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Migranti? Salvini ci distrae dal Mostro: il pareggio di bilancio
Se c’è qualcosa di “vomitevole”, nella politica italiana – per usare un’espressione cara al soave Macron – è l’ipocrita cinismo con cui la sinistra (politica, stampa, establishment) azzanna Salvini in materia di migranti. L’altro problema? Enorme: facendo tutto quel rumore solo sul problema degli sbarchi, non così importante nei numeri, il leader della Lega – messi da parte gli economisti sovranisti Claudio Borghi e Alberto Bagnai – sta letteralmente oscurando il vero dramma nel quale si dibatte il paese. Ovvero: il rigore finanziario imposto da Bruxelles fino al pareggio di bilancio, inserito nella Costituzione dal governo Monti con la complicità di Berlusconi e Bersani. Lo afferma Paolo Barnard, giornalista scomodo e acuminato polemista, il primo a denunciare “l’economicidio” del paese pianificato dalle élite europee neo-aristocratiche. Oligarchi, padroni della finanza e delle multinazionali: sono stati loro a progettare la catastrofe di questa Eurozona, allo scopo di amputare la spesa pubblica per privatizzare tutto e far crollare il sistema economico delle piccole e medie imprese, soffocate dalle tasse. Sempre meno, per tutti noi: “pareggio di bilancio” significa che lo Stato recupera, sotto forma di imposte, tutto quello che ha speso per i cittadini. Peggio ancora, il “surplus di bilancio”: lo Stato anticipa 100, ma poi riscuote 120 (non solo non lascia nulla, ma addirittura impoverisce attivamente il paese). Riuscirà a parlarne, Salvini, quando avrà finito di sbraitare a reti unificare contro “l’invasione” degli africani?Senza una drastica inversione di tendenza, scrive Barnard nel suo blog, l’Italia farà la fine della Svezia: pur essendo dotato di moneta sovrana, il paese scandinavo (patria storica del welfare avanzato) per reggere l’accoglienza dei migranti – tantissimi, 600.000 negli ultimi 5 anni, in un paese di 10 milioni di abitanti, «che in proporzione è come se l’Italia ne avesse avuti 3.600.000» – il governo di Stoccolma, socialdemocratico ma plagiato dal dogma neoliberista dell’Ue, ha letteralmente massacrando la popolazione svedese a suon di tasse. Risultato: le imminenti elezioni rischiano di vincerle a mani basse i populisti Democratici Svedesi, feroci sui migranti ma letteralmente muti sul vero dramma, il pareggio di bilancio. Proprio come Salvini, accusa Barnard, che di fronte all’esodo africano sembra «il vigile tonto che con la paletta pensa di fermare lo tsunami in spiaggia». La sinistra? «Fa venir da vomitare, usa i neri con un cinismo da impiccagione sul posto: non sanno proporre una soluzione sistemica al motivo per cui migrano, e predicano invece la loro accoglienza (a casa e a spese degli italiani sfigati, non certo a casa loro). Questo insulto alla geopolitica gli lava l’anima, ma poi lascia 389 milioni di africani nella disperazione e non risolve un cazzo da 26 anni». Sono almeno 500 milioni, scrive Barnard, gli esseri umani a rischio di migrazione: per ogni sorta di motivo, dal neo-colonialismo europeo all’emergenza climatica, «e non li fermerai mai coi divieti di Salvini». La soluzione? «Deve essere un accordo economico sistemico internazionale».In ogni caso, sottolinea Barnard, i migranti sono il problema numero 300 del nostro “portafoglio”: prima vengono sanità, pensioni, scuola e lavoro. Ben prima dei migranti ci cadono addosso le “chemiotasse” imposte dall’euro, il credito che le banche non concedono, l’Italia che non cresce più da vent’anni. Il problema numero uno è lui: il pareggio di bilancio, «cioè la dittatura Ue che dice che lo Stato deve darti 100 e poi tassarteli tutti e 100, cioè lasciarti nulla nel portafoglio – sanità, pensione, scuola, crescita». Eppure, fateci caso: «La lotta della Lega al nero che sbarca è diventata una tempesta solare», mentre l’opposizione leghista al vero nemico – il pareggio di bilancio – ormai «assomiglia sempre più a un petardo». Salvini? «Sta facendo sbiadire la mostruosità del pareggio di bilancio, che è la prima causa delle pene degli italiani, e li incoraggia a cercare da un’altra parte un capro espiatorio per la loro rabbia da crescente povertà e insicurezza: nell’immigrazione». Per Barnard «è un bypass velenoso, che Salvini alimenta ogni minuto». Il meccanismo «ha una presa micidiale sulla gente» ma è anche «distruttivo», come sta accadendo in Svezia, cioè il paese in crisi verso cui ci starebbe spingendo la Lega, con la sua miopia. Il paradosso, aggiunge Barnard, è che la Lega sulla carta doveva fare l’esatto contrario: mantenerci tutti concentrati sul pericolo numero 1, il pareggio appunto, non distrarci da esso con l’ossessione del pericolo numero 300, cioè gli sbarchi dei migranti.In Svezia ne hanno accolti una quota enorme, sopra il 5% della popolazione nazionale. Tutti assorbiti nel sistema produttivo: industria, sanità, servizi sociali. Economia in crescita, quindi: il Pil è salito del 3,3%, contro la media europea del 2%. Ottimo? No, niente affatto, spiega Barnard: perché poi, dati alla mano, nelle zone meno popolate (il 90% del paese) stanno chiudendo ospedali e consultori. «Ne soffrono le donne, a cui ora le autorità stanno insegnando come partorire in auto perché spesso la maternità più vicina è a oltre 100 km di distanza. Non solo: a volte le partorienti svedesi vengono respinte dai consultori perché sono stipati di pazienti, fra cui anche migranti». Le liste d’attesa in sanità sono letteralmente esplose: non per colpa dei migranti, però, ma per via dei tagli decisi – a monte – dal governo, preoccupato in modo demenziale di raggiungere ogni anno il pareggio di bilancio imposto dall’Ue. Ormai, «quello che viene vantato nel mondo come un sistema di welfare che assiste “dalla culla alla tomba” e che mantiene chi perde il lavoro in relativo agio, oggi fa acqua da tutte le parti». Idem il lavoro: «La disoccupazione svedese, che dovrebbe essere inesistente, è al 7%, e questo nonostante la già citata crescita». Un dato che «fa vergognare la nazione scandinava a confronto con la spietata America, dove i disoccupati sono al 3,9%».Crisi da rigore di bilancio, in salsa nordica: «Gli svedesi non trovano abbastanza case, e se le trovano costano una fortuna. In parte il problema è dovuto al fatto che i 600.000 migranti hanno assorbito alloggi, ma molto di più è dovuto a un mercato immobiliare selvaggio causato da politiche di governo e banca centrale che hanno permesso liquidità a costo quasi zero, quindi incentivato acquisti sempre più frenetici che hanno alzato i prezzi alle stelle, che a loro volta hanno costretto gli svedesi a indebitarsi con le banche da pazzi per avere una casa. Nel frattempo lo Stato non è affatto intervenuto con edilizia popolare per aiutare gli esclusi». Ecco allora il vero motivo del disastro che sta esasperando gli svedesi: e cioè «l’ossessione da parte del governo, persino in una nazione sovrana nella moneta, di pareggiare i bilanci, e addirittura di fare il surplus di bilancio». Per cosa, poi? «Solo poter vantare nelle casse dello Stato un assurdo bottino che contabilmente non ha senso, ma soddisfa i “numerini degli economisti europei”. Ecco come agiscono i pareggi e surplus di bilanci, cioè la macchina d’impoverimento peggiore della storia, in Svezia». E questa, aggiunge Barnard, è «la vera fucina dell’esasperazione dei cittadini, che poi sbagliano clamorosamente target e se la prendono coi migranti (come da noi)».Follia: il governo svedese «non solo pareggia i bilanci da anni, ma ora addirittura fa surplus di bilancio da 4 anni, e intende insistere in questa strage delle tasche dei cittadini fino al 2021 almeno». Questo, sottolinea Barnard, «è il motivo dei drastici tagli governativi a sanità, alloggi pubblici per gli ultra-indebitati, sicurezza e persino welfare. I fondi ai migranti, qui, sono irrilevanti». Altra follia: «Mentre il governo spende 100 per gli svedesi e li tassa 120, ha avuto la buona idea di aumentare le tasse, con l’aliquota massima oltre il 70%, e di tagliare a raffica una serie di sconti fiscali». Chi sta quindi sta assassinando i redditi svedesi? «Risposta: svedesi con pelle bianchissima seduti a Stoccolma, non stranieri di pelle scura (per noi italiani invece è il contrario: gli assassini economici sono in effetti stranieri, ma sempre di pelle bianca, e stanno a Bruxelles)». Terza follia: «Questa idrovora di tassazione e tagli di spesa pubblica nel portafoglio di aziende e famiglie svedesi accade mentre, secondo i dati del ministero delle finanze, il costo per ogni nativo svedese per l’accoglienza dei migranti è di 6.800 euro all’anno in ulteriori tasse. E questo grida vendetta, perché la Svezia è paese a moneta sovrana, e per definizione non necessita di tasse per spendere per qualsiasi cosa, inclusi i migranti. Quindi, se i migranti pesano in parte sui portafogli degli svedesi, la colpa è tutta e solo della scelta di governo di ubbidire ai diktat imperanti in Europa».Ed ecco che scatta il micidiale bypass delle colpe, conclude Barnard: un numero sempre maggiore di svedesi «mica se la prendono col loro demenziale governo e con le sue devastanti politiche fiscali». Al contrario, «se la prendono coi migranti». In pole position, nei sondaggi per le vicinissime elezioni, c’è il partito «di estrema desta e rabbiosamente anti-immigrazione», i Democratici Svedesi, dato addirittura vincente. E qui sta il dramma: se si osserva la piattaforma politica dei Democratici Svedesi, si scopre che il nazionalismo, la patria, l’identità e la xenofobia sono il 98%, mentre il resto «è un’accozzaglia di belle intenzioni su lavoro, anziani, sanità, commercio, ma nulla di specifico sulla vitale necessità di demolire ciò che davvero sta devastando famiglie e aziende svedesi, che è il pareggio (o surplus) di bilancio». Nel loro programma non esiste la voce “abolizione pareggi e surplus di bilancio”. «Strombazzano solo contro le politiche troppo generose sui migranti». Risultato? «Il dramma nordico rimarrà inalterato, esattamente come rimarrà inalterato il dramma italiano se Matteo Salvini, come i Democratici Svedesi, continua a gonfiare l’ipertrofica bolla delle navi nei porti, mentre pacatamente sta costruendo un nulla di fatto su “no euro”, “no pareggio di bilancio”, e su Italexit». E siatene certi, chiosa Barnard: «Dopo le roboanti boutade “macho” dell’uomo forte italiano, nel vostro portafoglio, nella sanità, nelle pensioni, nelle scuole, nel lavoro tuo e dei figli, nelle ‘chemiotasse’, nei crediti che non ti danno, e nell’Italia che non cresce da 20 anni non ci sarà un nero. Ci sarà Salvini».Se c’è qualcosa di “vomitevole”, nella politica italiana – per usare un’espressione cara al soave Macron – è l’ipocrita cinismo con cui la sinistra (politica, stampa, establishment) azzanna Salvini in materia di migranti. L’altro problema? Enorme: facendo tutto quel rumore solo sul problema degli sbarchi, non così importante nei numeri, il leader della Lega – messi da parte gli economisti sovranisti Claudio Borghi e Alberto Bagnai – sta letteralmente oscurando il vero dramma nel quale si dibatte il paese. Ovvero: il rigore finanziario imposto da Bruxelles fino al pareggio di bilancio, inserito nella Costituzione dal governo Monti con la complicità di Berlusconi e Bersani. Lo afferma Paolo Barnard, giornalista scomodo e acuminato polemista, il primo a denunciare “l’economicidio” del paese pianificato dalle élite europee neo-aristocratiche. Oligarchi, padroni della finanza e delle multinazionali: sono stati loro a progettare la catastrofe di questa Eurozona, allo scopo di amputare la spesa pubblica per privatizzare tutto e far crollare il sistema economico delle piccole e medie imprese, soffocate dalle tasse. Sempre meno, per tutti noi: “pareggio di bilancio” significa che lo Stato recupera, sotto forma di imposte, tutto quello che ha speso per i cittadini. Peggio ancora, il “surplus di bilancio”: lo Stato anticipa 100, ma poi riscuote 120 (non solo non lascia nulla, ma addirittura impoverisce attivamente il paese). Riuscirà a parlarne, Salvini, quando avrà finito di sbraitare a reti unificare contro “l’invasione” degli africani?
