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Vogliono mangiarsi la Russia, piani di guerra in autunno
Lo status quo post guerra fredda nell’Europa dell’Est, per non parlare di quella occidentale, è morto: «Per la plutocrazia occidentale, quello 0,00001% all’apice, i veri Signori dell’Universo, la Russia è il premio finale», scrive Pepe Escobar. «Un immenso tesoro di risorse naturali, foreste, acque cristalline, minerali, petrolio e gas: abbastanza per portare ad uno stato di estasi qualsiasi gioco di guerra Nsa-Cia owelliano-panottico». Domanda: «Come prendere al volo e approfittarsi di un bottino tanto succulento?». Qui entra in gioco la “globopolizia” Nato. Sul punto di vedere la sua retroguardia impietosamente maltrattata da un pugno di guerriglieri di montagna armati di Kalashnikov, l’Alleanza Atlantica si sta velocemente voltando – lo stesso vecchio schema Mackinder-Brzezinsky – verso la Russia. La road map, avverte il giornalista di “Asia Times”, verrà preparata al summit dei primi di settembre in Galles. Gli Usa vanno “a caccia di orsi”, ma la pazienza dell’orso russo non è infinita: sostenuto dalla Cina, prima o poi Putin sarà costretto a reagire. E saranno guai per tutti.Semplicemente incredibile, rileva Escobar in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, la vicenda del volo Mh17 della Malaysia Airlines abbattuto da un caccia di Kiev nei cieli dell’Est Ucraina: a inchiodare i golpisti ucraini sostenuti dalla Nato, le testimonianze di un osservatore canadese dell’Ocse e di un pilota tedesco. «Tutto punta ad un cannone da 30 millimetri di un Su-25 ucraino che fa fuoco sulla cabina di pilotaggio dell’Mh17, causando una decompressione istantanea e lo schianto». Nessun razzo, dunque, men che meno il missile aria-aria evocato nelle «prime, frenetiche dichiarazioni statunitensi». In più, le nuove versioni collimano con le testimonianze oculari in loco registrate dalla Bbc in un reportage «notoriamente “scomparso”». Conclusione: incidente pianificato dagli Usa e messo in atto da Kiev per incolpare Mosca. «Ci si può solo lontanamente immaginare il terremoto geopolitico se il “false flag” fosse reso di pubblico dominio».Nebbia, ovviamente, sulle indagini: la Malesia ha consegnato i registratori dell’Mh17 al Regno Unito, «quindi alla Nato, quindi alle manipolazioni della Cia», mentre il volo Air Algerie Ah5017, precipitato dopo l’Mh17, è già stato chiarito grazie a un’indagine prontamente divulgata. «Sorge spontanea la domanda sul perché ci sta volendo così tanto per analizzare/manipolare le scatole nere dell’Mh17». Fare chiarezza ostacolerebbe il gioco sporco delle sanzioni: «La Russia resta colpevole – senza alcuna prova – quindi deve essere punita». L’Ue? «Ha seguito servilmente la voce del padrone e ha adottato tutte le sanzioni estreme contro la Russia». Mosca avrà accesso ridotto ai mercati in dollari ed euro, e alle banche di Stato russe sarà proibito vendere azioni o bond in Occidente. Ma ci sono scappatoie decisive: Sberbank, la più grande banca russa, non è stata sanzionata. Nel medio-breve termine, la Russia dovrà finanziarsi da sola? «Le banche cinesi possono facilmente rimpiazzare quel tipo di prestiti».E’ ormai strategica la partnership con Pechino. «Come se Mosca avesse bisogno di altri avvertimenti che l’unico modo per farcela è abbandonare sempre più il sistema dollaro». Gli Stati dell’Ue ne soffriranno molto, continua Escobar: Bp ha una partecipazione del 20% nella Rosneft, e per la cronaca «sta già dando di matto». Anche Exxon Mobil, la Statoil norvegese e la Shell saranno penalizzate. Le sanzioni non toccano l’industria del gas: se così fosse stato, «la stupidità controproducente dell’Ue sarebbe schizzata a livelli galattici». La Polonia, «che istericamente incolpa la Russia per qualsiasi cosa accada», compra da essa più dell’80% del gas, e «le non meno isteriche Repubbliche Baltiche, così come la Finlandia, il 100%». Il veto sui prodotti a doppio uso – militare e civile – creeranno invece problemi alla Germania, il maggior esportatore dell’Ue verso la Russia. Nel ramo della difesa saranno Francia e Regno Unito a soffrire: quest’ultimo ha almeno 200 contratti di vendita di armi e controlli per il lancio di missili in Russia; tuttavia la vendita da 1,2 miliardi di euro (1,6 miliardi di dollari) di navi d’assalto “Mistral” alla Russia da parte della Francia continuerà a procedere.Il consigliere economico di Putin, Sergei Glazyev, sostiene che l’economia europea dovrebbe stare veramente attenta nel proteggere i propri interessi, mentre gli Usa cercano di «scatenare una guerra in Europa e una Guerra Fredda contro la Russia». Conclusione: «Settori chiave della plutocrazia occidentale vogliono una continua e indefinita guerra con la Russia». Il piano-A della Nato, aggiunge Escobar, prevede di impiantare batterie di missili in Ucraina: «Se dovesse accadere, per Mosca la linea rossa verrebbe oltrepassata di parecchio», visto che a quel punto «si darebbe la possibilità di un primo attacco ai confini russi occidentali». Nel frattempo, Washington punta a isolare dalla Russia i separatisti dell’Est Ucraina. «Ciò implica finanziare direttamente e massivamente Kiev e parallelamente costruire e armare, per mezzo di consiglieri statunitensi già sul posto, una enorme armata (circa 500.000 entro la fine dell’anno, secondo le proiezioni di Glazyev)». Lo scacco matto: rinchiudere i federalisti in una minuscola area. Per il presidente ucraino Petro Poroshenko, dovrebbe accadere entro settembre, alla peggio entro la fine del 2014.«Negli Stati Uniti e in gran parte dell’Ue, si è sviluppata una mostruosa caricatura che rappresenta Putin come il nuovo Osama Bin Laden stalinista», scrive Escobar. «Fino ad ora la sua strategia sull’Ucraina si è basata sulla pazienza», cioè «stare a guardare le gang di Kiev suicidarsi mentre si tentava di sedersi civilmente con l’Ue per trovare una soluzione politica». Ora però ci potremmo trovare di fronte a una variabile che cambia i giochi, perché «l’ammassarsi di prove, che Glazyev e l’intelligence russa stanno fornendo a Putin, indicano l’Ucraina come campo di battaglia, come una spinta ad un cambio di regime a Mosca, verso una Russia destabilizzata». Si avvicina dunque la possibilità di «una provocazione definitiva». Geopolitica mondiale: «Mosca, alleata con i Brics, sta lavorando attivamente per bypassare il dollaro – che rappresenta il punto di riferimento di una economia di guerra statunitense basata sulla stampa di inutili pezzi di carta verde. I progressi sono lenti ma tangibili: non solo i Brics, ma anche gli aspiranti Brics, i G-77, il Movimento Non Allineato e tutto il Sud del mondo ne hanno piene le tasche dell’eterno bullismo dell’Impero del Caos e vogliono un nuovo paradigma nelle relazioni internazionali».Gli Usa contano sulla Nato – che manipolano a loro piacimento – e sul “cane pazzo” Israele, e forse sul Ggg (Consiglio di Cooperazione del Golfo), le petro-monarchie sunnite complici nel massacro di Gaza, che possono essere comprate e messe a tacere «con uno schiaffo sul polso». A Mosca, i nervi sono stati messi a dura prova: «La tentazione per Putin di invadere l’Ucraina dell’Est in 24 ore e ridurre in polvere le milizie di Kiev deve essere stata sovrumana. Specialmente con la crescente escalation di follia: missili in Polonia e presto in Ucraina, bombardamenti indiscriminati di civili nel Donbass, la tragedia dell’Mh17, l’isterica demonizzazione da parte dell’Occidente». Moltissima pazienza, finora, da parte dell’“orso” russo – pazienza non illimitata, però. «Putin è programmato per giocare la partita a lungo termine. La finestra per un attacco-lampo ormai s’è chiusa: quella mossa di kung fu avrebbe fermato la Nato con un fatto compiuto e la pulizia etnica di 8 milioni di russi e russofoni nel Donbass non sarebbe mai iniziata». Putin, però, non “invaderà” l’Ucraina: sa che «l’opinione pubblica russa non vuole che lo faccia».Mosca, aggiunge Escobar, continuerà a sostenere quello che si configura come un movimento di resistenza de facto nel Donbass: tra due mesi al massimo, «l’inverno inizierà ad imporsi in quelle lande ucraine distrutte e saccheggiate dal Fmi». Il piano di pace russo-tedesco da poco trapelato, continua l’analista di “Asia Times”, potrà essere sviluppato «sul cadavere di Washington». Ecco perché questo nuovo “Grande Gioco” promosso dagli Usa punta a prevenire un’integrazione delle economie di Ue e Russia attraverso la Germania, «che diverrebbe parte di una più estesa integrazione eurasiatica che includa la Cina e la sua moltitudine di vie della seta». Se i commerci della Russia con l’Europa – circa 410 miliardi di dollari nel 2013 – stanno per ricevere un colpo a causa delle sanzioni, ciò implica un movimento che spinga ad Est. Il che comporta un aggiustamento del progetto di Unione Economica Eurasiatica, o una Grande Europa da Lisbona a Vladivostock, «l’idea iniziale di Putin», in tandem coi cinesi. «Tradotto, sta a significare una forte partnership Cina-Russia nel cuore dell’Eurasia – una terrificante maledizione per i Padroni dell’Universo».Non si sbaglia, la partnership strategica Cina-Russia continuerà a svilupparsi velocemente – con Pechino in simbiosi con le immense risorse naturali e tecnologico-militari di Mosca. Per non menzionare i benefici a livello strategico, aggiunge Escobar: «Una cosa del genere non accadeva dai tempi di Genghis Khan. Ma in questo caso, Xi Jinping non sta arruolando un Khan per sottomettere la Siberia ed oltre». Attenzione: «La guerra fredda 2.0 è ormai inevitabile perché l’Impero del Caos non accetterà mai che la Russia abbia una sfera di influenza in zone dell’Eurasia (come non accetta che ce l’abbia la Cina). Non accetterà mai la Russia come un partner paritario (l’eccezionalismo non ha eguali) e non perdonerà mai la Russia – come la Cina – per aver apertamente sfidato il cigolante e eccezionalista ordine imposto dagli Stati Uniti». Per cui, «se il Dipartimento di Stato Usa, guidato da quelle nullità che passano per leader, nella disperazione, andasse un passo troppo avanti – potrebbe avvenire un genocidio nel Donbass, un attacco della Nato in Crimea o, nel peggiore dei casi, un attacco alla Russia stessa – attenzione: l’orso colpirà».Lo status quo post guerra fredda nell’Europa dell’Est, per non parlare di quella occidentale, è morto: «Per la plutocrazia occidentale, quello 0,00001% all’apice, i veri Signori dell’Universo, la Russia è il premio finale», scrive Pepe Escobar. «Un immenso tesoro di risorse naturali, foreste, acque cristalline, minerali, petrolio e gas: abbastanza per portare ad uno stato di estasi qualsiasi gioco di guerra Nsa-Cia owelliano-panottico». Domanda: «Come prendere al volo e approfittarsi di un bottino tanto succulento?». Qui entra in gioco la “globopolizia” Nato. Sul punto di vedere la sua retroguardia impietosamente maltrattata da un pugno di guerriglieri di montagna armati di Kalashnikov, l’Alleanza Atlantica si sta velocemente voltando – lo stesso vecchio schema Mackinder-Brzezinsky – verso la Russia. La road map, avverte il giornalista di “Asia Times”, verrà preparata al summit dei primi di settembre in Galles. Gli Usa vanno “a caccia di orsi”, ma la pazienza dell’orso russo non è infinita: sostenuto dalla Cina, prima o poi Putin sarà costretto a reagire. E saranno guai per tutti.
