Archivio del Tag ‘autoproduzione’
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Galloni: perché l’Italia attira e sfrutta lavoratori clandestini
La Guardia di Finanza ha arrestato alcuni malviventi marocchini che gestivano diversi extracomunitari, prevalentemente clandestini, occupati in attività agricole nel forlivese: paghe fino a 6 euro al giorno per giornate di 14 ore di lavoro agricolo durissimo. Prima considerazione: se non ci fossero regole nel mondo del lavoro, il liberismo sfrenato porterebbe a rendere “normali” situazione come quella descritta. Seconda considerazione: gli imprenditori italiani hanno bisogno di lavoratori così sfruttati per tenere bassi i costi di produzione o per realizzare sovraprofitti? Terza considerazione: se è per tenere bassi i costi (e non importare prodotti a basso prezzo, ad esempio dal Nordafrica), non sarebbe meglio cambiare modello economico e basarsi sullo sviluppo locale, l’autoproduzione, i km zero anche introducendo monete complementari che spiazzino le merci della globalizzazione?Quarta considerazione: se è per realizzare un sovraprofitto, allora è necessario stabilire minimi salariali tali da interessare l’assorbimento di disoccupati locali e rafforzare i controlli amministrativi perché il supersfruttamento dei lavoratori venga bandito. Conclusione: prima bisogna stabilire il salario minimo e farlo rispettare anche con la forza dello Stato; poi e solo poi, valutare se non ci sono lavoratori disponibili, ovvero se non è meglio modificare il modello economico. Nel senso di favorire la sostituzione delle importazioni anche attraverso il pratico strumento della introduzione, a livello locale, di una valuta di basso pregio, che possa circolare solo su un territorio circoscritto (all’incirca un quarto o un quinto di una provincia media) garantendo, così, lo spiazzamento dei prodotti della globalizzazione.Ciò rappresenterebbe un fortissimo sostegno all’occupazione, un importante incentivo all’emergere del nero e del grigio, senza nessuna compromissione di chi volesse risultare in grado di esportare i prodotti del made in Italy di notevole qualità. La qualità dev’essere la forza del made in Italy ed il prezzo di vendita (costo di produzione + profitto) dev’essere la discriminante tra la merce veramente made in Italy (da esportare in valuta internazionale) e quella, sì prodotta in Italia, ma da commercializzare prevalentemente a livello locale.(Nino Galloni, “Cosa dobbiamo capire della presenza dei clandestini in Italia”, da “Scenari Economici” del 22 settembre 2018).La Guardia di Finanza ha arrestato alcuni malviventi marocchini che gestivano diversi extracomunitari, prevalentemente clandestini, occupati in attività agricole nel forlivese: paghe fino a 6 euro al giorno per giornate di 14 ore di lavoro agricolo durissimo. Prima considerazione: se non ci fossero regole nel mondo del lavoro, il liberismo sfrenato porterebbe a rendere “normali” situazione come quella descritta. Seconda considerazione: gli imprenditori italiani hanno bisogno di lavoratori così sfruttati per tenere bassi i costi di produzione o per realizzare sovraprofitti? Terza considerazione: se è per tenere bassi i costi (e non importare prodotti a basso prezzo, ad esempio dal Nordafrica), non sarebbe meglio cambiare modello economico e basarsi sullo sviluppo locale, l’autoproduzione, i km zero anche introducendo monete complementari che spiazzino le merci della globalizzazione?
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Meno e meglio: Piemonte, nascono le comunità energetiche
Autoproduzione e condivisione dell’energia prodotta da fonti rinnovabili. Sono questi i princìpi alla base della legge sulle comunità energetiche approvata all’unanimità dalla terza Commissione del Consiglio regionale del Piemonte e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. La nuova norma, che pone il Piemonte come regione all’avanguardia a livello nazionale, permetterà a comunità di persone, enti e imprese di scambiare tra loro l’energia prodotta da fonti alternative. L’obiettivo delle comunità energetiche sarà quello di agevolare la produzione e lo scambio di energie generate principalmente da fonti rinnovabili, nonché l’efficientamento e la riduzione dei consumi energetici. Con la legge regionale numero 12 del 3 agosto 2018, il Piemonte ha dunque stabilito che i Comuni che intendono proporre la costituzione di una nuova comunità energetica, oppure aderire a una comunità energetica esistente, dovranno adottare uno specifico protocollo d’intesa, redatto sulla base di criteri che dovranno essere indicati da un futuro provvedimento regionale.Le comunità energetiche, alle quali possono partecipare soggetti sia pubblici che privati, possono acquisire e mantenere la qualifica di soggetti produttori di energia se annualmente la quota dell’energia prodotta destinata all’autoconsumo da parte dei membri non è inferiore al 70% del totale. La Regione, attraverso futuri incentivi ad hoc, si impegna a sostenere finanziariamente la fase di costituzione delle comunità energetiche, le quali potranno anche stipulare delle convenzioni con Arera (autorità di regolazione per energia, reti e ambiente), al fine di ottimizzare la gestione e l’utilizzo delle reti di energia. «Il Piemonte, prima Regione italiana a dotarsi di una legge di questo tipo, fa un passo importante nella direzione dell’autosufficienza energetica e della costruzione di un nuovo modello di cooperazione territoriale virtuosa», commenta Fabio Dovana, presidente di Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta: «Una scelta importante che speriamo sia seguita da altre Regioni ma soprattutto dal governo nazionale, che invitiamo a recepire subito la direttiva europea che verrà approvata ad ottobre su “prosumer” e comunità dell’energia, per evitare di perdere due anni e aprire subito opportunità nei territori e dar così forza all’autoproduzione e alla distribuzione locale di energia da fonti rinnovabili».«La generazione diffusa di energia e un’autonoma efficienza energetica – prosegue Dovana – contribuiscono infatti alla riduzione del consumo di fonti fossili, delle emissioni inquinanti e climalteranti, ad un miglior utilizzo delle infrastrutture, alla riduzione della dipendenza energetica, alla riduzione delle perdite di rete e ad un’economia di scala». Il tema dell’autoproduzione e della distribuzione locale di energia da fonti rinnovabili è al centro dell’interesse generale per le opportunità che si stanno aprendo con l’innovazione nella gestione energetica, grazie all’efficienza e alla riduzione dei costi delle tecnologie e delle reti. Anche in Italia questa prospettiva avrebbe grandi potenzialità perché, in questa forma, le fonti rinnovabili anche senza incentivi diretti, potrebbero offrire un’adeguata risposta alla domanda di elettricità e calore negli edifici e nei territori, creando valore e nuova occupazione.Il Piemonte dunque, prima Regione italiana, cerca di intercettare questa opportunità su ampia scala dopo anni in cui sul territorio, in forma sperimentale, è stato portato avanti ad esempio il progetto di Comunità Energetiche del Pinerolese promosso come capofila dal Comune di Cantalupa, con un piano di azione orientato all’autosufficienza energetica e volto alla costruzione di una comunità energetica locale. Ora questo tipo di esperienze potrà uscire dalla fase sperimentale e avere un’ampia diffusione. «La nuova legge regionale va nella direzione da noi auspicata – aggiunge Dovana – anche se avremmo preferito che gli obiettivi e le azioni che vengono previsti per le future comunità energetiche fossero meno generici e prevedessero inscindibilmente la riduzione del consumo di fonti fossili associata con la riduzione delle emissioni inquinanti e climalteranti. Chiediamo quindi alla giunta regionale, nella predisposizione dei provvedimenti attuativi della legge appena approvata, di stabilire regole per evitare che l’incentivo alle comunità energetiche diventi un sussidio acritico alla realizzazione di qualsiasi tipo di centrale a biomassa».(“In Piemonte nascono le comunità energetiche”, da “Il Cambiamento” del 17 agosto 2018).Autoproduzione e condivisione dell’energia prodotta da fonti rinnovabili. Sono questi i princìpi alla base della legge sulle comunità energetiche approvata all’unanimità dalla terza Commissione del Consiglio regionale del Piemonte e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. La nuova norma, che pone il Piemonte come regione all’avanguardia a livello nazionale, permetterà a comunità di persone, enti e imprese di scambiare tra loro l’energia prodotta da fonti alternative. L’obiettivo delle comunità energetiche sarà quello di agevolare la produzione e lo scambio di energie generate principalmente da fonti rinnovabili, nonché l’efficientamento e la riduzione dei consumi energetici. Con la legge regionale numero 12 del 3 agosto 2018, il Piemonte ha dunque stabilito che i Comuni che intendono proporre la costituzione di una nuova comunità energetica, oppure aderire a una comunità energetica esistente, dovranno adottare uno specifico protocollo d’intesa, redatto sulla base di criteri che dovranno essere indicati da un futuro provvedimento regionale.