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Genova e i complottisti che non vedono l’agguato all’Italia
E’ già stata programmata la prossima aggressione americana alla Siria? Se lo domanda “The Saker”, pensando all’imperialismo yankee oggi più che mai ostile all’Iran, mentre a Washington l’impeccabile Barack Obama e l’assai meno impeccabile George W. Bush piangono la dipartita del vecchio leone John McMcain, presentato come eroe di guerra – quella del Vietnam, però (non quella siriana, dove celebri fotografie immortalano lo stesso McCain, dalle parti di Damasco, a colloquio con un’illustre congrega di tagliagole, tra cui l’oscuro Abu Bakr Al-Baghdadi, nome d’arte del futuro capo-macelleria del sedicente Isis). Si fa presto a dire “l’America”, quando è palese che neppure un americano su cento ha idea di come siano andate davvero le cose, in Siria, cioè nel paese dei bombardamenti immaginari con gas nervino sulla popolazione inerme, disposti dal feroce regime di Assad sul quale proprio l’elegantissimo Obama stava per scatenare l’Armageddon missilistico. Lo schema è classico, ormai datato ma sempre formidabile: la fanfara mediatica suona la sua canzone, che poi a casa – davanti al televisore – fischiettano tutti. E quelli che si rifiutano (non più così pochi, ormai) spesso cadono nel tranello del festival opposto, che poi è l’altra faccia della stessa medaglia. Complottismo militante: caccia al Colpevole Unico, al reprobo di turno. Uno sport che, secondo Gianfranco Carpeoro, finisce sempre per assolvere il solo, vero responsabile: il sistema.Lo spiega benissimo anche uno specialista come Massimo Mazzucco, in diretta web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”, addentrandosi nel presunto giallo del viadotto Morandi a Genova, che si vocifera sia stato segretamente minato per scatenare la strage di ferragosto. L’ingegnere veneto che rilancia la testi del complotto, adombrando l’ipotesi dell’attentato, ordito magari per colpire Autostrade per l’Italia, che ormai è un gestore internazionale di infrastrutture viarie? Sfortunatamente, quel tecnico è stato ingaggiato proprio da Atlantia, la società dei Benetton: cioè i soggetti che più trarrebbero vantaggio dall’accreditare il sospetto dell’ipotetico attentato, visto che metterebbe in ombra le loro eventuali responsabilità sul mancato controllo della sicurezza del ponte genovese. Piuttosto, dice Mazzucco nella sua attenta ricostruzione, l’unica cosa che non torna è la decisione degli inquirenti di non rendere pubblici alcuni filmati-chiave sul crollo. Forse rivelano indizi sulla grave incuria che, alla fine, ha determinato il collasso del viadotto? Quelle immagini, si dice, restano riservate per non condizionare i testimoni oculari che gli inquirenti devono ancora ascoltare. Ma non ha senso, protesta Mazzucco: se già si dispone di immagini incontrovertibili, infatti, a cosa serve il racconto (fatalmente frammentario e impreciso) di semplici testimoni? Ovvero: qualcuno sta esercitando pressioni “mostruose”, sui magistrati di Genova, per tentare di nascondere le evidenze dell’omessa manutenzione dell’infrastruttura?Citando il saggio “Massoni” di Gioele Magaldi, e attingendo al proprio patrimonio personale di contatti e informazioni, l’avvocato e saggista Carpeoro, autore di scomode pagine sul terrorismo targato Isis ma in realtà “fatto in casa” da servizi segreti agli ordini dei peggiori network supermassonici, sul caso genovese è illuminante: non scordate, dice, che i Benetton fanno parte di una cerchia paramassonica internazionale vicina ai Clinton e a Obama. Un club più che esclusivo, dominato dalla celeberrima superloggia “Three Eyes”, a lungo ispirata dai massimi strateghi del potere politico statunitense, a cominciare da Kissinger. Non solo: nella composizione azionaria di Atlantia figura anche il maggiore “hedge fund” del pianeta, quel BlackRock a cui – a proposito di privatizzazioni “ad personam” – il giovane Matteo Renzi regalò una bella fetta di Poste Italiane, azienda in ottima salute che fruttava allo Stato, ogni anno, quasi mezzo miliardo di euro. Il patron di BlackRock, cioè la star della finanza americana Larry Fink, secondo Magaldi avrebbe gravitato nell’orbita di un’altra Ur-Lodge, quasi “sorella” della “Three Eyes” ma se possile molto peggiore, avendo reclutato tra i suoi affiliati un certo Osama Bin Laden (l’autore del film “11 Settembre”) e lo stesso Al-Baghdadi (aiuto-regista dell’ultimo kolossal horror, quello siglato Isis).Che crolli un ponte in Italia o franino grattacieli negli Usa – minati, quelli sì – il risultato è lo stesso: l’uomo della strada ci rimette la pelle, oltre che un sacco di soldi, mentre i responsabili non pagano mai, prevedibilmente protetti da tonnellate di menzogne, depistaggi e insabbiamenti. Colpa loro, si domanda Carpeoro, o piuttosto di un sistema incapace di giustizia? L’avvocato ricorre a un esempio: «E’ stata sgominata, la mafia, dopo l’arresto di Riina? Ma no, c’era Provenzano. Preso anche lui, ecco Matteo Messina Denaro. Il giorno che arrestassero pure quello, qualcuno dubita che, nel giro di una notte, i boss troverebbero un nuovo capo?». Beninteso: spesso i criminali poi finiscono, giustamente, in galera. Ma il potere giudiziario non è in grado di fare davvero giustizia: può solo limitare i danni. Infatti, per statuto, interviene soltanto a cose fatte, quando cioè il reato è già stato commesso. Perché il sistema cambi, nel senso della vera giustizia, è necessario che, a monte, certi reati non si commettano più. Solo così sarebbe possibile evitare disastri, stragi, truffe e rapine colossali. Migliorare il sistema, dunque. Già, ma come?Missione impossibile, se restiamo quasi sempre al buio: troppo spesso, infatti, non disponiamo delle informazioni-chiave. Nessuno sa, davvero, ciò che sta accadendo. A proposito: quanti italiani sapevano che le loro autostrade, pagate con provvidenziale debito pubblico strategico negli anni d’oro, erano state interamente privatizzate? Quanti sapevano che la famiglia Benetton è poco più che il paravento italiano di un mega-affare, essenzialmente internazionale, pensato lontano dall’Italia e dato in gestione, per la sua esecuzione formale, a Massimo D’Alema? E dov’erano, gli elettori italiani, mentre tutto questo accadeva? Tutti a fare il tifo: pro o contro il Cavaliere di Arcore, “domato” da Romano Prodi e poi, appunto, da D’Alema. Idem i giornalisti italiani: tutti presi anche loro dall’insignificante derby politico, anziché dall’anomalia – sostanziale – che consiste nel regalare a colossi privati un pezzo di paese come la rete autostradale, che oggi frutta profitti per 6 miliardi di euro all’anno, cioè 12.000 miliardi di lire. La scusa, storica? C’era il debito pubblico da “risanare”.Era la fiaba degli italiani spreconi e spendaccioni, che ha fatto la fortuna politica di personaggi come Antonio Di Pietro. Poi è arrivato il Risanatore, quello vero: Mario Monti, paracadutato a Palazzo Chigi da Mario Draghi e Giorgio Napolitano. E tutti hanno cominciato a capire cosa indendono, uomini come quelli, con la parola “risanamento”. In un attimo l’Italia ha visto crollare il Pil, ha perso il 25% del suo potenziale industriale e ha accusato la peggior crisi dal dopoguerra, con una disoccupazione record. Ora qualcuno ha imparato che il debito pubblico, per definizione, non è da “risanare” come quello di una famiglia o di un’azienda, perché lo Stato (se è sovrano nella moneta) non deve restituire a nessuno il denaro emesso direttamente dal governo, attraverso la banca centrale. In tanti, ormai, sanno che dal 1980 – prima ancora dell’euro – la banca centrale ha cessato di emettere denaro in modo illimitato, a disposizione del governo: è da allora, infatti, che il debito pubblico è diventato una tragedia nazionale (fino a trasformarsi, con l’euro, in un dramma internazionale).Chi ha messo il dito nella piaga, durante l’ultima campagna elettorale? Matteo Salvini. Chi ha candidato, al Senato? Alberto Bagnai, eminente economista di scuola sovranista. E dov’è, adesso, Salvini? Nel mirino: tutti i poteri forti (stampa, finanza, industria) gli sparano addosso, col pretesto della sua ruvida intransigenza sui migranti. Gli spara addosso Macron, a capo di un paese che ogni anno, in virtù dell’eredità coloniale, “rapina” 500 miliardi di euro a 14 paesi africani. E a Salvini spara a man salva persino l’ormai disperato Pd, cioè il partito che – fin che è vissuto – non ha fatto altro che eseguire gli ordini dei poteri forti, così come il decano D’Alema all’epoca dei maxi-regali, le autostrade poi lasciate crollare, fino al novello Renzi, il “regalatore” di Poste Italiane. Tutta colpa del Pd, dunque, come suggerisce il tifo odierno che vede nel governo gialloverde la prima, vera speranza, per un paese dominato per 25 anni da poteri stranieri? Stando al ragionamento di Carpeoro su Cosa Nostra, la risposta è scontata: puoi anche sanzionare un manovale del crimine, persino un boss, ma dai guai non esci fino a quando vivi in un sistema che prevede l’impunità sostanziale per certi reati.La parte dal cattivo travestito da buono – ormai si sa – è toccata, storicamente, al centrosinistra. Ovvio: mai l’elettorato di sinistra avrebbe tollerato le stesse leggi, se a promulgarle fosse stato Berlusconi. Non hanno fatto una piega, i sindacati, quando invece a contrarre i diritti del lavoro è stato il centrosinistra. Ma, tralasciando gli attori in commedia, sarebbe cambiato qualcosa che se questa storia fosse stata recitata da tutt’altro cast? Dov’è il problema, negli attori o piuttosto nel copione? E’ irrilevante che oggi gli zombie del Pd fingano ancora di esistere: e sanno che, se non fosse comparso il provvidenziale “mostro” Salvini, non saprebbero neppure cosa dire, di fronte alle telecamere. Intanto i ponti crollano, insieme al resto del paese. E c’è chi pensa agli immancabili, fantomatici bombaroli, come se non bastasse lo spettacolo dell’auto-sabotaggio realizzato da un intero paese, a cui i maghi dell’informazione hanno raccontato, indisturbati, che tutto va bene, e che il padrone ha sempre ragione. Quello, semmai, era il vero complotto. E sta venendo alla luce oggi, lentamente, attraverso l’inaudita violenza verbale che l’establishment riserva all’attuale governo: il primo, dopo 25 anni, non partorito direttamente dal potere “complottista”. L’unico governo, per ora, largamente sostenuto dagli elettori.E’ già stata programmata la prossima aggressione americana alla Siria? Se lo domanda “The Saker”, pensando all’imperialismo yankee oggi più che mai ostile all’Iran, mentre a Washington l’impeccabile Barack Obama e l’assai meno impeccabile George W. Bush piangono la dipartita del vecchio leone John McMcain, presentato come eroe di guerra – quella del Vietnam, però (non quella siriana, dove celebri fotografie immortalano lo stesso McCain, dalle parti di Damasco, a colloquio con un’illustre congrega di tagliagole, tra cui l’oscuro Abu Bakr Al-Baghdadi, nome d’arte del futuro capo della premiata macelleria mediorientale, il sedicente Isis). Si fa presto a dire “l’America”, quando è palese che neppure un americano su cento ha idea di come siano andate davvero le cose, in Siria, cioè nel paese dei bombardamenti immaginari con gas nervino sulla popolazione inerme, disposti dal feroce regime di Assad sul quale proprio l’elegantissimo Obama stava per scatenare l’Armageddon missilistico. Lo schema è classico, ormai datato ma sempre formidabile: la fanfara mediatica suona la sua canzone, che poi a casa – davanti al televisore – fischiettano tutti. E quelli che si rifiutano (non più così pochi, ormai) spesso cadono nel tranello del festival opposto, che poi è l’altra faccia della stessa medaglia. Complottismo militante: caccia al Colpevole Unico, al reprobo di turno. Uno sport che, secondo Gianfranco Carpeoro, finisce sempre per assolvere il solo, vero responsabile: il sistema.
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Mafia, Wall Street e traditori: così è stata svenduta l’Italia
Falcone e Borsellino? Eliminati per un motivo più che strategico. Braccando la mafia, erano risaliti – tramite la pista massonica – ai legami finanziari tra l’élite Usa e la manovalanza italiana della grande operazione che si stava preparando, e che avrebbe devastato la storia del nostro paese: la svendita dell’Italia all’élite finanziaria globalista, che si servì di collaborazionisti di primissimo piano. Obiettivo: mettere le mani sullo Stato, razziando risorse e togliendo servizi vitali ai cittadini. All’indomani della catastrofe di Genova, coi riflettori puntati sullo strano caso delle autostrade “regalate” ai Benetton (e ai loro potenti soci d’oltreoceano), è illuminante rileggere oggi la paziente ricostruzione realizzata già nel 2007 da Antonella Randazzo. Mentre i giudici di Mani Pulite davano agli italiani l’illusione di un cambiamento nel segno della trasparenza, mettendo fine alla corruzione della Prima Repubblica, la finanza aglosassone convocava a bordo del Britannia gli uomini-chiave della futura Italia, assoldati per sabotare il proprio paese. Sarebbero stati agevolati dalla super-speculazione di George Soros sulla lira, che tolse all’Italia il 30% del suo valore, favorendone la svendita a prezzi stracciati. Da allora, un copione invariabile: aziende pubbliche rilevate da imprenditori italiani finanziati dalle stesse banche anglosassoni che avevano progettato il “golpe”. Il grande complotto contro l’Italia che – per primo – proprio Giovanni Falcone aveva fiutato.Era il 1992, all’improvviso un’intera classe politica dirigente crollava sotto i colpi delle indagini giudiziarie. Da oltre quarant’anni era stata al potere. Gli italiani avevano sospettato a lungo che il sistema politico si basasse sulla corruzione e sul clientelismo. Ma nulla aveva potuto scalfirlo. Né le denunce, né le proteste popolari (talvolta represse nel sangue), né i casi di connivenza con la mafia, che di tanto in tanto salivano alla cronaca. Ma ecco che, improvvisamente, il sistema crollava. Cos’era successo da fare in modo che gli italiani potessero avere, inaspettatamente, la soddisfazione di constatare che i loro sospetti sulla corruzione del sistema politico erano reali? Mentre l’attenzione degli italiani era puntata sullo scandalo delle tangenti, il governo italiano stava prendendo decisioni importantissime per il futuro del paese. Con l’uragano di Tangentopoli gli italiani credettero che potesse iniziare un periodo migliore per l’Italia. Ma in segreto, il governo stava attuando politiche che avrebbero peggiorato il futuro del paese. Numerose aziende saranno svendute, persino la Banca d’Italia sarà messa in vendita. La svendita venne chiamata “privatizzazione”.Il 1992 fu un anno di allarme e di segretezza. L’allora ministro degli interni Vincenzo Scotti, il 16 marzo, lanciò un allarme a tutti i prefetti, temendo una serie di attacchi contro la democrazia italiana. Gli attacchi previsti da Scotti erano eventi come l’uccisione di politici o il rapimento del presidente della Repubblica. Gli attacchi ci furono, e andarono a buon fine, ma non si trattò degli eventi previsti dal ministro degli interni. L’attacco alla democrazia fu assai più nascosto e destabilizzante. Nel maggio del 1992, Giovanni Falcone venne ucciso dalla mafia. Egli stava indagando sui flussi di denaro sporco, e la pista stava portando a risultati che potevano collegare la mafia ad importanti circuiti finanziari internazionali. Falcone aveva anche scoperto che alcuni personaggi prestigiosi di Palermo erano affiliati ad alcune logge massoniche di rito scozzese, a cui appartenevano anche diversi mafiosi, ad esempio Giovanni Lo Cascio. La pista delle logge correva parallela a quella dei circuiti finanziari, e avrebbe portato a risultati certi, se Falcone non fosse stato ucciso.Su Falcone erano state diffuse calunnie che cercavano di capovolgere la realtà di un magistrato integro. La gente intuiva che le istituzioni non lo avevano protetto. Ciò emerse anche durante il suo funerale, quando gli agenti di polizia si posizionarono davanti alle bare, impedendo a chiunque di avvicinarsi. Qualcuno gridò: «Vergognatevi, dovete vergognarvi, dovete andare via, non vi avvicinate a queste