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Henn: nazisti di Kiev allevati e protetti dalla Germania
“Frega il tuo vicino”, è da sempre la strategia della Germania: secondo Dagmar Henn, il tentativo di Berlino di ridurre l’intera Europa a sua colonia economico non è altro che un tentativo di rovesciare l’esito della Seconda Guerra Mondiale. Di cui la Germania sembra ripercorrere tutti i passi falsi, a cominciare dalla sfida contro la Russia: perché se gli Usa sono la superpotenza mondiale che sta minacciando Mosca sulla frontiera ucraina, a tirare le fila sono soprattutto i tedeschi, anche se per ora restano nell’ombra. In realtà non è stata la Casa Bianca ma l’Unione Europea a far firmare alla giunta golpista di Kiev l’accordo che lega l’economia ucraina a quella tedesca. Ed è stata la stessa Ue a imporre l’accordo-capestro col Fmi. L’uomo della Merkel per l’operazione-Ucraina è stato il ministro degli esteri Frank-Walter Steinmeier, coordinatore dei servizi segreti fino al 2005 e quindi «profondamente coinvolto nei fatti del Kosovo». Proprio lui «ha spinto perché l’Ucraina entrasse nella Ue: non parliamo di un agnellino e nemmeno di un pacifista», perché è stato lui il primo a parlare di “integrità territoriale” subito dopo il golpe compiuto dai neonazisti ucraini.«Tutti ricordano la famosa telefonata della Nuland che chiedeva a Jatsenjuk di andare al governo», scrive la Henn in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, ma «quasi tutti hanno dimenticato» che l’emissaria di Obama diceva: «No Svoboda», ovvero: niente mano libera ai neo-nazisti di Kiev. «Fu Steinmeier che apri la porta a Svoboda», nel silenzio totale dei media, americani e tedeschi. Secondo l’analista, pochi vedono davvero quello che sta accadendo: la Germania, che finora ha “spremuto” i vicini europei «per stabilizzare l’industria e le banche tedesche», al di là delle polemiche di facciata sulle ingerenze spionistiche Cia-Nsa è perfettamente d’accordo con Washington nella politica di ostilità verso Mosca: «Tra Germania e Usa c’è complicità, non dipendenza: come accadde per la Jugoslavia, dove gli Usa ottennero le basi militari e la Germania le colonie». Attenzione: già allora, i «fascisti croati» che furono scatenati contro la Serbia «si erano rifugiati per decenni a Monaco di Baviera», pronti per «essere utilizzati ancora».«Chiedetelo ai greci: raramente la retorica politica tedesca dice la verità», continua Dagmar Henn, che denuncia il silenzio imposto ai media di Berlino. Nessuno fa notare l’autoritarismo tedesco, «e il risultato è la trasformazione della Ue in una struttura semi-coloniale con un solo centro politico ed economico, la Germania: basti pensare a Hollande che non può più nemmeno telefonare, se non autorizzato dalla Merkel». Questa struttura però «è tutt’altro che stabile, perché ormai stanno per finire i vicini di casa che ancora non sono ridotti alla miseria, mentre la crisi economica è tutt’altro che finita». Quindi, «entrambi i soci di questa aggressione», Usa e Germania, condividono lo stesso problema, «e nessuna bilancia commerciale con la Russia potrà colmare questa lacuna: entrambi hanno bisogno di una vera e propria distruzione dei valori reali su larga scala, e ne hanno bisogno subito». Storia: quando la Wehrmacht cominciò a vedere che stava perdendo la guerra nel 1943, concluse che non avrebbe mai dovuto attaccare la Russia, ma piuttosto controllare l’intero potenziale economico europeo. «Quindi è un po’ inquietante vedere oggi che, negli ultimi anni, non si è fatto altro che ripetere gli stessi errori di allora».Secondo Dagmar Henn, è impossibile dimostrare «quanto sia stretto il collegamento tra le autorità tedesche e i nazisti ucraini», perché gli archivi tedeschi sono ben chiusi «e lì si annida tutto lo sporco accumulato dal 1945 in poi». Ci sono però «forti indicazioni» che suggeriscono che «la parte peggiore delle forze ucraine» sia costituita da «pupazzi dei tedeschi, non degli americani, a cominciare dalla Timoshenko». I neonazisti, compresi quelli di Kiev, «non devono essere controllati direttamente: si mettono subito a correre nella “giusta” direzione, non appena vengono tirati fuori». Avverte la Henn: «Nelle zone intorno a Monaco ci sono sempre stati più nazisti ad occupare le posizioni ufficiali e più esuli ucraini, seguaci di Bandera, di quanti mai abbiano raggiunto gli Stati Uniti». I servizi segreti tedeschi (Bnd) si trovano a Pullach, a pochi chilometri da Monaco, e «non hanno mai lasciato cadere i loro antichi collegamenti». Secondo la Henn, «sono ancora profondamente legati alle stesse persone che tennero i collegamenti durante la guerra». A Monaco c’è stato un governo ucraino in esilio, con sede a Zeppelinstraße, e c’è ancora una università ucraina. Monaco, inoltre, è stata «il quartier generale dei terroristi ucraini dopo il 1945».Fin dalla sua indipendenza, in Ucraina c’è sempre stata una forte influenza tedesca: nel 1992 all’ambasciata tedesca di Kiev lavoravano più impiegati che in tutte le altre ambasciate occidentali messe insieme, inclusa quella americana. Mentre i funzionari governativi inglesi e americani allora cercavano di rafforzare le tendenze nazionaliste nei paesi ex Urss, il governo tedesco «aveva già fatto tutto quello che poteva fare in questo senso, non solo in Ucraina ma anche negli Stati baltici». Per questo, continua Henn, la gran quantità di agenti della Cia a Kiev «potrebbe non essere un segno di forza degli Usa in questo dramma», ma sembra piuttosto «un tentativo di recuperare il ritardo rispetto ai collegamenti già presi dai tedeschi». La Henn segnala una «strana eco storica» negli avvenimenti ucraini, che rimanda in modo sinistro al calendario del nazismo germanico. A cominciare dal massacro di Odessa, il rogo del palazzo dei sindacati lo scorso 2 maggio: sempre il 2 maggio (del 1919) Monaco di Baviera «fu conquistata dai controrivoluzionari», e la successiva repressione fece 3.000 vittime. Ancora il 2 maggio (del 1933) i nazisti «presero d’assalto gli edifici dei sindacati tedeschi».Coincidenze, o frutto di una “mente” germanica? «I nazisti tedeschi sono ossessionati dai riferimenti storici», avverte Dagmar Henn. «Sapete perché il primo campo di concentramento fu costruito a Dachau? In quel posto l’Armata Rossa bavarese vinse una battaglia all’inizio del 1919». I gerarchi di Hilter, dunque, «volevano cancellare chi era stato sconfitto, anche la sua memoria, e ci riuscirono». Conclude Henn: «Potrei sbagliarmi, mi piacerebbe sbagliarmi, ma la strategia russa al momento sembra essere mirata a creare una spaccatura tra Germania e Stati Uniti. Se avessi ragione, questa strategia sarebbe completamente inutile: non vedo nessun piano-B e non vedo nemmeno un qualche serio tentativo di informare la popolazione tedesca. Questo mi preoccupa profondamente. Ai governi tedeschi piace parlare di pace. Fino alle 5:44 del mattino».“Frega il tuo vicino”, è da sempre la strategia della Germania: secondo Dagmar Henn, esponente della sinistra tedesca (Linke), il tentativo di Berlino di ridurre l’intera Europa a sua colonia economica non è altro che un tentativo di rovesciare l’esito della Seconda Guerra Mondiale. Di cui la Germania sembra ripercorrere tutti i passi falsi, a cominciare dalla sfida contro la Russia: perché se gli Usa sono la superpotenza mondiale che sta minacciando Mosca sulla frontiera ucraina, a tirare le fila sono soprattutto i tedeschi, anche se per ora restano nell’ombra. In realtà non è stata la Casa Bianca ma l’Unione Europea a far firmare alla giunta golpista di Kiev l’accordo che lega l’economia ucraina a quella tedesca. Ed è stata la stessa Ue a imporre l’accordo-capestro col Fmi. L’uomo della Merkel per l’operazione-Ucraina è stato il ministro degli esteri Frank-Walter Steinmeier, coordinatore dei servizi segreti fino al 2005 e quindi «profondamente coinvolto nei fatti del Kosovo».
