente no. «Inoltre, se il più della gente potesse ancora vantare comode esistenze da classe media, l’ostilità verso migranti e rifugiati sarebbe stata ben minore: e i vari Trump, Wilders, Le Pen o “Alternative für Deutschland” non avrebbero trovato le loro miniere d’oro. La percezione che i nuovi arrivati siano a qualche titolo responsabili per il peggioramento delle condizioni di vita crea terreno fertile per chiunque voglia servirsene». E siccome la sinistra «non tocca l’argomento», la destra «si prende tutto per assenza di concorrenza». Bernie Sanders e Jeremy Corbyn possono anche avere idee coraggiose, in materia di redistribuzione della ricchezza, ma il potere resiste e li ostacola. Così, molta parte della leadership – Hillary Clinton, Theresa May, Sarkozy, la Merkel – sta «orchestrando sagge virate verso destra», avendo sentore che «il potere non emanerà più dal centro». Politici che, conunque, sembrano ormai «destinati a essere spazzati via dal voto popolare».Ben più difficile, innvece, sarà «sbarazzarsi delle organizzazioni transnazionali, come l’Ue o l’Fmi (e molte altre) nonostante rappresentino un progetto fallito». “Bloomberg” certifica l’allarme del Fmi: «La fede nella globalizzazione è ormai a disagio di fronte alle evidenti disparità che crea. Dal voto britannico a favore dell’uscita dalla Ue, a Donald Trump che avanza al grido di “l’America prima di tutto”, aumentano le pressioni per porre un freno e ridurre l’integrazione economica, sempre all’ordine del giorno per Fmi e Banca Mondiale per almeno 70 anni. Alimentata da salari stagnanti e insicurezza lavorativa in costante crescita, la sommossa populista minaccia di gettare definitivamente nella depressione una economia che la dirigente dell’Fmi Christine Lagarde ammette essere già adesso debole e fragile». Attenzione: «La rappresaglia contro la globalizzazione si manifesta in sentimenti nazionalisti accentuati, sfiducia per il mondo esterno e desiderio di maggiore isolamento protezionistico», sostiene Luis Kuijs dell’Oxford Economics di Hong Kong, in passato anche burocrate del Fmi. Per il World Economic Outlook, l’espansione globale è già compromessa: l’economia mondiale sta rallentando.«Posso capire che un voto contro i vari Hollande, Hillary, Cameron costituisca una “rappresaglia contro la globalizzazione”», dice Meijer, a patto però che non venga demonizzato il termine “protezionismo”: «Ogni singola società del pianeta dovrebbe proteggere le sue esigenze di base evitando che finiscano sotto il controllo di stranieri, sia per profitto, sia per potere. Niente di buono può mai venirne dalla cessione di questa facoltà di controllo per nessuna società, assolutamente mai». Sicchè, «non c’è niente di sbagliato nel voler proteggere la propria capacità di controllo sul proprio approvvigionamento idrico, autosussistenza alimentare, garanzia di alloggi sicuri: parliamo di cose che, al contrario, non andrebbero mai negoziate o scambiate sui mercati globali». Chi vorrebbe globalizzare anche quelle? I soliti noti, «i cui comodi ruoli dirigenziali e comodi grassi conti bancari dipendono direttamente nella nostra progressiva perdita di controllo personale sopra le stesse esigenze di base per sopravvivere nella vita». In fondo, «è ciò che accade a ogni organismo che ha raggiunto i limiti della sua crescita: inizia a “nutrirsi dell’ospite”. Che si parli di un tumore, dell’Impero Romano, o dei nostri attuali modelli economici basati sul presupposto della crescita perenne».Trump ha abbaiato contro Messico e Cina, minacciando di innalzare grosse tariffe doganali sulle importazioni da entrambi i paesi. Innervositi dal Brexit, i leader europei «sono coscienti che potrebbe essere solo l’inizio di un terremoto politico che minaccia le vecchie certezze del continente». Il prossimo anno, ricorda Meijer, si voterà in Germania e Francia, le maggiori economie dell’Eurozona, nonchè in Olanda. «In ciascuno di questi paesi le forze anti-establishment stanno guadagnando terreno». Insieme al crescente risentimento verso la Ue da Budapest a Madrid, gli osservatori politici giudicano l’attuale avanzata del “populismo” come la più grande minaccia al blocco-Ue dalla sua creazione, dalle ceneri della Sconda Guerra Mondiale al presente. Per i media mainstream, la categoria “populista” include moltissima gente, «da Trump a Beppe Grillo con tutto ciò che ci sta in mezzo, passando dall’ungherese Orban a Nigel Farage, “Podemos” in Spagna, “Syriza” in Grecia, la Afd tedesca». Movimenti diversissimi tra loro, ma con una cosa in comune: «Protestano contro uno status quo già fallito e in rapido processo di deterioramento, e ricevono massiccio supporto popolare per questa ragione, dal momento che è la gente a portare sulle spalle il peso del fallimento».Né si intravedono avvisaglie di segno positivo: «Probabilmente il più vistoso fatto macroeconomico relativo alle economie avanzate oggi è il permanere di un’anemia della domanda nonostante i bassi tassi d’interesse», scrive l’ex capo-economista dell’Fmi, Olivier Blanchard. Questi esperti, scrive Meijer, dimostrano di aver sentore che qualcosa non torna, ma nessuno possiede risposte. Vi era “accordo sulla globalizzazione prima della crisi”, adesso non esiste più, e questo è tutto. «Immagino l’economia mondiale come qualcosa di simile a un’auto in corsa senza conducente e bloccata su una corsia lenta», ha detto David Stockton, ex burocrate della Fed. «Questa è l’economia globale, non va da nessuna parte e nel frattempo i soldi finiscono facilmente e in fretta», sottolinea Meijer. «In Europa, l’avanzata populista fornisce un potente incentivo ad abbandonare l’austerità per i governi prima delle prossime elezioni, e magari oltre; che una mossa del genere placherà coloro che sono rimasti nel lato perdente della globalizzazione è comunque suscettibile di dubbio».Il consenso alla globalizzazione si basava sulla promessa di maggior crescita economica, ammette Ding Shuang, capo-economista cinese, al Fmi dal 1997 al 2010: «Ma i benefici non sono stati ripartiti equamente, quindi adesso assistiamo a una ondata anti-globalizzazione». Per Meijer, la globalizzazione è già finita. «Non è mai stata intesa da nessuno come distribuzione di nulla, a parte forse di ricchezza tra le mani delle élites e bassi salari per chiunque altro. L’Ue e l’Fmi non hanno ottenuto nulla di quanto avevano promesso, come allo stesso modo non l’hanno fatto i partiti tradizionali, in Usa, Regno Unito, come in Europa in generale. Hanno promesso crescita e la crescita è finita. Avranno ottenuto risultati per i loro padroni ma hanno perso nei confronti di chiunque altro. Il resto è solo aria fritta». E il peggio è che «non si può assolutamente escludere che arriveranno a servirsi dell’esercito e della polizia, che controllano, per tenersi aggrapparti a ciò che hanno: anzi, temo sia qualcosa che succederà di sicuro». Anche perché «la crescita è finita, svanita da un pezzo per farsi sostituire dal debito», e noi «stiamo trascendendo verso uno stadio completamente diverso delle nostre vite, economie, società».Signori, si scende: la globalizzazione è finita. Usa e Cina, Nato, Fmi, Ue, Banca Mondiale? Sono in avaria e lo sanno benissimo, anche se ancora non lo ammettono. Il sistema ha le ore contate, perché l’epoca della crescita è tramontata per sempre. Sta montando la marea del malcontento, ovunque, perché a pagare il conto della globalizzazione forzata sono miliardi di persone: così, se vorrà tenersi il potere, questa élite fallimentare dovrà ricorrere sistematicamente alla polizia e all’esercito, archiviando anche la democrazia. Lo sostiene Raúl Ilargi Meijer, analista indipendente, autore di “The Automatic Earth”. «La fine della crescita espone nella sua nudità la stupidità e ignoranza di tutti». Sotto accusa i leader, assolutamente inadeguati. In periodo di crescita, i politici «non devono fare altro che “sedurre” i votanti», vendendo loro la “certezza” di una crescita infinita. In tempi di contrazione, invece, hanno davanti difficoltà ben più sostanziali: «Gli tocca convincere i votanti di essere in grado di minimizzare “le sofferenze delle masse”. Una massa priva di garanzie, alla quale chiaramente nessuno vuol ritrovarsi a fare parte. E lì è proprio difficile “vendersi”».
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Monica Maggioni (Rai) presidente italiana della Trilaterale?