bare, questi non sono vostri, questi sono i nostri morti, solo noi abbiamo il diritto di piangerli, voi avete solo il dovere di vergognarvi». Che la mafia stesse utilizzando metodi per colpire il paese intero, in modo da spaventarlo e fargli accettare passivamente il “nuovo corso” degli eventi, lo si vedrà anche dagli attentati del 1993. Gli attentati del 1993 ebbero caratteristiche assai simili agli attentati terroristici degli anni della “strategia della tensione”, e sicuramente avevano lo scopo di spaventare il paese, per indebolirlo. Il 4 maggio 1993, un’autobomba esplode in via Fauro a Roma, nel quartiere Parioli. Il 27 maggio un’altra autobomba esplode in via dei Georgofili a Firenze, cinque persone perdono la vita. La notte tra il 27 e il 28 luglio, ancora un’autobomba esplode in via Palestro a Milano, uccidendo cinque persone.I responsabili non furono mai identificati, e si disse che la mafia volesse “colpire le opere d’arte nazionali”, ma non era mai accaduto nulla di simile. I familiari delle vittime e il giudice Giuseppe Soresina saranno concordi nel ritenere che quegli attentati non erano stati compiuti soltanto dalla mafia, ma anche da altri personaggi dalle «menti più fini dei mafiosi» (da “reti-invisibili.net”). Falcone era un vero avversario della mafia. Le sue indagini passarono a Borsellino, che venne assassinato due mesi dopo. La loro morte ha decretato il trionfo di un sistema mafioso e criminale, che avrebbe messo le mani sull’economia italiana, e costretto il paese alla completa sottomissione politica e finanziaria. Mentre il ministro Scotti faceva una dichiarazione che suonava quasi come una minaccia («la mafia punterà su obiettivi sempre più eccellenti e la lotta si farà sempre più cruenta, la mafia vuole destabilizzare lo Stato e piegarlo ai propri voleri»), Borsellino lamentava regole e leggi che non permettevano una vera lotta contro la mafia. Egli osservava: «Non si può affrontare la potenza mafiosa quando le si fa un regalo come quello che le è stato fatto con i nuovi strumenti processuali adatti a un paese che non è l’Italia e certamente non la Sicilia. Il nuovo codice, nel suo aspetto dibattimentale, è uno strumento spuntato nelle mani di chi lo deve usare. Ogni volta, ad esempio, si deve ricominciare da capo e dimostrare che Cosa Nostra esiste» (“La Repubblica” , 27 maggio 1992).I metodi statali di sabotaggio della lotta contro la mafia sono stati denunciati da numerosi esponenti della magistratura. Ad esempio, il 27 maggio 1992, il presidente del tribunale di Caltanissetta Placido Dall’Orto, che doveva occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci, si trovò in gravi difficoltà: «Qui è molto peggio di Fort Apache, siamo allo sbando. In una situazione come la nostra la lotta alla mafia è solo una vuota parola, lo abbiamo detto tante volte al Csm» (“La Repubblica”, 28 maggio 1992). Anche il pubblico ministero di Palermo, Roberto Scarpinato, nel giugno del 1992 disse: «Su un piatto della bilancia c’è la vita, sull’altro piatto ci deve essere qualcosa che valga il rischio della vita, non vedo in questo pacchetto un impegno straordinario da parte dello Stato, ad esempio non vedo nulla di straordinario sulla caccia e la cattura dei grandi latitanti» (“La Repubblica”, 10 giugno 1992). Nello stesso anno, il senatore Maurizio Calvi raccontò che Falcone gli confessò di non fidarsi del comando dei carabinieri di Palermo, della questura di Palermo e nemmeno della prefettura di Palermo (“La Repubblica”, 23 giugno 1992).Che gli assassini di Capaci non fossero tutti italiani, molti lo sospettavano. Il ministro Martelli, durante una visita in Sudamerica, dichiarò: «Cerco legami tra l’assassinio di Falcone e la mafia americana o la mafia colombiana» (“La Repubblica”, 23 giugno 1992). Lo stesso presidente del Consiglio, Amato, durante una visita a Monaco, disse: «Falcone è stato ucciso a Palermo, ma probabilmente l’omicidio è stato deciso altrove». Probabilmente, le tecniche d’indagine di Falcone non piacevano ai personaggi con cui il governo italiano ebbe a che fare quell’anno. Quel considerare la lotta alla mafia soprattutto un dovere morale e culturale, quel coinvolgere le persone nel candore dell’onestà e dell’assenza di compromessi, gli erano valsi la persecuzione e i metodi di calunnia tipici dei servizi segreti inglesi e statunitensi. Tali metodi mirano ad isolare e a criminalizzare, cercando di fare apparire il contrario di ciò che è. Cercarono di far apparire Falcone un complice della mafia. Antonino Caponnetto dichiarò al giornale “La Repubblica”, il 25 giugno 1992: «Non si può negare che c’è stata una campagna (contro Falcone), cui hanno partecipato in parte i magistrati, che lo ha delegittimato. Non c’è nulla di più pericoloso per un magistrato che lotta contro la mafia che l’essere isolato».L’omicidio di due simboli dello Stato così importanti come Falcone e Borsellino significava qualcosa di nuovo. Erano state toccate le corde dell’élite di potere internazionale, e questi omicidi brutali lo testimoniavano. Ciò è stato intuito anche da Charles Rose, procuratore distrettuale di New York, che notò la particolarità degli attentati: «Neppure i boss più feroci di Cosa Nostra hanno mai voluto colpire personalità dello Stato così visibili come era Giovanni, perché essi sanno benissimo quali rischi comporta attaccare frontalmente lo Stato. Quell’attentato terroristico è un gesto di paura… Credo che una mafia che si mette a sparare ai simboli come fanno i terroristi… è condannata a perdere il bene più prezioso per ogni organizzazione criminale di quel tipo, cioè la complicità attiva o passiva della popolazione entro la quale si muove» (“La Repubblica”, 27 maggio 1992). Infatti, quell’anno gli italiani capirono che c’era qualcosa di nuovo, e scesero in piazza contro la mafia. Si formarono due fronti: la gente comune contro la mafia, e le istituzioni, che si stavano sottomettendo all’élite che coordina le mafie internazionali. Quell’anno l’élite anglo-americana non voleva soltanto impedire la lotta efficace contro la mafia, ma voleva rendere l’Italia un paese completamente soggiogato ad un sistema mafioso e criminale, che avrebbe dominato attraverso il potere finanziario.Come segnalò il presidente del Senato Giovanni Spadolini, c’era in atto un’operazione su larga scala per distruggere la democrazia italiana: «Il fine della criminalità mafiosa sembra essere identico a quello del terrorismo nella fase più acuta della stagione degli anni di piombo: travolgere lo Stato democratico nel nostro paese. L’obiettivo è sempre lo stesso: delegittimare lo Stato, rompere il circuito di fiducia tra cittadini e potere democratico…se poi noi scorgiamo – e ne abbiamo il diritto – qualche collegamento internazionale intorno alla sfida mafia più terrorismo, allora ci domandiamo: ma forse si rinnovano gli scenari di dodici-undici anni fa? Le minacce dei centri di cospirazione affaristico-politica come la P2 sono permanenti nella vita democratica italiana. E c’è un filone piduista che sopravvive, non sappiamo con quanti altri. Mafia e P2 sono congiunte fin dalle origini, fin dalla vicenda Sindona» (“La Repubblica”, 11 agosto 1992). Anche Tina Anselmi aveva capito i legami fra mafia e finanza internazionale: «Bisogna stare attenti, molto attenti… Ho parlato del vecchio “piano di rinascita democratica” di Gelli e confermo che leggerlo oggi fa sobbalzare. E’ in piena attuazione… Chi ha grandi mezzi e tanti soldi fa sempre politica e la fa a livello nazionale ed internazionale».«Ho parlato in questi giorni con un importante uomo politico italiano che vive nel mondo delle banche. Sa cosa mi ha detto? Che la mafia è stata più veloce degli industriali e che sta già investendo centinaia di miliardi, frutto dei guadagni fatti con la droga, nei paesi dell’est… Stanno già comprando giornali e televisioni private, industrie e alberghi… Quegli investimenti si trasformeranno anche in precise e specifiche azioni politiche che ci riguardano, ci riguardano tutti. Dopo le stragi di Palermo la polizia americana è venuta ad indagare in Sicilia anche per questo, sanno di questi investimenti colossali, fatti regolarmente attraverso le banche» (“L’Unità”, 12 agosto 1992). Anni dopo, l’ex ministro Scotti confesserà a Cirino Pomicino: «Tutto nacque da una comunicazione riservata fattami dal capo della polizia Parisi che, sulla base di un lavoro di intelligence svolto dal Sisde e supportato da informazioni confidenziali, parlava di riunioni internazionali nelle quali sarebbero state decise azioni destabilizzanti sia con attentati mafiosi sia con indagini giudiziarie nei confronti dei leader dei partiti di governo».Una delle riunioni di cui parlava Scotti si svolse il 2 giugno del 1992, sul panfilo Britannia, in navigazione lungo le coste siciliane. Sul panfilo c’erano alcuni appartenenti all’élite di potere anglo-americana, come i reali britannici e i grandi banchieri delle banche a cui si rivolgerà il governo italiano durante la fase delle privatizzazioni (Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers). In quella riunione si decise di acquistare le aziende italiane e la Banca d’Italia, e come far crollare il vecchio sistema politico per insediarne un altro, completamente manovrato dai nuovi padroni. A quella riunione parteciparono anche diversi italiani, come Mario Draghi, allora direttore delegato del ministero del Tesoro, il dirigente dell’Eni Beniamino Andreatta e il dirigente dell’Iri Riccardo Galli. Gli intrighi decisi sul Britannia avrebbero permesso agli anglo-americani di mettere le mani sul 48% delle aziende italiane, fra le quali c’erano la Buitoni, la Locatelli, la Negroni, la Ferrarelle, la Perugina e la Galbani. La stampa martellava su Mani Pulite, facendo intendere che da quell’evento sarebbero derivati grandi cambiamenti.Nel giugno 1992 si insediò il governo di Giuliano Amato. Si trattava di un personaggio in armonia con gli speculatori che ambivano ad appropriarsi dell’Italia. Infatti Amato, per iniziare le privatizzazioni, si affrettò a consultare il centro del potere finanziario internazionale: le tre grandi banche di Wall Street, Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers. Appena salito al potere, Amato trasformò gli enti statali in società per azioni, valendosi del decreto Legge 386/1991, in modo tale che l’élite finanziaria li potesse controllare, e in seguito rilevare. L’inizio fu concertato dal Fondo Monetario Internazionale, che come aveva fatto in altri paesi, voleva privatizzare selvaggiamente e svalutare la nostra moneta, per agevolare il dominio economico-finanziario dell’élite. L’incarico di far crollare l’economia italiana venne dato a George Soros, un cittadino americano che tramite informazioni ricevute dai Rothschild, con la complicità di alcune autorità italiane, riuscì a far crollare la nostra moneta e le azioni di molte aziende italiane. Soros ebbe l’incarico, da parte dei banchieri anglo-americani, di attuare una serie di speculazioni, efficaci grazie alle informazioni che egli riceveva dall’élite finanziaria. Egli fece attacchi speculativi degli “hedge funds” per far crollare la lira. A causa di questi attacchi, il 5 novembre del 1993 la lira perse il 30% del suo valore, e anche negli anni successivi subì svalutazioni.Le reti della Banca Rothschild, attraverso il direttore Richard Katz, misero le mani sull’Eni, che venne svenduta. Il gruppo Rothschild ebbe un ruolo preminente anche sulle altre privatizzazioni, compresa quella della Banca d’Italia. C’erano stretti legami fra il Quantum Fund di George Soros e i Rothschild. Ma anche numerosi altri membri dell’élite finanziaria anglo-americana, come Alfred Hartmann e Georges C. Karlweis, furono coinvolti nei processi di privatizzazione delle aziende e della Banca d’Italia. La Rothschild Italia Spa, filiale di Milano della Rothschild & Sons di Londra, venne creata nel 1989, sotto la direzione di Richard Katz. Quest’ultimo diventò direttore del Quantum Fund di Soros nel periodo delle speculazioni a danno della lira. Soros era stato incaricato dai Rothschild di attuare una serie di speculazioni contro la sterlina, il marco e la lira, per destabilizzare il Sistema Monetario Europeo. Sempre per conto degli stessi committenti, egli fece diverse speculazioni contro le monete di alcuni paesi asiatici, come l’Indonesia e la Malesia. Dopo la distruzione finanziaria dell’Europa e dell’Asia, Soros venne incaricato di creare una rete per la diffusione degli stupefacenti in Europa.In seguito, i Rothschild, fedeli al loro modo di fare, cercarono di far cadere la responsabilità del crollo economico italiano su qualcun altro. Attraverso una serie di articoli pubblicati sul “Financial Times”, accusarono la Germania, sostenendo che la Bundesbank aveva attuato operazioni di aggiotaggio contro la lira. L’accusa non reggeva, perché i vantaggi del crollo della lira e della svendita delle imprese italiane andarono agli anglo-americani. La privatizzazione è stata un saccheggio, che ancora continua. Spiega Paolo Raimondi, del Movimento Solidarietà: «Abbiamo avuto anni di privatizzazione, saccheggio dell’economia produttiva e l’esplosione della bolla della finanza derivata. Questa stessa strategia di destabilizzazione riparte oggi, quando l’Europa continentale viene nuovamente attratta, anche se non come promotrice e con prospettive ancora da definire, nel grande progetto di infrastrutture di base del Ponte di Sviluppo Eurasiatico» (da “Solidarietà”, febbraio 1996).Qualche anno dopo la magistratura italiana procederà contro Soros, ma senza alcun successo. Nell’ottobre del 1995, il presidente del Movimento Internazionale per i Diritti Civili-Solidarietà, Paolo Raimondi, presentò un esposto alla magistratura per aprire un’inchiesta sulle attività speculative di Soros & Co, che avevano colpito la lira. L’attacco speculativo aveva permesso a Soros di impossessarsi di 15.000 miliardi di lire. Per contrastare l’attacco, l’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, bruciò inutilmente 48 miliardi di dollari. Su Soros indagarono le procure della Repubblica di Roma e di Napoli, che fecero luce anche sulle attività della Banca d’Italia nel periodo del crollo della lira. Soros venne accusato di aggiotaggio e insider trading, avendo utilizzato informazioni riservate che gli permettevano di speculare con sicurezza e di anticipare movimenti su titoli, cambi e valori delle monete.Spiegano il presidente e il segretario generale del Movimento Internazionale per i Diritti Civili – Solidarietà, durante l’esposto contro Soros: «È stata annotata nel 1991 l’esistenza di un contatto molto stretto e particolare del signor Soros con Gerald Carrigan, presidente della Federal Reserve Bank di New York, che fa parte dell’apparato della banca centrale americana, luogo di massima circolazione di informazioni economiche riservate, il quale, stranamente, una volta dimessosi da questo posto, venne poi immediatamente assunto a tempo pieno dalla finanziaria Goldman Sachs & co. come presidente dei consiglieri internazionali. La Goldman Sachs è uno dei centri della grande speculazione sui derivati e sulle monete a livello mondiale. La Goldman Sachs è anche coinvolta in modo diretto nella politica delle privatizzazioni in Italia. In Italia inoltre, il signor Soros conta sulla strettissima collaborazione del signor Isidoro Albertini, ex presidente degli agenti di cambio della Borsa di Milano e attuale presidente della Albertini e co. Sim di Milano, una delle ditte guida nel settore speculativo dei derivati. Albertini è membro del consiglio di amministrazione del Quantum Fund di Soros».