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Il business avverte Obama: basta sanzioni contro Putin
«Nessuno al mondo ha una vera ragione per amare gli Stati Uniti, meno che mai gli stessi americani dissanguati per le pretese di dominio di Washington sul mondo». Mentre 3 russi su 4 vorrebbero che Putin restasse al Cremlino anche dopo il 2018, il tasso di popolarità di Obama scivola al 41%. E l’economia americana traballa: la strombazzata crescita del primo trimestre 2014, di almeno il 2,6% secondo gli economisti mainstream, viene sbriciolata dalla dura realtà, che rivela uno scivolone pari al -2,9%. Non se ne stupisce Paul Craig Roberts, già viceministro del Tesoro di Reagan: «Qualsiasi economista libero e non a libro paga di Wall Street, del governo e dei poteri forti sapeva che il 2,6% era una buffonata». La verità è che «l’economia americana non può crescere perché le multinazionali spinte da Wall Street hanno portato l’economia reale fuori dai confini Usa: tutta la produzione americana è stata trasferita all’estero». E ora – questa la notizia – i poteri forti chiedono a Obama di cessare l’offensiva contro la Russia di Putin, prima che l’America ci rimetta l’osso del collo.«Le povere previsioni per l’economia americana – segnala Craig Roberts in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – hanno indotto due tra le più grandi lobby d’affari, la Camera di Commercio degli Stati Uniti e l’associazione nazionale dei produttori (o quello che rimane di essa) a prendere posizione contro l’amministrazione Obama per la paura di ulteriori sanzioni contro la Russia». E’ stata “Bloomberg News” ad annunciare la campagna promossa dai gruppi d’affari con pagine su “New York Times”, “Wall Street Journal” e “Washington Post” contro ulteriori sanzioni nei confronti del Cremlino. «Queste organizzazioni dicono che le sanzioni diminuiranno i loro profitti avendo come risultato la perdita di posti di lavoro americani». Si tratta delle due maggiori corporazioni commerciali Usa, «fonti importantissime di finanziamento delle campagne elettorali dei vari partiti politici», e ora «hanno finalmente aggiunto la loro voce a quella del mondo degli affari tedesco, francese e italiano».«Tutti, tranne l’opinione pubblica americana – dice Craig Roberts – sanno che la crisi in Ucraina è totalmente un “business” creato da Washington. Gli imprenditori europei e americani si stanno chiedendo “perché i nostri profitti e i nostri lavoratori debbano soffrire a causa della propaganda di Washington contro la Russia”». Secondo l’ex viceministro di Reagan, «Obama non sa cosa dire». Magari qualche risposta verrà dalla «feccia neocon» imbarcata alla Casa Bianca: Victoria Nuland, Samantha Powers, Susan Rice. «Obama può affidarsi al “New York Times”, al “Washington Post”, al “Wall Street Journal” e al “Weekly Standard” per spiegare perché milioni di americani ed europei debbano soffrire affinché il “ratto” dell’Ucraina vada a buon fine». In realtà, «le bugie di Washington si stanno ritorcendo contro Obama». Se la cancelliera Merkel «è completamente assoggettata ai voleri Usa», in compenso «l’industria tedesca sta dicendo all’amica americana che il valore dei propri affari in Russia è maggiore del valore sofferto a causa delle pretese imperialistiche del governo Usa».Idem il mondo imprenditoriale francese: «Sta chiedendo a Hollande cosa voglia fare con la mancanza di posti di lavoro e se lui stesso porta avanti gli interessi americani». Le sanzioni contro la Russia, inoltre, «costituiscono un colpo mortale al settore italiano più famoso e universalmente riconosciuto al mondo, quello del lusso e della moda». Così, in Europa «si sta spandendo a macchia d’olio il dissenso nei confronti di Washington». Secondo recenti sondaggi, 3 tedeschi su 4 «sono contrari alla permanenza delle basi Nato in Polonia e negli Stati baltici». L’ex Cecoslovacchia, attualmente divisa in Slovacchia e Repubblica Ceca, benché membro Nato si è opposta alla presenza americana sul suo territorio. «Recentemente, un ministrro tedesco ha detto che fare un piacere a Washington è come fare sesso orale senza ricevere nulla in cambio». Di fatto, «la pressione che i pazzi a Washington stanno mettendo sulla Nato potrebbe mandare in frantumi l’organizzazione: preghiamo perché sia così», dichiara Craig Roberts. «La scusa all’esistenza della Nato è scomparsa 23 anni anni fa con il collasso dell’Unione Sovietica. Washington ha fatto espandere la Nato molto oltre i limiti segnati dal Trattato del Nord-Atlantico».La Nato ora interviene su un territorio che va dal Baltico all’Asia Centrale: «Quindi, per giustificare la continua espansione delle operazioni, Washington ha dovuto fare della Russia un nemico». Il problema? «La Russia non vuole assolutamente essere un nemico della Nato o di Washington». A premere per lo scontro è il complesso apparato militare di sicurezza statunitense, che assorbe più di un trilione di dollari dalle tasche degli americani: la lobby della guerra «ha bisogno di una scusa per continuare a far lievitare i profitti». Avverte Craig Roberts: «Sfortunatamente, gli imbecilli di Washington hanno scelto un nemico pericoloso: la Russia è una potenza nucleare, un paese di vaste dimensioni che vanta un’alleanza strategica con la Cina. Solo un governo imbevuto di arroganza e hybris, o gestito da psicopatici e sociopatici, sceglierebbe un nemico del genere».Per fortuna, al Cremlino c’è Putin, forte del consenso del 76% dei russi «nonostante le forti opposizioni delle Ong russe finanziate da Washington». Putin ha più volte fatto notare all’Europa come le politiche americane in Medio Oriente e in Libia non siano state solo un completo fallimento, ma anche devastanti e pericolose per l’Europa e la Russia. «I pazzi a Washington hanno rimosso dei governi che tenevano a bada gli jihadisti, e ora questi violenti sono sguinzagliati e senza alcun tipo di controllo». In Medio Oriente, gli jihadisti «sono al lavoro per ridefinire i confini stabiliti dagli inglesi e dai francesi dopo la Prima Guerra Mondiale». Attenzione: «Europa, Russia e Cina hanno tutte una percentuale di popolazione musulmana e ora si preoccupano che la violenza che Washington ha scatenato in Medio Oriente possa destabilizzare anche loro stesse».Per di più, il dollaro americano è nei guai: il biglietto verde «è tenuto a galla attraverso la manipolazione del mercato finanziario e Washington sta mettendo sotto pressione i suoi Stati vassalli perché sostengano il valore del dollaro attraverso la stampa delle loro monete e il conseguente acquisto di dollari». Per tenere il dollaro in vita, aggiunge Craig Roberts, larga parte del mondo patirà le conseguenze dell’inflazione: «Quando la gente finalmente lo capirà e correrà a comprare oro, in quel momento ce lo avranno tutto i cinesi». A sentire Sergej Glazyeb, un consigliere del Cremlino, «solo un’alleanza contro il dollaro potrebbe fermare le ambizioni degli Stati Uniti». Anche per Craig Roberts «non ci può essere pace fino a che Washington continua a stampare moneta per finanziare nuove guerre: come ha detto il governo cinese, è tempo di “de-americanizzare il mondo”». Secondo Roberts, la leadership degli Stati Uniti ha completamente fallito, producendo null’altro che bugie, violenze e morte, devastando 7 paesi nel XXI secolo. «A meno che la leadership degli Stati Uniti non venga sostituita con una più a misura d’uomo, la vita sulla Terra non ha futuro».«Nessuno al mondo ha una vera ragione per amare gli Stati Uniti, meno che mai gli stessi americani dissanguati per le pretese di dominio di Washington sul mondo». Mentre 3 russi su 4 vorrebbero che Putin restasse al Cremlino anche dopo il 2018, il tasso di popolarità di Obama scivola al 41%. E l’economia americana traballa: la strombazzata crescita del primo trimestre 2014, di almeno il 2,6% secondo gli economisti mainstream, viene sbriciolata dalla dura realtà, che rivela uno scivolone pari al -2,9%. Non se ne stupisce Paul Craig Roberts, già viceministro del Tesoro di Reagan: «Qualsiasi economista libero e non a libro paga di Wall Street, del governo e dei poteri forti sapeva che il 2,6% era una buffonata». La verità è che «l’economia americana non può crescere perché le multinazionali spinte da Wall Street hanno portato l’economia reale fuori dai confini Usa: tutta la produzione americana è stata trasferita all’estero». E ora – questa la notizia – i poteri forti chiedono a Obama di cessare l’offensiva contro la Russia di Putin, prima che l’America ci rimetta l’osso del collo.
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Guido Rossi: conta solo il denaro, la democrazia è finita
omo del regime economico, non solo italiano ma europeo, che ci condiziona dagli anni ‘80», da quando cioè i mercati sono diventati «il valore di riferimento», e il denaro «la misura di tutte le cose». Tutto è denaro, quindi ogni bene pubblico è privatizzabile. Con tanti saluti allo Stato di diritto.C’è un sistema ideologico alla base delle politiche economiche, accusa Rossi in un editoriale sul “Sole 24 Ore” ripreso da “Micromega”: «Un erroneo concetto di libertà ha fatto sì che le scuole, gli ospedali e persino le prigioni possano essere privatizzate a scopo di lucro. E se così è, perché non dovrebbe essere, allo stesso scopo, privatizzato anche ogni ufficio pubblico?». Questo sistema, continua Rossi, ha creato due conseguenze parallele: «Le ineguaglianze, delle quali ha dato un’impareggiabile recente documentazione il tanto discusso libro di Thomas Piketty “Le capital au XXI siècle”», e naturalmente «la corruzione, sia nel settore pubblico sia in quello privato». Secondo la “London Review of Books”, che parla di “Disastro italiano”, l’Italia in Europa non è un caso anomalo, ma piuttosto una sorta di concentrato, visto che «la manipolazione da parte dei poteri esecutivi nei confronti dei legislativi e la generale involuzione e crisi delle classi politiche causano un silenzioso deficit di democrazia, alimentato da una quasi assoluta scarsità di mezzi di informazione indipendenti e con un aumento della corruzione».Un panorama impressionante in tutti i paesi: dalla Germania di Helmut Kohl, indiscusso cancelliere per 16 anni, che ricevette due milioni di marchi tedeschi in fondi neri, «rifiutandosi di rivelare il nome dei donatori per timore che emergessero i favori che avevano ricevuto in cambio», alla Francia di un altro super-potente, il presidente Jacques Chirac, in sella per 12 anni, che a fine mandato (cessata l’immunità) fu accusato di abuso d’ufficio, peculato e conflitto di interessi. Clamoroso, ancora in Germania, il governo del socialdemocratico Gerhard Schröder, che garantì un prestito da un milione di euro a Gazprom per creare una pipeline nel Baltico, «poche settimane prima che lo stesso cancelliere, terminato il mandato, diventasse consulente di Gazprom a un compenso molto maggiore di quello fino a quel momento ricevuto per governare il paese». Dalla Grecia alla Spagna non si salva nessuno. Spiccano, in Gran Bretagna, i favori elargiti alla Faith Foundation di Tony Blair, il rottamatore della sinistra inglese.«Le diseguaglianze dovute all’abnorme concentrazione in poche mani della ricchezza e le varie forme di corruzione sono indissolubilmente legate», sottolinea Guido Rossi, e costituiscono «la conseguenza principale e più grave dell’intreccio ormai inevitabile fra politica ed economia». Non è un caso che questo intreccio, nelle ideologie contemporanee, diventi inestricabile, al punto che le stesse istituzioni politiche ancora formalmente democratiche «diventino a loro volta causa ed effetto delle diseguaglianze e della corruzione». Non ne sono immuni neppure gli Usa, dove si sta erodendo una Costituzione nata per «assicurare l’indipendenza del governo federale da chiunque non fosse il solo popolo», secondo le famose parole di James Madison. Nel suo libro-denuncia del 2011 sulla “Repubblica perduta” (“Republic, Lost: How Money Corrupts Congress – And a Plan to Stop It”), Lawrence Lessig spiega che la “gift economy” americana prevede uno scambio corruttivo fatto di «favori e rapporti», innescando un conflitto istituzionale che minaccia la democrazia americana, secondo il grande filosofo Ronald Dworkin. Nel 2010 e poi il 2 aprile 2014, infatti, la Corte Suprema ha riconosciuto il diritto costituzionale di «finanziare candidati e campagne elettorali senza limiti alle somme di denaro profuse».Di conseguenza, secondo Lessig, il denaro «è diventato il problema della politica americana e la radice di ogni altro male, che avvelena la fiducia del cittadino nel governo e nella democrazia, divenuta una sorta di sciarada». Così, osserva Rossi, emerge «un virus distruttivo delle democrazie, che induce i tre poteri dello Stato a confrontarsi fra loro nel tentativo di combattere senza successo la corruzione pubblica, che anche quando viene individuata rimane senza sanzione», confermando l’intreccio tra politica e affari. «Né i grandi banchieri né i politici corrotti sono di norma puniti con la reclusione, perché entrambi sono, secondo l’espressione americana, “too big to jail” (troppo importanti per la galera)». E’ così che, lentamente, soccombe il potere che più di ogni altro dovrebbe combattere le disuguaglianze: la giustizia. La mondializzazione tende a privatizzare anche quella: «Le sanzioni contro la corruzione internazionale delle grandi multinazionali globalizzate sono comminate con il versamento di cospicue somme di danaro, attraverso accordi con organismi del potere esecutivo e delle agenzie indipendenti (Doj, Sec), con una giustizia negoziata e privatizzata, secondo la perversa ideologia in voga».In questo modo, «la repressione della corruzione delle grandi società viene definita al di fuori delle autorità giurisdizionali, attraverso una collaborazione interna e un’autodichiarazione di colpevolezza da parte delle società che, pur di evitare la giustizia penale, pericolosa sotto ogni aspetto, anche quello reputazionale, preferiscono dichiararsi colpevoli e collaborare utilizzando complessi sistemi di indagini interne». Si chiamano “accordi di giustizia”, e sono semplici trattative. Senza più una vera giustizia, la corruzione pubblica e privata incoraggiata dalla deregulation continua a dilagare, senza freni, assumendo forme «di apparente legalità, difficilmente sanzionabili». Così, per Rossi, «la lotta contro le disuguaglianze e le corruzioni, pubbliche e private, illegali o elusive, deve essere ormai considerata il principale obiettivo per far sopravvivere le società che le corrette idee del passato, prima della loro disgregazione, ci avevano consegnato attraverso la tutela dei diritti dei cittadini».Plutocrazia, tutto il potere all’élite dei più ricchi. Se ormai conta solo il denaro – ed è quello a decidere chi sale e chi scende, chi vince e chi perde – possiamo dire addio alla politica, alla giustizia e alla stessa democrazia dei diritti. La corruzione dilagante? E’ solo una naturale conseguenza, in un mondo degradato dallo strapotere del denaro, immense ricchezze nelle mani di pochi oligarchi. Ne è convinto Guido Rossi, economista italiano e storico “controllore” della Consob, l’agenzia di vigilanza borsistica. La corruzione dilagante, che ha ormai «permeato tutta la vita politica, economica e sociale del nostro paese», segnando l’evidente «declino dell’ordine e delle istituzioni politiche», è un vero e proprio «sintomo del regime economico, non solo italiano ma europeo, che ci condiziona dagli anni ‘80», da quando cioè i mercati sono diventati «il valore di riferimento», e il denaro «la misura di tutte le cose». Tutto è denaro, quindi ogni bene pubblico è privatizzabile. Con tanti saluti allo Stato di diritto.