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Tecno-vaccini per annientarci, se la scienza “impazzisse”
Hai bisogno di un cuore o un polmone di ricambio? Nessun problema: la Monsanto te ne crea uno nuovo di zecca, utilizzando una specie di maiali trans-genici alimentati da mangimi Ogm e sottoposti con regolarità ad espianto di organi mentre sono ancora in vita, per mantenere “freschi” gli organi espiantati. Avvertenza: il tuo governo ha già approvato simili pratiche. Possibile? No, ovviamente. Sono soltanto fantasie decisamente horror, sulle quali si interroga il blog “La Crepa nel Muro”. Ai confini della realtà, si esplorano aberrazioni a 360 gradi: come i vaccini “comportamentali” per rendere docili i cittadini e reprimere il dissenso, il monitoraggio “da remoto” del nostro stato di salute, la totale segretezza sull’origine degli alimenti. Un mondo da incubo: pandemie globali scatenate da armi biologiche, controllo a distanza sul codice genetico della prole, ingegneria genetica per tranquillizzare le folle o, al contrario, “fabbricare” soldati spietati. E scie in cielo, naturalmente, per “attivare metalli e nano-cristalli iniettati attraverso i vaccini”. Un film spaventoso, che comincia con l’espianto “brevettato” di organi di maiali geneticamente modificati. Ha senso, questa fantascienza abominevole? Impossibile escluderla a priori, secondo “La Crepa nel Muro”, visto che la scienza ormai assoggettata all’industria «ha in mente per noi un futuro molto diverso dai paradisi utopistici previsti dai media mainstream».Secondo l’ufficialità, come sappiamo, la scienza sarebbe sempre e comunque benigna per l’umanità: «Ogni conseguimento scientifico è sempre stato dipinto come “progresso”, anche se molti di essi alla lunga si sono rivelati disastrosi (le bombe atomiche, ad esempio, oppure gli Ogm)». E mentre la scienza pura «risulta essere una componente necessaria di qualsiasi civiltà che cerchi di espandere la propria comprensione dell’universo», il tipo di scienza che oggi domina il paesaggio «è industriale, quindi al servizio dei profitti aziendali più che della umana comprensione». E’ la scienza-business, quella che «sta per partorire una nuova nidiata di tecnologie proprio terrificanti, le quali potrebbero trasformare il mondo». Tecnologie in vitro, che di umano non hanno più niente? Il blog ne propone un intero campionario, francamente agghiacciante. Come i “vaccini comportamentali”, che potrebbero essere sviluppanti, orwellianamente, per “reprimere il dissenso”, da chi considerasse la disobbedienza una patologia, una vera e propria malattia. La “cura per la disobbedienza” (o “disturbo oppositivo”) potrebbe essere nuovo vaccino che «rimodellerà biologicamente il cervello per renderlo più socialmente mansueto e controllabile». Una sorta di lobotomia chimica: sarebbe «la pietra di fondazione dello stato di polizia globale, che non avrà tolleranza per il pensiero indipendente e il pensiero critico di qualsiasi tipo».E che dire del “monitoraggio da remoto di tutti i valori sanitari e impulsi vitali”? «Pensate che le cartelle cliniche siano davvero riservate? Pensateci bene: già attualmente il governo degli Stati Uniti detiene un database centralizzato dei campioni di sangue prelevati a tutti i neonati». E’ pensabile che nel prossimo futuro, ai cittadini, possa essere «impiantato un chip diagnostico»? In tempo reale, il dispositivo potrebbe trasmettere al governo «una serie di informazioni circa il polso, la respirazione, la presenza di droghe illegali o legali (le quali sono spesso le stesse sostanze chimiche contenute nelle droghe illegali, ripresentate sotto forma di farmaco)». Funzione: «Controllare che ogni ammalato assuma regolarmente i propri farmaci», ma anche «individuare e arrestare coloro che assumano sostanze stupefacenti senza prescrizione medica». Nella versione horror, il chip potrebbe «monitorare i livelli nutrizionali», magari elininando la vitamina D – dichiarata pericolosa, in un futuro da incubo – per fissare «soglie di tolleranza ben distanti da quella del risveglio cognitivo, facendo in modo che tutti restino prigionieri di uno stato di torpore mentale». Alla stessa strategia (perversa, demoniaca) potrebbe corrispondere anche la “totale segretezza circa qualsiasi ingrediente alimentare e luoghi di origine dei prodotti”, con un doppio risultato: spacciare alimenti-spazzatura molto redditizi e, fatalmente, pericolosi per la salute.Anche per questo, aggiunge “La Crepa nel Muro”, nel peggior futuro possibile potrebbe scattare anche la “assoluta criminalizzazione di alimenti e farmaci di produzione locale”, con “obbligo di affidarsi esclusivamente ai grandi gruppi industriali alimentari e farmaceutici”. A proposito di cibo, scrive il blog, “scienziati” corrotti potrebbero affermare che la coltivazione autonoma di un orto nel proprio giardino sia estremamente pericolosa, perché causa il diffondersi di batteri. Basterebbe a mettere al bando il giardinaggio domestico: vietato mettersi a coltivare pomodori sul balcone. «Il fine ultimo di tutto ciò è rendere la popolazione completamente dipendente dalle grandi industrie alimentari centralizzate». I soliti “scienziati” potrebbero sostenere che solo le grandi industrie alimentari producono cibo sicuro, «in quanto completamente pastorizzato, irradiato e sottoposto a fumigazione». Senza contare, poi, gli scenari di guerra. Esempio: “Scatenamento di una pandemia globale a colpi di armi biologiche aggregate ai vaccini”.«L’intero sistema dei vaccini – si legge nel fanta-post della “Crepa nel Muro” – fa ovviamente capo ad una politica di eugenetica su larga scala». Ovvero: «Qualcuno ha progettato di eliminare tutti i quozienti intellettivi più bassi del pianeta, persone così stupide da lasciarsi iniettare qualsiasi cosa sia spacciata per un vaccino», comprese le inutili vaccinazioni antinfluenzali. «E’ realmente un programma di eugenetica, con cui i globalisti sono convinti di poter estirpare la stupidità dal genere umano, non importa quale sia il costo in termini di sofferenza». Per questa via completamente folle, si potrebbe arrivare un giorno anche al “totale controllo del governo sulla riproduzione e sul codice genetico della prole”. «Copulare con una persona di vostra scelta e produrre la vostra discendenza a vostro piacimento non sarà più permesso, nello stato di polizia scientifica», si sbilancia “La Crepa nel Muro”. «La riproduzione sarà attentamente controllata tramite la concessione di licenze per assicurarsi che non vi siano risultati imprevisti». Orrore: «Prima di avere figli, i genitori dovranno chiedere al governo il permesso di riprodursi». A quel punto «saranno analizzati geneticamente e psicologicamente, dopodiché sarà loro concesso un permesso di riproduzione controllata il cui iter dovrà essere rigorosamente seguito per evitare il carcere».