«L’attacco speculativo contro la lira del settembre 1992 era stato preceduto e preparato dal famoso incontro del 2 giugno 1992 sullo yacht Britannia della regina Elisabetta II d’Inghilterra, dove i massimi rappresentanti della finanza internazionale, soprattutto britannica, impegnati nella grande speculazione dei derivati, come la S. G. Warburg, la Barings e simili, si incontrarono con la controparte italiana guidata da Mario Draghi, direttore generale del ministero del Tesoro, e dal futuro ministro Beniamino Andreatta, per pianificare la privatizzazione dell’industria di Stato italiana. A seguito dell’attacco speculativo contro la lira e della sua immediata svalutazione del 30%, codesta privatizzazione sarebbe stata fatta a prezzi stracciati, a beneficio della grande finanza internazionale e a discapito degli interessi dello stato italiano e dell’economia nazionale e dell’occupazione. Stranamente, gli stessi partecipanti all’incontro del Britannia avevano già ottenuto l’autorizzazione da parte di uomini di governo come Mario Draghi, di studiare e programmare le privatizzazioni stesse. Qui ci si riferisce per esempio alla Warburg, alla Morgan Stanley, solo per fare due tra gli esempi più noti. L’agenzia stampa “Eir” (Executive Intelligence Review) ha denunciato pubblicamente questa sordida operazione alla fine del 1992 provocando una serie di interpellanze parlamentari e di discussioni politiche che hanno avuto il merito di mettere in discussione l’intero procedimento, alquanto singolare, di privatizzazione» (dall’esposto della magistratura contro George Soros presentato dal Movimento Solidarietà al procuratore della Repubblica di Milano il 27 ottobre 1995).I complici italiani furono il ministro del Tesoro Piero Barucci, l’allora direttore di Bankitalia Lamberto Dini e l’allora governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi. Altre responsabilità vanno all’allora capo del governo Giuliano Amato e al direttore generale del Tesoro Mario Draghi. Alcune autorità italiane (come Dini) fecero il doppio gioco: denunciavano i pericoli ma in segreto appoggiavano gli speculatori. Amato aveva costretto i sindacati ad accettare un accordo salariale non conveniente ai lavoratori, per la «necessità di rimanere nel Sistema Monetario Europeo», pur sapendo che l’Italia ne sarebbe uscita a causa delle imminenti speculazioni. Gli attacchi all’economia italiana andarono avanti per tutti gli anni Novanta, fino a quando il sistema economico-finanziario italiano non cadde sotto il completo controllo dell’élite. Nel gennaio del 1996, nel rapporto semestrale sulla politica informativa e della sicurezza, il presidente del Consiglio Lamberto Dini disse: «I mercati valutari e le Borse delle principali piazze mondiali continuano a registrare correnti speculative ai danni della nostra moneta, originate, specie in passaggi delicati della vita politico-istituzionale, dalla diffusione incontrollata di notizie infondate riguardanti la compagine governativa e da anticipazioni di dati oggetto delle periodiche comunicazioni sui prezzi al consumo… è possibile attendersi la reiterazione di manovre speculative fraudolente, considerato il persistere di una fase congiunturale interna e le scadenze dell’unificazione monetaria» (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica, Rivista N. 4, gennaio-aprile 1996).Il giorno dopo, il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, riferiva che l’Italia non poteva far nulla contro le correnti speculative sui mercati dei cambi, perché «se le banche di emissione tentano di far cambiare direzione o di fermare il vento (delle operazioni finanziarie) non ce la fanno per la dimensione delle masse in movimento sui mercati rispetto alla loro capacità di fuoco». Le nostre autorità denunciavano il potere dell’élite internazionale, ma gettavano la spugna, ritenendo inevitabili quegli eventi. Era in gioco il futuro economico-finanziario del paese, ma nessuna autorità italiana pensava di poter fare qualcosa contro gli attacchi destabilizzanti dell’élite anglo-americana. Il Movimento Solidarietà fu l’unico a denunciare quello che stava effettivamente accadendo, additando i veri responsabili del crollo dell’economia italiana. Il 28 giugno 1993, il Movimento Solidarietà svolse una conferenza a Milano, in cui rese nota a tutti la riunione sul Britannia e quello che ne era derivato (“Solidarietà”, ottobre 1993). Il 6 novembre 1993, l’allora presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, scrisse una lettera al procuratore capo della Repubblica di Roma, Vittorio Mele, per avviare «le procedure relative al delitto previsto all’art. 501 del codice penale (“Rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio”), considerato nell’ipotesi delle aggravanti in esso contenute».Anche a Ciampi era evidente il reato di aggiotaggio da parte di Soros, che aveva operato contro la lira e i titoli quotati in Borsa delle nostre aziende. Anche negli anni successivi avvennero altre privatizzazioni, senza regole precise e a prezzi di favore. Che stesse cambiando qualcosa, gli italiani lo capivano dal cambio di nome delle aziende, la Sip era diventata Telecom Italia e le Ferrovie dello Stato erano diventate Trenitalia. Il decreto legislativo 79/99 avrebbe permesso la privatizzazione delle aziende energetiche. Nel settore del gas e dell’elettricità apparvero numerose aziende private, oggi circa 300. Dal 24 febbraio del 1998, anche le Poste Italiane diventarono una Spa. In seguito alla privatizzazione delle Poste, i costi postali sono aumentati a dismisura e i lavoratori postali vengono assunti con contratti precari. Oltre 400 uffici postali sono stati chiusi, e quelli rimasti aperti appaiono come luoghi di vendita più che di servizio. Le nostre autorità giustificavano la svendita delle privatizzazioni dicendo che si doveva «risanare il bilancio pubblico», ma non specificavano che si trattava di pagare altro denaro alle banche, in cambio di banconote che valevano come la carta straccia. A guadagnare sarebbero state soltanto le banche e i pochi imprenditori già ricchi (Benetton, Tronchetti Provera, Pirelli, Colaninno, Gnutti e pochi altri).Si diceva che le privatizzazioni avrebbero migliorato la gestione delle aziende, ma in realtà, in tutti i casi, si sono verificati disastri di vario genere, e il rimedio è stato pagato dai cittadini italiani. Le nostre aziende sono state svendute ad imprenditori che quasi sempre agivano per conto dell’élite finanziaria, da cui ricevevano le somme per l’acquisto. La privatizzazione della Telecom avvenne nell’ottobre del 1997. Fu venduta a 11,82 miliardi di euro, ma alla fine si incassarono soltanto 7,5 miliardi. La società fu rilevata da un gruppo di imprenditori e banche, e al ministero del Tesoro rimase una quota del 3,5%. Il piano per il controllo di Telecom aveva la regia nascosta della Merril Lynch, del gruppo bancario americano Donaldson Lufkin & Jenrette e della Chase Manhattan Bank. Alla fine del 1998, il titolo aveva perso il 20% (4,33 euro). Le banche dell’élite, la Chase Manhattan e la Lehman Brothers, si fecero avanti per attuare un’Opa. Attraverso Colaninno, che ricevette finanziamenti dalla Chase Manhattan, l’Olivetti diventò proprietaria di Telecom. L’Olivetti era controllata dalla Bell, una società con sede a Lussemburgo, a sua volta controllata dalla Hopa di Emilio Gnutti e Roberto Colaninno. Il titolo, che durante l’Opa era stato fatto salire a 20 euro, nel giro un anno si dimezzò. Dopo pochi anni finirà sotto i tre euro.Nel 2001 la Telecom si trovava in gravi difficoltà, le azioni continuavano a scendere. La Bell di Gnutti e la Unipol di Consorte decisero di vendere a Tronchetti Provera buona parte loro quota azionaria in Olivetti. Il presidente di Pirelli, finanziato dalla Jp Morgan, ottenne il controllo su Telecom, attraverso la finanziaria Olimpia, creata con la famiglia Benetton (sostenuta da Banca Intesa e Unicredit). Dopo dieci anni dalla privatizzazione della Telecom, il bilancio è disastroso sotto tutti i punti di vista: oltre 20.000 persone sono state licenziate, i titoli azionari hanno fatto perdere molto denaro ai risparmiatori, i costi per gli utenti sono aumentati e la società è in perdita. La privatizzazione, oltre che un saccheggio, veniva ad essere anche un modo per truffare i piccoli azionisti. La Telecom, come molte altre società, ha posto la sua sede in paesi esteri, per non pagare le tasse allo Stato italiano. Oltre a perdere le aziende, gli italiani sono stati privati anche degli introiti fiscali di quelle aziende. La Bell, società che controllava la Telecom Italia, aveva sede in Lussemburgo, e aveva all’interno società con sede alle isole Cayman, che, com’è noto, sono un paradiso fiscale.Gli speculatori finanziari basano la loro attività sull’esistenza di questi paradisi fiscali, dove non è possibile ottenere informazioni nemmeno alle autorità giudiziarie. I paradisi fiscali hanno permesso agli speculatori di distruggere le economie di interi paesi, eppure i media non parlano mai di questo gravissimo problema. Mettere un’azienda importante come quella telefonica in mani private significa anche non tutelare la privacy dei cittadini, che infatti è stata più volte calpestata, com’è emerso negli ultimi anni. Anche per le altre privatizzazioni – Autostrade, Poste Italiane, Trenitalia – si sono verificate le medesime devastazioni: licenziamenti, truffe a danno dei risparmiatori, degrado del servizio, spreco di denaro pubblico, cattiva amministrazione e problemi di vario genere. La famiglia Benetton è diventata azionista di maggioranza delle Autostrade. Il contratto di privatizzazione delle Autostrade dava vantaggi soltanto agli acquirenti, facendo rimanere l’onere della manutenzione sulle spalle dei contribuenti. I Benetton hanno incassato un bel po’ di denaro grazie alla fusione di Autostrade con il gruppo spagnolo Abertis. La fusione è avvenuta con la complicità del governo Prodi, che in seguito ad un vertice con Zapatero, ha deciso di autorizzarla. Antonio Di Pietro, ministro delle infrastrutture, si era opposto, ma ha alla fine si è piegato alle proteste dell’Unione Europea e alla politica del presidente del Consiglio.Nonostante i disastri delle privatizzazioni, le nostre autorità governative non hanno alcuna intenzione di rinazionalizzare le imprese allo sfacelo, anzi, sono disposte ad utilizzare denaro pubblico per riparare ai danni causati dai privati. La società Trenitalia è stata portata sull’orlo del fallimento. In pochi anni il servizio è diventato sempre più scadente, i treni sono sempre più sporchi, il costo dei biglietti continua a salire e risultano numerosi disservizi. A causa dei tagli al personale (ad esempio, non c’è più il secondo conducente), si sono verificati diversi incidenti (anche mortali). Nel 2006, l’amministratore delegato di Trenitalia, Mauro Moretti, si è presentato ad una audizione alla commissione lavori pubblici del Senato, per battere cassa, confessando un buco di un miliardo e settecento milioni di euro, che avrebbe potuto portare la società al fallimento. Nell’ottobre del 2006, il ministro dei trasporti, Alessandro Bianchi, approvò il piano di ricapitalizzazione proposto da Trenitalia. Altro denaro pubblico ad un’azienda privatizzata ridotta allo sfacelo.Dietro tutto questo c’era l’élite economico finanziaria (Morgan, Schiff, Harriman, Kahn, Warburg, Rockfeller, Rothschild) che ha agito preparando un progetto di devastazione dell’economia italiana, e lo ha attuato valendosi di politici, di finanzieri e di imprenditori. Nascondersi è facile in un sistema in cui le banche o le società possono assumere il controllo di altre società o banche. Questo significa che è sempre difficile capire veramente chi controlla le società privatizzate. E’ simile al gioco delle scatole cinesi, come spiega Giuseppe Turani: «Colaninno & soci controllano al 51% la Hopa, che controlla il 56,6% della Bell, che controlla il 13,9% della Olivetti, che controlla il 70% della Tecnost, che controlla il 52% della Telecom» (“La Repubblica”, 5 settembre 1999). Numerose aziende di imprenditori italiani sono state distrutte dal sistema dei mercati finanziari, ad esempio la Cirio e la Parmalat. Queste aziende hanno truffato i risparmiatori vendendo obbligazioni societarie (bond) con un alto margine di rischio. La Parmalat emise bond per un valore di 7 miliardi di euro, e allo stesso tempo attuò operazioni finanziarie speculative e si indebitò. Per non far scendere il valore delle azioni (e per venderne altre) truccava i bilanci.Le banche nazionali e internazionali sostenevano la situazione perché per loro vantaggiosa, e l’agenzia di rating “Standard & Poor’s” si è decisa a declassare la Parmalat soltanto quando la truffa era ormai nota a tutti. I risparmiatori truffati hanno avviato una procedura giudiziaria contro Calisto Tanzi, Fausto Tonna, Coloniale Spa (società della famiglia Tanzi), Citigroup Inc. (società finanziaria americana), Buconero Llc (società che faceva capo a Citigroup), Zini & Associates (una compagnia finanziaria americana), Deloitte Touche Tohmatsu (organizzazione che forniva consulenza e servizi professionali), Deloitte & Touche Spa (società di revisione contabile), Grant Thornton International (società di consulenza finanziaria) e Grant Thornton Spa (società incaricata della revisione contabile del sottogruppo Parmalat Spa). La Cirio era gestita dalla Cragnotti & Partners. I “Partners” non erano altro che una serie di banche nazionali e internazionali. La Cirio emise bond per circa 1.125 milioni di euro. Molte di queste obbligazioni venivano utilizzate dalle banche per spillare denaro ai piccoli risparmiatori. Tutto questo avveniva in perfetta armonia col sistema finanziario, che non offre garanzie di onestà e di trasparenza.Grazie alle privatizzazioni, un gruppo ristretto di ricchi italiani ha acquisito somme enormi, e ha permesso all’élite economico-finanziaria anglo-americana di esercitare un pesante controllo, sui cittadini, sulla politica e sul paese intero. Agli italiani venne dato il contentino di Mani Pulite, che si risolse con numerose assoluzioni e qualche condanna a pochi anni di carcere. A causa delle privatizzazioni e del controllo da parte della Banca Centrale Europea, il paese è più povero e deve pagare somme molto alte per il debito. Ogni anno viene varata la finanziaria, allo scopo di pagare le banche e di partecipare al finanziamento delle loro guerre. Mentre la povertà aumenta, come la disoccupazione, il lavoro precario, il degrado e il potere della mafia. Il nostro paese è oggi controllato da un gruppo di persone, che impongono, attraverso istituti propagandati come “autorevoli” (Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea), di tagliare la spesa pubblica, di privatizzare quello che ancora rimane e di attuare politiche non convenienti alla popolazione italiana. I nostri governi operano nell’interesse di questa élite, e non in quello del paese.(Antonella Randazzo, “Come è stata svenduta l’Italia”, da “Disinformazione.it del 12 marzo 2007. La Randazzo ha scritto libri come “Roma Predona. Il colonialismo italiano in Africa”, edito da Kaos nel 2006, “La Nuova Democrazia. Illusioni di civiltà nell’era dell’egemonia Usa” edito nel 2007 da Zambon e “Dittature. La storia occulta”, pubblicata da “Il Nuovo Mondo”, nel 2007).Falcone e Borsellino? Eliminati per un motivo più che strategico. Braccando la mafia, erano risaliti – tramite la pista massonica – ai legami finanziari tra l’élite Usa e la manovalanza italiana della grande operazione che si stava preparando, e che avrebbe devastato la storia del nostro paese: la svendita dell’Italia all’élite finanziaria globalista, che si servì di collaborazionisti di primissimo piano. Obiettivo: mettere le mani sullo Stato, razziando risorse e togliendo servizi vitali ai cittadini. All’indomani della catastrofe di Genova, coi riflettori puntati sullo strano caso delle autostrade “regalate” ai Benetton (e ai loro potenti soci d’oltreoceano), è illuminante rileggere oggi la paziente ricostruzione realizzata già nel 2007 da Antonella Randazzo. Mentre i giudici di Mani Pulite davano agli italiani l’illusione di un cambiamento nel segno della trasparenza, mettendo fine alla corruzione della Prima Repubblica, la finanza anglosassone convocava a bordo del Britannia gli uomini-chiave della futura Italia, assoldati per sabotare il proprio paese. Sarebbero stati agevolati dalla super-speculazione di George Soros sulla lira, che tolse all’Italia il 30% del suo valore, favorendone la svendita a prezzi stracciati. Da allora, un copione invariabile: aziende pubbliche rilevate da imprenditori italiani finanziati dalle stesse banche anglosassoni che avevano progettato il “golpe”. Il grande complotto contro l’Italia che – per primo – proprio Giovanni Falcone aveva fiutato.