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Gas: è scoppiata la Terza Guerra (mondiale) dell’energia
Negli ultimi mesi si sono prodotti una serie di avvenimenti che hanno investito pesantemente il mondo dell’energia: la crisi di Crimea, che sta profilando una crisi nella vendita di gas russo alla Ue, con conseguente arresto del progetto South Stream e parallela proposta americana di forniture sostitutive; la forte penetrazione dei cinesi nel mercato mediorientale, dove sono diventati i primi acquirenti del petrolio iracheno; la destabilizzazione sociale e finanziaria del Venezuela (terzo produttore mondiale); l’inasprimento della crisi libica, dove le forniture sono sempre più a rischio; la crescente tensione fra il Qatar (detentore di fortissime riserve di gas e petrolio) e l’Arabia Saudita, che non approva l’appoggio ai Fratelli Musulmani e le pretese egemoniche quatarine sul Golfo. Il tutto mentre prosegue la guerra civile siriana e l’embargo euro-americano contro l’Iran.Una precipitazione di eventi assai insolita, che profila tendenze di medio periodo suscettibili di mutare l’assetto strategico mondiale dell’energia. E ovviamente non dobbiamo stare a spendere parole sulla centralità dell’energia, sia dal punto di vista economico che politico, nell’ordine mondiale. A partire dagli anni novanta, si era determinato un quadro che possiamo descrivere come segue. Con la comparsa delle ingenti masse di gas russo, si produceva una accentuata diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico (ancora molto petrolio, ma anche gas, nucleare, carbone, etanolo da biomasse e fonti alternative) e, di conseguenza, delle tecnologie necessarie al trattamento delle varie fonti. La differenziazione di fonti e tecnologie induceva i vari paesi ad adottare diversi mix energetici, per così dire “personalizzati”, in base alle esigenze di ciascuno. E questo, a sua volta, dava luogo ad un accentuato policentrismo sia dei produttori che dei consumatori, assicurando un regime di relativa abbondanza energetica a basso costo.Questo accentuato policentrismo energetico, insieme all’affermarsi più rapido del previsto di nuove potenze economiche emergenti, determinava un più generale policentrismo dell’ordine mondiale. Un aspetto particolarmente importante di questa nuova situazione è stato rappresentato dal gas, rapidamente affermatosi fra le primissime fonti in ordine di importanza. Come si sa, esso è difficilmente trasportabile via mare (per i costi di liquefazione e poi rigasificazione del prodotto) e prevalentemente è distribuito attraverso gasdotti che hanno elevati costi di costruzione, per cui si privilegia lo scambio fra paesi limitrofi o, comunque, non eccessivamente distanti. Anche per questo motivo si è formato un mercato separato del gas che, cosa importante, non è necessariamente venduto in dollari ma in monete diverse. E questo è uno dei motivi della rapida ripresa russa dal 1998 in poi.In questo quadro, la diversificazione energetica ha avuto oggettivamente un ruolo di contrappeso al progetto di ordine mondiale monopolare degli Usa, alimentando le tendenze centrifughe verso un ordine policentrico. Le stesse guerre mediorientali degli Usa erano il tentativo di affermare il proprio progetto egemonico guadagnando una posizione di controllo della più importante area petrolifera mondiale. Ma, come è noto, le cose sono andate in modo diverso dal previsto e le tendenze dal policentrismo se ne sono rafforzate, garantendo il ritorno della Russia fra i grandi protagonisti della scena mondiale, insieme a Usa e Cina. Questo quadro ha subito una prima destabilizzazione fra il 2006-2010: in un primo momento si era temuto un rapido avvicinarsi del pick oil a causa dei forti consumi cinesi (quel che aveva fatti impazzire il prezzo del petrolio salito sino a 170 dollari al barile), ma dopo, per effetto della crisi bancaria del 2007-8 e delle prospettive offerte dal petrolio di scisti e dallo shale gas con la tecnica del fracking, la situazione si è in gran parte normalizzata, ma scontando nel frattempo un rafforzamento del gas e, pertanto, della Russia da cui la Ue, ormai, dipendeva largamente.Di qui partiva la “guerra dei gasdotti”, complicata dall’attraversamento ucraino dei gasdotti euro-russi. L’Ucraina, oltre che onerosi diritti di passaggio, esercitava massicci prelievi aggiuntivi, che peraltro non pagava. Di qui la decisione russa di costruire gasdotti che la aggirassero: Northstream, dalla Russia alla Germania via Baltico, e South Stream dalle coste russe meridionali all’Italia. Questo progetto fu sottoscritto dall’Eni nel 2009, sotto l’aperta protezione di Berlusconi (siamo nel momento della grande amicizia con Putin con lo scambio di regali come il famoso lettone ed altro). Gli americani non presero bene la cosa, anche perché stavano cercando di realizzare un progetto concorrente, Nabucco, che avrebbe portato il gas centroasiatico sulle sponde del mediterraneo e poi, di lì, in Europa che così sarebbe stata sottratta al temuto magnete russo. La guerra dei gasdotti venne vinta, in un primo momento, dai russi, e sembrò per un attimo che Europa e Russia fossero destinate ad una fatale integrazione crescente (“Eurussia: è il nostro destino?” si chiedeva una copertina di “Limes” del 2009).Oggi questo quadro subisce un attacco frontale a seguito dei fatti ucraini e dell’annessione della Crimea da parte dei russi. Gli Usa sono stati rapidi nell’approfittare dell’ondata (peraltro largamente strumentale) di condanna dell’iniziativa russa e nello spingere la Ue in rotta di collisione con Mosca, che, a sua volta, ha reagito minacciando ritorsioni proprio sul gas. Gli americani si sono fatti avanti offrendo la sostituzione delle forniture russe. In realtà, agli americani preme la creazione di un mercato del gas regolato in dollari, così come è per tutto il resto, e la manovra americana va capita insieme alla questione del negoziato per l’area di libero scambio Usa-Ue. Ovviamente, se gli americani riuscissero nel loro intento, ai russi non resterebbe che offrire il loro gas alla Cina ed, in prospettiva, all’India. Pertanto assisteremmo alla nascita di due blocchi energetici: da un lato la tradizionale alleanza euro-americana cui corrisponderebbe, per reazione, il blocco euro-asiatico cino-russo, suscettibile di diventare cino-russo-indiano. E la competizione fra i due blocchi si sposterebbe rapidamente sull’accaparramento dei mercati mediorientali dove, abbiamo detto, la Cina è già entrata e con tutti due i piedi.Peraltro, è ragionevole aspettarsi un comportamento non omogeneo dei paesi di quell’area: realisticamente l’Iran si orienterebbe verso il blocco asiatico, mentre l’Arabia Saudita resterebbe il tradizionale alleato degli americani, ma con la fastidiosa spina irritativa del Qatar. Sull’altro fianco, l’evolvere della situazione potrebbe portare alla “normalizzazione” del Venezuela chavista. La Cina, che ha trovato spazio in Iraq (e ha la prospettiva del gas russo) potrebbe essere sempre meno generosa con il suo debitore latinoamericano e perdere interesse alle sue forniture, anche in ragione della precaria situazione politica. Viceversa, gli Usa stanno palesemente certando di compattare l’asse ispano-pacifico del continente meridionale, lungo l’asse Messico-Cile per isolare il Brasile (ed eventualmente l’Argentina); il Venezuela è dalla parte dell’Atlantico, ma sarebbe una gran bella posizione da occupare per il controllo del Sud America. Dunque, è facile prevedere che gli Usa cercheranno di approfittare dell’attuale situazione per destabilizzare il regime chavista (motivo di più per comporre subito il conflitto in atto con la piazza, cercando una via di uscita politica).Si profilano, pertanto, mutamenti geopolitici di grande rilievo, ad esempio il ritorno ad una logica di blocchi tendenzialmente bipolare. Beninteso: la globalizzazione ci ha abituato a tendenze fortemente reversibili, per cui più di un disegno è abortito strada facendo (a cominciare da quello monopolare americano) ed è possibile che anche questa volta intervengano controtendenze che scombinino in tutto i in parte il gioco iniziato. Anche perché rivedere l’assetto energetico mondiale, rifare gasdotti nuovi ed abbandonarne di vecchi non sono cose che si fanno in pochi mesi, durante i quali di cose possono succederne. Ma è anche vero che questa situazione di forte reversibilità del quadro non può durare all’infinito e, prima o poi, in modo naturale o cruento, un qualche ordine stabile finirà con affermarsi. Sicuramente una parte di questa battaglia sarà combattuta in Italia e ne vedremo i segni molto presto, con la nuova governance dell’Eni e le conseguenti decisioni su South Stream, che ormai può saltare da un momento all’altro.(Aldo Giannuli, “Si sta profilando una frattura strategica nel campo dell’energia”, dal blog di Giannuli dell’11 aprile 2014).Negli ultimi mesi si sono prodotti una serie di avvenimenti che hanno investito pesantemente il mondo dell’energia: la crisi di Crimea, che sta profilando una crisi nella vendita di gas russo alla Ue, con conseguente arresto del progetto South Stream e parallela proposta americana di forniture sostitutive; la forte penetrazione dei cinesi nel mercato mediorientale, dove sono diventati i primi acquirenti del petrolio iracheno; la destabilizzazione sociale e finanziaria del Venezuela (terzo produttore mondiale); l’inasprimento della crisi libica, dove le forniture sono sempre più a rischio; la crescente tensione fra il Qatar (detentore di fortissime riserve di gas e petrolio) e l’Arabia Saudita, che non approva l’appoggio ai Fratelli Musulmani e le pretese egemoniche quatarine sul Golfo. Il tutto mentre prosegue la guerra civile siriana e l’embargo euro-americano contro l’Iran.