«La notizia è di quelle da far saltare sulla sedia». Secondo quanto riportato da Lia Quilici su “L’Espresso”, la presidente della Rai Monica Maggioni il prossimo 8 ottobre sarà nominata presidente della Trilateral Italia. «Un incredibile cortocircuito di potere che metterebbe nelle stesse mani da una parte il controllo del servizio d’informazione radiotelevisivo pubblico e dall’altra la gestione della filiale italiana di una delle più importanti organizzazioni d’interessi privati nel mondo», scrive “Megachip”, che per illuminare i retroscena della Commissione Trilaterale, fondata nel 1973 negli Usa da David Rockefeller, ripropone una recente analisi di Stefania Elena Carnemolla. Il personaggio-chiave, oggi, in Italia? Itzhak Yoram Gutgeld, economista israeliano naturalizzato italiano e deputato Pd, “mente” economica del governo Renzi: «Nell’armadio di Gutgeld c’è lo scheletro della Trilaterale, centro di potere espressione dell’élite». Se Gutgeld è membro del gruppo italiano, dal 2011 il presidente europeo è Jean-Claude Trichet, ex governatore della Bce. «Star italiana della Trilaterale è Mario Monti». E al super-club «si onora di appartenere anche l’ex primo ministro e deputato Pd Enrico Letta, oggi accademico a Parigi».Insieme al Bilderberg, stra-chiacchierato “salotto” dell’élite finanziaria mondiale insieme al Forum di Davos, la Trilaterale – secondo Gioele Magaldi, autore di “Massoni, società a responsabilità illimitata” – fa parte del segmento strategico di “associazioni paramassoniche” destinare a fare da cinghia di trasmissione tra i “vertice esoterico” dell’oligarchia, rappresentato da 36 Ur-Lodges internazionali, e le classi dirigenti – banche, università, industria, politica. A differenza dei potentissimi think-tanks citati da Paolo Barnard nel saggio “Il più grande crimine” (tra questi la Ert, European Roundtable of Industrialists), la Trilaterale ospita ex capi di Stato e di governo, “dialogando” direttamente con le istituzioni del super-potere, dalla Fed alla Bce, dal Fmi alla Banca Mondiale. Fu proprio la Trilaterale, guidata da eminenze grige come Kissinger e Rockefeller, a “far applicare”, dagli anni ‘70, i micidiali dettami dello storico Memorandum che la Camera di Commercio Usa aveva commissionato all’avvocato d’affari Lewis Powell. Obiettivo: stroncare la sinistra democratica e sindacale negli Usa e in Europa, demolire il welfare, aprire il varco al neoliberismo globalizzato e al “totalitarismo finanziario”.«Chi sono gli italiani della Trilaterale?», si domanda Stefania Elena Carnemolla, su “Megachip”. «È gente che piace alla gente che piace, che passa da un incarico all’altro, che presiede fortini di potere. Ci sono renziani, banchieri, ex ministri, ex viceministri, ammiragli, ambasciatori, industriali, deputati, vertici Rai, ex presidenti del Consiglio, studiosi di politica internazionale. Nomi che s’intrecciano con il Bilderberg e con l’Ispi, l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale. Personaggi da sliding door, che se non sono in un luogo, sono in un altro». La sede del gruppo italiano della Trilaterale è al civico 5 di via Clerici, a Milano, dove c’è l’omonimo palazzo che ospita l’Ispi. Tra i membri della Trilaterale «c’è il professore Carlo Secchi, che ne è il chairman – né è una coincidenza che Secchi sia vicepresidente dell’Ispi, oltre che suo consigliere di amministrazione». Altri membri della Trilaterale con ramificazioni nell’Ispi? «Sono Paolo Magri, segretario del gruppo italiano della Trilaterale, nonché vicepresidente esecutivo, direttore e consigliere di amministrazione Ispi; Patrizia Grieco, consigliere di amministrazione Ispi, nominata da Renzi presidente Enel».Nell’elenco, continua Carnemolla, figura anche la giornalista Monica Maggioni, presidente Rai e consigliere di amministrazione Ispi, «nonché ospite, nel 2014, della conferenza Bilderberg di Copenhagen, quand’ancora dirigeva “Rai News 24”». Insieme alla Maggioni figura Lia Quartapelle, che Renzi voleva ministro degli esteri: deputato Pd, è ricercatrice Ispi per l’Africa ed è alla Trilaterale «grazie al David Rockefeller Fellowship Program». Poi c’è Marco Tronchetti Provera, vicepresidente esecutivo e amministratore delegato Pirelli, senza contare le altre cariche, «da Mediobanca a Rcs, passando per la Bocconi, Confindustria, Assolombarda, l’Aspen Institute e altro ancora». E quindi Gianfelice Rocca, presidente di Techint, dell’Istituto Clinico Humanitas e di Assolombarda, oltre che consigliere di amministrazione Ispi. E Marcello Sala, vicepresidente vicario del consiglio di gestione Intesa SanPaolo e consigliere di amministrazione Ispi.Poi ci sono membri della Trilaterale non legati all’Ispi: fra i banchieri Maurizio Sella (presidente del Gruppo Banca Sella), quindi Giuseppe Vita (presidente Unicredit), Carlo Messina (ad di Intesa SanPaolo) e Andrea Moltrasio (presidente del consiglio di sorveglianza di Ubi Banca). Membro della Trilaterale, continua Stefania Elena Carnemolla, è anche l’ambasciatore Ferdinando Salleo, che ne è vicepresidente (ed è anche collaboratore di politica estera per la “Repubblica”, guidata da Mario Calabresi). Con lui Giuseppe Bono (Fincantieri), John Elkann (Fiat), l’ammiraglio Giampaolo Di Paola (ex ministro della difesa del governo Monti, già dirigente Nato). E ancora: Marta Dassù, nominata da Renzi nel consiglio di amministrazione di Finmeccanica. La Dassù è membro dell’advisory board della dalemiana Fondazione Italianieuropei, del comitato esecutivo dell’Aspen Institute, di quello scientifico di Confindustria, della Fondazione Italia-Usa, del direttivo dell’Istituto Affari Internazionali. Ha diretto il Centro Studi Politica Internazionale e le attività internazionali di Aspen Institute Italia, è stata consigliere per la politica estera dei governi D’Alema e del secondo governo Amato, e poi viceministro degli esteri nei governi Monti e Letta.Membro della Trilaterale, continua “Megachip”, è stata pure Federica Guidi, ex leader dei giovani di Confindustria e ministro dello sviluppo economico del governo Renzi. «E lo è stato Stefano Silvestri, editorialista del quotidiano di Confindustria, “Il Sole 24 Ore”, ex presidente dell’Istituto Affari Internazionali, di cui è oggi consigliere scientifico». Secondo Stefania Elena Carnemolla, il sogno di molti è comunque il Bilderberg Group: «Ci sono passati in tanti e di nuovi ne entrano – come Claudio Costamagna, presidente di Cassa Depositi e Prestiti, una carriera in Goldman Sachs; Lilli Gruber, Franco Bernabè, Fulvio Conti, Enrico Letta, Mario Monti, gli Elkann e gli Agnelli, Alberto Nagel di Mediobanca, Romano Prodi, Tommaso Padoa-Schioppa». Poi ci sono «quegli italiani che al Bilderberg sono andati ospiti, come Paolo Scaroni, allora a capo di Eni, e Giulio Tremonti, che vi andò, ministro economico del governo Berlusconi, nel 2011, quando la riunione fu ospitata a St. Moritz, in Svizzera, trovandovi Mario Monti. Mesi dopo, Monti, nominato senatore a vita da Giorgio Napolitano, sarebbe entrato, caduto il governo Berlusconi, a Palazzo Chigi». La Trilaterale, l’Ispi, il Gruppo Bilderberg e gli altri club esclusivi, «dove vanno e vengono i soliti: un gioco di società, dai tanti tentacoli, che non ha risparmiato l’Italia renziana». Fino all’annunciata nomina della Maggioni alla Trilaterale.«La notizia è di quelle da far saltare sulla sedia». Secondo quanto riportato da Lia Quilici su “L’Espresso”, la presidente della Rai Monica Maggioni il prossimo 8 ottobre sarà nominata presidente della Trilateral Italia. «Un incredibile cortocircuito di potere che metterebbe nelle stesse mani da una parte il controllo del servizio d’informazione radiotelevisivo pubblico e dall’altra la gestione della filiale italiana di una delle più importanti organizzazioni d’interessi privati nel mondo», scrive “Megachip”, che per illuminare i retroscena della Commissione Trilaterale, fondata nel 1973 negli Usa da David Rockefeller, ripropone una recente analisi di Stefania Elena Carnemolla. Il personaggio-chiave, oggi, in Italia? Itzhak Yoram Gutgeld, economista israeliano naturalizzato italiano e deputato Pd, “mente” economica del governo Renzi: «Nell’armadio di Gutgeld c’è lo scheletro della Trilaterale, centro di potere espressione dell’élite». Se Gutgeld è membro del gruppo italiano, dal 2011 il presidente europeo è Jean-Claude Trichet, ex governatore della Bce. «Star italiana della Trilaterale è Mario Monti». E al super-club «si onora di appartenere anche l’ex primo ministro e deputato Pd Enrico Letta, oggi accademico a Parigi».
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Carotenuto: i Maghi Neri non ci domineranno per sempre
Fa più rumore un albero che cade, lo sappiamo: l’immensa foresta cresce in silenzio. Oggi però di alberi ne cadono a migliaia, tutti i giorni. E’ un fragore spaventoso, che provoca smarrimento. Il che non è casuale: più che il legname, infatti, al taglialegna interessa proprio la paura che il crollo provoca. Guerre, disperazione, crisi economiche accuratamente progettate. Ma l’indotto globalizzato della strage quotidiana, il “core business del male”, non è nemmeno il lucro: l’obiettivo numero uno è lo scoraggiamento di massa, planetario. La resa dell’umanità. I trilioni di dollari contano, eccome – sono la lussuosa paga dei grandi mercenari, gli strumenti della “piramide oscura”. Al cui vertice però siedono tenebrosi “sacerdoti”, i Maghi Neri, il cui vero “fatturato” non è misurabile in denaro, ma in dolore. La loro missione: sabotare le connessioni vitali, amorevoli, tra persone e popoli. Da questa prospettiva, decisamente inconsueta, Fausto Carotenuto fotografa, a modo suo, il senso della grande deriva mondiale che stiamo vivendo, di cui spesso stentiamo a cogliere il significato. Ma non lasciamoci spaventare, aggiunge: se il frastuono è in aumento, se gli “architetti del buio” stanno “esagerando”, è perché cominciando ad avere paura del nostro risveglio.Fausto Carotenuto non è un guru della new age. E conosce bene le dinamiche del quadro geopolitico: per anni, è stato analista strategico dei servizi segreti italiani. Da tempo, ha intrapreso nuove esperienze, confluite nel network “Coscienze in Rete”. E ha scritto libri come “Il mistero della situazione internazionale”, che provano a tradurre anche la politica in termini spirituali: una dimensione inconfessabile, impresentabile a livello mainstream (sarebbe spernacchiata come grottesca surperstizione). Ma in realtà – sostiene l’autore – è l’unica prospettiva capace di spiegare fino in fondo l’attitudine dei “dominus”, la loro incrollabile e misteriosa vocazione al peggio. Carotenuto ricorre alle categorie simboliche dell’invisibile, evocando i due principi-cardine a cui si ispirerebbe la “piramide nera”: da un lato “Lucifero”, il demone della realtà illusoria, presentata come rifugio dorato, dove la coscienza “si addormenta” e smette di evolversi; e dall’altro “Arimane”, «il padrone della scena materiale», la cui missione consisterebbe nel «convincerci che non abbiamo spirito, che siamo solo animali evoluti», e quindi «fa di tutto per meccanizzarci, per legarci a vite prive di amore, abbacinate dal denaro, dai piaceri fisici, dal potere sugli altri».Queste due potenze, scrive Carotenuto, sono il vertice di una piramide – reale, concreta – fatta di uomini in carne e ossa. Sono i sommi sacerdoti e loro discepoli, che