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L’euro-pareggio di bilancio demolisce ponti anche a Berlino
Era esattamente un anno fa, l’agosto del 2017, e un prestigioso editorialista denunciava chiaro che «ponti e strade si stanno sbriciolando mentre le amministrazioni usano i fondi destinati alla manutenzione per, invece, tagliare i deficit». Bruxelles richiedeva, insaziabile, di pareggiare i bilanci anche a livello locale. Un ingegnere intervistato dal grande quotidiano addirittura tuonava: «Questa è una sirena d’allarme per l’intero paese», e il cronista aggiungeva: «Ed è anche un monumento alla crisi delle sue infrastrutture». Sì, esatto, si parlava proprio di G… No, non di Genova: di Germania, dove «una vastità di strade, ponti e palazzi pubblici sono in uno stato di degrado scioccante». La parola usata fu “scioccante”. E che non ci siano equivoci in partenza. Il più prestigioso istituto di studi economici tedesco, il Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung di Berlino, lo scrive nero su bianco: la Germania ha voluto l’euro per arricchire smisuratamente le sue élite, lasciando però nel degrado vaste porzioni del paese. Fra cui proprio le infrastrutture ‘corrose’ dai tagli ai budget nazionali e locali. Lascia increduli leggere, fra le pagine dell’istituto, che «la Germania non solo vede un terribile abbandono delle infrastrutture dei trasporti e di quelle pubbliche, ma anche in quelle scolastiche».E, di nuovo, che non ci siano equivoci sul fatto che sono le regole dell’Eurozona a imporre i tagli più sciagurati alle infrastrutture tedesche. Sempre dagli studi del Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung di Berlino: «Il governo di Angela Merkel ha imposto nel 2007 il pareggio di bilancio per legge a tutte le amministrazioni pubbliche statali e municipali. Esse non possono più spendere a deficit in nessun caso… Ma questo è stato fatto ignorando totalmente la salute economica delle comunità tedesche, che devono obbedire a questa regola severissima anche se prive di mezzi, o addirittura in crisi nera». E infatti il prestigioso quotidiano di cui all’inizio, che è il “Financial Times”, titolava così il pezzo: “Sempre più crepe nelle infrastrutture affamate di fondi in Germania”. Pausa. Prima di continuare è doveroso però dar conto di una differenza fondamentale e, dopo il Morandi, da far accapponare la pelle, fra Berlino e Roma. Cioè: abbiamo detto che anche da loro le regole di Bruxelles stanno sbriciolando ponti, strade e muri, ma almeno da loro si agisce in tempo per la pubblica sicurezza.Il grande ponte di Leverkusen sul Reno, in uno dei centri industriali più produttivi della Germania, iniziò a mostrare crepe nel 2012, sotto il peso di un flusso enorme di Tir, 14.000 al giorno. Fu chiuso all’istante al traffico dei camion senza riguardo per il caos industriale che la disposizione causò. Riaprirà nel 2020. Lo stesso per un altro ponte enorme, sempre sul Reno, il Neuenkamp, che iniziò con crepe mentre si sorbiva almeno 100.000 veicoli al giorno: chiuso, con relativo panico per le aziende della Ruhr, ma chiuso. Mostrava «danni ai tiranti»… Vengono i brividi, a leggere quella frase. Ma l’Europa non perdona, e anche Angela Merkel deve imporre tagli selvaggi e ‘chemioterapia’ di qualsiasi spesa pubblica sul territorio, quando essa sia in eccesso di un deficit dello… 0,35%, mentre oltre la metà del paese ha infrastrutture scandalose. Il Kfw, che all’incirca equivale alla nostra Cassa Depositi e Prestiti, stima che la Germania avrebbe bisogno urgente, come minimo, di 126 miliardi di euro per strade, ponti e palazzi, ma c’è il veto firmato euro. Il partito Spd di centrosinistra ha scritto in campagna elettorale: «Per troppo tempo la Germania si è fissata sul pareggio di bilancio e sulla riduzione dei deficit invece che sugli investimenti necessari, e questo è il risultato».Il meccanismo perverso è identico in Germania come in Italia: si vive nel terrore del debito, spiega ancora il Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung, e quindi «appena ci sono anche solo due soldi in cassa, gli amministratori tedeschi a tutti i livelli corrono a ridurre i deficit invece che a riparare le infrastrutture». E’ per questo che io ho denunciato come disgustoso il gran proclama di Juncker, dove l’Ue tentava di discolparsi per la tragedia di Genova dicendo che stiamo ricevendo 2,5 miliardi di fondi europei per le infrastrutture dal 2014, e che abbiamo avuto da loro un ‘permesso’ di spendere 8,5 miliardi sulle autostrade. Certo, Juncker e Ue versano 5 gocce d’acqua nel nostro lago mentre ci obbligano a prosciugarlo con un’idrovora, e poi ci dicono: «Dove l’avete messa tutta l’acqua che vi abbiamo dato?». Ipocriti criminali. E intanto i bravi tedeschi del nord, che in termini relativi sono come il nostro meridione in Germania, soffrono disagi gravi in tutto, perché strade e ferrovie sono «in uno stato di degrado scioccante» e nessuno può spendere nulla.Nella Westfalia ci sono almeno 300 ponti a rischio, stanno andando in pezzi. Se poi si parla delle regioni meno industrializzate il quadro è disastroso, sembra che dagli anni ’70 nulla sia stato toccato, dicono all’istituto di Berlino. Naturalmente sia Merkel (Cdu) che Schulz (Spd), a fronte dell’insostenibilità di questo degrado infrastrutturale, ammettono che la spesa in effetti dovrebbe aumentare, ma… solo quando le amministrazioni avranno fatto bene i loro compiti ‘Eurozona’ a casa, cioè solo quando avranno dei surplus di bilancio… il che significa pagare le infrastrutture coi soldi di cittadini e aziende invece che usando l’investimento dello Stato (surplus di bilancio = gov. ti tassa più di quanto ti dà in spesa, e quindi spende i tuoi soldi invece che i suoi). Un trucco contabile indegno, perché anche la Germania ha perso sovranità monetaria con l’euro – mica può fare come il Giappone, che al momento del bisogno con case e strade devastate dallo tsunami del 2011 ha stampato di sana pianta, e a deficit, 148 miliardi di dollari.Il ragionamento dei due leader tedeschi tenta di nascondere la verità: e cioè che l’ossessione imposta dalle regole dell’Eurozona sul dogma dei pareggi di nilancio ovunque è precisamente la causa del drammatico dissesto delle infrastrutture in Germania; la quale infatti, come scrisse il “Wall Street Journal” nel 2013, «si vanta di essere il modello per l’Europa come ordine nei conti, dimenticando però di dire che quell’ordine è venuto al costo di emorragie negli investimenti per le infrastrutture». E qui si chiude il cerchio. Ve l’aspettavate? G…, no, non di Genova, di Germania, con ponti e strade in pezzi. Il fatto che la loro encomiabile vigilanza abbia finora impedito tragedie come quella del Morandi non toglie assolutamente nulla alla scioccante realtà: nelle criminali regole economiche dell’Eurozona ci si deve svenare per un insensato libro di bilancio dove appaia la scritta “– 10 + 10 = 0”. Poi se palazzi, scuole, strade e ponti si disfano e la gente e le aziende della parte sfigata del paese soffrono, o muoiono, chissenefrega. Anche in Germania, non solo a Genova.(Paolo Barnard, “L’euro demolisce ponti e strade, con o senza i Benetton – povera G.), dal blog di Barnard del 19 agosto 2018).Era esattamente un anno fa, l’agosto del 2017, e un prestigioso editorialista denunciava chiaro che «ponti e strade si stanno sbriciolando mentre le amministrazioni usano i fondi destinati alla manutenzione per, invece, tagliare i deficit». Bruxelles richiedeva, insaziabile, di pareggiare i bilanci anche a livello locale. Un ingegnere intervistato dal grande quotidiano addirittura tuonava: «Questa è una sirena d’allarme per l’intero paese», e il cronista aggiungeva: «Ed è anche un monumento alla crisi delle sue infrastrutture». Sì, esatto, si parlava proprio di G… No, non di Genova: di Germania, dove «una vastità di strade, ponti e palazzi pubblici sono in uno stato di degrado scioccante». La parola usata fu “scioccante”. E che non ci siano equivoci in partenza. Il più prestigioso istituto di studi economici tedesco, il Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung di Berlino, lo scrive nero su bianco: la Germania ha voluto l’euro per arricchire smisuratamente le sue élite, lasciando però nel degrado vaste porzioni del paese. Fra cui proprio le infrastrutture ‘corrose’ dai tagli ai budget nazionali e locali. Lascia increduli leggere, fra le pagine dell’istituto, che «la Germania non solo vede un terribile abbandono delle infrastrutture dei trasporti e di quelle pubbliche, ma anche in quelle scolastiche».
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Prodi, Draghi & C: chi ha regalato l’Italia, autostrade incluse
Partiamo dall’inizio. Perché una società strategica per gli italiani, con un fatturato annuo di oltre 6 miliardi di euro e introiti certi – che sono aumentati vertiginosamente negli anni com’era prevedibile – è stata ceduta a imprenditori privati? Facciamo un passo indietro: è il 1992; il cartello finanziario internazionale mette gli occhi e le mani sul nostro paese con la complicità e la sudditanza di una nuova classe politica imposta dal cartello stesso. Il suo compito è quello di cedere le banche e i gioielli di Stato italiani ai potentati finanziari internazionali anche attraverso il filtro di imprenditori nostrani. E’ l’anno della riunione sul Britannia, quando il Gotha della finanza internazionale attracca a Civitavecchia con lo yacht della Corona inglese. Sono venuti a ridisegnare il capitalismo in Italia a danno degli italiani, a fare incetta delle nostre migliori aziende e ad arruolare quelli che saranno i loro fedeli servitori al governo del paese, a cui garantiranno incarichi di prestigio: il maggior beneficiario sarà Mario Draghi ma tra i più benemeriti sono Prodi, Andreatta, Ciampi, Amato, D’Alema. I primi tre erano già entrati a pieno titolo nel Club Bilderberg, nella Commissione Trilaterale e in altre organizzazioni del capitalismo speculativo angloamericano, che aveva deciso di attaccare e conquistare il nostro paese con l’appoggio di banche d’affari come la Goldman Sachs, che favorirà gli incredibili scatti di carriera dei suoi ex dipendenti: Prodi e Draghi prima, Mario Monti dopo.E’ l’anno in cui in soli 7 giorni cambiano il sistema monetario italiano, che viene sottratto dal controllo del governo e messo nelle mani della finanza speculativa. Per farlo vengono privatizzati gli istituti di credito e gli enti pubblici, compresi quelli azionisti della Banca d’Italia; è l’anno in cui viene impedito al ministero del Tesoro di concordare con la Banca d’Italia il tasso ufficiale di sconto (costo del denaro alla sua emissione), che viene quindi ceduto a privati. E’ l’anno della firma del Trattato di Maastricht e l’adesione ai vincoli europei. In pratica è l’anno in cui un manipolo di uomini palesemente al servizio del cartello finanziario internazionale ha ceduto ogni nostra sovranità. Bisognava passare alle aziende di Stato: l’attacco speculativo di Soros che aveva deprezzato la lira di quasi il 30% permetteva l’acquisto dei nostri gioielli di Stato a prezzi di saldo, e così arrivarono gli avvoltoi. La maggior parte delle nostre aziende statali strategiche passò in mano straniera o comunque fu privatizzata. Ma la cosa più eclatante fu che l’Iri (istituto di ricostruzione industriale) che nella pancia alla fine degli anni ’80 aveva circa 1.000 società, fiore all’occhiello del nostro paese, fu smembrato e svenduto, sotto la presidenza di Prodi (dal 1982 al 1989 e durante un periodo tra il 1993 ed il 1994), poi premiato dal cartello che favorì la sua ascesa alla presidenza del Consiglio in Italia e poi alla Commissione Europea.A sostituirlo come presidente del Consiglio in Italia e a continuare il suo lavoro di smembramento delle aziende di Stato ci penserà Massimo D’Alema, che nel 1999 favorirà la cessione, tra le altre, di Autostrade per l’Italia e Autogrill alla famiglia Benetton, che di fatto hanno, così, assunto il monopolio assoluto nel settore del pedaggio e della ristorazione autostradale. Un’operazione che farà perdere allo Stato italiano miliardi di fatturato ogni anno. Le carte ci dicono che in quegli anni il presidente dell’Iri era tale Gian Maria Gros-Pietro. Lo conoscevate? Io credo di no. Invece il cartello finanziario speculativo lo conosceva bene, e nel 2001 lo convocò alla riunione del Bilderberg in Svezia, indovinate insieme a chi? Insieme a Mario Draghi e ad un certo Mario Monti. Entrambi saranno ampiamente ripagati dal cartello stesso, che in futuro riuscì a piazzare Draghi alla Banca d’Italia e poi alla Bce, e Mario Monti dalla Goldman Sachs alla Commissione Europea e poi a capo del governo (non eletto) in Italia. E che cosa ne è stato di Gian Maria Gros Pietro? Qui viene il bello. E arriviamo al tema di questo post.Gian Maria Gros-Pietro, che già nel fatidico 1992 era presidente della commissione per le strategie industriali nelle privatizzazioni del ministero dell’industria, nel 1994 diviene membro della commissione per le privatizzazioni – istituita indovinate da chi? Da Mario Draghi. Ora capite come lavora il cartello finanziario-speculativo per mettere tentacoli ovunque e per far sì che ci sia sempre un proprio esponente nei ruoli-chiave. Ma non finisce qui. Come abbiamo visto, nel 1997 Gros-Pietro è presidente dell’Iri mentre viene organizzata la cessione a prezzi di saldo di Autostrade per l’Italia, che avverrà nel 1999 col passaggio al Gruppo Atlantia Spa, controllato da Edizione srl, la holding di famiglia dei Benetton. Gros-Pietro firma la cessione, la famiglia Benetton gli strizza l’occhio. Cosa voleva dire metaforicamente quella strizzatina d’occhio? Ora immaginate l’inimmaginabile.Cosa accade nel 2002? Gian Maria Gros-Pietro, dopo aver gestito la privatizzazione dell’Eni, andrà a presiedere per quasi 10 anni indovinate che cosa?… proprio la Atlantia Spa, la società alla quale solo tre anni prima, come dipendente pubblico, aveva svenduto la gestione dei servizi autostradali italiani. Le jeux sont fait.A questo punto proviamo a leggere i termini del contratto di concessione della rete autostradale. Mi dispiace, cari amici. Non si può. Sono stati coperti da segreto di Stato, manco si trattasse di una riservatissima operazione militare. Ma com’è stato svolto in questi anni il servizio di manutenzione ordinaria da parte dei concessionari di Autostrade per l’Italia? La macabra risposta è descritta nei tragici eventi di Genova, e non solo. Leggendo quanto emerge dalla relazione annuale (2017) sull’attività del settore autostradale in concessione pubblicata sul sito del ministero dei trasporti, si evince una crescita esponenziale del fatturato (quasi 7 miliardi) e dei pedaggi. In calo solo gli investimenti (calati addirittura del 20%) e la spesa per manutenzioni in controtendenza, rispetto alla logica che dovrebbe prevedere un aumento dei costi della manutenzione contestualmente all’aumento del traffico. Ma la sicurezza degli automobilisti è stata messa in secondo piano rispetto alla massimizzazione dei profitti, già di per sé abnormi.E com’è andata invece con gli interventi straordinari ad opera dei ministeri preposti? Non c’erano soldi da destinare ad interventi straordinari, seppur richiesti dagli esperti, a causa dei vincoli di bilancio da rispettare e imposti dal pareggio di bilancio. Quali vincoli? Quelli europei. E da chi sono stati imposti questi vincoli? dal Trattato di Maastricht del 1992, da quello di Lisbona del 2007 e dal pareggio di bilancio in Costituzione del 2011. E chi li ha voluti? Indovinate? Nell’ordine: Romano Prodi, Massimo D’Alema e Mario Monti, con l’appoggio esterno di Mario Draghi. Ma non erano quelli che insieme partecipavano alle organizzazioni del cartello finanziario speculativo che voleva far crollare il nostro paese Esattamente. Il cerchio si chiude. Solidarietà alle vittime di Genova, per il crollo del ponte autostradale. Solidarietà agli italiani per il crollo annunciato e pianificato del loro paese.(“Giornalista d’inchiesta svela importanti retroscena su Autostrade per l’Italia”, dal blog di Marco Della Luna del 18 agosto 2018. Parte del testo è tratta dal libro-inchiesta “La Matrix Europea”, di Francesco Amodeo. Avvocato e saggista, Della Luna attribuisce il testo della ricostruzione giornalistica a Maurizio Blondet, per anni inviato di “Oggi”, “Il Giornale” e “Avvenire”).Partiamo dall’inizio. Perché una società strategica per gli italiani, con un fatturato annuo di oltre 6 miliardi di euro e introiti certi – che sono aumentati vertiginosamente negli anni com’era prevedibile – è stata ceduta a imprenditori privati? Facciamo un passo indietro: è il 1992; il cartello finanziario internazionale mette gli occhi e le mani sul nostro paese con la complicità e la sudditanza di una nuova classe politica imposta dal cartello stesso. Il suo compito è quello di cedere le banche e i gioielli di Stato italiani ai potentati finanziari internazionali anche attraverso il filtro di imprenditori nostrani. E’ l’anno della riunione sul Britannia, quando il Gotha della finanza internazionale attracca a Civitavecchia con lo yacht della Corona inglese. Sono venuti a ridisegnare il capitalismo in Italia a danno degli italiani, a fare incetta delle nostre migliori aziende e ad arruolare quelli che saranno i loro fedeli servitori al governo del paese, a cui garantiranno incarichi di prestigio: il maggior beneficiario sarà Mario Draghi ma tra i più benemeriti sono Prodi, Andreatta, Ciampi, Amato, D’Alema. I primi tre erano già entrati a pieno titolo nel Club Bilderberg, nella Commissione Trilaterale e in altre organizzazioni del capitalismo speculativo angloamericano, che aveva deciso di attaccare e conquistare il nostro paese con l’appoggio di banche d’affari come la Goldman Sachs, che favorirà gli incredibili scatti di carriera dei suoi ex dipendenti: Prodi e Draghi prima, Mario Monti dopo.