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Perché i russi amano Putin? Scoprirlo è molto istruttivo
Pare che i russi siano proprio innamorati di Vladimir Putin. Non tutti, certo, ma una enorme maggioranza. L’ultimo sondaggio dell’istituto Vciom-Levada, considerato il più affidabile del paese, accredita al leader del Cremlino un indice di popolarità del 76 per cento (per la precisione il 75,7). Sì dirà che il dato è falsato dai fatti della Crimea, ma nel maggio del 2012 era il 68,8 per cento a sostenere Putin, e mediamente negli ultimi 13 anni questo dato si è mantenuto sempre più o meno stabile, un po’ sopra al 60 per cento. In questi giorni, poi, come mai prima, arrivano molte telefonate di amici russi che proprio non riescono a spiegarsi l’atteggiamento dei paesi occidentali verso il loro leader e, dunque, semplificando, verso di loro. Chi pensa che sia facile dare una spiegazione convincente, sbaglia di grosso. Perché per spiegare ci vogliono le parole, e le parole hanno un significato molto diverso quando le dici a Roma o a Mosca.Democrazia? Per i russi normali, soprattutto nella periferia del paese, spesso è una parolaccia. La nuova borghesia? Sulle rive della Moscova la parola suona dispregiativa. La prepotenza del regime contro un оligarca democratico come Khodorkovskij che voleva sfidare Putin alle urne? Per moltissimi sotto le mura del Cremlino è il minimo sindacale di un atto di giustizia contro i tanti oligarchi arricchiti e non sazi di soldi e di potere. Ucraina, Crimea, prezzo del gas… una continua commedia degli equivoci che rende impossibile capirsi. E tutto comincia nei “terribili” anni Novanta. La notte del 25 dicembre 1991 i russi non riuscirono a dormire. Il giorno prima erano cittadini di un paese, l’Unione Sovietica; da quel momento, non lo erano più. Fu uno shock. Milioni di persone di nazionalità russa si ritrovarono, abbandonati dalla Madrepatria, cittadini di paesi che non li volevano e che spesso, come è accaduto nelle Repubbliche baltiche, negavano loro i diritti minimi della cittadinanza. Ma non c’era tempo, né forza per occuparsene.Presto le cose cominciarono ad andare peggio di quanto mai si sarebbe potuto immaginare. Arrivò la politica del Fondo monetario e degli Harvard Boys, introdotta dal governo di Boris Eltsin: liberalizzazione e privatizzazione. Fu chiamata “terapia shock”. Uno shock sullo shock. La promessa era che alla fine del tunnel ci sarebbe stato un paese finalmente libero, democratico e benestante. I russi si fidavano, erano pronti ai sacrifici. Pensavano che l’Occidente, essendo stato capace di offrire benessere, democrazia e giustizia a casa propria, lo avrebbe fatto anche da loro. La fiducia crollò lentamente, ma inesorabilmente, sotto i colpi della realtà. Sotto gli occhi impotenti della gente, per il bene del paese, le aziende cominciarono ad essere vendute per un prezzo vicino allo zero, tra l’1,5 e il 2 per cento del loro valore. In tutto, lo Stato realizzò dall’operazione circa il 10 per cento del valore effettivo, beni mobili e immobili inclusi.Alle persone normali fu dato un pezzo di carta, si chiamava voucher, che era l’equivalente della quota a cui avevano diritto. Valevano 10 mila rubli. Natalja Fjodorovna, l’anziana mamma di una mia cara amica, fu la prima a pronunciare quella che credevo fosse una battuta: «Muzhiki prodadut za butilku», gli uomini lo venderanno per una bottiglia. Ci volle poco a capire che non era una boutade. I voucher si vendevano agli angoli delle strade per una vodka, tremila rubli. Come scrive Naomi Klein nel suo “Shock Economy”, «nel 1998, oltre l’80% delle aziende agricole erano in bancarotta, e circa 70 mila fabbriche statali avevano chiuso i battenti, generando un’epidemia di disoccupazione». E «74 milioni di russi vivevano sotto la soglia di povertà, secondo la Banca Mondiale». Lavoro non ce n’era nel modo più assoluto. I ragazzi sognavano di fuggire e chiedevano i computer, le pensioni arrivavano in ritardo, gli stipendi non arrivavano più; medici, insegnanti, professori, chi poteva cercava un lavoretto all’estero.Le file nei negozi erano scomparse, come i soldi per comprare. Ovunque fiorivano tetri negozietti temporanei dove si pagava direttamente in dollari. Gli ospedali non davano più neanche le lenzuola. La criminalità fioriva, al punto che era diventato rischioso girare di notte anche in una città come Mosca. Nel frattempo, tutti i soldi della Russia erano passati nella tasche di pochi intraprendenti, che diventarono miliardari e potenti, i cosiddetti oligarchi. A proposito di Khodorkhovskij, quando fu arrestato, nel 2003, era il padrone della Yukos, il terzo colosso petrolifero del paese, e l’aveva acquistata partecipando ad un’asta, sebbene fosse stato proprietario della banca Menatep che quell’asta aveva gestito. In pratica, come spiegò poi il responsabile del programma di privatizzazione Alfred Kokh, aveva comprato la Yukos con i soldi della Yukos. Ottenne il 77 per cento delle azioni con 309 milioni di dollari. E poiché il valore reale si aggirava intorno ai 30 miliardi, entrò direttamente a far parte degli uomini più ricchi del mondo (“Forbes”).Così la vedono i russi. Che hanno ritrovato un po’ di fiducia il giorno in cui è arrivato Putin e ha ripreso in mano, nel bene e nel male, il paese. Questo dice Natalia Fjodorovna, che ha avuto una vita lunga e difficile, e partorì il suo primo figlio su un treno mentre fuggiva non sapeva dove coi nazisti alle calcagna. Ogni russo ha una storia incredibile da raccontare, una storia che – proprio come ha dimostrato Emmanuel Carrère con “Limonov” – vale un romanzo. Loro sì che possono spiegarci perché non si è ancora formata una vera borghesia in Russia. Ma per favore, almeno a Mosca, non chiamatela così.(Fiammetta Cucurnia, “Come si spiega il consenso russo per Putin”, da “Il Venerdì di Repubblica” dell’11 aprile 2014, ripreso da “Megachip”).Pare che i russi siano proprio innamorati di Vladimir Putin. Non tutti, certo, ma una enorme maggioranza. L’ultimo sondaggio dell’istituto Vciom-Levada, considerato il più affidabile del paese, accredita al leader del Cremlino un indice di popolarità del 76 per cento (per la precisione il 75,7). Sì dirà che il dato è falsato dai fatti della Crimea, ma nel maggio del 2012 era il 68,8 per cento a sostenere Putin, e mediamente negli ultimi 13 anni questo dato si è mantenuto sempre più o meno stabile, un po’ sopra al 60 per cento. In questi giorni, poi, come mai prima, arrivano molte telefonate di amici russi che proprio non riescono a spiegarsi l’atteggiamento dei paesi occidentali verso il loro leader e, dunque, semplificando, verso di loro. Chi pensa che sia facile dare una spiegazione convincente, sbaglia di grosso. Perché per spiegare ci vogliono le parole, e le parole hanno un significato molto diverso quando le dici a Roma o a Mosca.