coordinano le “fratellanze oscure” e le organizzazioni trasversali, utilizzando schiere di mercenari puntualmente reclutati e profumatamente pagati per fare il “lavoro sporco”, senza averne neppure la piena consapevolezza. Ogni anello di questa catena infernale, sostiene l’autore, interpreta innanzitutto il ruolo del carnefice, per poi scoprirsi vittima a sua volta: le vite degli esponenti del massimo potere, a prima vista comode, sono in realtà tormentate da continue lotte: tutti i grandi boss sono avvelenati dalla paura di essere scalzati e privati degli smisurati privilegi conquistati con ogni mezzo. In altre parole: nessuno è davvero felice, lassù. Al punto che, sempre più spesso, si registrano autentiche ribellioni: eredi designati, rampolli di grandi famiglie ed ex “macellai” di lungo corso (dell’economia, della finanza, delle multinazionali) all’improvviso “vedono” la disperazione del sistema e la respingono, non essendo più disposti a restare complici della “piramide oscura”.Anche per questo, secondo Carotenuto, sta aumentando l’intensità della violenza a cui siamo sottoposti, fra disastri economici, guerre e terrorismo: l’élite “nera” teme di perdere la sua presa. E il suo declino, pronostica l’autore, potrebbe essere più rapido di quanto non s’immagini. Ma non sarà una passeggiata: il potere “nero” è un osso durissimo. A comiciare da loro, quelli che Carotenuto chiama Maghi Neri, cioè personalità votate al male: «Hanno ricevuto enormi fortune, grandissimi poteri». Magia, vera e propria: «Lunghi e ripetuti rituali, contro-iniziazioni», che nel corso della storia hanno reso questi individui «particolarmente acuti, di un’intelligenza fredda e metallica, priva di cuore». Godono del potere immenso che esercitano sull’umanità – che disprezzano, insieme al bene e alla libertà. Coadiuvati dai loro discepoli, continua Carotenuto, i Maghi Neri istruiscono le “fratellanze oscure”, ovvero «ristrette organizzazioni», non note ai più, che «praticano ritualità oscure», di tipo occultistico, «con l’uso intensivo di medium». Oltre ai mezzi ordinari, materiali, «dalla manipolazione agli omicidi» le “fratellanze oscure” «praticano attivamente la magia nera», nella quale hanno evidentemente la massima fiducia. Nella formazione degli adepti «viene spenta ulteriormente la forza dell’amore e vengono accentuate particolari doti, dell’intelligenza e dell’obbedienza».Spesso si tratta di giovani, «lanciati in carriere fulminanti», per arrivare a volte a diventare «consiglieri più o meno occulti di qualche eminente personalità», fino ad essere «investiti in prima persona nei grandissimi incarichi». Secondo Carotenuto, «il lavoro rituale fatto su di loro lascia spesso tracce esteriori visibili negli occhi, che acquistano una apparenza strana, priva di calore o vitrea». Occhi «dotati di una luce inquietante, o spenti». Non è una pagina della saga di Harry Potter. Ricorda da vicino certi film, come “L’avvocato del diavolo”, con Al Pacino e Keanu Reeves. Ma quella di Carotenuto non è fiction: anche se parla apertamente di magia (nera), la modalità narrativa è quella della saggistica. Le “fratellanze oscure”? Esistono, eccome. E funzionano proprio così, sostiene l’autore. «Si tratta probabilmente di qualche decina di organizzazioni segrete, presenti e attive ovunque nelle strutture del potere laico e di quello religioso». Sono queste organizzazioni che «predispongono e dirigono gli uomini che portano avanti in modo piuttosto consapevole le più forti operazioni di condizionamento dell’umanità: le contro-ispirazioni, gli attacchi alla natura umana, le guerre, il terrorismo».Tutto il resto è a valle, assicura l’ex analista geopolitico dell’intelligence: dalla Trilaterale al Council on Foreign Relations, dal Bilderberg all’Aspen Istitute, dal Club di Roma ai Rotschild, fino alla Goldman Sachs e alla super-massoneria deviata. La recente letteratura complottista punta il dito contro i gesuiti e l’Opus Dei, i Fratelli Musulmani, il B’nai B’rith israeliano? «Queste organizzazioni, misteriose ma note, sono sono al quinto livello della scala del potere oscuro», cioè «abbastanza in basso», vale a dire: «Meri esecutori, ben compensati per i loro servigi, con soldi e potere. Ma non sono loro a elaborare le grandi strategie del male». Restano agli ordini dei «livelli superiori», cioè «alcune centinaia di famiglie e organizzazioni». Gli uomini delle “fratellanze oscure” «ricevono spesso incarichi dirigenziali importanti nei principali settori del potere economico, politico, militare, religioso, culturale, scientifico, mediatico e malavitoso». Esecutori speciali, che «rispondono fedelmente agli uomini delle cerchie ristrette», da cui ricevono istruzioni, che applicano alla lettera, senza mai discuterle, per non perdere le posizioni acquisite.Quello degli esecutori disseminati nelle “fratellanze oscure”, sempre secondo Carotenuto, è un vero e proprio esercito: «Sono molte migliaia, in tutte le organizzazioni mondiali di potere, in tutti i settori. Capi e dirigenti importanti delle organizzazioni multinazionali fondamentali», dall’Onu al Fmi, dalla Banca Mondiale al Wto fino all’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Inlcusi «la maggior parte dei capi religiosi e dei capi di Stato e di governo». Leader di partito e capi delle multinazionali, vertici bancari e finanziari, senza contare l’impero dei mass media, la maggior parte dei servizi segreti e delle forze armate. Farebbero parte del sistema anche i maggiori responsabili dei principali gruppi religiosi, nonché i boss dei cartelli criminali mafiosi. «Vicino a loro c’è sempre almeno un emissario della cerchia ristretta, della “fratellanza”, da cui dipende il loro gruppo». E’ un uomo «al quale non si può dire di no, mai: nemmeno il presidente degli Stati Uniti può dire di no a un certo assistente o collaboratore, mai». A volte, aggiunge Carotenuto, il politico non capisce neppure perché gli viene ordinato di fare certe cose, in apparenza senza senso; ma obbedisce sempre, puntualmente premiato con «ricche porzioni di potere materiale».Più a valle ancora, nella serie di gironi danteschi rappresentati da Carotenuto, ci sono i semplici “mercenari” reclutati per singole missioni. E quindi – ultimo anello della catena – ci siamo noi, il resto dell’umanità: «Se non ci fossimo noi, coi nostri attuali comportamenti, a fare da base a ognuna di quelle piramidi, non esisterebbero neppure». L’autore le chiama “forme-impero”, “piramidi del male”. Tutti noi, inconsapevolmente, ne facciamo parte. Come? Lasciando che la nostra coscienza continui a dormire: «Tutti gli spazi della nostra vita non occupati dalla nostra coscienza, dalle nostre azioni e dai nostri pensieri vigili, in direzione del bene, della crescita della coscienza nostra e degli altri intorno a noi, sono il campo di manovra delle forze oscure. Ogni mancanza di amore e di coscienza, da parte nostra, è un mattone delle piramidi del male, che approfittano immediatamente delle nostre omissioni, delle nostre assenze, dei nostri egoismi». Basta poco: fidarsi di quello che il potere racconta, lasciarsi gestire, delegare ai “poteri oscuri” l’orientamento della nostra vita, delle nostre scelte anche politiche, del nostro lavoro, del nostro tempo. «Il loro potere deriva dal sangue che ci succhiano, che sono le nostre energie economiche, fisiche, vitali e psichiche. Ma siamo sempre noi a porgere il collo, inconsciamente, a queste vere e proprie “piramidi di vampiri”».Carotenuto le chiama anche “forze dell’ostacolo”: in apparenza soltanto negative, “demoniache”, ma in realtà – per quanto abominevoli – anch’esse funzionali, in ultima analisi, alla “strategia del risveglio” con cui, silenziosamente, l’umanità sarebbe alle prese. Solo lo stato di crisi, infatti, mobilita le risorse interiori, altrimenti dormienti. Il male, in funzione del bene: una visione filosofica tipicamente orientale, in Occidente abbracciata per lo più dalle correnti minoritarie, esoteriche, come il templarismo (San Bernardo che non uccide il diavolo, ma lo doma tenendolo al guinzaglio, incatenato). Il libro di Carotenuto sorvola sui nomi, preferendo uno sguardo prospettico e teorico. Non denuncia direttamente singoli “colpevoli”, ma descrive il meccanismo che li produce – e lo fa ricorrendo a una visione “animica”, di tipo spiritualistico, insistendo nella convinzione che (al di là dell’apparenza) proprio la dimensione spirituale sia quella dotata di maggiore concretezza, come il super-potere della “piramide” ben sa, assicura l’autore.Quelli a cui manca questa consapevolezza, invece, siamo proprio noi: non abbiamo ancora compreso l’immenso potenziale, anche pratico, di una forza non convenzionale chiamata “amore”, capace di prodigiosi contagi benefici – quelli che la “piramide oscura” teme così tanto, al punto da traumatizzarci anche col terrore diffuso, per spezzare le “reti invisibili, amorevoli”, destinate infine a vincere. E’ infatti questo il messaggio dell’autore: la “foresta” sarà anche silenziosa, ma ultimamente sta crescendo a ritmi inimmaginabili. Milioni di individui, dice Carotenuto, attraverso la condivisione di conoscenze ed esperienze solidali stanno espandendo in profondità la loro coscienza, verso un’evoluzione impensabile dell’umanità, senza più odio. Si avvicina la fine delle “forme-impero”, come Roma (il contario di Amor) trasformatasi in un altro impero, con l’alibi di una religione storicamente manipolata, modellata per riprodurre all’infinito lo schema del dominio, quello dei Maghi Neri? Carotenuto ci crede: il male è scatenato, nel mondo, e questo provoca ondate di angoscia e di egoismo. Ma le “armate bianche” – così le chiama – sono entrate in azione, e spingeranno ognuno di noi a sottrarsi al potere delle “piramidi oscure”, cambiando il modo di pensare la propria vita e cominciando ad amare il prossimo. Questo farà crollare l’architettura dell’inferno che ci tiene prigionieri della paura.(Il libro: Fausto Carotenuto, “Il mistero della situazione internazionale. Come portare la spiritualità in politica”, Uno Editori, 247 pagine, euro 16,90).Fa più rumore un albero che cade, lo sappiamo: l’immensa foresta cresce in silenzio. Oggi però di alberi ne cadono a migliaia, tutti i giorni. E’ un fragore spaventoso, che provoca smarrimento. Il che non è casuale: più che il legname, infatti, al taglialegna interessa proprio la paura che il crollo provoca. Guerre, disperazione, crisi economiche accuratamente progettate. Ma l’indotto globalizzato della strage quotidiana, il “core business del male”, non è nemmeno il lucro: l’obiettivo numero uno è lo scoraggiamento di massa, planetario. La resa dell’umanità. I trilioni di dollari contano, eccome – sono la lussuosa paga dei grandi mercenari, gli strumenti della “piramide oscura”. Al cui vertice però siedono tenebrosi “sacerdoti”, i Maghi Neri, il cui vero “fatturato” non è misurabile in denaro, ma in dolore. La loro missione: sabotare le connessioni vitali, amorevoli, tra persone e popoli. Da questa prospettiva, decisamente inconsueta, Fausto Carotenuto fotografa, a modo suo, il senso della grande deriva mondiale che stiamo vivendo, di cui spesso stentiamo a cogliere il significato. Ma non lasciamoci spaventare, aggiunge: se il frastuono è in aumento, se gli “architetti del buio” stanno “esagerando”, è perché cominciando ad avere paura del nostro risveglio.