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Benetton, pedaggio italiano al feroce buonismo globalista
I Benetton non hanno prodotto solo maglioni e gestito autostrade ma sono stati la prima fabbrica nostrana dell’ideologia global. Sono stati non solo sponsor ma anche precursori dell’alfabeto ideologico, simbolico e sentimentale della sinistra. Sono stati il ponte, è il caso di dirlo, tra gli interessi multinazionali del capitalismo global e dell’americanizzazione del pianeta, coi loro profitti e il loro marketing e i messaggi contro il razzismo, contro il sessismo, a favore della società senza frontiere, lgbt, trasgressiva e progressista. Le loro campagne, affidate a Oliviero Toscani, hanno cercato di unire il lato choc, che spesso sconfinava nel cattivo gusto e nel pugno allo stomaco, col messaggio progressista umanitario: società multirazziale, senza confini, senza distinzioni di sessi, di religioni, di etnie e di popoli, con speciale attenzione ai minori. Via le barriere ovunque, eccetto ai caselli, dove si tratta di prendere pedaggi. Di recente la Benetton ha fatto anche campagne umanitarie sui barconi d’immigrati e ha lanciato un video “contro tutti i razzismi risorgenti”. Misterioso il nesso tra le prediche sulla pelle dei disperati e il vendere maglioni o far pagare pedaggi alle auto.Dietro la facciata “progressista” di Benetton c’è però la realtà di Maletton, il lato B. È il caso, ad esempio del milione d’ettari della Benetton in Patagonia, sottratto alle popolazioni locali come le comunità Mapuche, vanamente insorte e sanguinosamente represse. O lo sfruttamento senza scrupoli dell’Amazzonia, ammantato dietro campagne in difesa dell’ambiente. O la storia dei maglioni prodotti a costi stracciati presso aziende che sfruttavano lavoratori, donne e minori a salari da fame e condizioni penose, come accadde in Bangladesh a Dacca, dove morirono un migliaio di sfruttati che lavoravano in un’azienda che produceva anche per Benetton. Le loro facce non le abbiamo mai viste negli spot umanitari di Benetton, così come non vedremo nessuna maglietta rossa, nessun cappellino rosso sponsorizzato da Benetton o promosso da Toscani per le vittime di Genova. A questo si aggiunge per la Benetton l’affarone di gestire prima gli autogrill e poi interamente le Autostrade, dopo che lo Stato italiano ha investito per decenni miliardi per far nascere la rete autostradale. Un “regalo” del pubblico al privato, come succede solo in Italia.Il capitalismo italiano ha sempre avuto questo lato parassitario e rapace: non investe, non rischia di suo ma campa a ridosso del settore pubblico o delle sue commesse. A volte socializza le perdite e privatizza i profitti, come spesso faceva per esempio la Fiat, o piazza i suoi prodotti scartati dal mercato allo Stato, come faceva ad esempio De Benedetti accollando materiali un po’ vecchiotti dell’Olivetti alla pubblica ammministrazione. Aziende che si scoprivano nazionaliste quando si trattava di mungere dallo Stato italiano e poi si facevano globalità quando si trattava di andarsene all’estero per ragioni di produzione, fisco o costi minori. O si rileva la gestione delle Autostrade come i Benetton e i loro soci, con sontuosi profitti ma poi è tutto da verificare se si siano curati di investire adeguatamente per ammodernare la rete e fare manutenzione efficace. La tragedia di Genova pende come un gigantesco punto interrogativo tra i cavi sospesi sulla città.Di tutto questo, naturalmente, si parla poco nei media italiani, soprattutto nei grandi; non dimentichiamo che Benetton, oltre che importante cliente pubblicitario nei media, è azionista nel gruppo de “La Repubblica-L’Espesso-La Stampa”, dove si sono incrociati – ma guarda un po’ – i sullodati Agnelli e De Benedetti. In miniatura, segue lo stesso modello ideologico e d’affari alla Benetton, anche Oscar Farinetti, il patron di Eataly. Il capitalismo nostrano da un verso sostiene battaglie “progressiste” appoggiando forze politiche pendenti a sinistra e finanziando campagne global e antirazziste; poi dall’altro si trova invischiato in storie coloniali di espropriazione delle terre alle popolazioni indigene, di sfruttamento delle risorse e di uomini per produrre a costi minimi e senza sicurezza, ottenendo il massimo profitto. Poi vi chiedete perché in Italia certe opinioni politically correct sono dominanti: si è cementato un blocco tra un ceto ideologico-politico progressista, radical, di sinistra che fornisce il certificato di buona coscienza a un ceto affaristico di capitalisti marpioni. Un ceto che è viceversa adottato, tenuto a libro paga, dal medesimo. In questa saldatura d’interessi si formano i potentati e contro quest’intreccio ha preso piede il populismo.Però alle volte insorge la realtà. Drammaticamente, come è stato il caso di Genova. Dove ci sono da appurare le responsabilità, i gradi e i livelli. Inutile aggiungere che con ogni probabilità non ci sarà un solo colpevole, ci saranno differenti piani di responsabilità, anche a livello di amministratori locali, di governi centrali e ministeri dei trasporti che avrebbero dovuto vigilare e imporre alla società autostrade di spendere di più in sicurezza, pena la decadenza della concessione. Col senno di poi è facile dire che se gli azionisti della società autostrade avessero speso la metà dei loro utili (oltre un miliardo di euro l’anno) per ulteriore manutenzione, sicurezza e rifacimento di strutture a rischio, come era notoriamente il ponte Morandi a Genova, oggi probabilmente non staremmo a piangere i morti e una città stravolta, sventrata. Ma richiamare altre responsabilità non vuol dire buttarla sulla solita prassi del tutti colpevoli nessun condannato; no, ci sono gradi e livelli di responsabilità diversi, e qualcuno dovrà pagare per quel che è successo, ciascuno secondo il suo grado di colpa effettivamente accertata.A questo punto rivedere le concessioni è necessario. Ma non può essere la sola risposta. C’è da ripensare al modello italiano che non funziona più da anni, vive di rendita sul passato e manda in malora il suo patrimonio. Bisogna ripensare alla nostra scassata modernità, al nostro obsoleto repertorio strutturale, vecchio come i capannoni di archeologia industriale e le cattedrali nel deserto che spesso deturpano il nostro paesaggio e ricordano il nostro passato, quando l’industria era il radioso futuro. Un paese che non sa più pensare in grande, investire, intraprendere, far nascere, pensare al futuro. Resistono i ponti dei romani, resistono i ponti di epoca fascista, opere “aere perennius”, ma scricchiolano o crollano le opere recenti, perché non c’è stata vera manutenzione, perché c’è stato sovraccarico, o perché furono fatte in origine con materiali inadeguati, con permessi ottenuti in modo obliquo, perché qualcuno vi speculò, e non solo le imprese di costruzione.In tutto questo, purtroppo, la linea grillina del non fare, del tagliare, del risparmiare sulle grandi opere o sui grandi rifacimenti non è una risposta adeguata ai problemi e alle urgenze. Non dimentichiamo che per i grillini fino a ieri era una “favoletta” il rischio di crollo del ponte Morandi di Genova, era solo un modo per mungere soldi; e dunque pur di frenare eventuali corrotti e corruttori, per loro è meglio tenersi strade scassate e ponti insicuri. Intanto è necessario rimettere in discussione il modello imperante, con un residuo di statalismo incapace e impotente, che si accompagna a un capitalismo vorace e parassitario sotto le vesti progressiste e umanitarie, con tutte le sue connivenze politiche denunciate da Di Maio. Quelle aziende che mettevano in cerchio i bambini del mondo, salvo vederli sfruttare nelle aziende del Terzo mondo o espropriare delle loro terre. Quelle aziende che volevano abbattere muri e frontiere nel mondo e nel frattempo crollavano i ponti di casa…(Marcello Veneziani, “Benetton Maletton”, dal “Tempo” del 17 agosto 2018; articolo ripreso sul blog di Veneziani).I Benetton non hanno prodotto solo maglioni e gestito autostrade ma sono stati la prima fabbrica nostrana dell’ideologia global. Sono stati non solo sponsor ma anche precursori dell’alfabeto ideologico, simbolico e sentimentale della sinistra. Sono stati il ponte, è il caso di dirlo, tra gli interessi multinazionali del capitalismo global e dell’americanizzazione del pianeta, coi loro profitti e il loro marketing e i messaggi contro il razzismo, contro il sessismo, a favore della società senza frontiere, lgbt, trasgressiva e progressista. Le loro campagne, affidate a Oliviero Toscani, hanno cercato di unire il lato choc, che spesso sconfinava nel cattivo gusto e nel pugno allo stomaco, col messaggio progressista umanitario: società multirazziale, senza confini, senza distinzioni di sessi, di religioni, di etnie e di popoli, con speciale attenzione ai minori. Via le barriere ovunque, eccetto ai caselli, dove si tratta di prendere pedaggi. Di recente la Benetton ha fatto anche campagne umanitarie sui barconi d’immigrati e ha lanciato un video “contro tutti i razzismi risorgenti”. Misterioso il nesso tra le prediche sulla pelle dei disperati e il vendere maglioni o far pagare pedaggi alle auto.
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Terre rare, la nuova guerra che oppone Cina e Stati Uniti
Lo scorso dicembre, alla vigilia delle tensioni commerciali tra Cina e Stati Uniti, il presidente americano Donald Trump firmava un ordine esecutivo per ridurre la dipendenza del paese da fonti estere di “minerali critici” vitali nella produzione di una vasta gamma di beni strategici per l’industria americana. Un ordine palesatosi nell’ultimo round di restrizioni commerciali varate dal governo americano questo 10 luglio con l’imposizione di un aumento del 10% di dazi su una serie di importazioni provenienti dalla Cina, tra le quali figurano appunto anche le “terre rare”. Sconosciute ai più, le terre rare o lantanidi sono un gruppo di diciassette elementi contenuti in diversi minerali diventati fondamentali nella produzione di un’innumerevole quantità di prodotti ad alto contenuto tecnologico grazie alla loro capacità di dar luogo a leghe con elevate proprietà magnetiche. In particolare, tutta la moderna elettronica così come la produzione di semiconduttori, fibre ottiche, sistemi di navigazione, laser e monitor, fino alla produzione di cd, carte di credito e telefoni cellulari sarebbe totalmente irrealizzabile senza questi elementi. A dipendere dalle terre rare cinesi è inoltre la produzione dei più sofisticati strumenti bellici dell’esercito statunitense e quasi tutta l’industria della cosiddetta “green economy”, dai pannelli solari alle batterie ricaricabili per auto elettriche ed ibride.Tuttavia, queste “terre” non sono affatto rare. La loro rarità si deve principalmente al fatto che, per ricavare questi elementi, è necessaria un’estesa attività di estrazione, con enormi costi sia in termini economici che ambientali dovuti anche alla radioattività degli scarti derivanti della loro lavorazione. L’ampia disponibilità (un terzo degli attuali giacimenti conosciuti), i bassi costi della manodopera e la scarsa protezione ambientale hanno però di fatto consentito alla Cina di sbaragliare qualsiasi concorrenza e di controllare, secondo la United States Geological Survey (Usgs) tra l’85% e il 95% dell’offerta mondiale e il 78% del mercato americano. L’importanza di questi materiali era già stata riconosciuta nel 1992 dall’allora leader cinese Deng Xiaoping il quale sostenne che avrebbero avuto lo stesso valore strategico del petrolio mediorientale. A distanza di quasi trent’anni la sua profezia sembra essersi avverata, anche se si tratta di un’arma che Pechino può utilizzare con molta attenzione e cautela evitando che si tramuti in un’arma “spuntata”.Già nel 2010 infatti le terre rare furono al centro di un’accesa disputa commerciale, determinata dalla decisione cinese di ridurre le sue quote all’esportazione del 40% per motivi di salvaguardia ambientale. Le misure comportarono un aumento immediato dei prezzi internazionali delle terre rare e una crescente preoccupazione da parte dei paesi occidentali; preoccupazione culminata nel 2012 con la presentazione del caso di fronte all’ Organo di Conciliazione (Dispute Settlement Body) dell’Organizzazione Mondiale del Commercio da parte degli Stati Uniti affiancati da Giappone e Unione Europea. La decisione dell’Organo di Conciliazione arrivò nel 2014. Pur riconoscendo la possibilità da parte degli Stati membri di applicare restrizioni determinate da motivi ambientali, si contestò alla Cina la violazione del principio di non discriminazione, visto che l’aumento delle quote all’esportazione garantivano un maggior accesso al mercato e prezzi più favorevoli per le imprese nazionali cinesi.Da parte sua Pechino, pur applicando la sentenza ed eliminando le quote stabilite in precedenza, rinviava con fermezza le accuse al mittente constatando, non solo il fatto di aver superato le quote di estrazione fissate e il crescente impatto ambientale derivante, ma anche l’“ipocrisia” di chi, che senza privarsi delle proprie riserve, vuole continuare a sfruttare in modo economico quelle cinesi. Dietro l’atteggiamento cinese si nasconde però anche una duplice ambizione. In primo luogo Pechino tenta attraverso queste limitazioni di spingere le principali industrie occidentali ad alto contenuto tecnologico a trasferire le loro produzioni in Cina. In secondo luogo, queste misure vengono ritenute funzionali ad aiutare lo sviluppo delle imprese cinesi secondo il piano “Made in China 2025” varato dal premier Li Keqiang nel 2015. Un piano ambizioso volto a far progredire la produzione cinese nella catena del valore, concentrandosi sempre di più nell’industria ad alto valore aggiunto. In particolare, il piano si pone l’obiettivo di riuscire a produrre localmente entro il 2025 il 70% dei materiali definiti strategici per l’industria del futuro, facendo della Cina un paese leader nella produzione di materiali ad alto contenuto tecnologico.Molti commentatori ritengono che le misure commerciali varate dall’amministrazione americana siano una risposta proprio al piano Made in China 2025. Le misure, volte a riequilibrare alcune pratiche sleali portate avanti dal governo di Pechino, dovrebbero infatti, secondo le intenzioni dell’attuale presidenza, favorire il “ritorno” in patria della produzione industriale ritenuta strategica. Tuttavia, nel caso specifico delle recenti limitazioni relative la produzione di terre rare cinesi, si contesta da più parti l’efficacia del provvedimento. Un aumento dei dazi del 10% infatti sarebbe troppo poco per indurre un cambio di fonti di approvvigionamento e troppo poco per spingere le aziende americane a tornare in patria, senza considerare la lunghezza dei tempi in caso di riattivazione di eventuali giacimenti nazionali di terre rare. La sfida si gioca dunque sul filo del rasoio. Se da una parte Pechino può sfruttare il proprio vantaggio competitivo riducendo ulteriormente la capacità di approvvigionamento per le imprese americane, d’altra parte, un rincaro eccessivo dei prezzi spingerebbe alla ricerca di fonti alternative. Il tutto, al netto dell’attuale partita commerciale tra Pechino e Washington i cui scenari incerti continueranno a tenere in tensione i mercati globali.(Alberto Belladonna, “La guerra delle terre rare tra Cina e Stati Uniti”, da “Medium” del 30 luglio 2018, ripreso da “Megachip”. Belladonna è docente di geoeconomia e commercio internazionale presso l’università Francisco Marroquin di Guatemala. Le terre rare comprendono minerali come scandio, ittrio, lantanio, cerio, praseodimio, nodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio e lutezio).Lo scorso dicembre, alla vigilia delle tensioni commerciali tra Cina e Stati Uniti, il presidente americano Donald Trump firmava un ordine esecutivo per ridurre la dipendenza del paese da fonti estere di “minerali critici” vitali nella produzione di una vasta gamma di beni strategici per l’industria americana. Un ordine palesatosi nell’ultimo round di restrizioni commerciali varate dal governo americano questo 10 luglio con l’imposizione di un aumento del 10% di dazi su una serie di importazioni provenienti dalla Cina, tra le quali figurano appunto anche le “terre rare”. Sconosciute ai più, le terre rare o lantanidi sono un gruppo di diciassette elementi contenuti in diversi minerali diventati fondamentali nella produzione di un’innumerevole quantità di prodotti ad alto contenuto tecnologico grazie alla loro capacità di dar luogo a leghe con elevate proprietà magnetiche. In particolare, tutta la moderna elettronica così come la produzione di semiconduttori, fibre ottiche, sistemi di navigazione, laser e monitor, fino alla produzione di cd, carte di credito e telefoni cellulari sarebbe totalmente irrealizzabile senza questi elementi. A dipendere dalle terre rare cinesi è inoltre la produzione dei più sofisticati strumenti bellici dell’esercito statunitense e quasi tutta l’industria della cosiddetta “green economy”, dai pannelli solari alle batterie ricaricabili per auto elettriche ed ibride.