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Obama mente: ridetegli in faccia, o vi porterà in guerra
«Ma Obama si rende conto che sta conducendo gli Usa ed i loro Stati-fantoccio verso la guerra con la Russia e la Cina?». Paul Craig Roberts, già sottosegretario al Tesoro con Ronald Reagan, lancia l’allarme: l’inquilino della Casa Bianca sembra manipolato dai neo-conservatori del suo governo. «La Prima e la Seconda Guerra Mondiale sono state il prodotto di ambizioni e di errori di un piccolo numero di persone». Nella “Genesi della Guerra Mondiale”, Harry Elmer Barnes dimostra che la Grande Guerra è stata causata dalla miopia di un pugno di politici, come il presidente francese Raymond Poincaré e il ministro degli esteri russo Sergej Sazonov. «Poincaré chiedeva alla Germania l’ Alsazia-Lorena, e i russi volevano Istanbul e il Bosforo, che collega il Mar Nero al Mediterraneo. Si resero conto che le loro ambizioni richiedevano una guerra generale europea e lavorarono per produrre proprio quella guerra».Il kaiser tedesco Guglielmo II fu accusato di essere responsabile del conflitto, e invece «fece tutto il possibile per evitarlo», dice Craig Roberts. Il libro di Barnes fu pubblicato nel 1926, e l’autore fu accusato di esser stato pagato dai tedeschi per “assolvere” la Germania. Ma, 86 anni dopo, lo storico Christopher Clark nel suo libro “I sonnambuli”, arriva alla stessa conclusione di Barnes. «Mi è stato insegnato che la colpa della guerra fu della Germania, che sfidò la supremazia navale britannica costruendo un eccessivo numero di navi corazzate». Falso. «Gli storici di corte che ci hanno propinato questa storia – dice Roberts – furono gli stessi che gettarono le basi per la Seconda Guerra Mondiale». Oggi, continua l’analista americano, «siamo di nuovo su una strada che conduce ad una guerra mondiale».Cent’anni fa, le basi per dare il via alla guerra furono costruite «con l’inganno»: la Germania «doveva essere presa alla sprovvista», e gli inglesi «manipolati», come l’opinione pubblica degli altri paesi coinvolti, sottoposta «a un lavaggio del cervello e a una propaganda aggressiva». Oggi, dice Roberts, è più che evidente chi sta lavorando per la guerra: «Le bugie dette sono palesi e tutto l’Occidente sta partecipando, con i suoi governi e i suoi media». Come il primo ministro canadese Stephen Harper, che Roberts definisce «il burattino americano», che avrebbe «mentito spudoratamente a una televisione canadese quando ha affermato che il presidente russo Putin ha invaso la Crimea, minacciato l’Ucraina e dato il via ad una nuova guerra fredda». L’altra metà del problema? Il conduttore del programma televisivo: «Era lì seduto e annuiva con la testa, in accordo con queste chiare menzogne».«Il copione che Washington ha fornito al suo fantoccio canadese – scrive Craig Roberts in un post tradotto da “Come Don Chisciotte” – è lo stesso che è stato dato a tutti i burattini di Washington». Ovunque, in Occidente, il messaggio è lo stesso: Putin ha invaso e annesso la Crimea, Putin è determinato a ricostruire l’impero sovietico, Putin dev’essere fermato. Craig Roberts riferisce di aver sentito molti canadesi «piuttosto indignati nel vedere che il loro governo rappresenti Washington e non il Canada». E nonostante Harper «sia quello che è», “Fox News” e Obama «sono molto, molto peggio». La Fox? E’ «l’organo di propaganda di Murdoch», secondo cui Putin avrebbe di fatto «ripristinato la pratica sovietica dell’esercizio della forza bruta». Un “esperto” invitato in studio non ha dubbi: Putin, ovviamente, «incarna una specie di “giovane Hitler”». Secondo Craig Roberts, «la totale ignoranza storica dell’Occidente dà credito ad Obama, o ai suoi “gestori” o “programmatori”», che possono manipolare notizie e opinione pubblica.Obama, poi, è ben oltre la decenza: ha appena dichiarato che la distruzione dell’Iraq da parte di Washington – bilancio: un milione di morti, quattro milioni di profughi, infrastrutture devastate, esplosione della violenza settaria e totale rovina di un paese – non va considerata così grave come «l’accettazione da parte della Russia dell’autodeterminazione della Crimea». Surreale, continua Craig Robert, il discorso di Obama a Bruxelles lo scorso 26 marzo: la Russia, dice l’inquilino della Casa Bianca, «deve essere punita dall’Occidente per aver permesso alla Crimea di autodeterminarsi». E cioè: «Il ritorno per propria volontà di una provincia russa alla sua madre patria dopo 200 anni viene considerato come un’azione dittatoriale, tirannica e antidemocratica». Parola di Obama, l’uomo che «ha appena rovesciato il governo democraticamente eletto dell’Ucraina sostituendolo con dei tirapiedi scelti da Washington», e ora parla di «sacro ideale delle genti di tutte le nazioni, libere di prendere le proprie decisioni sul loro futuro». Ridicolo: «Questo è esattamente ciò che ha fatto la Crimea, e che – al contrario – il golpe degli Stati Uniti a Kiev ha violato».E dov’è finito, tra l’altro, lo Stato di diritto negli Usa? «L’habeas corpus, il giusto processo, il diritto di istituire un processo e di determinare la colpa prima dell’arresto o dell’esecuzione e il diritto alla privacy, sono stati tutti calpestati dal regimi Bush e Obama. Gli Stati Uniti e il diritto internazionale sono contrari alla tortura: eppure Washington ha istituito in tutto il mondo prigioni che praticano la tortura. Come è possibile che il rappresentante del governo degli Stati Uniti, di fatto criminale di guerra, possa stare davanti ad un pubblico europeo e parlare di “stato di diritto”, “diritti individuali”, “dignità umana”, “autodeterminazione” e “libertà”, senza che il pubblico scoppi a ridere?». Quello di Washington, continua Craig Roberts, «è il governo che ha invaso e distrutto l’Afghanistan e l’Iraq basandosi su bugie», lo stesso governo «che ha finanziato e organizzato il rovesciamento dei governi libico e honduregno e che sta tentando di fare la stessa cosa in Siria e in Venezuela».E’ un governo, quello di Washington, che «attacca con droni e bombe popolazioni dei paesi sovrani del Pakistan e dello Yemen», e intanto riempie di truppe tutta l’Africa e «ha circondato la Russia, la Cina, l’Iran con basi militari». Seriamente: «E’ proprio questo gruppo di guerrafondai che ha l’ardire di continuare ad affermare che sta difendendo gli ideali internazionali contro la Russia?». Nessuno ha applaudito il discorso di Obama, «ma il fatto che l’Europa accetti tali menzogne senza protestare equivale a un benestare a Washington per scatenare una guerra». Obama chiede più truppe Nato di stanza in Europa orientale allo scopo di «contenere la Russia», cosa che «tranquillizzerebbe la Polonia e gli Stati baltici che, come membri della Nato, sarebbero protetti da un’eventuale aggressione della Russia». Ma, oltre a Obama, c’è qualcuno – sano di mente – che pensa davvero che la Russia stia per invadere la Polonia o il Baltico?Obama, poi, «non dice quale effetto avranno sulla Russia l’escalation militare Usa-Nato e gli altri giochi di guerra sul confine russo». Ovvero: «Sarà il governo russo a dedurre di essere sul procinto di venire attaccato e colpirà per primo? La sconsiderata disattenzione di Obama è proprio quello che di solito provoca le guerre». La situazione è davvero molto pericolosa, insiste Craig Roberts, perché l’Occidente sta davvero minacciando la Russia, trascinando l’Europa verso il disastro. «Chi potrebbe mai credere che Obama, il cui governo è responsabile ogni giorno della morte di persone in Afghanistan, Iraq, Pakistan, Yemen, Libia e Siria, si curi davvero di un briciolo di democrazia in Ucraina?». Il presidente ha rovesciato il governo di Kiev per poter annettere l’Ucraina nella Nato, cacciare la Russia dalla base navale in Crimea e installare basi missilistiche sul confine russo. «Obama è arrabbiato che il suo piano non stia andando come previsto e sfoga questa sua rabbia e frustrazione contro la Russia», facendo crescere «l’ipocrisia e la presunzione» insieme alla pretesa di «punire la Russia e Putin e demonizzarli ulteriormente». C’è da aspettarsi il peggio: i media soffieranno sul fuoco della propaganda anti-russa destabilizzando ulteirormente l’Ucraina dell’Est, magari al punto di «costringere Putin a inviare davvero delle truppe per difendere i russi».Perché la gente «è così cieca da non vedere che Obama sta conducendo il mondo verso una guerra definitiva?». La pericolosa aggressività di Obama, dice Craig Roberts, ricorda da vicino il trionfalismo di inglesi, francesi e americani dopo la vittoria della Prima Guerra Mondiale, come fosse stato «il trionfo del loro idealismo contro le ambizioni territoriali tedesche e austriache». Ma alla Conferenza di Versailles, ricorda Roberts, furono i bolscevichi – i rivoluzionari vittoriosi a Mosca – a rivelare «l’esistenza dei famigerati Trattati Segreti», il patto di spartizione che avrebbe sostanzialmente amputato la Germania, preparando il terreno per il risentimento popolare del quale poi avrebbe approfittato Hitler. «Nella guerra, gli scopi segreti britannici, russi e francesi erano sconosciuti alla gente, fustigata da una battente propaganda creata appositamente per sostenere una guerra i cui esiti furono ben diversi dalle intenzioni di coloro che la provocarono. Le persone – conclude Roberts – sembrano incapaci di imparare dalla storia. Ora, ancora una volta, vediamo il mondo trascinato lungo un sentiero che attraversa un bosco di menzogne e di propaganda, questa volta a favore dell’egemonia mondiale da parte dell’America».«Ma Obama si rende conto che sta conducendo gli Usa ed i loro Stati-fantoccio verso la guerra con la Russia e la Cina?». Paul Craig Roberts, già sottosegretario al Tesoro con Ronald Reagan, lancia l’allarme: l’inquilino della Casa Bianca sembra manipolato dai neo-conservatori del suo governo. «La Prima e la Seconda Guerra Mondiale sono state il prodotto di ambizioni e di errori di un piccolo numero di persone». Nella “Genesi della Guerra Mondiale”, Harry Elmer Barnes dimostra che la Grande Guerra è stata causata dalla miopia di un pugno di politici, come il presidente francese Raymond Poincaré e il ministro degli esteri russo Sergej Sazonov. «Poincaré chiedeva alla Germania l’ Alsazia-Lorena, e i russi volevano Istanbul e il Bosforo, che collega il Mar Nero al Mediterraneo. Si resero conto che le loro ambizioni richiedevano una guerra generale europea e lavorarono per produrre proprio quella guerra».
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Blondet: imbecilli, applaudono l’uomo della guerra