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Perché gli strateghi dell’orrore hanno tanta paura di Trump
Basta guardare chi “spara” su Trump per convincersi che “The Donald” sia davvero l’unica alternativa possibile alla “guerra infinita”, inaugurata dall’élite Usa all’indomani dell’11 Settembre, casus belli della spaventosa strategia della tensione diffusa senza tregua, a livello internazionale, attraverso sigle che vanno da Al-Qaeda all’Isis, passando per le carneficine in Afghanistan, Iraq, Somalia, Yemen, Libia e Siria. «Nessuno di noi voterà per Trump», hanno annunciato 50 ex funzionari repubblicani della sicurezza nazionale, schierati con la Clinton. Tra questi l’ex direttore della Cia, Michael Hayden, l’ex presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, e il famigerato John Negroponte, grande stratega del terrore in Centramerica, coi finanziamenti occulti ai Contras e l’occultamento degli abusi contro i diritti umani commessi da agenti addestrati dalla Cia in Honduras negli anni ‘80. Per Hillary Clinton, una tifoseria da film dell’orrore. «Non sappiamo perché Trump apprezzi Putin», ha detto Hillary. L’annuncio della Clinton, secondo un analista americano come Stephen Lendman, «spiega molto del perché il partito della guerra degli Stati Uniti stia temendo Trump».Il tycoon col parrucchino ha definito la Nato “obsoleta”? Certo: infatti «può tentare di normalizzare i legami con la Russia». Donald Trump «non è un pacifista, ma difficilmente inizierebbe la Terza Guerra Mondiale», scrive Lendman, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «Comparato alla Clinton, è la minore di due forze oscure. Bisogna dargli merito di volere un riavvicinamento con la Russia e non lo scontro, a condizione che riesca ad andare fino in fondo se eletto presidente». Il suo potenziale spostamento geopolitico, continua Lendman, ha avversari come l’ex direttore Cia, Michael Morell, che lo definisce «un agente inconsapevole della Federazione Russa», e quindi costituisce «una minaccia per la sicurezza nazionale». Aggiunge Lendman: «I neoconservatori come Morell, la Clinton e molti altri che infestano Washington, credono che le iniziative di pace che guadagnano forza rappresentino la più grande minaccia geopolitica all’America – soprattutto se pongono fine agli annosi rapporti contraddittori con la Russia».Per Morell e soci, “The Donald” non è qualificato per gestire la politica estera: «Sarebbe un presidente pericoloso e metterebbe a rischio la sicurezza e il benessere del nostro paese». Secondo i 50 firmatari dell’ultra-destra, autori del manifesto anti-Trump, l’avversario della Clinton «indebolirebbe l’autorità morale degli Stati Uniti come leader del mondo libero», anche prché «ha poca comprensione degli interessi nazionali dell’America, le sue complesse sfide diplomatiche, le sue indispensabili alleanze e dei valori democratici su cui deve basarsi la politica estera degli Stati Uniti». Peggio ancora: «Si complimenta insistentemente con i nostri avversari e minaccia i nostri alleati ed amici». Ergo: «Se arrivasse allo Studio Ovale sarebbe il presidente più sconsiderato della storia americana». Tutto questo, perché crede che la Nato sia “obsoleta” e perchè favorisce la normalizzazione delle relazioni con la Russia. «La massima priorità dell’umanità è di evitare un’altra guerra globale», osserva Lendman. Guerra che, se scoppiasse, «probabilmente sarebbe con armi nucleari e minaccierebbe la sopravvivenza del genere umano».Non è un’ipotesi remotissima: «Le probabilità per l’impensabile sono fin troppo alte per rischiare sotto Hillary, se dovesse succedere ad Obama. Fin dagli anni ‘90 i suoi pessimi primati dimostrano quanto sia una guerrafondaia pazza scatenata, estremamente ostile alla Russia, alla Cina e a tutti gli altri Stati sovrani indipendenti». La conosciamo, Hillary Clinton: «La sua strategia geopolitica preferita è la guerra. È favorevole all’uso di armi nucleari e alle aggressioni della Nato, guidata dagli Stati Uniti, “per preservare il nostro stile di vita”». E Trump? Ha risposto ai firmatari della lettera dicendo che sono «quelli a cui il popolo americano dovrebbe chiedere le risposte sul perché il mondo sia un disastro». Li ringraziamo per essersi fatti avanti, aggiunge Trump, così almeno «chiunque, nel paese, sa a chi dare la colpa di rendere il mondo un posto così pericoloso». Non sono «nient’altro che le élite fallite di Washington che cercano di aggrapparsi al proprio potere».Ha ragione, scrive Lendman: «Molti di loro sono responsabili delle guerre di aggressione pre-e-post 11 Settembre – estremisti anti-pace che dovremmo denunciare tutti». La Clinton? «E’ la scelta dell’establishment come presidente. Probabilmente succederà ad Obama con mezzi leciti o illeciti». Se invece vincesse Trump, a sorpresa, «probabilmente non si discosterà molto dalle tradizionali politiche interne ed estere degli Stati Uniti». Inutile illudersi: «I candidati dicono qualsiasi cosa per farsi eleggere». Ma poi, «una volta in carica, continuano i loro affari sporchi come al solito». Eppure, conclude Lendman, «un’inconcepibile guerra globale è molto più probabile sotto la Clinton che sotto di lui». Ecco perché «è fondamentale contrastare la sua candidatura alla più alta carica della nazione o a qualsiasi altra carica pubblica».Basta guardare chi “spara” su Trump per convincersi che “The Donald” sia davvero l’unica alternativa possibile alla “guerra infinita”, inaugurata dall’élite Usa all’indomani dell’11 Settembre, casus belli della spaventosa strategia della tensione diffusa senza tregua, a livello internazionale, attraverso sigle che vanno da Al-Qaeda all’Isis, passando per le carneficine in Afghanistan, Iraq, Somalia, Yemen, Libia e Siria. «Nessuno di noi voterà per Trump», hanno annunciato 50 ex funzionari repubblicani della sicurezza nazionale, schierati con la Clinton. Tra questi l’ex direttore della Cia, Michael Hayden, l’ex presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, e il famigerato John Negroponte, grande stratega del terrore in Centramerica, coi finanziamenti occulti ai Contras e l’occultamento degli abusi contro i diritti umani commessi da agenti addestrati dalla Cia in Honduras negli anni ‘80. Per Hillary Clinton, una tifoseria da film dell’orrore. «Non sappiamo perché Trump apprezzi Putin», ha detto Hillary. L’annuncio della Clinton, secondo un analista americano come Stephen Lendman, «spiega molto del perché il partito della guerra degli Stati Uniti stia temendo Trump».
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Mai sprecare una bella crisi: ecco cos’hanno in mente
“Draghi vuole un Nuovo Ordine Mondiale che i populisti ameranno odiare”: così “Bloomberg” all’indomani del Brexit. «Mai sprecare una bella crisi, e il Brexit lo è», scrive Maurizio Blondet: «I globalizzatori sono dunque all’attacco: mentre gli europeisti (che sembrano essere la cosca perdente) cercano di cavalcare la crisi per instaurare “più Europa”, Draghi e complici puntano al Nuovo Ordine Mondiale. Ciò sarà venduto al pubblico come “necessario coordinamento fra le banche centrali”, in seguito ad un collasso finanziario globale che è stato già (deliberatamente?) innescato». Per “Bloomberg”, oggi le banche centrali sono ancora «governate da leggi concepite in patria, che richiedono loro di perseguire certi scopi, a volte espliciti, in genere legati all’inflazione e alla disoccupazione». Per di più, «devono rispondere ai legislatori nazionali, eletti». Il che è un guaio per i banchieri globali, commenta Blondet sul suo blog. Ecco perché, ora, «gli obbiettivi a breve termine dovrebbero essere sostituiti dagli obbiettivi globali». E cioè: più recessione e più disoccupazione. «La crisi ci farà cadere dalla padella dell’euro alla brace della moneta globale governata contro gli interessi dei popoli».Brandon Smith, economista e blogger, sostiene che il Brexit sia stato un evento artificiale, per preparare deliberatamente il prossimo collasso, che indurrà tutti – media e i governi – a «implorare il governo unico mondiale». Idea non peregrina, continua Blondet: come se l’uscita del Regno Unito dalla Ue sia stata voluta da Buckingham Palace «per posizionare la City come centrale globale di negoziazione dello yuan». La valuta cinese, infatti, «farà parte del paniere di monete che costituirà la moneta globale digitale, una volta tramontato il dollaro». Pechino s’è affrettata ad esprimere il proposito di collaborare, con la sua Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), con la Banca Mondiale? E’ la prova, per Smith, che «i cinesi non hanno mai avuto l’intenzione di fare di fare della Aiib un contro-Fmi», dato che «i cinesi lavorano con i globalizzatori, non contro di essi». Sta cambiando tutto. Anche per questo, oggi, Tony Blair viene scaricato come criminale di guerra 12 anni dopo l’Iraq. «Allo stesso modo, l’Unione Europea viene abbandonata come un guscio vuoto». Persino Schaeuble dice: se alcuni Stati membri vogliono perseguire le loro politiche al di fuori delle istituzioni europee, che lo facciano pure. «Una Ue ridotta ad accordi fra governi, adesso gli va benissimo».«Se il progetto è quello indicato da Bloomberg – salto nella globalizzazione totalitaria – si capisce anche l’imprevista pugnalata di Draghi al Montepaschi, a cui ha richiesto, ordinato, di liberarsi di 10 miliardi di crediti inesigibili: certo con ciò ha precipitato il fallimento della banca (del Pd), e magari il collasso del sistema bancario italiano, il più fragile, e non può non averlo fatto apposta», scrive Blondet. «Con ciò ha decretato anche la disfatta di Matteo Renzi. Deliberatamente ha pugnalato alla schiena il giovine rottamatore, come già fece con il vecchio Berlusconi». Come Blair, Juncker e Schulz, «simili personaggi non servono più», se l’Ue si sbriciola in favore della globalizzazione definitiva. «Anche Matteo Renzi sarà dato in pasto alle folle inferocite, e ai suoi sicari di partito», con un’Italia precipitata «nel collasso del suo sistema bancario senza un governo funzionante, e magari – il che è lo stesso – con un governo grillino eletto a furor di popolo». “Mai sprecare una bella crisi”. Meglio aggravarla, piuttosto che alleviarla – così sospetta Brandon Smith. «Non a caso Soros continua a dire che sta per arrivare la catastrofe. Non a caso il Fondo Monetario e la Banca dei Regolamenti Internazionali hanno “lanciato l’allarme” prevedendo un crash colossale nel 2016». Previsioni di crisi difficilmente sballate, «perché sono loro che pongono le condizioni perché esplodano».“Draghi vuole un Nuovo Ordine Mondiale che i populisti ameranno odiare”: così “Bloomberg” all’indomani del Brexit. «Mai sprecare una bella crisi, e il Brexit lo è», scrive Maurizio Blondet: «I globalizzatori sono dunque all’attacco: mentre gli europeisti (che sembrano essere la cosca perdente) cercano di cavalcare la crisi per instaurare “più Europa”, Draghi e complici puntano al Nuovo Ordine Mondiale. Ciò sarà venduto al pubblico come “necessario coordinamento fra le banche centrali”, in seguito ad un collasso finanziario globale che è stato già (deliberatamente?) innescato». Per “Bloomberg”, oggi le banche centrali sono ancora «governate da leggi concepite in patria, che richiedono loro di perseguire certi scopi, a volte espliciti, in genere legati all’inflazione e alla disoccupazione». Per di più, «devono rispondere ai legislatori nazionali, eletti». Il che è un guaio per i banchieri globali, commenta Blondet sul suo blog. Ecco perché, ora, «gli obbiettivi a breve termine dovrebbero essere sostituiti dagli obbiettivi globali». E cioè: più recessione e più disoccupazione. «La crisi ci farà cadere dalla padella dell’euro alla brace della moneta globale governata contro gli interessi dei popoli».
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Golpe in Brasile, il Mario Monti locale è nato in Israele
«A ulteriore conferma che in Brasile c’è un clima da colpo di Stato e non un avvicendamento qualsiasi, ecco una notizia che la quasi totalità dei media mondiali ha ignorato sebbene provenga da una fonte clamorosa». Lungi dal limitarsi agli affari correnti, il governo del presidente ad interim Michel Temer, come primo provvedimento, ha deciso la nomina del nuovo presidente della banca centrale: «Si tratta di un nativo israeliano, Ilan Goldfein, esponente di spicco della maggiore banca privata brasiliana». Goldfein, scrive Pino Cabras su “Megachip”, ha «un curriculum da reggi-sacco del Fmi e della Banca Mondiale». La notizia è stata anticipata dal quotidiano di Tel Aviv “Yedioth Ahronoth”, mentre è stata ignorata dall’intera stampa mondiale. In Brasile, però, «non si registrano prese di posizione di politici brasiliani, nemmeno quelli spodestati dal golpe». Di certo, aggiunge Cabras, il neo-designato Goldfein «è una figura organica alle classi che vogliono distruggere tutto quello che si è costruito nelle presidenze di Lula e di Dilma». Il nuovo presidente del Banco Central do Brasil già tuona contro la corruzione come causa di tutti i mali e annuncia sadicamente che la classe media dovrà «affrontare la decimazione dei suoi sogni».«E’ la solita litania neoliberista sul popolo che vive al di sopra dei propri mezzi», annota Cabras. «Certo sarebbe curioso vedere questo paladino del rigore e della pulizia morale mentre riceve l’incarico dalle mani sporchissime del neogoverno, guidato da politici pieni di carichi penali per corruzione, a partire dall’azzimatissimo “asset” degli Usa, Temer». Quanto oro brasiliano a avrà a disposizione, Goldfein? «Di certo potrà contare su grandi riserve di bronzo, nelle facce dei nuovi governanti usurpatori, e forse nella sua». Il super-banchiere, scrive Itamar Eichner su “Yedioth Ahronoth”, è stato capo-economista di Itau, la più grande banca privata del Brasile, quindi assistente del governatore della Banca del Brasile, nonché consulente per la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Formatosi al Mit di Boston, culla del neoliberismo che sta facendo a pezzi la sovranità degli Stati imponendo privatizzazioni e tagli selvaggi alla spesa pubblica, Goldfein punta sull’export, come la Germania: «L’economia brasiliana è enorme, ma è troppo chiusa: esportiamo solo il 15% del nostro prodotto interno lordo, il che non è molto».Come è noto, proprio la crescita fondata sulle esportazioni – anziché sulla domanda interna – ha necessità di fortissime compressioni salariali (in Germania i “mini-job” da 400 euro, in Italia il Jobs Act) per reggere la concorrenza internazionale abbattendo in modo drammatico il costo del lavoro. Come da copione, dunque, Goldfein prepara il “rigor montis” in salsa carioca, la politica del rigore: «La classe media, che aveva pensato di diventare ricca e le cui aspirazioni stavano per avverarsi, deve ora affrontare la decimazione dei suoi sogni». Aggiunge il giornale israeliano: Goldfein ha stimato che, per uscire «con successo» dalla crisi attuale, il governo «dovrà prendere misure impopolari, come l’aumento delle tasse, tagli al bilancio e l’innalzamento dell’età di pensionamento». Suona familiare? Per arrivare a questo, naturalmente, serve sempre un cataclisma spettacolare, una Tangentopoli, un Rubygate. L’importante è che poi arrivi il Commissario, a spiegare che “la ricreazione è finita”. D’ora in poi tutti più poveri, dunque. Tranne, ovviamente, i mandanti del Commissario.«A ulteriore conferma che in Brasile c’è un clima da colpo di Stato e non un avvicendamento qualsiasi, ecco una notizia che la quasi totalità dei media mondiali ha ignorato sebbene provenga da una fonte clamorosa». Lungi dal limitarsi agli affari correnti, il governo del presidente ad interim Michel Temer, come primo provvedimento, ha deciso la nomina del nuovo presidente della banca centrale: «Si tratta di un nativo israeliano, Ilan Goldfein, esponente di spicco della maggiore banca privata brasiliana». Goldfein, scrive Pino Cabras su “Megachip”, ha «un curriculum da reggi-sacco del Fmi e della Banca Mondiale». La notizia è stata anticipata dal quotidiano di Tel Aviv “Yedioth Ahronoth”, mentre è stata ignorata dall’intera stampa mondiale. In Brasile, però, «non si registrano prese di posizione di politici brasiliani, nemmeno quelli spodestati dal golpe». Di certo, aggiunge Cabras, il neo-designato Goldfein «è una figura organica alle classi che vogliono distruggere tutto quello che si è costruito nelle presidenze di Lula e di Dilma». Il nuovo presidente del Banco Central do Brasil già tuona contro la corruzione come causa di tutti i mali e annuncia sadicamente che la classe media dovrà «affrontare la decimazione dei suoi sogni».