«Alle persone che mostrino tendenze ribelli e atteggiamenti anti-statali – va da sé – sarà negato il privilegio della riproduzione». E quindi, «solo agli schiavi più obbedienti e bianchi saranno concessi i privilegi di riproduzione, di cui gli schiavi andranno orgogliosi, data la responsabilità di mettere al mondo le successive generazioni di schiavi». Paranoia letteraria? Universi paralleli? Quanto può esservi, di verosimile, nella dilatazione – volutamente provocatoria e spettacolare – delle più recenti mostruosità (tragicamente autentiche) di alcune sperimentazioni tecno-scientifiche? Un abisso, nel quale “La Crepa nel Muro” arriva a ipotizzare “impianti cerebrali attivabili da remoto per la sedazione delle folle”. E’ un fatto: il futuro ormai coinvolge tutti i tipi di apparecchiature elettroniche impiantabili nel corpo umano. Una di quelle più convenienti potrebbe essere il “chip pacificazione”, addirittura «imposto ai cittadini in cambio di una somma di crediti virtuali». Un dispositivo subdolo, «attivato in modalità remota da parte del governo attraverso flussi cellulari, o attraverso impulsi locali emessi dalle forze di polizia, per placare immediatamente qualsiasi grande folla di manifestanti e rivoltosi». Gli studenti stanno protestando in favore della libertà di parola? «Basterà attivare il “chip pacificazione”, e tutti si sdraieranno sul prato e per qualche minuto faranno qualche sogno ad occhi aperti».Al bisogno, un simile chip potrebbe essere usato anche per “eccitare” il cervello in frangenti politicamente convenienti: «Per esempio, se un altro attacco terroristico dovesse compiersi sul territorio americano, il chip potrà essere d’aiuto per stimolare il sostegno della gente ad una ritorsione bellica». Ed ecco quindi il passo successivo, “ingegneria genetica e allevamento di super-soldati obbedienti”. «In un lontano futuro – ipotizza il blog – i soldati sul campo di battaglia saranno effettivamente degli umanoidi dotati di armi da fuoco e armature. Pensate al modello Terminator T-1000. Tutto ciò al momento resta abbastanza fuori portata, data la incredibile complessità di una simile tecnologia. Nel frattempo le nazioni più potenti investono denaro nella tecnologia dei super-soldati geneticamente modificati, i quali sono concepiti, allevati e addestrati per pensare ed agire come automi». Potrebbero essere “fabbricati” nuovissimi soldati-Ogm, dotati di elevati valori biologici (alta ossigenazione del sangue, cornice corporea di grandi dimensioni) in combinazione con piccoli cervelli, «in grado di elaborare solo le informazioni sufficienti per eseguire gli ordini ricevuti senza metterli in discussione». Invitabilmente, «saranno anche dotati di numerosi impianti elettronici che li renderanno più simili a cyborg che ad esseri umani». E quindi, «potenziamenti ottici applicati alle retine, chip Gps connessi al cervello, cablaggi nelle orecchie».Dulcis in fondo, ecco “l’attivazione di metalli e nano-cristalli iniettati attraverso i vaccini”. «Oltre che per la diffusione di malattie infettive – scrive il blog, nella sua “profezia” da incubo – i vaccini potranno essere utilizzati per iniettare nano-cristalli sintonizzati per risuonare a determinate frequenze». Nano-cristalli? «Sono stati rinvenuti anche nelle scie chimiche». Potrebbero rimanere inerti in un organismo anche per decenni, per poi essere di colpo “attivati” con l’emissione di specifiche frequenze. «Le applicazioni pratiche sarebbero infinite; dalla follia collettiva ai focolai di violenza di massa (tumulti, ecc) o a poche decine di milioni di persone che di colpo muoiono contemporaneamente. Una qualsiasi di tali applicazioni potrebbe essere sfruttata dal governo per vendere la versione ufficiale di un “attacco terroristico”. E tutto ciò potrebbe essere fatto in nome della “scienza”». Per “La Crepa nel Muro”, si tratta di «possibili tecnologie future» con cui la “scienza abusiva” potrebbe «supportare futuri governi tirannici e industrie corrotte». Nulla di tutto ciò è ancora in agenda, per fortuna, ma alcune idee aberranti «sono sulla buona strada per diventare realtà già nei prossimi anni». Fantascienza a parte, il problema sull’impiego della scienza è ovviamente serissimo: guai, se viene utilizzata «per dominare e ridurre in schiavitù le persone». Troppo spesso si è rivelata il grande alibi per operazioni “sporche”, progettate sulla pelle di tutti.Hai bisogno di un cuore o un polmone di ricambio? Nessun problema: la Monsanto te ne crea uno nuovo di zecca, utilizzando una specie di maiali trans-genici alimentati da mangimi Ogm e sottoposti con regolarità ad espianto di organi mentre sono ancora in vita, per mantenere “freschi” gli organi espiantati. Avvertenza: il tuo governo ha già approvato simili pratiche. Possibile? No, ovviamente. Sono soltanto fantasie decisamente horror, sulle quali si interroga il blog “La Crepa nel Muro”. Ai confini della realtà, si esplorano aberrazioni a 360 gradi: come i vaccini “comportamentali” per rendere docili i cittadini e reprimere il dissenso, il monitoraggio “da remoto” del nostro stato di salute, la totale segretezza sull’origine degli alimenti. Un mondo da incubo: pandemie globali scatenate da armi biologiche, controllo a distanza sul codice genetico della prole, ingegneria genetica per tranquillizzare le folle o, al contrario, “fabbricare” soldati spietati. E scie in cielo, naturalmente, per “attivare metalli e nano-cristalli iniettati attraverso i vaccini”. Un film spaventoso, che comincia con l’espianto “brevettato” di organi di maiali geneticamente modificati. Ha senso, questa fantascienza abominevole? Impossibile escluderla a priori, secondo “La Crepa nel Muro”, visto che la scienza ormai assoggettata all’industria «ha in mente per noi un futuro molto diverso dai paradisi utopistici previsti dai media mainstream».