«Italiani, siete seriamente candidati al premio Darwin. Quando una intera nazione è nel vostro stato, si piega a simili governanti, accetta l’euro (lo accettate ancora in maggioranza), stima Draghi il Rettiliano, considera Napolitano un buon vecchio nonno e si aspetta protezione da Washington e aiuti da Berlino, non appende in piazza Loreto i suoi padroni folli, è logico che finisca come i dinosauri». E’ l’invettiva con cui Maurizio Blondet, su “Effedieffe”, conclude il suo grido di allarme sui drammatici sviluppi della crisi con Mosca: Obama ci sta letterarmente trascinando verso una possibile Terza Guerra Mondiale. Lo dimostra la preoccupante escalation politico-diplomatica contro Mosca, con risvolti militari su cui il mainstream tace: con l’Ue, «nuova prigione dei popoli», l’Ucraina ha appena firmato un dossier di assistenza militare in caso di guerra, mentre ci sono anche militari italiani nel team americano che sta sorvolando, ogni settimana, lo spazio aereo russo. E tutti – tranne Berlusconi – applaudono Obama.«Quelli che decidono a vostro nome sia da Roma, sia soprattutto da Bruxelles, hanno scelto per voi», scrive Blondet, in un post ripreso da “Megachip”. Escludere Mosca dal G8 e accodarsi a Obama, che si permette di minacciare la Russia «in difesa del governicchio ucraino, frutto delle eversioni americane, ovviamente anch’esso non eletto dagli ucraini». Esplicito, l’inquilino della Casa Bianca: «Agiremo in loro difesa qualunque cosa accada: questa è la Nato». Secondo Obama, «ci sono momenti in cui l’azione militare può essere giustificata». Possibile casus belli, dopo l’Ucraina, la “difesa” dei paesi baltici: Lituania, Estonia e Lettonia hanno una popolazione paragonabile a quella di una media provincia italiana, eppure «a Bruxelles contano più di Italia e Spagna», inoltre «fanno i galletti e sfidano Mosca, si armano spendendo il 4% del loro ridicolo bilancio per gli armamenti, perché si sanno coperti dall’America». E Washington, dice Blondet, li addita ad esempio: «Voi europei grossi e molli spendete troppo poco in armi, l’1, il 2% del Pil, scrive il “Wall Street Journal”, dovete armarvi di più, spendere più dalla Lockheed».Accusa Blondet: «Ebbene: i vostri politici vi hanno impegnato a difendere i baltici. Hanno detto sì ad Obama, senza nemmeno rimproverargli le manovre eversive americane a Kiev, ampiamente provate». In pratica, i nostri politici hanno «firmato di nuovo il patto di difesa reciproca della Nato», struttura «che avremmo dovuto sciogliere già dal ‘90, quando si sciolse il Patto di Varsavia». Sicché ora, «se uno dei galletti baltici fa qualche provocazione, noi dovremo partecipare alla guerra contro la Russia, e intanto subire le conseguenze economiche dell’embargo decretato anche da noi, per ordine di Washington». Pericolosa, aggiunge Blondet, la pratica dei sorvoli dello spazio aereo russo, avviati dopo la conquista di Kiev da parte delle milizie di piazza Maidan. Gli Usa «hanno cominciato a sorvolare coi loro aerei lo spazio russo, obbligando anche noi a fare altrettanto». Lo fanno «in base al trattato internazionale Cieli Aperti, “Open Skies”, firmato a Vienna per aumentare la fiducia reciproca nel campo della minaccia nucleare».Il trattato obbliga i paesi firmatari ad aprire il loro spazio aereo a regolari ispezioni. «In buona fede, Putin ha firmato questo trattato nel 2001. La Cina invece no, e guardacaso nessuno la minaccia». Da giorni, «il sorvolo è diventato una vera passione per Washington».Blondet riferisce che il 3 marzo il sorvolo ha visto ispettori francesi a fianco degli americani, mentre l’11 marzo con gli statunitensi «si sono levati ispettori italiani», imitati il 17 marzo da “ispettori” ucraini («non si sa a che titolo») e il 24 marzo di nuovo da ispettori francesi. Un sorvolo a settimana: «Immaginate solo se Putin pretendesse di fare altrettanto nello spazio aereo americano, in questo momento di estrema tensione: tutti i nostri media, all’unisono con i loro padroni americani, strillerebbero: “Provocazione! Aggressione! Espansionismo paleo-sovietico!”». La cosa preoccupante? «E’ quel che ha detto Obama, piombato in Europa a darci ordini. Ha detto di non essere preoccupato dall’aggressione Russa come minaccia per gli Stati Uniti; ha aggiunto però che quello che lo preoccupa è “un fungo atomico sopra Manhattan”. Sapendo che a Manhattan hanno avuto lo stomaco di far saltare quei due grattacieli (l’11 Settembre, e vi siete bevuti la storia ufficiale) per giustificare l’invasione di Afghanistan ed Iraq nonché l’introduzione della tortura nel diritto di guerra statunitense e il non-riconoscimento dei nemici come combattenti legittimi».Blondet riferisce che, nel frattempo, all’Aia si è svolto uno strano vertice sulla sicurezza nucleare. Secondo il ministro degli esteri canadese, John Baird, «al momento attuale la minaccia di terrorismo nucleare resta una delle più gravi per la sicurezza mondiale». Da qui il rafforzamento del partenariato con Israele – presente Yuval Steinitz, ministro dell’intelligence di Tel Aviv – per aiutare «gli Stati del Medio Oriente e altrove a perseguire i pericolosi criminali che conducono attività nucleari illecite». Chi pensava alla solita trama paranoide sionista contro l’Iran, dice Blondet, ora dovrà ricredersi, di fronte alla sconcertante uscita di Obama, che dice di temere «un fungo atomico sopra Manhattan». Siamo sicuri che l’Ucraina abbia consegnato, a suo tempo, tutte le testate che aveva in custodia dall’Armata Rossa? La stessa Yulia Tymoshenko ha appena dichiarato di voler sterminare, con l’atomica, gli 8-10 milioni di russi che vivono nell’Est dell’Ucraina.Escalation nucleare? «Se accade, italioti, ci siete in mezzo», scrive Blondet. «Vi hanno messo in mezzo i mascalzoni di Bruxelles, vi ci ha messo quel tizio danese che si chiama Ander Fogh Rasmussen, vi ha messo in mezzo il governo Napolitano – pardon, volevo dire il governo Renzi». E per cosa? «Per salvare “la democrazia” in Ucraina», un paese che vuole “venire in Europa” e intanto – a parte le atomiche della Tymoshenko – ha già proibito la lingua russa e spento le televisioni che trasmettevano in russo. E sui nostri media mainstream, naturalmente, notte fonda: si evita di dire che l’Ucraina ha firmato solo il 2% del trattato di pre-adesione all’Ue, cioè la parte che riguarda «un piano per una politica estera e di sicurezza congiunta», e che dopo le elezioni del 25 maggio si trasformerà in «un insieme di condizioni di riforma militare che equivalgono “ad un accordo con la Nato preliminare all’integrazione”».Regista dell’operazione, Herman Van Rompuy. «E i nostri politici non hanno eccepito. Anzi, hanno detto: “Sì, escludiamo la Russia dal G8”». Tutti, tranne uno: Berlusconi. «Credo sia avventato e controproducente aver escluso la Russia dal vertice di ieri all’Aia», ha detto il Cavaliere. «Questo contrasta con il lungo lavoro fatto da noi, dal governo italiano: siamo stati noi a trasformare il G7 in G8 a Genova con Putin». Peccato però che Berlusconi non sia più in Parlamento e sia prossimo agli arresti domiciliari, conclude Blondet. Il leader di Forza Italia – l’unico fuori dal coro anti-russo – non ha più alcuna prospettiva di governare in futuro, e dopo tutti i disastri del passato recente – ora appare troppo indebolito per impostare una politica anti-Ue e contraria alle pericolose forzature di Obama. «L’elettorato di centrodestra è nella mani dell’harem, della mignottocrazia, delle concubine». In altre parole, siamo rovinati: se Berlusconi sembra «un decrepito imperatore cinese», tutti gli altri applaudono entusiasti alla guerra che verrà.«Italiani, siete seriamente candidati al premio Darwin. Quando una intera nazione è nel vostro stato, si piega a simili governanti, accetta l’euro (lo accettate ancora in maggioranza), stima Draghi il Rettiliano, considera Napolitano un buon vecchio nonno e si aspetta protezione da Washington e aiuti da Berlino, non appende in piazza Loreto i suoi padroni folli, è logico che finisca come i dinosauri». E’ l’invettiva con cui Maurizio Blondet, su “Effedieffe”, conclude il suo grido di allarme sui drammatici sviluppi della crisi con Mosca: Obama ci sta letterarmente trascinando verso una possibile Terza Guerra Mondiale. Lo dimostra la preoccupante escalation politico-diplomatica contro Mosca, con risvolti militari su cui il mainstream tace: con l’Ue, «nuova prigione dei popoli», l’Ucraina ha appena firmato un dossier di assistenza militare in caso di guerra, mentre ci sono anche militari italiani nel team americano che sta sorvolando, ogni settimana, lo spazio aereo russo. E tutti – tranne Berlusconi – applaudono Obama.
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Costretto a usare la forza, Putin ha già perso l’Ucraina
I balaclava coprono i volti dei giovani soldati russi di stanza in Crimea. Soldati che in queste ore ultimano l’occupazione dei centri nevralgici della penisola, aiutati da alcuni “volontari” locali. Ironia della sorte, i copricapi che nascondono i loro volti portano il nome dalla città di Balaklava, oggi parte della municipalità di Sebastopoli. Teatro in passato di un’importante battaglia della guerra di Crimea. Battaglia che registrò la sconfitta dei russi. In una guerra che, non a caso, vide coinvolte le medesime regioni oggetto dei confronti odierni fra le potenze del XXI secolo e la Federazione Russa: il Mar Nero, il Caucaso, il Baltico, l’Est Europa. Regioni che trovano spazio nei libri di storia, e nella cronaca, ogni qual volta viene posto in essere il tentativo di contenere la Russia, e con essa i propri interessi strategici, entro i “propri confini”. Confini che ogni potenza ha percepito, e percepisce, come differenti. Secondo i propri interessi.Ogni qual volta una o più potenze occidentali da un lato, e la potenza russa dall’altro, hanno deciso di sconvolgere, o viceversa, di tentare il consolidamento degli equilibri strategici consolidatesi in queste regioni, hanno frequentemente fallito. Ottenendo, talune volte, risultati catastrofici. Opposti alle rispettive aspettative iniziali. Accadde durante la guerra di Crimea. Accadde con le iniziative politiche e diplomatiche antecedenti le due guerre mondiali. E’ accaduto in parte durante la guerra fredda. Nonché successivamente al crollo dell’Urss. E’ appena accaduto con l’espansione frenetica ad est, effettuata dall’Unione Europea negli anni duemila. E accade oggi. Con la differenza che il colpo che si è tentato di assestare alla Russia, con l’inclusione nell’orbita occidentale ed europea dell’Ucraina, ha tutta l’aria del colpo definitivo. Inaccettabile per Mosca.Molti si ricorderanno la “Rivoluzione Arancione”, iniziata nel 2004. Esperienza terminata con la coabitazione ai vertici dello Stato fra i due leader rivali Yanukovich e Juscenko. Le recenti vicende di piazza Maidan sembravano molto simili a quelle del decennio scorso. A tratti speculari. Eppure il risultato è stato assai diverso, con il degenerare di un crisi che è parsa fin da subito inevitabile. Oggi, a differenza di allora, la crisi è sfociata in una occupazione militare ad opera della Russia. L’instabilità ha varcato i confini nazionali ucraini, ora rischia di diffondersi, destabilizzando l’intera regione. Le motivazioni di ciò sono diverse, ma alcune evidenti e di facile individuazione: oggi, a differenza di allora, lo scenario globale è cambiato.Dall’inizio della crisi economica, sono andate sempre più consolidandosi nuovi interessi e nuove alleanze strategiche. Alleanze che agli inizi del decennio scorso si intravvedevano appena. Terminato definitivamente il tentativo unipolare dell’America di Bush, il mondo è andato dividendosi. Sono aumentate le potenze regionali in competizione fra loro per il controllo di aree strategiche, economiche e commerciali. In questo contesto, la strategia obamiana prevede un rapido ridispiegamento, attraverso una riduzione drastica dell’esercito statunitense e la creazione di due zone di libero scambio, una Trans-Pacifica (Tpp) e l’altra Trans-Atlantica (Tap). Un ridispiegamento della potenza americana che lascerà molti spazi liberi sullo scacchiere mondiale. Spazi che altre potenze regionali tenteranno rapidamente di colmare. L’Europa si trova al centro di uno di questi spazi. L’Unione Europea “potrebbe” scegliere fra la possibilità di adesione al nuovo disegno obamiano delle aree di libero scambio, attraverso la Tap, o alternativamente valutare la possibilità di apertura e consolidamento delle relazioni con la Federazione Russa. Conseguentemente anche con il Caucaso, l’ Asia Centrale e poi l’intera regione euroasiatica.Ma per l’Est europeo l’amministrazione Obama ha piani ben precisi. Ereditati dalle precedenti amministrazioni e che si sostanziano nell’attività di contenimento della Federazione Russa. Da un lato attraverso lo scudo antimissilistico in fase di dislocamento nei paesi dell’Est e, dall’altro, attraverso l’adesione degli ex paesi europei del blocco socialista, alla Nato. Favorendo lo spostamento del “confine politico” dell’Unione Europea e dei paesi che ruotano nella sua orbita, a ridosso dei confini giuridici della Federazione Russa. Eliminando ogni governo filo-russo che si interponga fra questi confini giuridici e i “confini politici” dell’Unione. Un disegno fondamentale per gli interessi americani, funzionale all’inclusione dell’Unione