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Chi comanda il mondo: il potere oscuro esce allo scoperto
Si può definire in tanti modi: governo ombra, stato profondo, squadra segreta. Qualunque sia il nome, l’idea è semplice: dietro la facciata del governo apparente che esercita il potere, c’è un gruppo non eletto, privo di responsabilità, in gran parte sconosciuto, che lavora per il perseguimento di obiettivi a lungo termine, qualsiasi sia il partito politico o il fantoccio in carica. All’interno della temuta comunità dei “teorici della cospirazione”, l’idea è emersa qua e là nel corso degli anni. L’assassinio di Jfk ha dato origine a molti resoconti di tipo confidenziale e a rivelazioni su “The Secret Team”. Lo scandalo Iran-Contra ha portato ad un documentario di Bill Moyers sul governo segreto che dopo 19 anni vale ancora la pena guardare. E’ stato anche apertamente riconosciuto che il 9/11 era stato reso operativo un “governo ombra”. Ma negli ultimi anni ha avuto luogo uno strano fenomeno, che si è intensificato negli ultimi mesi: l’idea di uno “stato profondo” o di un “governo ombra” che controlla la politica, anche negli Stati Uniti, sta diventando mainstream.
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Prodi & D’Alema puntano su Tito Boeri per deporre Renzi
La scena che vi stiamo per descrivere si ripete ormai da un po’ di settimane con una certa continuità. E da quando i mercati hanno deciso di punire con decisione le Borse europee, e soprattutto quella italiana, facendo registrare delle brusche oscillazioni sui titoli bancari (ieri Milano ha chiuso a meno 5,63 per cento) e rimettendo in movimento lo spread tra titoli di stato italiani e titoli di stato tedeschi (spread che ieri ha superato i 150 punti base), capita sempre più spesso che i collaboratori più stretti del presidente del Consiglio si ritrovino a rispondere a domande brusche come quelle ricevute in queste ore, a Roma, da diversi ambasciatori. Il tema è il seguente e la domanda è stata rivolta ancora una volta ieri, da parte di un importante ambasciatore, a un esponente del Pd vicino al premier: “Ci risulta ci sia un piano per far cadere questo governo. Siete sicuri che il presidente del Consiglio non faccia la fine che ha fatto Berlusconi nel 2011?”. Il collaboratore di Renzi anche in questa occasione ha risposto con un sorriso e ha argomentato l’inesistenza di questa eventualità. La scena si ripete ormai da settimane con vari pezzi più o meno pregiati della diplomazia straniera.Ma al contrario di quello che si potrebbe credere, la ragione per cui si è diffusa, anche in molte ambasciate romane, la voce che ci sia qualcuno che stia provando a lavorare ai fianchi il presidente del Consiglio non è legata a un’invenzione di qualche malelingua diplomatica. E’ legata, piuttosto, alla presenza sulla scena internazionale di un pezzo di establishment italiano, un po’ sgangherato, che da alcune settimane tende a sponsorizzare la tesi, esplicita, che ci sia una connessione precisa tra lo stato di salute delle Borse italiane e lo stato di salute del governo. Un pezzo di establishment, dicevamo, guidato da uno speciale club con ottimi contatti in Europa formato da ex presidenti del Consiglio (Enrico Letta, Massimo D’Alema, Romano Prodi) che da tempo, a vario titolo, sostiene, in modo più o meno implicito, che – per salvare l’Italia e non condannare il nostro paese a una nuova recessione e a un imminente collasso economico – sia necessario, urgentissimo, preparare la strada a un’alternativa all’attuale presidente del Consiglio. Commissariare, adesso.L’idea che D’Alema, Letta e Prodi – spalleggiati da un establishment in movimento e in leggero riposizionamento che si riconosce negli editoriali di Eugenio Scalfari e in molti fondi del Corriere della Sera improvvisamente critici con il governo – possano ambire a innescare una scintilla capace di far saltare Renzi può apparire goffa e sconclusionata anche perché i tre ex presidenti del Consiglio si trovano ormai distanti anni luce dal Parlamento e dai giochi di palazzo e difficilmente sarebbe sufficiente una raffica di interviste o una mitragliata di dichiarazioni sulle agenzie, come quelle registrate negli ultimi giorni, per far cambiare il volto di un governo (anche se Enrico Letta, per esempio, mantiene da tempo ottimi rapporti con il Mef, dove si trovano diversi tecnici che Letta aveva a Palazzo Chigi, e con lo stato maggiore del Quirinale). Eppure, a credere alla possibilità di uno switch off, non sono soltanto gli amici del club degli ex premier e alcuni ambasciatori ma è anche un personaggio particolare, un tecnico di lusso con il profilo da perfetto politico, che da mesi prova ad accreditarsi, anche con il Quirinale, come il sostituto naturale di Matteo Renzi in caso di improvviso collasso di questo governo.Come se fosse lui, in un certo senso, il Mario Monti del 2016. Il nome del tecnico è quello dell’attuale presidente dell’Inps Tito Boeri, economista di fama internazionale, professore ordinario di Economia del lavoro all’Università Bocconi, già consulente del Fondo monetario internazionale, della Banca mondiale, della Commissione europea, già senior economist all’Ocse dal 1987 al 1996, già direttore della Fondazione Rodolfo Debenedetti, ottimi rapporti con il mondo Rep. e ottimi legami con la sinistra non solo del Pd (ai tempi della riforma del mercato del lavoro, la proposta alternativa al Jobs Act, la legge Boeri-Garibaldi, fu sponsorizzata non solo dalla sinistra del Pd ma persino dalla sinistra a sinistra del Pd, fronte Pippo Civati). Nonostante sia stato proprio Renzi a nominarlo a capo dell’Inps – anche se la decisione è stata presa più sulla base della rinuncia degli altri candidati che su quella di un investimento specifico di Palazzo Chigi – dal giorno del suo insediamento all’Istituto nazionale della previdenza sociale Boeri ha scelto di muoversi con un passo non da tecnico puro ma da tecnico politico. Già pochi mesi dopo la sua nomina (24 dicembre 2014) ha cominciato a intestarsi alcune battaglie squisitamente politiche: lotta ai vitalizi (“Dimezziamo quelli sopra gli 80 mila euro”), lotta alle pensioni d’oro (“Ricalcoliamo tutte le pensioni retributive o miste con il solo calcolo contributivo”), lotta a favore dell’introduzione del reddito minimo (“Andrebbe introdotto un reddito minimo garantito per gli over 55”).Al di là delle dichiarazioni, che quasi somigliano comunque a una bozza di agenda di governo, la tentazione di Boeri (fratello di Stefano, architetto, ex assessore della giunta Pisapia) di svestire i panni del tecnico per indossare gli abiti del politico era già emersa esattamente due anni fa, quando il fondatore del sito Lavoce.info si illuse che le voci che lo davano come prossimo ministro del Lavoro del governo Renzi fossero vere – Boeri digerì a fatica la scelta fatta dal segretario del Pd di affidare invece quel ruolo a Giuliano Poletti. Oggi Tito Boeri coltiva una nuova illusione. E se da un lato il club delle prime mogli (D’Alema, Letta, Prodi) probabilmente non crede fino in fondo alla possibilità di spodestare Renzi da Palazzo Chigi (anche perché il presidente della Bce Mario Draghi, pur mantenendo alcune riserve nei confronti dell’atteggiamento del governo in Europa, non ha alcuna intenzione di triangolare neanche lontanamente con il partito della zizzania), dall’altro lato si può dire che il bocconiano Boeri sogna ormai da tempo di poter essere un giorno la guida di un governo alternativo a quello attuale (e poi chissà). Oggi i renziani sorridono, e sorridiamo anche noi. Ma se un domani dovesse esserci un qualche cortocircuito al governo il partito trasversale di Tito Boeri proverà in tutti i modi a trasformare il presidente dell’Inps nel Monti del 2016. Auguri, e figli spread.(Claudio Cerasa, “Chi vuol mandare in pensione Renzi”, da “Il Foglio” del 12 febbraio 2016).La scena che vi stiamo per descrivere si ripete ormai da un po’ di settimane con una certa continuità. E da quando i mercati hanno deciso di punire con decisione le Borse europee, e soprattutto quella italiana, facendo registrare delle brusche oscillazioni sui titoli bancari (ieri Milano ha chiuso a meno 5,63 per cento) e rimettendo in movimento lo spread tra titoli di stato italiani e titoli di stato tedeschi (spread che ieri ha superato i 150 punti base), capita sempre più spesso che i collaboratori più stretti del presidente del Consiglio si ritrovino a rispondere a domande brusche come quelle ricevute in queste ore, a Roma, da diversi ambasciatori. Il tema è il seguente e la domanda è stata rivolta ancora una volta ieri, da parte di un importante ambasciatore, a un esponente del Pd vicino al premier: “Ci risulta ci sia un piano per far cadere questo governo. Siete sicuri che il presidente del Consiglio non faccia la fine che ha fatto Berlusconi nel 2011?”. Il collaboratore di Renzi anche in questa occasione ha risposto con un sorriso e ha argomentato l’inesistenza di questa eventualità. La scena si ripete ormai da settimane con vari pezzi più o meno pregiati della diplomazia straniera.