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Stupid-economy, non ci salveranno neppure le rinnovabili
Che si producano milioni di prodotti inutili con le fonti fossili o con il solare, sempre prodotti inutili saranno e quello che si guadagna ambientalmente o energeticamente da una parte, lo si perde dall’altra. Per quanto sia certamente meglio utilizzare il solare piuttosto che il petrolio, comunque si sprecano preziose risorse non rinnovabili per produrre qualcosa di inutile. Pensiamo alle automobili; si fa un gran parlare dell’auto elettrica come se fosse la soluzione magica. Ma ve le immaginate centinaia di milioni di auto elettriche di quante risorse ed energia hanno bisogno per essere prodotte? Risorse che non sono di certo rinnovabili, perché quello che c’è dentro ad un’auto ha poco di rinnovabile. A meno che non la si voglia fare tutta di legno, ma allora non è più un’automobile ma un carretto e serve il cavallo, difatti è lì che andremo a finire se non fermiamo la follia della crescita. Inutile poi diminuire il consumo di carburante per automobile se poi ogni anno le vetture aumentano sempre di più e vanificano il risultato ottenuto dal minor consumo.Per sostenere con la green economy la crescita che fa felici industriali e governanti, dovremmo lastricare l’intero pianeta di pannelli solari e nemmeno basterebbe; pannelli solari che a loro volta hanno bisogno di materiali ed energia per essere prodotti, materiali che spesso non sono rinnovabili. Per quante fandonie si possano raccontare per poter continuare a vendere qualsiasi cosa, fortunatamente dai limiti terrestri non si scappa. La vera green economy e l’uso delle energie rinnovabili hanno senso solo se si mette in discussione la crescita e se per ogni prodotto ci si chiede se veramente è utile e quale è il suo grado di rinnovabilità. A certi nuovi convertiti, a cui non è mai interessato nulla dell’ambiente, importa maggiormente il portafoglio; lo dimostra in Italia il boom del fotovoltaico che spesso è stato solo speculazione. Il fotovoltaico fra le energie rinnovabili è quella che ha il rendimento minore ed è la meno interessante da un punto di vista ambientale. Ha molto più senso coibentare la casa con materiali naturali, quelli sì rinnovabili; e con quelli si abbassano drasticamente i consumi di riscaldamento e raffrescamento fino quasi a eliminarli del tutto, come per le case passive.Sono tanti coloro che hanno installato pannelli fotovoltaici nella propria casa o azienda e hanno continuato a consumare come e più di prima; in questo caso più che green economy si tratta di stupid economy. Agire così non ha senso e ha solo arricchito imprenditori senza scrupoli che si sono buttati sul fotovoltaico esclusivamente perché rendeva; poi gli stessi li vedi andare in giro in mega Suv, Maserati o Ferrari, che in quanto a protezione ambientale e risparmio energetico sappiamo bene essere il top. Per quanto ci si possa illudere o mettersi adesso questa copertina trasparente della green economy, non si scappa: è la crescita il problema e finchè quella non sarà messa in discussione e accantonata, non ci saranno rinnovabili o green economy che tengano. Anche le multinazionali dell’energia, dopo aver inquinato tutto l’inquinabile, si stanno buttando sulle rinnovabili ma dal punto di vista centralizzato, cioè l’energia ce la devono comunque vendere loro, mica ci dicono di renderci autonomi, che è invece la peculiarità principale delle energie rinnovabili stesse.Le risorse sono finite, inutile prenderci in giro; tutto quello che si produce deve essere attentamente vagliato per fare in modo che sia rinnovabile o comunque, se si utilizzano risorse finite, occorre fare in modo che i prodotti si possano riparare, riciclare, rendendone la vita più lunga possibile: l’esatto contrario di quello che dice il dogma del PIL, che per crescere ha assolutamente bisogno di usa e getta a ritmo continuo e più le discariche aumentano e più il Pil gioisce. Ma verrà un giorno, non molto lontano, che malediremo i sacerdoti del Pil mentre ci ritroveremo a scavare nelle discariche per trovare materiali preziosi che nel tempo della follia consumistica avevamo così stupidamente buttato per fare ingrassare industriali e politici senza scrupoli.(Paolo Ermani, “Le energie rinnovabili e la green economy non basteranno a salvarci”, da “Il Cambiamento” del 29 aprile 2016).Che si producano milioni di prodotti inutili con le fonti fossili o con il solare, sempre prodotti inutili saranno e quello che si guadagna ambientalmente o energeticamente da una parte, lo si perde dall’altra. Per quanto sia certamente meglio utilizzare il solare piuttosto che il petrolio, comunque si sprecano preziose risorse non rinnovabili per produrre qualcosa di inutile. Pensiamo alle automobili; si fa un gran parlare dell’auto elettrica come se fosse la soluzione magica. Ma ve le immaginate centinaia di milioni di auto elettriche di quante risorse ed energia hanno bisogno per essere prodotte? Risorse che non sono di certo rinnovabili, perché quello che c’è dentro ad un’auto ha poco di rinnovabile. A meno che non la si voglia fare tutta di legno, ma allora non è più un’automobile ma un carretto e serve il cavallo, difatti è lì che andremo a finire se non fermiamo la follia della crescita. Inutile poi diminuire il consumo di carburante per automobile se poi ogni anno le vetture aumentano sempre di più e vanificano il risultato ottenuto dal minor consumo.
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Ciao Milano, meglio la viticoltura eroica della Valtellina
«Studiavo scienze naturali a Milano e già questo mi sembrava un paradosso. La voglia di tornare la stavo maturando da tempo ma mi mancava la spinta. E’ arrivata sei anni fa, quando ho perso mio nonno, viticoltore, figlio di viticoltori. I miei genitori, figli invece del boom economico, non avevano seguito la strada dei padri e così quei terreni sarebbero rimasti incolti. Non potevo permetterlo. Quindi ho lasciato la città, sono tornato a casa e mi sono messo al lavoro». Jonatan Fendoni, 31 anni, valtellinese, trasferitosi a Milano per studiare, da sei anni è tornato a casa, tra le sue montagne, per riprendere il lavoro del nonno e dedicarsi alla terra. Insieme a lui un gruppo di amici riscopre tecniche antiche e applica nuovi saperi all’agricoltura e alla viticoltura, in un luogo in cui la natura è davvero impervia, ma solo se non la sai ascoltare. Terrazzamenti costruiti pietra su pietra, rupi su rupi, labirinti di viti, scalette di roccia, pendenze ripide, gradini piccoli e scoscesi: in Valtellina l’agricoltura non è per niente facile. «E non è neanche meccanizzabile», precisa Jonatan. «Qui facciamo tutto a mano. Spesso lavoriamo molto d’inverno, sotto zero. Ci carichiamo gli attrezzi in spalla, curiamo le viti una a una, conosciamo ogni centimetro di queste terrazze».A San Giacomo di Teglio, 4000 abitanti sparsi in 120 chilometri quadrati di Alpi Orobiche, Jonatan ha imparato un mestiere e ora, dopo anni, ne sta raccogliendo i frutti: «Posso applicare le tecniche che mi sono state tramandate e insieme sperimentare ciò che ho appreso in anni di studio su testi scientifici». E i risultati si vedono, scrive su “Il Cambiamento” Elena Tioli, che si è arrampicata fin lassù per intervistare il neo-viticoltore. In un puzzle di vigneti, quelli della famiglia Fendoni saltano subito all’occhio: «Sono i più disordinati, ma la natura non è ordine. E questa, posso garantire, è l’uva più naturale della zona». Perché Jonatan non solo non utilizza mezzi meccanici ma cerca di ridurre a zero anche gli interventi chimici sulle