Europea nell’area di libero scambio Trans-Atlantica. Un disegno che si scontra con la percezione russa dei propri “confini”, mai individuati come un limite statico, ma come un limite dinamico, a seconda dei propri interessi. Un disegno, quello americano, che ha ottenuto il sostegno favorevole di numerosi Stati europei.In questo contesto, il tentativo di sottrarre l’Ucraina alla sfera di influenza russa ha sconvolto un equilibrio che aveva profonde radici storiche. Inoltre, la Federazione Russa ha percepito il tentativo di passaggio dell’Ucraina nella sfera europea e occidentale come un passaggio potenzialmente definitivo e irreversibile. Come una minaccia senza precedenti. L’ipotesi di vedere, nell’arco di un decennio, lo Stato ucraino come un partner consolidato della Nato, dotato dello scudo antimissilistico americano, schierato lungo i confini con la Russia, è apparsa a Putin come uno dei peggiori incubi. Al quale si sarebbe aggiunto la perdita della Crimea, con il conseguente venir meno del controllo esercitato sul Mar Nero. Di fronte all’eventualità di questi cambiamenti radicali, Putin non poteva restare a guardare. Ma, nel medesimo tempo, si è trovato senza alternative. Ha dovuto optare per una reazione forte. L’utilizzo della forza militare. Oggi in Ucraina, come ieri in Georgia.Ma non si tratta di un punto di forza a suo favore, come molti credono. Anzi, si tratta dell’evidente dimostrazione che la Russia di Putin è sprovvista di validi strumenti di politica estera, diversi dall’uso della forza e dall’esercizio del ricatto energetico. Ricatto che può attuare solo in parte, necessitando dei proventi economici ottenuti dalla commercializzazione degli idrocarburi. Si tratta quindi di una Russia caratterizzata da una manifesta debolezza. Non in grado di esercitare nessun “Soft Power”. Obbligata ad aggrapparsi all’uso della potenza militare. La quale, a sua volta, non garantisce la possibilità di esercitare una influenza continuativa. Non garantisce nemmeno la stabilità interna, nel medio periodo, delle aree sottoposte a questa influenza. A ciò si aggiunge il fatto che il ricorso alla forza può essere esercitato solo per periodi limitati, all’interno del contesto occidentale, pena la marginalizzazione dallo scenario internazionale.Quindi, uno dei vantaggi di Puntin, ovvero il fatto che l’Ucraina non ha un esercito degno di questo nome, non può esser sfruttato pienamente. Putin ne è consapevole e per questo la sua strategia odierna si protrae lungo tre direttrici. L’occupazione militare della Crimea, al fine di mantenere inalterati i vantaggi strategici che la penisola offre, compresa l’egemonia navale russa nel Mar Nero e sul Caucaso. Occupazione che Putin spera di consolidare con il “referendum” previsto per fine mese. “Referendum” che si limiterà a confermare una indipendenza da Kiev già sancita nei fatti. Si tratta inoltre di una occupazione che svolge una funzione di “sfogo” parziale delle tensioni e di riassetto, a favore della Russia, dopo il crollo dell’equilibrio precedente. Il secondo obbiettivo, in realtà di primaria importanza per Putin, è la destabilizzazione interna dell’Ucraina. Senza realizzare occupazioni estese ad ampie regioni del territorio. Destabilizzazione da realizzarsi semplicemente mantenendo una presenza militare minima, anche indiretta, ma accompagnata da una minaccia costante di un impiego massiccio della forza.Alcune zone si proclameranno indipendenti da Kiev, Mosca ne garantirà l’“indipendenza”, senza la necessità di intervenire in forze all’intero del territorio ucraino. L’intento di Putin è quello di impedire al governo di Kiev di consolidarsi. Sia all’interno del territorio ucraino stesso, sia come partner credibile nei confronti dei paesi europei. Questi due aspetti sono funzionali ad uno scopo ben preciso: poter esercitare maggior peso durante le trattative con la Germania e l’Unione Europea, volte alla risoluzione della crisi. Trattative in cui Putin si aspetta di ottenere quante più garanzie possibili sul futuro dell’Ucraina, sul ruolo che la Nato avrà in questo paese. Così come punta a veder riconosciute ampie garanzie sugli spazi di manovra che Mosca vorrà riservarsi, come prerogativa, sul futuro ucraino.Tuttavia Putin, in queste trattative, parte perdente. Questo Putin lo sa, chiaramente. Il suo sogno di fare della Federazione Russa un nuovo centro strategico nei confronti di Stati e potenze minori è fallito. Naufragato ad occidente, con pochi superstiti. Uno di questi è la Bielorussia, ormai rimasta sola, con un semplice salvagente che non le permetterà di restare a galleggiare di fronte ai prossimi cambiamenti europei. Fallito perché ancora una volta Mosca è dovuta ricorrere ai suoi blindati, alla forza, la forza bruta. Uno strumento, quest’ultimo, che può anche risultare funzionante nell’immediato, ma che usato nel contesto occidentale contemporaneo appare sempre più come uno strumento vecchio, un “ferro arrugginito”. Soprattutto se viene visto nelle mani chi voleva fare del proprio paese una potenza, dotata di una valida capacità attrattiva nei confronti di altri Stati della regione euroasiatica.L’uso della forza oggi, da parte di Mosca, appare come una mannaia nelle mani di un chirurgo. Allontanerebbe chiunque. Esattamente ciò che sta accadendo in queste ore. In molti Stati minori, all’interno dell’orbita della Federazione Russa, si registrano preoccupanti reazioni di fronte alla vicenda Ucraina. Di fronte al fatto, evidente, che la propria libertà finisce dove gli interessi della Russia hanno inizio. Il presidente russo è già stato sconfitto. Il suo progetto, il suo disegno del ruolo che la Federazione Russa avrebbe dovuto ricoprire nel mondo, agli inizi del XXI secolo, è fallito. Il suo paese non è in grado di esercitare nessuna pressione differente da quelle derivanti dal ruolo di semplice fornitore di risorse energetiche, materie prime e armi. La Russia non ha espresso nessun modello economico e culturale alternativo e, al tempo stesso, attrattivo nei confronti di altri Stati. Lo “spazio russo” rappresenta semplicemente un’alternativa per gli Stati che, non essendo integrati o integrabili in aree strategiche di altre potenze, non vogliono restare soli nel nuovo scenario internazionale.Putin ha perso l’Ucraina. Anche se dovesse riconquistarla interamente con l’uso della forza. Cosa che, quasi certamente, si guarderà bene dal fare. Tratterà quindi una soluzione con la Merkel, ma tratterà da perdente. Putin, in queste condizioni, può solo puntare al raggiungimento di un momentaneo pareggio, illusorio. A molti osservatori è sfuggito il fatto che questa è la più grave crisi europea dal dopoguerra ad oggi. Probabilmente la più grave, dal punto di vista internazionale, dalla crisi dei missili di Cuba. A molti è anche sfuggito il fatto che i fattori per una ulteriore destabilizzazione regionale, e un ulteriore deterioramento della crisi, ci sono tutti. Una grande potenza in declino, obbligata ad affidarsi all’uso della forza, lo scenario internazionale frammentato, una grave crisi della legittimità nel contesto internazionale, una crisi del multilateralismo, la crisi dell’ordine nella società internazionale, una crisi economica con pochi precedenti. E un leader non incline a compromessi. Il presidente russo è già stato sconfitto. Non serve umiliarlo. In queste condizioni è logico offrire a Putin un pareggio, dietro al quale possa nascondere l’irrecuperabile sconfitta. Offrire alla Russia una soluzione accettabile. Al più presto.(Lorenzo Andorni, “Nella crisi ucraina Putin entra sconfitto, ma da sconfitto non vorrà uscirne”, dal blog di Aldo Giannuli del 4 marzo 2014).I balaclava coprono i volti dei giovani soldati russi di stanza in Crimea. Soldati che in queste ore ultimano l’occupazione dei centri nevralgici della penisola, aiutati da alcuni “volontari” locali. Ironia della sorte, i copricapi che nascondono i loro volti portano il nome dalla città di Balaklava, oggi parte della municipalità di Sebastopoli. Teatro in passato di un’importante battaglia della guerra di Crimea. Battaglia che registrò la sconfitta dei russi. In una guerra che, non a caso, vide coinvolte le medesime regioni oggetto dei confronti odierni fra le potenze del XXI secolo e la Federazione Russa: il Mar Nero, il Caucaso, il Baltico, l’Est Europa. Regioni che trovano spazio nei libri di storia, e nella cronaca, ogni qual volta viene posto in essere il tentativo di contenere la Russia, e con essa i propri interessi strategici, entro i “propri confini”. Confini che ogni potenza ha percepito, e percepisce, come differenti. Secondo i propri interessi.
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Il vero peso dell’Italia, occultato dai padrini dell’euro
Opinion maker come Eugenio Scalfari e Giovanni Floris fanno operazioni di «spudorato terrorismo», perché «spaventavano il pubblico dicendo che, fuori dall’euro, l’Italia avrebbe perso qualsiasi peso economico» e hanno usato espressioni come «finiremmo come il Marocco, o l’Egitto, quei posti lì». Sorvolando sul «retrogusto razzistoide» di frasi di quel genere, che possono far presa «solo su chi ha una totale ignoranza della realtà economica del nostro tempo, e in particolare sul peso specifico del nostro paese nel contesto internazionale», Claudio Martini ricorda che l’Italia «è un paese molto importante, ma sopratutto molto ricco». Peccato che, nell’immaginario collettivo di tanti italiani, il nostro paese resta «una provincia piccola e marginale», che presto sarà «scalzata dalla Thailandia», e che comunque «non può reggere il peso dell’avanzata dei paesi emergenti», quindi deve “fare gruppo” con i cugini europei per resistere alla preoccupante ascesa dei “negri”, membri dell’ex “terzo mondo”. «Corollario: se si esce dall’esclusivo club euro si finisce come il Nord Africa».
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Alternativa: fermiamo i golpisti di quest’Europa mostruosa
Un club planetario a vocazione totalitaria sta distruggendo l’Europa dei popoli, la nostra vita, la nostra democrazia, la nostra libertà. Il nostro futuro è in grave pericolo. Gradualmente, senza che ce ne rendessimo conto, siamo stati consegnati nelle mani di un’oligarchia senza patria e senz’anima, il cui unico collante è il delirio di onnipotenza derivante dal possesso del denaro infinito che essa crea. Coloro che ci hanno condotto a questo guado sono i maggiordomi dei “proprietari universali”: i proprietari finali delle azioni di banche, fondi e corporations internazionali, persone che nessuno di noi conosce, che nessuno ha mai eletto ma che determinano le nostre vite. Essi, sostenuti da parlamenti formalmente eletti, ma in realtà nominati dall’alto, hanno consegnato il potere politico ed economico – un tempo prerogativa degli Stati – a strutture prive di ogni legittimazione democratica. Queste strutture sono le impalcature di un nuovo ordine mondiale in via di costruzione.
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Barnard: ci stanno portando in Kosovo, schiavi sottopagati
Il peggio dell’economia a senso unico noi ancora non l’abbiamo subito, anche se siamo sul punto di. Il grande esperimento delle “riforme”, del “rigore”, delle Austerità, fu inflitto come “laboratorio”, a partire dal crollo del muro di Berlino, a tutto l’Est europeo. Quando l’impero sovietico crollò nell’arco di pochi mesi, le porte dell’Est europeo si spalancarono ai falchi del Libero Mercato e dietro di esse c’erano masse di miserabili sbandati disposti a lavorare per pochi centesimi, assieme a intere economie da spolpare. Le élite d’Europa e degli Usa non avevano mai sognato nulla del genere. E’ ovvio che non sto dicendo che le dittature comuniste erano in alcun modo raccomandabili, ma lo sfruttamento di quelle genti che seguì il loro crollo è stato moralmente rivoltante. Qui di seguito alcuni dati scientifici, ma poi anche un dato aneddotico che, a mio parere, vale più di qualsiasi librone.