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Vota il nazista che è in te: gli americani la sanno lunga
Scorciatoie, da Hitler a Donald Trump. Copione identico, per mietere consensi: il nemico è là fuori, e il nostro eroe vigilerà sulla nazione. «Per tutti coloro che temono e odiano con intensità e consapevolezza i musulmani (e la maggior parte delle persone non bianche) Trump può sembrare una persona sensibile: si batte contro l’Uomo Nero e permette agli americani di dormire sogni tranquilli», scrive il blog “InfoShop”. «Decenni di inarrestabile ed efficace propaganda militare hanno seminato i frutti maturi che Trump sta raccogliendo. Nel 2016 scopriremo quante mele marce riuscirà a scovare». Secondo la fonte statunitense, «ogni volta che l’Isis (o qualche gruppo affine) ammazza un americano o qualcuno di uno Stato alleato, la fama di Trump aumenta, con i suoi seguaci che affermano cose del tipo: “Anche se la gente non vuole ascoltarlo perché spesso ciò che dice è provocatorio, lui dice la verità e tiene d’occhio quei musulmani”». Il candidato repubblicano sarà anche imbarazzante, ma certo non è il primo. E una lunga storia, non segreta ma neppure messa in mostra, lega alcuni campioni americani al nazismo: dai boss di Wall Street al trasvolatore Lindbergh, fino al magnate Ford e ai pesi massimi di alcuni tra le maggiori multinazionali.In una singolare panoramica storica proprosta da “Mickey Z” e tradotta da “Come Don Chisciotte”, il blog “InfoShop” racconta di Fritz Kuhn, un veterano che nella Prima Guerra Mondiale combattè nell’esercito tedesco e il 20 febbraio 1939 arringò al Madison Square Garden 22.000 membri ferventi dell’associazione tedesco-americana «di fianco a un ritratto di George Washington alto 30 piedi, adornato di svastiche nere», e con 1.300 agenti di guardia all’esterno dell’edificio newyorkese. «Kuhn si assicurò un gran numero di fedeli seguaci “spiegando” come sia Lenin che J.P. Morgan fossero ebrei e che il vero nome di Franklin Delano Roosevelt fosse in realtà “Rosenfeld” (altre voci divulgate da Kuhn riguardavano la first lady: si vociferava, per esempio, che Eleanor passò al presidente la gonorrea “contratta da un negro” e che visitò Mosca per imparare “innominabili pratiche sessuali”)». Il proselitismo di Kuhn non passò inosservato al Terzo Reich, che lo aveva invitato alle Olimpiadi del 1936, dove potè incontrare il Führer. Ma non fu il solo filonazista: durante la Grande Depressione, padre Charles Coughlin pregava tutti i giorni per le paure degli americani, e ne parlava a 40 milioni di ascoltatori sintonizzati su 47 stazioni radio. Chiamava “comunista” il leader del partito laburista David Dubinsky, ricorda lo storico Robert Herzstein. «Quando un giornalista del “Boston Globe” chiese a Coughlin di provare questa accusa, venne preso a cinghiate in faccia».Anche se i suoi attacchi xenofobi gli fecero perdere parte dei suoi sostenitori, Coughlin rimase popolare e continuò ad inveire indisturbato contro “gli assassini e gli oppositori di Cristo”, continua “InfoShop”. Nel 1938 ristampò sul suo giornale “Social Justice” il noto trattato antisemita “I protocolli dei savi anziani di Sion”. Per i suoi sforzi, la stampa nazista lo nominò Coughlin “il commentatore radiofonico più potente d’America”. Nel frattempo, l’eroe dell’aria Charles Lindbergh avvicinò moltissimo gli Usa alla Germania nazista: «Quando godeva ancora del prestigio internazionale grazie al suo “Spirit of St. Louis”, Lucky Lindy venne invitato a visitare la Germania nel 1936 “a nome del generale Goering e del ministro dell’aviazione tedesca”. Dopo aver ampiamente pubblicizzato la potenza aerea tedesca, l’aquila solitaria Lindbergh fu onorata da Goering e invitata a partecipare alla cerimonia di apertura dei Giochi olimpici di Berlino, dove definì Hitler “un uomo di indubbia grandezza” che “aveva fatto molto per i tedeschi” e che rese la Germania “la nazione più interessante del mondo”». Lo storico Kenneth Davis ricorda che Lindbergh divenne un leader del movimento isolazionista “America First”, finanziato da Ford, il cui intento era quello di tenere gli Stati Uniti fuori dal conflitto mondiale. «In uno dei suoi discorsi Lindbergh disse agli ebrei americani di “chiudere il becco” e accusò “la stampa in mano agli ebrei” di spingere gli Stati Uniti verso la guerra».Nei suoi diari, Goebbels ne elogiava le gesta. «L’opinione pubblica negli Usa inizia a vacillare», scriveva il “profeta” di Hitler il 19 aprile 1941. «Gli isolazionisti sono molto attivi. Il colonnello Lindbergh rimane fedele ai suoi ideali con tenacia e coraggio. Un uomo d’onore!». E il 30 aprile 1941: «Lindbergh ha scritto a Roosevelt una lettera molto animata. E’ indubbiamente il più tenace oppositore del presidente». E ancora, l’8 giugno dello stesso anno: «Questi ebrei americani vogliono la guerra. E quando arriverà il tempo, con la guerra ci si strozzeranno. Ho letto una brillante lettera di Lindbergh a tutti gli americani. Spiega agli interventisti come se la caveranno. Stilisticamente magnificente. Quell’uomo ha qualcosa». Dopo che l’America entrò nella Seconda Guerra Mondiale, annota “InfoShop”, Lindbergh cominciò a venire deriso perché si era schierato con i nemici dell’America e l’opinione pubblica gli si rivoltò contro. «L’insegna pubblicitaria luminosa di Lindbergh in cima a un grattacielo di Chicago venne presto rinominata “l’insegna Palmolive”, e la montagna rocciosa del Colorado soprannominata “Picco Lindbergh” venne immediatamente ribattezzata “Picco dell’Aquila Solitaria”. Tuttavia il danno recato alla sua immagine fu contenuto grazie alle sue innumerevoli missioni come pilota nella guerra nel Pacifico. Alla fine la sua reputazione rimase intatta».«Parte della mia bellezza sta nel fatto che sono molto ricco», dice oggi Trump. In realtà, scrove il blog, «i “ricconi” mandavano avanti i loro loschi affari fascisti molto prima che Donald ricevesse il suo primo “piccolo prestito”». Nei decenni precedenti la Seconda Guerra Mondiale, «fare affari con la Germania di Hitler o l’Italia di Mussolini (o, per delega, con la Spagna di Franco) non creava scalpore ai dirigenti dell’industria, così come al giorno d’oggi non stupisce la vendita di hardware militare all’Arabia Saudita». Il giornalista investigativo Christopher Simpson afferma che «dagli anni Venti, svariati leader di Wall Street e dell’establishment della politica estera Usa mantennero stretti legami con la loro controparte tedesca, attraverso matrimoni combinati o condividendo gli investimenti», che in Germania aumentarono rapidamente dopo l’ascesa al potere di Hitler, incrementando addirittura del 48,5 % tra il 1929 e il 1940. «Alcune delle corporations statunitensi che investirono in Germania durante gli anni Venti furono la Ford, la General Motors, la General Electric, la Standard Oil, la Texaco, la Itt e la Ibm, e tutte miravano al crollo della manodopera e del partito della classe operaia. Numerose di queste aziende continuarono le loro operazioni in Germania durante la guerra, usando a volte la forza lavoro degli schiavi dei campi di concentramento, con pieno appoggio del governo americano».«Ai piloti veniva dato l’ordine di non colpire in Germania le fabbriche di proprietà americana», scrive Michael Parenti. «Così, Colonia venne quasi completamente rasa al suolo dai bombardamenti alleati ma lo stabilimento della Ford, che forniva equipaggiamento militare all’armata nazista, rimase indenne, così i civili tedeschi cominciarono ad usare lo stabilimento come riparo antiaereo». Sullivan e Cromwell, due tra le più potenti imprese legali di Wall Street dagli anni Trenta, «sostennero il fascismo globale». Allen e John Foster Dulles, i due fratelli che erano a capo dell’azienda, «boicottarono nel 1932 il matrimonio della sorella perché lo sposo era ebreo». I fratelli Dulles «fungevano da contatto con la Ig Farben, la ditta che forniva il gas letale usato nelle camere a gas naziste». Prima della guerra, «il fratello maggiore John Foster mandava telegrammi ai suoi clienti tedeschi che cominciavano con il saluto “Heil Hitler” e, nel 1935, negò con superficialità l’idea di una minaccia nazista in un articolo scritto per l’“Atlantic Monthly”». E nel 1939 dichiarò all’Economic Club di New York: «Dobbiamo accogliere e coltivare il desiderio della Nuova Germania di trovare nuove possibilità per le sue iniziative».Il fratello minore, Allen, che nel frattempo aveva incontrato il dittatore tedesco, promosse il concetto post-bellico che le multinazionali erano uno strumento della politica estera americana e, che per questo, dovevano essere immuni dalle legislazioni dei singoli Stati. «Questo concetto venne poi applicato a istituzioni quali la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio». Nel 1946 i fratelli Dulles ebbero un ruolo di spicco nella fondazione dell’intelligence americana e nel conseguente reclutamento dei criminali di guerra nazisti. Secondo “InfoShop”, però, «il sostenitore del Terzo Reich più simile a Trump fu Henry Ford, il magnate autocratico che disprezzava i sindacati, schiavizzava i suoi lavoratori e licenziava i dipendenti beccati a guidare macchine di altre case automobilistiche». Un antisemita dichiarato, convinto che gli ebrei corrompessero i “gentili” con «sifilide, Hollywood, gioco d’azzardo e jazz». Nel 1918, Ford comprò e diresse la testata “The Dearborn Independent”, «che diventò presto un forum antisemita». Nel loro libro “Chi finanziò Hitler”, James e Suzanne Pool citano il “New York Times”, che nel 1922 sostenne che «a Berlino vi erano voci ampiamente diffuse circa il finanziamento da parte di Henry Ford al movimento nazionalista antisemita di Adolf Hitler a Monaco».Nel suo romanzo su Ford “Il re macinino”, Upton Sinclair afferma che i nazisti ricevettero 40.000 dollari dal magnate per ristampare volantini antisemiti tradotti in tedesco, mentre altri 300.000 dollari vennero inviati a Hitler attraverso un nipote del Kaiser. «Adolf Hitler gli fu sempre grato, tanto da tenere una foto di grandi dimensioni del pioniere dell’automobile sulla sua scrivania». Il Kaiser sosteneva: «Consideriamo Heinrich (sic) Ford il leader del crescente movimento fascista in America». Hitler sperava un giorno di «importare truppe d’assalto negli Stati Uniti per aiutarlo a diventare presidente». Nel 1938, il giorno del suo settantacinquesimo compleanno, a Henry Ford venne conferita la Gran Croce dell’ordine supremo dell’ Aquila Tedesca dal Führer in persona. Fu il primo americano (il secondo fu James Mooney della Gm) e la quarta persona al mondo (tra queste, Mussolini) a ricevere il più grande riconoscimento concesso a cittadini non tedeschi. Conclude “Mickey Z”: «Spero non ci sia bisogno di dimostrare ulteriormente che il fascismo, la xenofobia e la demagogia sono americani quanto una torta di mele geneticamente modificata». Non fa accezione Trump, che «demonizza chi è già stato demonizzato» (i messicani, gli attivisti neri), e vede aumentare i consensi grazie a quel tipo di retorica.Scorciatoie, da Hitler a Donald Trump. Copione identico, per mietere consensi: il nemico è là fuori, e il nostro eroe vigilerà sulla nazione. «Per tutti coloro che temono e odiano con intensità e consapevolezza i musulmani (e la maggior parte delle persone non bianche) Trump può sembrare una persona sensibile: si batte contro l’Uomo Nero e permette agli americani di dormire sogni tranquilli», scrive il blog “InfoShop”. «Decenni di inarrestabile ed efficace propaganda militare hanno seminato i frutti maturi che Trump sta raccogliendo. Nel 2016 scopriremo quante mele marce riuscirà a scovare». Secondo la fonte statunitense, «ogni volta che l’Isis (o qualche gruppo affine) ammazza un americano o qualcuno di uno Stato alleato, la fama di Trump aumenta, con i suoi seguaci che affermano cose del tipo: “Anche se la gente non vuole ascoltarlo perché spesso ciò che dice è provocatorio, lui dice la verità e tiene d’occhio quei musulmani”». Il candidato repubblicano sarà anche imbarazzante, ma certo non è il primo. E una lunga storia, non segreta ma neppure messa in mostra, lega alcuni campioni americani al nazismo: dai boss di Wall Street al trasvolatore Lindbergh, fino al magnate Ford e ai pesi massimi di alcuni tra le maggiori multinazionali.