piante. «Le fatiche sono ampiamente ricompensate dal frutto dei vitigni: Ciauenasca, Pignola, Rossula, Brugnola. Se lavorati con la testa e senza additivi, sanno dare un vino onesto da 13 gradi che sa di tutti i buoni e veri profumi della Valle di Teglio». Adottare i tanti incolti non è stato difficile: «Quando trovo un terreno abbandonato inizio a chiedere in giro agli anziani del luogo di chi è. Una volta scoperto cerco di contattare gli eredi, spesso trasferiti, disinteressati al terreno o addirittura inconsapevoli di averlo. Una volta trovati basta quasi sempre chiedere semplicemente di poterlo coltivare. In cambio di vino o anche di niente, te li lasciano senza problemi».Tre ragazzi disoccupati, racconta Jonatan, lo stanno aiutando con i vigneti e con la terra in cambio dei suoi insegnamenti. «Insieme cerchiamo di coltivare anche sementi autoctone e antiche», come il grano saraceno: «Un tempo qui ne se coltivava molto. Oggi è praticamente tutto importato dall’Est Europa e dalla Cina. Noi abbiamo recuperato dei semi antichi da vecchi mulini, bauli e soffitte. Una volta fatti analizzare abbiamo iniziato a piantarli per moltiplicarli». Un progetto portato avanti in collaborazione con l’Università Bicocca di Milano, ma senza l’appoggio delle istituzioni locali: «Non vogliamo avere alcuna contaminazione, non vogliamo far parte di certe dinamiche. La nostra genuinità sta anche in questo». Jonathan non ha fretta, scrive Elena Tioli: si adatta ai tempi della natura. «Vorrei che anche in me la natura potesse seguire il proprio corso. Vorrei vivere con i suoi ritmi e vorrei, soprattutto, dedicare a lei la mia vita». E spiega: «Non mi interessa vendere il mio vino o fare soldi. Non mi interessa l’omologazione dei gusti e dei sapori. Mi interessa che anche solo poche persone vengano qua a conoscere queste storie, questi luoghi, questi sapori. Perché ritrovarsi tra amici in queste cantine, mostrare a viaggiatori e curiosi il nostro lavoro, portare avanti certi discorsi e diffondere certi saperi, bevendo il nostro vino e mangiando ciò che autoproduciamo, per me, ha un valore inestimabile».Eroi? «Più che altro “liberi pensatori” passati all’azione», sorride Jonatan. «Eravamo tutti qui, con qualcosa dentro che non riuscivano a esprimere. Altri erano lontani ma volevano tornare. Ci siamo incontrati grazie alla Rete ed è stato subito facile riconoscerci». Così è nata l’idea di creare “Orto Tellinum”, «un progetto che vuole esortare al ritorno a un’agricoltura veramente sostenibile, incentivare la creatività rurale e la fantasia applicata ai territori di montagna», spiega Jonatan. «La nostra idea di agricoltore è di un custode dei semi, in grado di moltiplicare e salvare semenze locali antiche; diffondere saperi e arti in disuso aggiornandole e adattandole; recuperare sentieri e mulattiere in disuso; festeggiare con eventi i passaggi principali delle stagioni seguendo i ritmi delle semine e dei raccolti». E, ovviamente, brindare a tutto questo con dell’ottimo vino. Manca qualcosa? «Un po’ di stabilità economica. E anche botti, tini, tinelli e attrezzatura varia per cantina, per la gestione delle strutture nel vigneto e per l’imbottigliamento. Ma, a parte questo, qui ho tutto: tornare a casa senza sentirsi in prigione e dedicare la vita alla propria passione non ha prezzo».«Studiavo scienze naturali a Milano e già questo mi sembrava un paradosso. La voglia di tornare la stavo maturando da tempo ma mi mancava la spinta. E’ arrivata sei anni fa, quando ho perso mio nonno, viticoltore, figlio di viticoltori. I miei genitori, figli invece del boom economico, non avevano seguito la strada dei padri e così quei terreni sarebbero rimasti incolti. Non potevo permetterlo. Quindi ho lasciato la città, sono tornato a casa e mi sono messo al lavoro». Jonatan Fendoni, 31 anni, valtellinese, trasferitosi a Milano per studiare, da sei anni è tornato a casa, tra le sue montagne, per riprendere il lavoro del nonno e dedicarsi alla terra. Insieme a lui un gruppo di amici riscopre tecniche antiche e applica nuovi saperi all’agricoltura e alla viticoltura, in un luogo in cui la natura è davvero impervia, ma solo se non la sai ascoltare. Terrazzamenti costruiti pietra su pietra, rupi su rupi, labirinti di viti, scalette di roccia, pendenze ripide, gradini piccoli e scoscesi: in Valtellina l’agricoltura non è per niente facile. «E non è neanche meccanizzabile», precisa Jonatan. «Qui facciamo tutto a mano. Spesso lavoriamo molto d’inverno, sotto zero. Ci carichiamo gli attrezzi in spalla, curiamo le viti una a una, conosciamo ogni centimetro di queste terrazze».
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L’antispreco è servito, tra gli chef anche Serge Latouche
Bastano tre mele per fare un dolce-capolavoro. L’importante? E’ che siano bacate. Parola di Anna Blasco, “food stylist” e “food maker” torinese. Perché il capolavoro è doppio: non solo il gusto, ma anche il piacere del recupero del cibo che sta per finire nella spazzatura. Pura filosofia: il cibo non è solo un mezzo per vivere, come insegna Emmanuel Lévinas. «All’esteriorità del cibo corrisponde la nostra sensibilità», spiega il professor Enrico Guglielminetti, direttore di “Spazio Filosofico”. «Il rapporto che abbiamo col cibo è analogo al rapporto che abbiamo con gli altri». Mancanza di rispetto: «Lo spreco alimentare, che riduce il cibo a rifiuto, è un caso esemplare». Una sorta di abuso di potere. «Produrre rifiuti allora diventa un vizio, l’opposto della virtù». E noi di cibo ne sprechiamo troppo: 1,3 miliardi di tonnellate l’anno, cioè un terzo di tutta la produzione mondiale di alimenti destinati all’uomo, lungo la filiera-colabrodo dei consumi di massa. Rimediare? Ovvio che sì. Partendo dalla cucina di casa. Basta seguire, alla lettera, le ricette di grandi chef: che si chiamano Maurizio Pallante, Hilary Wilson, Rossano Ercolini, Pamela Warhurst. E Serge Latouche, naturalmente.«Mangiare meglio, non meno», raccomanda il caposcuola francese del pensiero della decrescita. «Partiamo dalla pratica, dalle piccole cose quotidiane: abbandonare l’abitudine di sprecare, di acquistare cibo che arriva dall’altra parte del mondo, rivestito di imballaggi in plastica». Latouche è il maître della tavola (digitale) imbandita da Alessandra Mazzotta, “L’antispreco è servito”, agile manuale in formato ebook. L’autrice, giornalista specializzata in comunicazione ambientale e sostenibilità, si definisce «pessima cuoca, ma buona forchetta». In città si sposta in bici e «viaggia come ecoturista anche in sogno», secondo l’editore, “Bookrepublic”. Sogni? Quello di Latouche è «un’utopia socialista» chiamata decrescita, per «aiutarci a sperare», fuori dal totalitarismo consumistico. Intanto, “L’antispreco è servito” propone ricette domestiche per un risveglio anche immediato. Formule divertenti, come quella del “mago” Ercolini che trasforma in funghi i fondi di caffè. E prodigi sensazionali come il miracolo di Todmorten, vicino a Manchester, dove due donne si sono inventate la rivoluzione verde di “Incredible Edible”, il villaggio dove gli ortaggi a disposizione degli abitanti crescono persino nelle aiuole della stazione di polizia.