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Pagare a vita: il ruolo di Cottarelli nell’agonia della Grecia
Carlo Cottarelli è tra i massimi responsabili delle mostruose sofferenze inflitte alla Grecia, che hanno trasformato il paese in un avanmposto del terzo mondo, con ospedali senza più medicine per curare i bambini e le maggiori infrastrutture – porti, aeroporti – comprate dalla Germania a prezzi di saldo. Lo afferma Fabio Lugano su “Scenari Economici”, citando documenti ufficiali che confermano il ruolo nefasto dell’economista neoliberale, scelto da Sergio Mattarella come candidato premier alternativo a Giuseppe Conte. La colpa di Cottarelli? Fu tra i dirigenti del Fmi che, quando la Grecia era commissariata dalla Troika, non permisero ad Atene di tagliare il debito, accollandone interamente il costo alle aziende e alle famiglie greche. Ragioni ideologiche: Cottarelli, autore della spending review del governo Letta, secondo l’insigne economista keynesiano Nino Galloni rifiuta di ammettere il valore potenziale del deficit, capace di triplicare – in termini di Pil – la spesa pubblica erogata. Nel caso della Grecia, ha invece rifiutato la “ristrutturazione” del debito storico, che avrebbe permesso al paese di tornare a respirare, evitando la catastrofe che non ha ancora finito di travolgerlo.Dato che sia Cottarelli che il collega Olivier Blanchard sono «molto restii a rivelare il loro ruolo nella questione greca», e visto che «sembra vogliano ripetere lo stesso frame con l’Italia», Fabio Lugano ha scovato i documenti che comprovano il ruolo di Cottarelli nel “martirio” della Grecia. «Nulla di segreto», premette Lugano su “Scenari Economici”: «Tutta roba ufficiale messa a disposizione del pubblico e già conosciuta». Il documento più interessante sulla questione greca, scrive Lugano, è il report dell’Indipendent Evaluation Office del Fmi, cioè l’ufficio che effettua l’audit sulle operazioni del Fondo Monetario, che insieme a Bce e Commissione Europea faceva parte della Troika incaricata di gestire la crisi finanziaria ellenica. «Abbiamo già specificamente trattato questo tema in precedenza, ma ci torneremo sopra in futuro – avverte Lugano – perchè il tema dei moltiplicatori fiscali viene lì trattato in modo approfondito e specifico, facendo notare come i moltiplicatori utilizzati dal Fmi nella valutazione della politica fiscale fossero completamente errati, pari ad un quinto di quanto verificato in seguito». In altre parole: i tagli inferti alla Grecia hanno prodotto solo il 20% del risultato atteso da Cottarelli e soci, e al prezzo della devastazione sociale di un’intera nazione.Il ruolo “cottarellico” nella vicenda? Lugano lo scova a pagina 23 del report: «Il Fmi – si legge – rimase diviso sulle conseguenze e i rischi legati a una ristrutturazione del debito». Per un pelo non prevalsero i saggi, disposti ad aiutare davvero la Grecia. «Mentre la maggioranza dello staff del Fmi era in modo crescente a supporto della ristrutturazione del debito», quindi del reale salvataggio della Grecia, «alcuni funzionari senior in posizioni chiave continuavano ad affermare che il debito fosse sostenibile», cioè scaricabile sulle spalle di aziende e famiglie, giovani e pensionati. Nel settembre 2010 – continua il rapporto – il Fad pubblicò un paper affermando che, «per le economie avanzate di oggi», incluse quelle «periferiche» dell’area euro, «il default non è nell’interesse dei cittadini». Firmato: “Cottarelli e altri, 2010”. «Il paper in questione lo trovate facilmente nel sito Fmi, ma non aspettatevi molto», dice Lugano: «Le motiviazioni sono deboli, alcune delle quali contestate nel medesimo report dell’Ieo – come ad esempio la sua fobia per i moltiplicatori elevati, o la sopportabilità di avanzi primari enormi». Le scelte di Cottarelli, aggiunge Lugano, influenzarono quelle del Fmi nel non insistere in un maggior taglio immediato del debito, «e lasciarono gravato lo Stato greco di un fardello che non poteva sopportare».Comunque, poi – nonostante le previsioni di Cottarelli – alla fine si dovettero ugualmente effettuare due tagli del debito, e nel 2017 il Fmi richiese addirittura un terzo taglio dei conti, che però non venne concesso. Ma l’immane debito greco, così gravoso solo perché denominato in euro (moneta non sovrana), non doveva essere interamente “sostenibile” fin dall’inizio? «Le affermazioni di Cottarelli si rivelarono completamente erronee – sottolinea Lugano – e impedirono di affrontare in modo immediato la crisi: invece che risolvere il tutto il 12-24 mesi si è proseguito con una specie di lenta agonia che non è ancora terminata». Conclude Lugano: «Considerare l’euro o le economie anche periferiche al di fuori delle regole dell’economia è stato un errore clamoroso, che viene ripetuto anche ora. Il problema non è errare, ma perseverare nell’errore, in una politica che si è dimostrata errata. Questa è la grande colpa dell’economista».Carlo Cottarelli è tra i massimi responsabili delle mostruose sofferenze inflitte alla Grecia, che hanno trasformato il paese in un avanmposto del terzo mondo, con ospedali senza più medicine per curare i bambini e le maggiori infrastrutture – porti, aeroporti – comprate dalla Germania a prezzi di saldo. Lo afferma Fabio Lugano su “Scenari Economici”, citando documenti ufficiali che confermano il ruolo nefasto dell’economista neoliberale, scelto da Sergio Mattarella come candidato premier alternativo a Giuseppe Conte. La colpa di Cottarelli? Fu tra i dirigenti del Fmi che, quando la Grecia era commissariata dalla Troika, non permisero ad Atene di tagliare il debito, accollandone interamente il costo alle aziende e alle famiglie greche. Ragioni ideologiche: Cottarelli, autore della spending review del governo Letta, secondo l’insigne economista keynesiano Nino Galloni rifiuta di ammettere il valore potenziale del deficit, capace di triplicare – in termini di Pil – la spesa pubblica erogata. Nel caso della Grecia, ha invece rifiutato la “ristrutturazione” del debito storico, che avrebbe permesso al paese di tornare a respirare, evitando la catastrofe che non ha ancora finito di travolgerlo.
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Sechi: New Deal rooseveltiano gialloverde, ora o mai più
Il quadro politico dice che il “governo Frankenstein” è il solo possibile. E se dovesse fallire L’alternativa sarebbe il caos, che vorrebbe dire, alla fine, un altro governo tecnico. Diciamocelo, a qualcuno piacerebbe: il piccolo establishment italiano vuole il commissariamento. Chi lavora per questa prospettiva? Piccoli gruppi di potere. Anche il Quirinale? No, il Quirinale no. Anzi, il Colle è stato il potere che più ha preso atto della situazione e favorito la nascita del governo gialloverde. Mattarella è più preoccupato di altre cose, come l’emergere nei 5 Stelle di quelle pulsioni di ruralismo cerebrale per cui tutto ciò che è infrastruttura, modernizzazione, rete non virtuale, non va bene. Il vero redde rationem comunque è sulla politica economica. La realtà è che il governo M5S-Lega ha un solo vero nemico, se stesso. Tria vuole tenere insieme tutto, Flat Tax, reddito di cittadinanza, annullamento delle clausole di salvaguardia, riforma Fornero, stop all’aumento dell’Iva, alcuni benefici fiscali. Nemmeno Mandrake riuscirebbe a fare una cosa del genere. Quindi dovrà sacrificare qualcosa. A meno che non intendano fare un po’ di deficit, ma quanto?Il punto è che non si vedono né il continuismo, né la svolta. Il primo avrebbe imposto di sacrificare punti importanti del programma di governo, la seconda di sfidare Bruxelles. Cosa vogliono fare Lega ed M5S? Qual è il disegno complessivo? Non si è capito. L’altro elemento di preoccupazione viene dalla Lega. Sta abbozzando su cose che, se si realizzano, il suo elettorato rifiuterà. La stretta sui contratti contenuta nel decreto lavoro, che ora è legge. E poi il reddito di cittadinanza non fa certo parte della base socioeconomica dei leghisti. In un modo o nell’altro si arriva sempre al M5S, perché nella testa dei 5 Stelle all’impostazione statalista si unisce una corrente molto forte di pensiero anti-industriale. Peccato che siano le imprese a produrre i posti di lavoro, e che l’agognata redistribuzione che vuole Di Maio – leggasi reddito di cittadinanza – possa venire solo dalla crescita e dal maggor gettito fiscale di lavoratori e imprese. Con la loro logica, invece, i 5 Stelle interrompono il vaso comunicante.Cosa mi aspetto a settembre? Non la crisi di governo, perché non c’è alternativa. La vera incognita sono i mercati, a cui allude Renzi. E Salvini? Potrebbe essere tentato di mollare Di Maio per Berlusconi? Tutto è possibile, non saprei però se il centrodestra vincerebbe le elezioni, ed è un calcolo che fa certamente anche Salvini. Se si andasse a votare, Salvini pescherebbe ulteriormente nel bacino di Berlusconi, mentre ai 5 Stelle, che ora sono forti, ruberebbe solo pochi voti. Se Salvini prendesse il 30% cento e Berlusconi il 10, avrebbero la maggioranza parlamentare, però al 40 bisogna arrivarci, non è affatto facile. Un nuovo governo che nascesse in Parlamento? Non ci sono i numeri per fare un accordo parlamentare. Al patto Salvini-Berlusconi servirebbero pezzi di altri gruppi parlamentari, ma c’è un particolare: Salvini è l’uomo nero con cui nessuno vuol fare alleanze. In mancanza di un accordo, si andrebbe al voto con un fallimento alle spalle. A quel punto sì che si sveglierebbero i mercati.Insomma Conte, Salvini, Di Maio e Tria devono trovare una sintesi. Ma è la strada per farlo che ancora non si vede. Il problema sostanziale è che i ceti produttivi della Lega si contrappongono alle masse in cerca di lavoro statalizzato del M5S, con i rappresentanti degli uni e degli altri che sono alleati in Parlamento. L’unico governo possibile si trova a lavorare in una situazione impossibile. Una soluzione, volendo, ci sarebbe. Un New Deal italiano, in cui Salvini e Di Maio smettono di fare campagna elettorale e mettono insieme un trust di persone pensanti con il compito di elaborare un accordo rooseveltiano coerente che unisca Nord e Sud. E’ quello che stanno facendo? Non è vero, perché non c’è un tentativo di politica corale, di sintesi, ma solo un contratto stilato dal notaio, fatto a compartimenti stagni, di cui alternativamente ognuna delle due forze punta a realizzare un pezzo, alla meglio. Non è così che si governa un paese. Salvini e di Maio sono ancora in tempo, ma devono agire subito.(Mario Sechi, dichirazioni rilasciate a Federico Ferraù per l’intervista “Attacco all’Italia, a settembre offensiva dei mercati: ecco chi sta con loro”, pubblicata da “Il Sussidiario” il 9 agosto 2018. Giornalista, già direttore del “Tempo”, Sechi si avvicinò a Monti per poi successivamente distaccarsene, riconoscendo la natura punitiva e “suicida” della strategia del rigore imposta all’Italia dall’oligarchia tecnocratica di Bruxelles).Il quadro politico dice che il “governo Frankenstein” è il solo possibile. E se dovesse fallire L’alternativa sarebbe il caos, che vorrebbe dire, alla fine, un altro governo tecnico. Diciamocelo, a qualcuno piacerebbe: il piccolo establishment italiano vuole il commissariamento. Chi lavora per questa prospettiva? Piccoli gruppi di potere. Anche il Quirinale? No, il Quirinale no. Anzi, il Colle è stato il potere che più ha preso atto della situazione e favorito la nascita del governo gialloverde. Mattarella è più preoccupato di altre cose, come l’emergere nei 5 Stelle di quelle pulsioni di ruralismo cerebrale per cui tutto ciò che è infrastruttura, modernizzazione, rete non virtuale, non va bene. Il vero redde rationem comunque è sulla politica economica. La realtà è che il governo M5S-Lega ha un solo vero nemico, se stesso. Tria vuole tenere insieme tutto, Flat Tax, reddito di cittadinanza, annullamento delle clausole di salvaguardia, riforma Fornero, stop all’aumento dell’Iva, alcuni benefici fiscali. Nemmeno Mandrake riuscirebbe a fare una cosa del genere. Quindi dovrà sacrificare qualcosa. A meno che non intendano fare un po’ di deficit, ma quanto?