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Sciiti e sunniti, colpa loro. Noi occidentali? Innocenti, ovvio
“Se Allah avesse voluto una sola religione, al mondo, quella soltanto ci sarebbe”. Nel suo saggio sulle principali confessioni del pianeta, Paolo Franceschetti ricorda lo straordinario ecumenismo presente nel Corano, secondo cui “tutte le religioni sono mezzi che conducono alla stessa meta”. «Lo stesso Maometto, pur “prescelto da Dio”, aggiungeva: non compio miracoli, non servirebbe. Nonostante i suoi miracoli, nemmeno Cristo, il più grande dei profeti, è stato riconosciuto per ciò che era, ed è stato crocifisso». Ora torna in voga il refrain sullo “scontro di civiltà”, inaugurato nel 1996 da un esponente dell’élite come Samuel Huntington (“Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”) e reso tristemente celebre da Oriana Fallaci dopo l’11 Settembre. E oggi, nella narrazione mainstream frastornata da attentati e guerre a catena (Libia e Siria, Charlie Hebdo, Yemen, strage di Parigi del 13 novembre), lentamente affiora anche nei talkshow un nuovo capitolo, quello della guerra inter-islamica tra sciiti e sunniti. «Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale», scriveva Huntington. «Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro», anche perché «le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura».Superiorità occidentale? Sì, ma a mano armata: «L’Occidente – ammette ancora Huntington – non ha conquistato il mondo con la superiorità delle sue idee, dei suoi valori o della sua religione, ma attraverso la sua superiorità nell’uso della violenza organizzata, il potere militare». E attenzione: «Gli occidentali lo dimenticano spesso, i non occidentali mai». Lo sottolinea Paolo Barnard nel suo saggio “Perché ci odiano”, in cui intervista anche l’allora “numero tre” di Al-Qaeda: il mondo islamico ha ormai incorporato un rancore smisurato e più che giustificato verso l’Occidente, dopo aver subito – senza interruzione – un genocidio dopo l’altro, lo stupro di interi paesi e la razzia delle risorse (petrolifere, e non solo) grazie alla complicità di élite locali, i “raìs” che rinnegarono le istanze della decolonizzazione, restando al potere – dittature e monarchie – col granitico supporto occidentale. Una stagione di piombo, dopo la fine delle speranze accese dai leader terzomondisti arabi e africani sistematicamente uccisi o fatti uccidere dagli occidentali, perché scomodi: da Patrice Lumumba in Congo, liquidato dal Belgio per insediare Mobutu, fino a Thomas Sankara, in Burkina Faso (l’uomo che voleva azzerare il debito per i paesi poveri), assassinato col solito sistema, sicari locali armati da mandanti occidentali, francesi e americani.Il maggiore leader della storia egiziana moderna, Nasser, trascinò il mondo sull’orlo della guerra nel fatidico 1956: nazionalizzò il Canale di Suez per protesta contro la Banca Mondiale che rifiutava di finanziare una grande diga sul Nilo; per rovesciarlo manu militari, inglesi e francesi sbarcarono in forze a Port Said, ma furono fermati dall’Urss che intimò loro il ritiro immediato, pena l’impiego delle armi atomiche. Proprio il crollo dell’Unione Sovietica ruppe equilibri decennali, congelando al potere i vecchi autocrati, ancora sul trono o travolti solo ora dalle “primavere arabe”. Sempre in Egitto, il “faraone” Mubarak era stato il vicepresidente di Anwar Sadat, l’uomo della storica pace separata con Israele. Pagò con la vita, Sadat, e la sua fine mise sotto i riflettori, per la prima volta, la “jihad islamica”: Sadat fu ucciso nel 1981 da un killer jihadista. Meno di dieci anni dopo, l’Algeria schierò i carri armati nelle strade per annullare i risultati delle elezioni, che avevano clamorosamente incoronato il Fis, Fronte Islamico di Salvezza. Ma l’unico grande paese in cui l’Islam andò letteralmente al potere fu l’Iran, con la travolgente rivoluzione di Khomeini del 1979, guidata dal carismatico ayatollah (sciita) esiliato dal feroce regime dello “scià” Reza Pahlavi, a cui l’Occidente aveva imposto di eliminare il premier Mohammad Mossadeq, che aveva osato nazionalizzare il petrolio iraniano, saldamente in mano agli inglesi dal lontano 1908.Con Khomeini, l’identità religiosa si è trasformata anche in arma politica di autodifesa, da parte di paesi storicamente brutalizzati e rapinati dall’Occidente, che non ha mai neppure provato a sanare la devastante piaga della Palestina, martoriata fino al genocidio delle bombe al fosforo bianco sganciate anche sui bambini, dopo che a Gaza si è imposta (democraticamente, per via elettorale) la fazione sciita di Hamas. Appena più a nord, altri sciiti, quelli del partito armato di Hezbollah insediato in Libano, sono ora impegnati accanto ai russi nel sostegno militare del regime di Assad, esponente della componente sciita (alawyta) della Siria. Mentre nell’altro paese raso al suolo dalle bombe, l’Iraq, a maggioranza sciita, sono stati gli americani a emarginare, con la fine di Saddam, la componente sunnita, da cui si racconta sia partita l’ultima ondata jihadista che sta insanguinando il Medio Oriente e terrorizzando la Francia. Religione o potere? Secondo un eminente studioso come Francesco Saba Sardi, biografo di Picasso e traduttore di Simenon, Pessoa, Borges e Garcia Marquez, religione e potere compaiono insieme, nella storia della civiltà, insieme al terzo elemento: la guerra. Accade nel passaggio cruciale tra il paleolitico, abitato da cacciatori e raccoglitori, al neolitico, in cui l’uomo scopre l’agricoltura e quindi il bisogno di conquistare e difendere la terra. Nel saggio “Dominio”, Saba Sardi sostiene che proprio la religione nacque per conferire autorità al primo capo politico e militare della storia dell’umanità, il re-sacerdote.Se la “guida suprema” dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei, potrebbe essere classificato (come il Papa-re) nella categoria dei re-sacerdoti, è pur vero però che i “nemici” dei paesi islamici non professano, di fatto, alcuna religione: il biglietto da visita dell’Occidente “cristiano” non è il crocifisso, ma una valigia di dollari e una flotta di droni che sganciano missili. Tre milioni di vittime, fra i musulmani, solo negli ultimi anni. E’ sempre l’Occidente – l’ha ricordato un comico, Maurizio Crozza, citando Hillary Clinton – ad aver “fabbricato”, in Afghanistan, il fondamentalismo islamico da cui poi nacquero i Talebani e il loro profeta, l’ex uomo Cia più famoso del mondo, Osama Bin Laden. Eppure, di fronte ai fallimenti catastrofici in Medio Oriente e alla recente paura quotidiana per gli attentati, un’Europa smemorata e incerta, guidata dall’evanescente Obama, resta tra le nebbie di una politica reticente e disonesta: preferisce tacere sul ruolo di Usa, Francia e Turchia nella progettazione a tavolino della “guerra civile” in Siria, per parlare piuttosto di scontro inter-islamico tra sciiti e sunniti, come se si trattasse di una lite di famiglia tra parenti lontani, stravaganti e fanatici, fingendo di non sapere come mai, molti di loro, ce l’hanno tanto con noi.Posto che nessuno potrebbe mai farsi saltare in aria senza essere imbottito di anfetamine o debitamente manipolato con tecniche psicologiche potentissime, come quelle messe a punto nel programma Mk-Ultra della Cia, non occorre un Premio Nobel per riconoscere le ragioni di un risentimento vastissimo, motivato da decenni di mostruose sofferenze inflitte. «La differenza tra noi e voi è semplice: noi non abbiamo paura di morire», dice un jihadista. Può succedere, sostiene Marco Travaglio, se scopri di non avere più niente da perdere, perché qualcuno ti ha condotto alla disperazione, privandoti di tutto. «Aiutiamoli a casa loro», dicono – senza ridere – leader come Salvini, come se non sapessero in che modo li stiamo già “aiutando”, a casa loro, da decenni. Enrico Mattei, che alla parola “aiuto” dava un significato diverso (non rapina, ma scambio equo) fu fatto esplodere in aria, sul suo aereo. Ma era tanto tempo fa. Troppo, per ricordare. Meglio allora i pettegolezzi sulla lite di famiglia tra i sunniti, cioè gli eredi di Abu Bakr, amico e suocero di Maometto, e gli sciiti, seguaci dell’imam Alì, cugino e genero del Profeta. La divisione religiosa risale al VII secolo dopo Cristo, ma è “esplosa” soltanto adesso, da quando i paesi islamici del Vicino Oriente si sono accorti, definitivamente, della natura dell’“aiuto a casa loro” fornito dal potere occidentale.Il nostro è un potere non certo religioso, ma finanziario e militare, come ricorda Huntington, peraltro co-autore dello storico saggio “La crisi della democrazia”, commissionato dalla Trilaterale e utilizzato come Vangelo dall’oligarchia mondialista, quella che ha messo fine alla sovranità nazionale anche archiviando la sinistra dei diritti, quella che – per inciso – sosteneva le cause del terzo mondo, inclusa quella palestinese, che sta a cuore tanto ai sunniti quanto agli sciiti. Ma attenzione: buttarla in politica non risolve sempre tutto. Lo sostiene un osservatore speciale come Fausto Carotenuto, già analista di primo piano dei servizi segreti, ora animatore del network “Coscienze in rete”: conta anche, e moltissimo, la dimensione “invisibile”, quella dei pensieri. Angoscia, paura e rabbia, oppure speranza e fiducia: il “potere” della preghiera. I musulmani sono un miliardo e mezzo, nel mondo, e pregano Allah cinque volte al giorno, tutti i giorni, a ore fisse. «Ogni fedele – dice Paolo Franceschetti – sa che, mentre sta pregando, lo sta facendo insieme a tutti gli altri, in ogni parte del mondo. Questo dona una grande forza interiore, demolisce la solitudine».Per il massone Gianfranco Carpeoro, l’errore fatale dei cattolici fu quello di attaccare gli arabi con le Crociate. San Francesco d’Assisi viaggiò fino a Damietta, sul Nilo, per fare la pace coi musulmani. Che, all’imperatore esoterista Federico II, regalarono una scorta d’onore: la guarda armata del capo del Sacro Romano Impero era composta da guerrieri musulmani. Emblematico, sotto questo aspetto, il ruolo-ponte dei Sufi, confraternita iniziatica di origini antichissime, pre-islamiche, capace di sviluppare una particolarissima forma di sincretismo, oltre che una sorta di diplomazia di pace. «Sapendo che tutto è Dio, cerco Dio per trovare il tutto», sintetizzava Gabriele Mandel, eminente studioso e leader dei “dervisci” italiani, per tutta la vita impegnato nel dialogo interreligioso. Dagli islamici abbiamo molto da imparare, aggiunge Franceschetti: «Per loro la carità è un obbligo, vivono una straordinaria solidarietà quotidiana. Da sempre, nei paesi islamici, il fisco è progressivo: i ricchi pagano più tasse. E la finanzia islamica non è speculativa come la nostra, l’etica la impone il Corano: se non riesci più a a pagare il muto, la banca si riprende la casa ma si ferma lì, non ti perseguita con gli interessi. Non a caso, da noi non si vedono banche islamiche». Discorsi che portano lontano, certo. Molto più lontano dei missili sulla Siria, e di quelli sparati ogni giorno dal circo mediatico con le sue mediocri comparse senza memoria.“Se Allah avesse voluto una sola religione, al mondo, quella soltanto ci sarebbe”. Nel suo saggio sulle principali confessioni del pianeta, Paolo Franceschetti ricorda lo straordinario ecumenismo presente nel Corano, secondo cui “tutte le religioni sono mezzi che conducono alla stessa meta”. «Lo stesso Maometto, pur “prescelto da Dio”, aggiungeva: non compio miracoli, non servirebbe. Nonostante i suoi miracoli, nemmeno Cristo, il più grande dei profeti, è stato riconosciuto per ciò che era, ed è stato crocifisso». Ora torna in voga il refrain sullo “scontro di civiltà”, inaugurato nel 1996 da un esponente dell’élite come Samuel Huntington (“Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”) e reso tristemente celebre da Oriana Fallaci dopo l’11 Settembre. E oggi, nella narrazione mainstream frastornata da attentati e guerre a catena (Libia e Siria, Charlie Hebdo, Yemen, strage di Parigi del 13 novembre), lentamente affiora anche nei talkshow un nuovo capitolo, quello della guerra inter-islamica tra sciiti e sunniti. «Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale», scriveva Huntington. «Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro», anche perché «le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura».