«In un mondo paradossale in cui un miliardo di persone soffre di fame e un altro miliardo di malattie connesse con l’obesità, le distorsioni pesano troppo nel piatto e assumono un sapore di immoralità», scrive Mazzotta. «Nei paesi industrializzati, solo per fare qualche esempio, si cestinano 222 milioni di tonnellate di cibo, che equivalgono – tonnellata più, tonnellata meno – alla produzione alimentare disponibile dell’intera Africa sub-sahariana». Gli sprechi alimentari sono ovunque: dalla produzione agricola fino alla distribuzione. «Per non parlare di quelli che avvengono a livello domestico, nelle nostre cucine», sui cui antidoti è concentrata la mappa operativa del libro, utilissima per orientarsi da subito, cercare maestri, trovare alleati preziosi. Associazioni, campagne antispreco, Last Minute Market. Un mondo, navigabile partendo dal computer. Dalla piccola distribuzione alla ristorazione, la spesa consegnata in bicicletta e il locale aperto a Leeds dallo chef Adam Smith, dove vengono serviti piatti di ogni genere, dalla bistecca alla zuppa, a base di ingredienti scartati dagli stabilimenti alimentari della città. «Buon cibo salvato dalla discarica, che aiuta anche a nutrire chi fatica ad arrivare alla fine del mese».Il libro propone una geografia confortante, dalla rete milanese dei ristoranti “ad avanzi zero”, ai sommelier dell’Ais che spiegano come portarsi a casa il vino avanzato. Cresce la rete del “food sharing”: negli Usa, puoi fotografare gli avanzi nel piatto per segnalarli e riciclarli. In Germania, via web, gli abitanti di sette città si scambiano il cibo in eccesso. Stessa cosa a Londra, grazie al “Casseroleclub”. In Italia, “Food Share” è una piattaforma web che permette a privati, produttori e rivenditori di offrire gratuitamente prodotti alimentari in eccedenza a scopi solidali. A Trento basta un’app sul telefonino per ritirare gli avanzi, a Torino provvede una piattaforma web, “NextDoorHelp”, mentre a Treviso lo smistamento dell’antispreco è affidato al frigorifero virtuale di “Ratatouille”, da cui esplorare l’offerta della dispensa eco-solidale. Sono tutti avamposti, per un futuro meno grigio: «Nonostante la crisi, noi italiani buttiamo via ancora troppo cibo: il 55% viene sprecato nella filiera agroalimentare e il restante 45% nel consumo domestico, mense e ristoranti compresi», scrive Alessandra Mazzotta. «Ogni anno, lo spreco domestico ci costa più di 8 miliardi di euro. In media, ogni famiglia getta nella spazzatura più di 500 euro in alimenti».Maurizio Pallante, leader dei decrescisti italiani, punta il dito contro «stili di vita ancora irresponsabili», e spiega: «Manca la consapevolezza del legame tra cibo e stagioni», e in più «non viene data sufficiente attenzione a quanto costa il cibo, produrlo, distribuirlo. Per cui si spreca tanto, con impatti ambientali altissimi». D’altra parte, «chi vende il cibo ha interesse a che se ne venda e se ne sprechi sempre di più». Colpa anche della vecchia agricoltura industriale, pensata come “industria estrattiva” per spremere la terra, allo scopo di vendere e guadagnare sempre di più, grazie anche all’autismo demenziale di una politica che pensa solo al Pil, gonfiato di veleni. L’antidoto si chiama «riscoperta della piccola produzione contadina, con la vendita delle eccedenze, in un’ottica di filiera corta come massima espressione della sovranità alimentare a livello territoriale». Questo, aggiunge Pallante, «favorisce la maturazione della consapevolezza e della responsabilità verso il cibo». Perché, ricordiamolo, l’accesso al cibo è un diritto. Dunque, «non sprecarlo è un dovere», chiarisce Lorenzo Bairati, docente di diritto degli alimenti all’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche a Pollenzo, creata da Carlo Petrini, fondatore di Slow Food.Se il sistema produce ancora passività sprecona, il “decalogo antispreco” di Alessandra Mazzotta propone una via d’uscita praticabile subito, da chiunque: pianificare i pasti, controllare il frigo, verificare etichette e scadenze, gestire gli avanzi e condividerli. C’è un mondo sconosciuto, nel frigorifero: dallo yogurt al tonno, si tratta di decifrare e vigilare sulle date, sulle modalità di conservazione. E di imparare: per esempio, a far “risorgere” ortaggi che ci stanno salutando. Patate e aglio che germogliano? Basta saperci fare, «la natura ha del miracoloso». Sedani, insalate, cipollotti: con poche mosse, un possibile rifiuto diventa una risorsa che ricresce sul davanzale. «Non ricordo di aver mai visto mia nonna buttare via del cibo avanzato», dice Alessandra. «Male che andava, c’era sempre il cane. Chi ha visto la guerra faceva così». Oggi, la “guerra” che abbiamo attorno è un’altra. Per fortuna, «complice forse la crisi e una maggiore coscienza, stanno fiorendo iniziative antispreco un po’ a ogni latitudine». E anche ottimi libri, che ti spiegano come fare. E intanto ti regalano la certezza di essere parte di una comunità. Un’umanità consapevole, che conosce le parole di Gandi: la Terra è abbastanza grande per soddisfare i bisogni di tutti, ma non l’avidità di pochi.(Il libro: Alessandra Mazzotta “L’antispreco è servito”, Bookrepublic, 625,8 Kb, euro 1,99. Mazzotta è redattrice del newmagazine “Econote” e gestisce il blog “Ecoavoi”).Bastano tre mele per fare un dolce-capolavoro. L’importante? E’ che siano bacate. Parola di Anna Blasco, “food stylist” e “food maker” torinese. Perché il capolavoro è doppio: non solo il gusto, ma anche il piacere del recupero del cibo che sta per finire nella spazzatura. Pura filosofia: il cibo non è solo un mezzo per vivere, come insegna Emmanuel Lévinas. «All’esteriorità del cibo corrisponde la nostra sensibilità», spiega il professor Enrico Guglielminetti, direttore di “Spazio Filosofico”. «Il rapporto che abbiamo col cibo è analogo al rapporto che abbiamo con gli altri». Mancanza di rispetto: «Lo spreco alimentare, che riduce il cibo a rifiuto, è un caso esemplare». Una sorta di abuso di potere. «Produrre rifiuti allora diventa un vizio, l’opposto della virtù». E noi di cibo ne sprechiamo troppo: 1,3 miliardi di tonnellate l’anno, cioè un terzo di tutta la produzione mondiale di alimenti destinati all’uomo, lungo la filiera-colabrodo dei consumi di massa. Rimediare? Ovvio che sì. Partendo dalla cucina di casa. Basta seguire, alla lettera, le ricette di grandi chef: che si chiamano Maurizio Pallante, Hilary Wilson, Rossano Ercolini, Pamela Warhurst. E Serge Latouche, naturalmente.
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Presi per il Pil? Noi no: storie di italiani che non ci stanno
Fino a ieri il sistema ha inseguito la crescita del Pil per diffondere consumi e sostenere l’industria. Oggi sappiamo che in Europa non è più così: gli stessi politici che continuano a predicare “crescita”, in realtà hanno promosso una deliberata, drammatica inversione di rotta. Non “dobbiamo” più crescere, perché a farlo saranno soltanto le élite, che hanno realizzato un colossale trasferimento di ricchezza, dall’industria alla finanza, dal lavoro alla rendita speculativa. Matematico: la crescita del benessere diffuso comporta maggiore consapevolezza culturale, quindi l’acquisizione di diritti “scomodi”, che il sistema politico – sempre più centralistico e sempre meno democratico – non è più disposto a tollerare. E quindi: precariato, disoccupazione, tagli al welfare, erosione del risparmio, super-tassazione, eclissi delle pensioni, privatizzazione dei servizi vitali. Da anni stiamo “decrescendo” in modo vertiginoso, proprio grazie ai politici che, a parole, si dichiarano favorevoli alla “crescita”. Che peraltro, come sappiamo, minaccia di far esplodere il pianeta: sovrapproduzione di merci superflue, boom demografico, progressiva penuria di risorse.Il blackout della politica, ormai colonizzata dall’oligarchia tecno-finanziaria che manipola l’immaginario collettivo attraverso il ferreo controllo dei media, non ha impedito il diffondersi di esperienze individuali di resistenza libertaria. Messe assieme, fanno rete. Specie se vengono spiegate, mostrate, raccontate. Come accade nel documentario “Presi per il Pil”, realizzato da Stefano Cavallotto col giornalista Andrea Bertaglio, su soggetto elaborato da Lorenzo Fioramonti, economista dell’università sudafricana di Pretoria. Tema: come vivere «senza più essere schiavi dei soldi», peraltro sempre meno abbondanti. Lo spiegano Marta e Giorgio, che hanno deciso di trasferirsi coi figli in valle Maira, sulle montagne di Cuneo, allevando capre e producendo formaggi. E poi Roberto, che si è «dimesso da avvocato» lasciando Cagliari per il natio borgo selvaggio, dove – insieme alla famiglia – ha imparato ad auto-prodursi «tutto quello che gli serve per vivere». Non mancano le comunità organizzate: come quella degli abitanti di Pescomaggiore, alle porte dell’Aquila, che – con l’aiuto volontari italiani e stranieri – costruiscono un eco-villaggio modello, seguendo i metodi della bioedilizia.