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Meno tasse, più debito: così gli Usa volano, lavoro per tutti
Ci sono momenti dove il cronista deve tacere a far parlare solo i fatti. E questi fatti sono immensi, gridano vendetta per noi cittadini ridotti da un sistema monetario infame a viver da topi nel perenne terrore delle ire e delle scudisciate del Padrone a Bruxelles. Buona lettura, ma fa ribollire il sangue stare a guardare altri crescere, lavorare, poter sperare, solo perché hanno tutte le sacrosante armi costituzionali della moneta sovrana. Spesa pubblica a tutto gas: «Il presidente Donald Trump sta aumentando la spesa pubblica a debito di lunga scadenza come mai accaduto dalla peggior recessione americana dopo la Seconda Guerra Mondiale, e questo nonostante l’economia sia nel boom di espansione». «Trump e il Congresso hanno approvato tagli alle tasse ed espansione della spesa pubblica, e per trovare le necessarie coperture il ministero del Tesoro ha deciso di emettere ulteriore debito per 78 miliardi di dollari nei prossimi quattro mesi, in quella che è la terza espansione consecutiva del deficit di bilancio». Conte porta i rendimenti Btp al 3% e si alza lo spread: panico in Ue. Trump fa la stessa identica cosa “perché noi siamo sovrani”. «Il rendimento del titolo decennale Usa è salito oltre il 3% dopo l’annuncio dell’espansione della spesa pubblica, con lo spread dei titoli aumentato di 26 punti di base».«Siamo il governo sovrano americano, siamo il più grande mercato sovrano del mondo, è quindi ovvio che possiamo continuare ad emettere debito per trovare le coperture senza nessun riguardo ai rendimenti dei titoli né se i tassi d’interesse stanno aumentando o calando», ha dichiarato il Tesoro Usa a Washington il 1° agosto. Conte ha appena sussurrato, e già si prevedono punizioni dei mercati e di Bruxelles; per la super-spesa pubblica e il taglio delle tasse di Trump i mercati sono tranquilli, e l’economia fiorisce. «Il Tesoro americano prevede di aumentare le aste del proprio debito su un ampio raggio di strumenti, a fronte di una forte richiesta dei mercati che hanno reagito molto positivamente ai dati americani sulla creazione di nuovi posti di lavoro». «I tagli alle tasse ‘corporate’ e un contemporaneo aumento della spesa pubblica stanno creando una manna di posti di lavoro, perché si sta vedendo un aumento delle richieste di lavoratori da record che sta quasi prosciugando la disoccupazione». «Sono in media 215.000 i nuovi posti creati ogni mese nel 2018. Le richieste di sussidi di disoccupazione sono le più basse da quasi 50 anni mentre le aziende si lamentano di non trovar manodopera a sufficienza».«Il settore dei servizi macina senza sosta nuovi impieghi. In aumento anche le mansioni per la produzione di beni materiali, particolarmente nel manifatturiero dove le aziende americane sono in affanno per soddisfare la mole gli ordini». «L’economia Usa è cresciuta del 4,1% nel secondo quarto su base annua, e il segretario al Tesoro Steven Mnuchin ha annunciato crescite di oltre il 3% per almeno quattro o cinque anni, con una disoccupazione in rapida discesa sotto il 3,9%». In Italia, Conte il 15 ottobre sarà costretto all’umiliante rituale di dover sottoporre a una Commissione Ue di autocrati non eletti la Legge di Bilancio per il loro permesso di farci spendere spiccioli pubblici con un limite di deficit di bilancio del 1,6%, che è come neppure spendere per i cittadini. Il ministro Tria ha pubblicamente annunciato ai mercati che l’Italia neppure si sogna espansioni di spesa a sua discrezione, e starà dentro i limiti decisi da Gentiloni, per, di nuovo, obbedire al limite di 1,6% di deficit. La crescita del Pil italiano nel primo quarto è stata del 1,4% su base annua, un calo rispetto all’anno prima. La produzione industriale è un disastro con un miserabile +1,7%, il dato più basso in un anno, e il manifatturiero è ai minimi.La disoccupazione in Italia è ancora all’11%, in aumento da maggio. L’Eurozona nel suo insieme è cresciuta dello 0,3% nel primo quarto 2018. Rileggete tutta la parte sugli Stati Uniti. Il quadro che ne esce non deve portare a trionfalismi pro-Trump, perché è ancora lungi dall’essere vero keynesismo, soprattutto sui livelli salariali, e sappiamo poi come i repubblicani usano il “fantasma” degli aumenti di deficit per tagliare il welfare. Ma ci dice però chiarissima una cosa: chi ha moneta sovrana può compiere almeno il primo passo fondamentale per far lavorare, crescere e sperare la gente: spendere fondi di Stato zittendo chiunque al mondo e senza nessun vero danno a lungo termine, anzi, il contrario. Io sono esausto, mi sembra di ripetere da 9 anni che “è la terra che gira intorno al Sole”, ma no, non c’è nulla da fare, noi siamo per l’esimio “L’Espresso” i sovranisti buffoni in vacanza. Lavoro e democrazia sono a moneta sovrana, il resto è sofferenza.(Paolo Barnard, “Usa: meno tasse e spesa pubblica senza remore, mercati e crescita alle stelle – poi c’è chi deve vivere come topi, nella paura”, dal blog di Barnard del 4 agosto 2018. Dati e citazioni da: The Us Treasury, “The Wall Street Journal”, Bloomberg Research, “The Financial Times”, Imf, “Focus Economics”, Istat).Ci sono momenti dove il cronista deve tacere a far parlare solo i fatti. E questi fatti sono immensi, gridano vendetta per noi cittadini ridotti da un sistema monetario infame a viver da topi nel perenne terrore delle ire e delle scudisciate del Padrone a Bruxelles. Buona lettura, ma fa ribollire il sangue stare a guardare altri crescere, lavorare, poter sperare, solo perché hanno tutte le sacrosante armi costituzionali della moneta sovrana. Spesa pubblica a tutto gas: «Il presidente Donald Trump sta aumentando la spesa pubblica a debito di lunga scadenza come mai accaduto dalla peggior recessione americana dopo la Seconda Guerra Mondiale, e questo nonostante l’economia sia nel boom di espansione». «Trump e il Congresso hanno approvato tagli alle tasse ed espansione della spesa pubblica, e per trovare le necessarie coperture il ministero del Tesoro ha deciso di emettere ulteriore debito per 78 miliardi di dollari nei prossimi quattro mesi, in quella che è la terza espansione consecutiva del deficit di bilancio». Conte porta i rendimenti Btp al 3% e si alza lo spread: panico in Ue. Trump fa la stessa identica cosa “perché noi siamo sovrani”. «Il rendimento del titolo decennale Usa è salito oltre il 3% dopo l’annuncio dell’espansione della spesa pubblica, con lo spread dei titoli aumentato di 26 punti di base».
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Galloni ai gialloverdi: come assumere 1 milione di giovani
Incombe una nuova crisi finanziaria, si aggraverà l’emergenza migranti, la Germania inizierà a sfilarsi dall’euro e l’Italia sarà nei guai senza più il “quantitative easing” garantito dalla Bce. Queste, per l’economista Nino Galloni, sono le vere mine sulla strada del governo gialloverde: senza una moneta parallela, fiscale, non sarà possibile andare lontano. La questione Tav in valle di Susa e le nomine Rai? Vengono enfatizzate e dipinte dagli avversari del governo quali prove dei contrasti interni e dei problemi della nuova maggioranza. In realtà, per Galloni, si tratta di tempeste in bicchieri d’acqua e, semmai, di sintonia futura. Certo, tutto può sempre accadere, persino tra qualche mese salti tutto, di fronte alle difficoltà proprie della legge finanziaria. Tuttavia la previsione che Galloni affida a “Scenari Economici” è diversa. «L’attuale cambiamento è importante ed irreversibile, sebbene varie questioni adesso in ballo rilancino la prospettiva di un’alleanza strategica tra Pd e Forza Italia», cosa che, beninteso, «rafforzerebbe quella fra gialli e verdi». Ma, se il governo supererà le tante “tempeste nel bicchiere” e anche la primavera 2019, dovrà affrontare le quattro grandi sfide che accompagneranno l’Europa. La prima? Sarà «la crisi finanziaria globale che seguirà l’allineamento della Bce sulle posizioni più restrittive della Fed e l’aumento dei tassi d’interesse che, col rafforzamento insensato del dollaro, costringeranno Trump ad insistere coi dazi».La crescita del Pil Usa, spiega Galloni, è stata tutta dovuta all’acquisto di merci Usa prima dell’introduzione dei dazi stessi. A questo si aggiungerà «l’aggravarsi e l’estendersi del problema immigrazione dall’Africa occidentale», un disastro che diventerà catastrofico, a medio termine, «se non si interverrà efficacemente sulle carestie locali, di origine climatica». Terzo guaio in arrivo: «Nella seconda parte del 2019 la Germania potrebbe cominciare a sfilarsi dall’euro per guardare di più verso Est». Attenzione: «Senza Qe e con un possibile declassamento del rating – sostiene Galloni – l’Italia si troverebbe in serie difficoltà, a meno di non introdurre valute parallele, minibonds o certificati di credito fiscale». Una strettoia serissima: «La possibilità che sia la Bce a fornire denaro allo Stato contro i titoli che le banche ordinarie non potessero più assorbire – spiega l’economista – è legata al commissariamento del paese», addirittura. Quarta calamità in arrivo, lo squilibrio tra domanda e offerta, nel mercato del lavoro: «Il sistema sta domandando sempre meno lavoro nei comparti redditizi, mentre in quelli dove l’occupazione dovrà crescere (servizi di cura delle persone, dell’ambiente e del patrimonio esistente), i costi – cioè il lavoro necessario – sono superiori al fatturato; quindi, alle condizioni del mercato non sono gestibili».Ecco la grande sfida che abbiamo di fronte, secondo Galloni, vicepresidente del Movimento Rooseelt: si tratta di «coniugare reddito di cittadinanza, riduzione delle tasse, maggiore libertà di azione per le piccole imprese, sicurezza e riqualificazione (ma non ridimensionamento!) dei compiti dello Stato». Finora, spiega, queste cose sono state rappresentate come alternative tra loro; adesso, invece, «bisogna trovare energie e risorse per realizzare qualcosa di nuovo e di assolutamente necessario». Le energie? Loro: i giovani disoccupati, laureati e diplomati. E le risorse? Basterà «l’emissione di un 2-3% di Pil di moneta sovrana non a debito a sola circolazione nazionale, non convertibile». Esempio: «Con l’equivalente di 25 miliardi di euro (pari all’1,5% del Pil) si potrebbe assumere un milione di giovani a 1.500 euro al mese per un anno». Obiettivo necessario, che «getterebbe nuova luce sul tema del reddito di cittadinanza e riqualificherebbe l’equilibrio di bilancio in rapporto alla riduzione della pressione fiscale». La moneta non a debito, infatti, «ha segno algebrico opposto a quello della spesa: e così il cambiamento sarebbe fattibile e possibile».Incombe una nuova crisi finanziaria, si aggraverà l’emergenza migranti, la Germania inizierà a sfilarsi dall’euro e l’Italia sarà nei guai senza più il “quantitative easing” garantito dalla Bce. Queste, per l’economista Nino Galloni, sono le vere mine sulla strada del governo gialloverde: senza una moneta parallela, fiscale, non sarà possibile andare lontano. La questione Tav in valle di Susa e le nomine Rai? Vengono enfatizzate e dipinte dagli avversari del governo quali prove dei contrasti interni e dei problemi della nuova maggioranza. In realtà, per Galloni, si tratta di tempeste in bicchieri d’acqua e, semmai, di sintonia futura. Certo, tutto può sempre accadere, persino tra qualche mese salti tutto, di fronte alle difficoltà proprie della legge finanziaria. Tuttavia la previsione che Galloni affida a “Scenari Economici” è diversa. «L’attuale cambiamento è importante ed irreversibile, sebbene varie questioni adesso in ballo rilancino la prospettiva di un’alleanza strategica tra Pd e Forza Italia», cosa che, beninteso, «rafforzerebbe quella fra gialli e verdi». Ma, se il governo supererà le tante “tempeste nel bicchiere” e anche la primavera 2019, dovrà affrontare le quattro grandi sfide che accompagneranno l’Europa. La prima? Sarà «la crisi finanziaria globale che seguirà l’allineamento della Bce sulle posizioni più restrittive della Fed e l’aumento dei tassi d’interesse che, col rafforzamento insensato del dollaro, costringeranno Trump ad insistere coi dazi».
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Gentiloni “gonfia” lo spread per mentire sul governo Conte
Il Partito Democratico perde la fiducia degli elettori – per l’esattezza due milioni e mezzo di voti in meno in cinque anni – ma si vanta pur sempre di avere quella dei mercati. Il concetto è semplice, quasi banale. La teoria dei dirigenti Dem è semplice, anzi semplicistica. Il programma del nuovo governo, unito al suo supposto dilettantismo, non convince e non convincerà gli investitori, che vendono e venderanno i nostri titoli di Stato. Il loro prezzo scenderà, e il rendimento – dato dal rapporto fra cedola e prezzo – salirà. Esploderà quindi il costo del debito, cui dovremo far fronte aumentando le imposte o diminuendo la spesa per i servizi. Saranno i mercati a punire gli elettori, che così impareranno a punire la forza tranquilla del Nazzareno. E’ il mercato, bellezza. Gli anni passano ma il copione resta bene o male lo stesso. Ieri la magistratura, oggi i mercati. La sinistra che perde sul campo trova sempre la sua rivincita negli spogliatoi. Un modo di ragionare molto poco democratico. Un paese dovrebbe infatti essere sempre libero di adottare le politiche economiche dei partiti scelti dagli elettori. Nel nostro caso, dalla maggioranza assoluta degli elettori; cosa che non accadeva dal 1987. Proposte che potranno pure non piacere. E al Nazzareno senz’altro non sono gradite. Ma questa è la democrazia.Saranno pur sempre gli elettori a giudicare i risultati ottenuti, confermando o meno il governo in carica alle prossime consultazioni. Ma stabilire in anticipo che una data politica economica non possa essere attuata perché non piace a qualcuno che potrebbe a sua volta punirci con lo spauracchio dello spread, se permettete, anche no! Anche perché la legge dei mercati non è fenomeno di natura, come l’eruzione di un vulcano o un terremoto contro cui nulla possiamo. Ma è la semplice e deliberata conseguenza di una stortura tipica solo dell’Eurozona. Prendiamo ad esempio il Giappone, con un rapporto debito/Pil pari al 250%. Quanto paga sui propri titoli di Stato a 10 anni? Praticamente lo 0%. Oppure il Regno Unito, reduce da un combattutissimo referendum sulla sua permanenza Ue cui sono seguiti negoziati internazionali e scontri politici interni altrettanto aspri. Quanto paga Londra sui propri Gilt a a 10 anni? La metà esatta dei nostri Btp. Il debito enorme da una parte e le tensioni politiche dall’altra – incubi persistenti agitati dal pensiero politico dominante di casa nostra – non sembrano scalfire la preoccupazione dei creditori di Tokyo e Londra. La spiegazione è elementare. Giappone e Regno Unito possiedono una “loro” banca centrale che emette e quindi controlla una “loro” moneta e che, più o meno di concerto con i rispettivi esecutivi, decide quanta parte del “loro” debito acquistare e a quale tasso.L’emissione di titoli di Stato, nei paesi monetariamente sovrani, non serve tanto a reperire le risorse necessarie a finanziare la spesa o rifinanziare il debito in scadenza, ma a determinare soprattutto il livello dei tassi di interesse cui si adatteranno gli altri segmenti del mercato dei capitali. Un’operazione di politica monetaria più che fiscale, diversamente da quanto invece accade in Eurozona dove i governi sono monetariamente castrati e quindi costretti a racimolare sui mercati ogni singolo centesimo loro necessario, al pari ed anzi in concorrenza con imprese, banche e famiglie. Sarebbe sufficiente che la Bce dichiarasse (notate bene non ho scritto “facesse” ma “dichiarasse”) che, per un efficace funzionamento dei canali di trasmissione della propria politica monetaria, non è più disposta a tollerare differenziali di rendimento superiori allo 0,5% fra i vari debiti dell’Eurozona, che immediatamente quegli investitori che oggi puniscono l’Italia correrebbero ad acquistare a mani basse anche i nostri Btp facendo salire i prezzi e abbassando il costo del nostro debito, così facendo un ottimo affare e portando il differenziale dei rendimenti a quanto prefissato da Francoforte; nella consapevolezza che una banca centrale, se solo lo volesse, avrebbe mezzi illimitati per arrivare a quel risultato, potendo essa stessa emettere tutta la moneta che desidera.E invece no, così non è; dobbiamo sorbirci l’ex premier Gentiloni che a distanza di poco più di venti giorni – dalle colonne prima de “La Stampa” e poi de “La Repubblica” – ci rampogna con la stessa identica profezia: «In due mesi lo spread è salito di oltre 100 punti. Solo questo ci costa oltre 5 miliardi». Ma sarà vero? E’ sufficiente consultare il bollettino trimestrale del ministero di Via XX Settembre per scoprire, ad esempio, che nei due mesi appena trascorsi sono stati emessi qualcosa come 34 miliardi di Btp. Un aggravio dei rendimenti pari all’1% si traduce in un costo aggiuntivo per le nostre tasche di 341 milioni. Mentre nei prossimi 12 mesi il governo emetterà circa 140 miliardi di Btp ed in caso di aumento del costo di finanziamento pari all’1% (ricordiamolo ancora, per una scelta deliberata della Bce) i maggiori interessi ammonterebbero ad 1,4 miliardi e non 5. Circa il 70% in meno della fosca previsione del nostro ex premier. Insomma se proprio volete appendervi allo spread, almeno fatelo coi numeri giusti.(Fabrio Dragoni, “La balla miliardaria di Gentiloni sullo spread”, da “Scenari Economici” del 1° agosto 2018).Il Partito Democratico perde la fiducia degli elettori – per l’esattezza due milioni e mezzo di voti in meno in cinque anni – ma si vanta pur sempre di avere quella dei mercati. Il concetto è semplice, quasi banale. La teoria dei dirigenti Dem è semplice, anzi semplicistica. Il programma del nuovo governo, unito al suo supposto dilettantismo, non convince e non convincerà gli investitori, che vendono e venderanno i nostri titoli di Stato. Il loro prezzo scenderà, e il rendimento – dato dal rapporto fra cedola e prezzo – salirà. Esploderà quindi il costo del debito, cui dovremo far fronte aumentando le imposte o diminuendo la spesa per i servizi. Saranno i mercati a punire gli elettori, che così impareranno a punire la forza tranquilla del Nazzareno. E’ il mercato, bellezza. Gli anni passano ma il copione resta bene o male lo stesso. Ieri la magistratura, oggi i mercati. La sinistra che perde sul campo trova sempre la sua rivincita negli spogliatoi. Un modo di ragionare molto poco democratico. Un paese dovrebbe infatti essere sempre libero di adottare le politiche economiche dei partiti scelti dagli elettori. Nel nostro caso, dalla maggioranza assoluta degli elettori; cosa che non accadeva dal 1987. Proposte che potranno pure non piacere. E al Nazzareno senz’altro non sono gradite. Ma questa è la democrazia.