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Nuovo disordine mondiale, nei Brics torna lo Stato-azienda
La crisi non è solo finanziaria e coinvolge anche aspetti politici, sociali e militari in un gioco di rimandi continuo. Dunque, la sua soluzione non può prescindere dall’esame anche degli aspetti non strettamente finanziari, per capire cosa stiamo rischiando. La globalizzazione, in atto da un trentennio, associa strettamente gli sviluppi tecnologici ai progetti politici di un nuovo ordine mondiale. Tutto ciò è caratterizzato da una straordinaria velocità che modifica lo sviluppo delle dinamiche sociali, politiche, economiche, producendo interdipendenze molto più complesse del passato, al punto che c’è chi si spinge a parlare di “ipercomplessità”. La globalizzazione è stata proposta come l’estensione a tutto il mondo della modernizzazione. Una benefico tsunami che aumenta la ricchezza, produce convergenza economica, elimina l’arretratezza, spazza via dittature e diffonde democrazia e benessere. Il mondo occidentale ha costruito la sua identità recente intorno alla categoria di “modernizzazione” ed ha giustificato la sua proiezione espansionista con il compito di espandere la civiltà moderna in tutto il mondo.Questa stessa radice troviamo nel “progetto globalizzazione”, naturale sviluppo della modernizzazione, discorso esplicitato in particolare da Francis Fukuyama, la cui opera è il manifesto ideologico di quel progetto. Per Fukuyama, il modello sociale occidentale era il punto di arrivo non migliorabile cui la storia tende. Ne deriva, quindi, una visione del resto del mondo come “Occidente imperfetto” in via di rapida assimilazione al suo modello. Se quello di Fukuyama era il manifesto ideologico, Samuel Huntington ha scritto il manifesto politico di quel progetto. Con maggiore realismo, egli sostiene che modernizzazione non significa occidentalizzazione e che gli equilibri di potenza stanno mutando. Pertanto, sta emergendo un ordine mondiale fondato sul concetto di civiltà e la pretesa occidentale di rappresentare valori universali è destinata a scontrarsi con l’Islam e la Cina. La sopravvivenza dell’egemonia occidentale dipende dalla capacità degli occidentali di accettare la propria civiltà come qualcosa di peculiare ma non universale e di unirsi per rinnovarla e proteggerla dalle sfide degli altri.Dove Fukuyama sognava un mondo uniformato in un’unica grande democrazia liberal-capitalistica, Huntington pensa ad un mondo ancora diviso in modelli culturali diversi ed antagonistici, ma sotto la salda direzione imperiale americana. C’è un terzo manifesto, di natura economica, che riassume il progetto della globalizzazione: il cosiddetto Washington Consensus. L’espressione, formulata nel 1989 da John Williamson, definisce 10 direttive di politica economica destinate ai paesi in stato di crisi, e che costituiscono un pacchetto di riforme “standard” indicate dal Fmi e dalla Banca Mondiale (entrambi hanno sede a Washington): politica fiscale finalizzata al pareggio di bilancio, riaggiustamento della spesa pubblica, riforma del sistema tributario, adozione di tassi di interesse reali (cioè al netto dell’inflazione) positivi, tassi di cambio della moneta locale determinati dal mercato, liberalizzazione del commercio e delle importazioni, liberalizzazione degli investimenti esteri, privatizzazione delle aziende statali, deregulation e tutela del diritto di proprietà privata.Questa piattaforma neoliberista venne poi in gran parte assorbita dagli accordi di Marrakech (1994) che dettero vita all’organizzazione mondiale per il commercio (Wto). La globalizzazione economica prometteva il riequilibrio delle disuguaglianze mondiali ed, attraverso questa dinamica convergente, lo sviluppo economico avrebbe assicurato l’espansione della democrazia e l’abbattimento dei regimi autocratici. Naturalmente, tutto questo avrebbe comportato un “urto” culturale, ma lo shock da globalizzazione sarebbe stato ampiamente compensato dai vantaggi. In parte le promesse della globalizzazione si sono avverate: Cina e India, ad esempio, da economie rurali ed arretrate sono diventate potenze emergenti a forte vocazione manifatturiera. Ma le cose stanno andando in modo molto diverso da quello previsto e lo skock da globalizzazione si sta rivelando molto più duro e contraddittorio. Se è vero che si sono prodotte delle convergenze, è altrettanto vero che si sono prodotte nuove asimmetrie, se è vero che i flussi finanziari, migrativi, culturali, commerciali attraversano in continuazione le frontiere in un mondo sempre più integrato, è anche vero che si sono prodotte nuove linee di faglia più profonde del passato.Inoltre, la globalizzazione non ha affatto prodotto la “fine della povertà”. Emblematico, in questo senso, il caso indiano, dove l’enorme crescita economica convive con le sacche di estrema miseria di sempre. Il capitalismo post coloniale non produce alcuna convergenza sociale fra i diversi paesi perchè, più che mai, è “capitale senza nazione”: estrae da ogni parte plusvalore che accumula in quell’U-topos che è “Riccolandia”. Soprattutto, contrariamente alle aspettative, la globalizzazione neoliberista non ha prodotto quel “nuovo ordine mondiale” cui aspirava; semmai siamo di fronte ad un “nuovo disordine mondiale”. Il mondo è più integrato dal punto di vista economico e delle comunicazioni, ma lo è di meno dal punto di vista politico. Le culture tradizionali, che si era pensato destinate a scomparire presto, hanno resistito (Huntington aveva visto più lontano di Fukuyama) e, pur subendo l’urto della penetrazione culturale dell’Occidente, hanno prodotto sintesi impreviste.Uno dei bersagli del progetto neo liberista è stato l’ordinamento westfalico basato sulla sovranità degli Stati nazione: il governo del mondo sarebbe spettato ad una fitta rete di organismi sovranazionali (dall’Onu al Wto, dal Fmi alla Bm ed alla serie di intese continentali come la Ue, il Nafta, il Mercosur ecc.), dunque, lo Stato nazionale aveva sempre meno ragion d’essere. La ritirata dello Stato dall’economia era la sanzione di questa detronizzazione. Parve che lo Stato nazionale sarebbe stato ridotto ai minimi termini per sottrazione di poteri sia verso l’alto che verso il basso e ci fu chi vide il suo completo annullamento in un nuovo “Impero”, non identificabile con nessuno degli Stati nazione esistenti. In realtà, il deperimento della sovranità nazionale non era affatto omogeneo ed universale, perchè aveva una sua rilevantissima eccezione negli Usa, monopolisti della forza a livello internazionale. Almeno sulla carta, nemmeno una alleanza di tutti gli altri Stati del mondo avrebbe avuto possibilità di vittoria contro gli Usa.Diversamente da quello che teorizzavano Negri ed Hardt, gli Usa non erano subordinati ad alcuna altra istituzione: erano superiorem non recognoscens e, pertanto, pienamente sovrani. Anzi, unico vero sovrano nel nuovo ordine imperiale. Ma nel giro di una quindicina di anni le cose sono rapidamente mutate: le sostanziali sconfitte in Iraq e Afghanistan hanno dimostrato le fragilità di un esercito che, imbattibile in campo aperto, è inadeguato in uno scontro asimmetrico; nello stesso tempo, la crisi ha obbligato prima a contenere e dopo a ridurre la spesa militare americana, mentre cresce quella asiatica (soprattutto di Cina, India, Giappone, Viet Nam, Corea ecc.). Nello stesso tempo, il deperimento degli stati nazionali non è affatto proceduto omogeneamente in tutto il mondo ed, anzi, in paesi come la Cina, la Russia, l’India, il Brasile, l’Indonesia, il Sud Africa si è registrato un rafforzamento dei rispettivi Stati. E tutto questo sta aprendo un dibattito molto fitto: se Prem Shankar Jha ritiene che gli Stati nazione stiano effettivamente deperendo, ma solo per esse sostituiti dal “caos prossimo venturo”, Robert Cooper distingue fra paesi premoderni (al limite della disintegrazione, come la Somalia), paesi moderni (i paesi emergenti che perseguono i propri interessi nazionali attraverso lo strumento statuale) e paesi “post moderni” (Ue e Giappone che rinunciano a parti della sovranità statale per adeguarsi alle dinamiche della globalizzazione neoliberista), con gli Usa in posizione critica fra la seconda e la terza opzione.Soprattutto, la grande sorpresa è stato il protagonismo economico degli stati emergenti. India, Cina e paesi arabi hanno costituito fondi sovrani assai cospicui per centinaia di miliardi di dollari, inoltre fra le dieci maggiori compagnie mondiali per ricavi, quattro sono controllate dal relativo Stato: tre cinesi (Sinopec Group, China National Petroleum Corporation, State Grid) ed una giapponese (Japan Post Holding). In Brasile le società controllate dallo Stato sono il 38%, in Russia il 62% in Cina addirittura l’80%, e “The Economist” (da cui traiamo questi dati) è giunto a chiedersi se il modello emergente non sia un nuovo “capitalismo di Stato”. Lasciamo impregiudicata la questione se quella di capitalismo di stato sia la definizione migliore o se dovremmo parlare di “neopatrimonialismo” o cercare altre definizioni più aderenti alla tradizione cinese, quel che rileva è che sta emergendo un ordine economico opposto di quello voluto da Whashington Consensus.(Aldo Giannuli, “Il nuovo disordine mondiale”, dal blog di Giannuli del 18 agosto 2015).La crisi non è solo finanziaria e coinvolge anche aspetti politici, sociali e militari in un gioco di rimandi continuo. Dunque, la sua soluzione non può prescindere dall’esame anche degli aspetti non strettamente finanziari, per capire cosa stiamo rischiando. La globalizzazione, in atto da un trentennio, associa strettamente gli sviluppi tecnologici ai progetti politici di un nuovo ordine mondiale. Tutto ciò è caratterizzato da una straordinaria velocità che modifica lo sviluppo delle dinamiche sociali, politiche, economiche, producendo interdipendenze molto più complesse del passato, al punto che c’è chi si spinge a parlare di “ipercomplessità”. La globalizzazione è stata proposta come l’estensione a tutto il mondo della modernizzazione. Una benefico tsunami che aumenta la ricchezza, produce convergenza economica, elimina l’arretratezza, spazza via dittature e diffonde democrazia e benessere. Il mondo occidentale ha costruito la sua identità recente intorno alla categoria di “modernizzazione” ed ha giustificato la sua proiezione espansionista con il compito di espandere la civiltà moderna in tutto il mondo.