«Storie sorprendenti ed emblematiche», che aiutano a capire «il desiderio di liberarsi dal dogma del Pil», per immaginare «un mondo più giusto, iniziando dalle nostre vite». Quelle incrociate dal documentario sono «persone che hanno scelto di vivere senza più inseguire il mito della crescita infinita imposto dal sistema», liberandosi dell’ideologia dominante. Il narratore è lo stesso Bertaglio, autore di saggi sulla decrescita (l’ultimo si intitola “Generazione decrescente”, edizioni L’Età dell’Acquario). Tutto nasce quando Andrea, incuriosito dal progetto energetico “Coltiviamo il sole”, decide di partecipare a una riunione dell’associazione che l’ha ideato. Lì incontra Giorgio, interessato all’installazione di un impianto fotovoltaico per la propria stalla. Da quel momento, Andrea inizia «un viaggio fisico e soprattutto interiore» tra questi «pionieri della decrescita», nel loro caso sicuramente “felice”. Morale: specie in un momento di crisi devastante, sorprende la facilità con cui è possibile dribblare il disastro, rimboccandosi le maniche. Purché si abbiano le idee chiare: massima sobrietà, minime esigenze, autosufficienza alimentare. A quel punto, può anche crollare il Pil: lo sostituisce una nuova economia di prossimità, fondata sullo scambio alla pari.Non mancano voci eterodosse, a spiegare perché tutto questo accade, e accadrà sempre di più: da Enrico Giovannini, già a capo dell’Istat e poi ministro del governo Letta, favorevole a «elaborare indicatori di benessere alternativi al Pil», fino a battitori liberi (e famosi) come l’inglese Rob Hopkins, fondatore del movimento delle “Transition Towns”, e il francese Serge Latouche, padre del moderno pensiero decrescista, insieme all’italiano Maurizio Pallante. Parlano docenti universitari come Mario Pianta, tra i promotori della campagna “Sbilanciamoci!”, attivisti e scrittori come Giulio Marcon, già coordinatore del Servizio Civile Internazionale, e autrici come Helena Norberg-Hodge, studiosa dell’impatto dell’economia globale sulle culture e sull’agricoltura a livello mondiale. La Hodge, fondatrice dell’Isec (International Society for Ecology and Culture) è anche produttrice e co-regista del documentario “L’economia della felicità”. Ed è esattamente di questo – economia e felicità – che parla l’ex avvocato Roberto, 45 anni, “scappato” dal capoluogo sardo per farsi coltivatore, nella casa della sua infanzia: «Paradossalmente – dice – oggi ho molti meno problemi economici dei colleghi che mi sono lasciato alle spalle, rimasti schiavi di mutui, finanziamenti e orari di lavoro ormai insostenibili».Stessa musica in Abruzzo, tra i ragazzi di Pescomaggiore, molti dei quali rimasti senza casa dopo il terremoto del 2009. La soluzione si chiama Eva, eco-villaggio interamente auto-costruito, col materiale meno consueto e più ecologico: la paglia. «La manodopera ce la mettiamo noi, riscoprendo la comunità». Un’esperienza umana che cambierà per sempre la loro vita: «Famiglie che si ritrovano, padri e figli che lavorano insieme con un obiettivo comune». Parole come sostenibilità e benessere diventano all’improvviso realtà. «I giovani di Pescomaggiore, molti dei quali precari che hanno trovato una dimensione sociale e lavorativa proprio in questo eco-villaggio, si aiutano nel lavoro, mangiano e parlano insieme, organizzano le proprie giornate in un clima di cooperazione e convivialità», racconta Andrea, che traccia anche un parallelo con l’esperienza – stavolta metropolitana – dei ragazzi del circolo torinese Mdf, il Movimento per la Decrescita Felice: «Si impegnano a vivere una città come Torino quasi come se fosse un paese, a cominciare dai trasporti – la bicicletta in primis – promuovendo uno stile di vita ecologico, basato sul consumo critico». Orti urbani, per esempio, da impiantare anche nelle scuole e attraverso progetti speciali, alcuni dei quali in collaborazione con associazioni come Slow Food».Il documentario, montato da Roberto Allegro e sorretto da musiche originali degli Yo-Yo Mundi, si arrampica anche sulle Alpi, scovando i silenzi incontaminati del Puy, dove pascolano le capre bianche di Marta e Giorgio, marito e moglie, «due tra le persone più lucide che si possa avere la fortuna di incontrare nel corso di un’intera vita», garantisce Andrea. «Vivono e lavorano con i loro cinque figli e pochi buoni amici nel comune di San Damiano Macra, dove sono arrivati da Torino nel 1995». Lei è medico e lavora part-time in zona. Lui, laureato in filosofia e originario della vicina valle Po, per lavoro traduceva libri per case editrici. Nel 1999, la grande scommessa: recuperare un’intera borgata abbandonata per poi avviare un’azienda di capre da latte, che col tempo è diventata anche agriturismo. «Nonostante si possa pensare il contrario, Marta e Giorgio non sono degli “alternativi”», spiega Andrea. «Hanno solo capito prima di altri che per vivere sereni non c’era bisogno di puntare sui soldi». I loro figli – tutti musicisti – ora crescono in un paradiso verde, e tra le vecchie case di pietra è tornata la vita. E’ una strana impresa, super-sostenibile: niente mangimi industriali, farmaci o gasolio. E funziona benissimo: «E’ uno schiaffo a chiunque si rassegni a dire che non è possibile, che oggi il mondo non ti permette di fare certe scelte».(Il documentario: “Presi per il Pil”, Italia 2014, 65 minuti. E’ possibile promuovere la proiezione del film, una produzione low-budget di Settembre Film, e acquistare il filmato in formato dvd, al prezzo di 10 euro, mediante il sito del progetto).Fino a ieri il sistema ha inseguito la crescita del Pil per diffondere consumi e sostenere l’industria. Oggi sappiamo che in Europa non è più così: gli stessi politici che continuano a predicare “crescita”, in realtà hanno promosso una deliberata, drammatica inversione di rotta. Non “dobbiamo” più crescere, perché a farlo saranno soltanto le élite, che hanno realizzato un colossale trasferimento di ricchezza, dall’industria alla finanza, dal lavoro alla rendita speculativa. Matematico: la crescita del benessere diffuso comporta maggiore consapevolezza culturale, quindi l’acquisizione di diritti “scomodi”, che il sistema politico – sempre più centralistico e sempre meno democratico – non è più disposto a tollerare. E quindi: precariato, disoccupazione, tagli al welfare, erosione del risparmio, super-tassazione, eclissi delle pensioni, privatizzazione dei servizi vitali. Da anni stiamo “decrescendo” in modo vertiginoso, proprio grazie ai politici che, a parole, si dichiarano favorevoli alla “crescita”. Che peraltro, come sappiamo, minaccia di far esplodere il pianeta: sovrapproduzione di merci superflue, boom demografico, progressiva penuria di risorse.
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La favola (vera) del paese inglese dove il cibo è gratis
C’era una volta una piccola cittadina inglese, Todmorten, dove tutto quello che cresceva – broccoli, mele, ribes, patate – poteva essere raccolto e mangiato. Gratuitamente. Sembra quasi una favola per bambini, e invece è cronaca: la cronaca favolosa del Paese Commestibile. Todmorten è una piccola cittadina di 15mila abitanti a nord di Manchester, protagonista da qualche anno di una rivoluzione gentile e generosa, che promuove la produzione e il consumo di cibo locale, conosciuta con il nome di “Incredible edible”. Nata a febbraio del 2008, l’iniziativa è fiorita rigogliosa, ispirando decine e decine di altri centri, dalla Francia a Cuba, da Hong Kong fino all’Australia (in Italia registriamo germogli del progetto a San Bonifacio, nel Veronese). E solo l’anno scorso ha attirato mille curiosi visitatori da ogni angolo del mondo, accorsi a ammirare lo straordinario potere dei piccoli gesti.Tutto cominciò dall’orto di Pam, diventato un giorno oggetto di furti. Invece di alzare il muro di recinzione, lei lo abbassò, piantò ortaggi e accanto a loro un cartello con la scritta “Servitevi”. «C’erano annunci che invitavano le persone a prendersi qualcosa dall’orto, ma ci sono voluti mesi alla gente per capire che ciò era davvero possibile», ricorda Pam, all’anagrafe Pamela Warhurst, ambientalista, attivista e fondatrice del movimento “Incredible edible”. Insieme a lei Mary Clear, Estelle e tante altre persone appassionate che da allora lavorano quotidianamente per coltivare piante e relazioni, coinvolgendo negozi, scuole, contadini e l’intera comunità. «Il nostro sogno è quello di diventare la prima cittadina autosufficiente dal punto di vista alimentare».Il cibo è servito: fagioli, piselli, erbe aromatiche crescono un po’ ovunque nelle aiuole e nei giardini del paese, persino davanti alla stazione di polizia, all’ospedale e nel giardino del cimitero. «Gli obiettivi del movimento sono quelli di fornire l’accesso al cibo locale per tutti, attraverso il lavoro comune, la diffusione di conoscenze e competenze e il sostegno alle imprese del territorio», dichiarano. Già, perché le ricadute sull’economia locale di questa piccola rivoluzione dal pollice verde hanno anche loro dell’incredibile. I negozi hanno incrementato le loro vendite, puntando soprattutto sul cibo a filiera corta, sono nati una Incredible Farm, una fattoria dove i giovani imparano a diventare imprenditori alimentari, un centro educativo con l’attivazione di un nuovo diploma dedicato allo studio dell’ambiente e del territorio, eventi e corsi di cucina, di panificazione e giardinaggio per tutti. L’eco mediatica che ne stanno ottenendo ha mosso anche il Principe Carlo, loro regale fan, andato in visita a Todmorten nel 2009. Se state già pianificando una trasferta anche voi, ricordate di scrivere alla gentile Estelle, che vi prenoterà lusingata un tour del centro, con presentazione e pranzo nel favoloso Paese Commestibile.(Alessandra Mazzotta, “Incredible edible, la favola (vera) del paese inglese dove il cibo è gratis”, dal newsmagazine “Econote”, ripreso da “Tiscali notizie” il 6 marzo 2014).C’era una volta una piccola cittadina inglese, Todmorten, dove tutto quello che cresceva – broccoli, mele, ribes, patate – poteva essere raccolto e mangiato. Gratuitamente. Sembra quasi una favola per bambini, e invece è cronaca: la cronaca favolosa del Paese Commestibile. Todmorten è una piccola cittadina di 15mila abitanti a nord di Manchester, protagonista da qualche anno di una rivoluzione gentile e generosa, che promuove la produzione e il consumo di cibo locale, conosciuta con il nome di “Incredible edible”. Nata a febbraio del 2008, l’iniziativa è fiorita rigogliosa, ispirando decine e decine di altri centri, dalla Francia a Cuba, da Hong Kong fino all’Australia (in Italia registriamo germogli del progetto a San Bonifacio, nel Veronese). E solo l’anno scorso ha attirato mille curiosi visitatori da ogni angolo del mondo, accorsi a ammirare lo straordinario potere dei piccoli gesti.
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Ortaggi-spazzatura? Piantati sul balcone, ricresceranno
Orto sul balcone? Sì, trasformando in risorse quelli che stanno per diventare rifiuti. Avviso ai sempre più numerosi amanti di questo genere di fai da te: «Prima di andare a comprare sementi e piantine, aprite il frigorifero e date un’occhiata a quello che sta per diventare scarto alimentare». Esempio: «Che mi dite del sedano rinsecchito dimenticato lì da giorni, o della patata e dell’aglio germogliati?». Non gettate via il sedano: piantatelo sul terrazzo, perché «può ricrescere facilmente a partire dal proprio gambo», spiega Alessandra Mazzotta sul newsmagazine “Econote”. «Basterà posizionarlo in un piattino con dell’acqua e attendere l’inizio dello sviluppo del nuovo ortaggio prima di trasferirlo nel’orto. Pardon, nel vaso». Le patate germogliate – tagliate in varie parti, ognuna con germoglio – insieme allo spicchio d’aglio andranno invece interrate in vaso: «Si svilupperanno nel terreno e nel giro di poco tempo potrete raccoglierne di nuove. Meraviglioso, no? E a costo zero».Trasformare gli sprechi in nuovo cibo, fresco e autoprodotto direttamente a casa. «Alzi la mano chi non è mai stato tentato di realizzare un proprio orto domestico». Dove c’è un balcone, volendo, c’è un orto. «Un po’ per moda, un po’ per passione, un po’ per necessità, sono ormai tanti i cittadini che vestono i panni dei contadini urbani», osserva Mazzotta, giornalista pubblicista e copywriter, esperta nella comunicazione ambientale e nell’organizzazione di eventi sostenibili. «Certo, l’autosostentamento è altra cosa e il vostro bilancio familiare avrà solo qualche debole cenno di miglioramento, ma state sicuri che la Fil (Felicità Interna Lorda) registrerà invece impennate sorprendenti: volete mettere la soddisfazione di fare le cose con le proprie mani e poi mangiarle?». Unici accorgimenti: difendersi dalla città e dai suoi veleni. «Una volta raccolte, le verdure del vostro orto andranno lavate molto bene dallo smog con bicarbonato di sodio. Se invece il vostro balcone è al primo piano, coprite le piantine con tessuto non tessuto che terrà lontane le polveri sottili, permettendo però a acqua e sole di filtrare».Facile facile, il vademecun per orticoltori da balcone. Basta un terrazzino esposto al sole per almeno 4-6 ore, con spazio per qualche vaso – meglio se di terracotta, per la traspirazione e la freschezza del terriccio, acquistato dal vivaista di fiducia e magari concimato con «del compost home made», proveniente dalla cucina di casa. «Poi naturalmente, attrezzatevi di guanti, palette, forbici da giardino, aste o canne per le piante dal portamento rampicante, e innaffiatoio». Sul fondo di ogni vaso, meglio versare uno strato di argilla espansa o semplice ghiaia, e terra. Poi, la scelta delle piante: «In primavera si possono coltivare piante aromatiche, ortaggi e piccoli frutti di bosco». Semi o piantine? «Se volete vincere facile, preferite ai semi le piantine già cresciute, che una volta piantate danno percentuali di successo maggiori. Ma ricordate di invasarle la sera, lontano dalla luce solare». Ma, appunto: prima di correre al negozio di sementi, esplorate il frigo: le prime produzioni domestiche potrebbero germinare proprio da prodotti che stanno per finire nella spazzatura.Orto sul balcone? Sì, trasformando in risorse le verdure che stanno per trasformarsi in rifiuti. Avviso ai sempre più numerosi amanti di questo genere di fai da te: «Prima di andare a comprare sementi e piantine, aprite il frigorifero e date un’occhiata a quello che sta per diventare scarto alimentare». Esempio: «Che mi dite del sedano rinsecchito dimenticato lì da giorni, o della patata e dell’aglio germogliati?». Non gettate via il sedano: piantatelo sul terrazzo, perché «può ricrescere facilmente a partire dal proprio gambo», spiega Alessandra Mazzotta sul newsmagazine “Econote”. «Basterà posizionarlo in un piattino con dell’acqua e attendere l’inizio dello sviluppo del nuovo ortaggio prima di trasferirlo nel’orto. Pardon, nel vaso». Le patate germogliate – tagliate in varie parti, ognuna con germoglio – insieme allo spicchio d’aglio andranno invece interrate in vaso: «Si svilupperanno nel terreno e nel giro di poco tempo potrete raccoglierne di nuove. Meraviglioso, no? E a costo zero».
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Seminare avvenire: orticoltori di tutta Europa unitevi
E’ nata, ufficialmente, la Libera Repubblica degli Orti. Si estende dal Piemonte alla Provenza, lungo la frontiera tra Italia e Francia, dalle Alpi fino al Mediterraneo. E’ popolata di melanzane, peperoni, cavolfiori, fagioli, meloni. Non sono prodotti qualsiasi: sono antiche varietà locali, messe in salvo dai loro agricoltori-custodi. Obiettivo: preservare la biodiversità che arricchisce i territori e i consumatori. «Si tratta di specie autoctone, di grande qualità, selezionate nel corso dei decenni e ben adattatesi al clima delle loro zone», dicono Vianney Le Pichon e Massimo Pinna, sviluppatori del progetto europeo “Una rete per le biodiversità transfrontaliere”. Il network ha aggregato decine di coltivatori-pionieri e li ha messi in contatto: oggi i loro saperi sono condivisi, e i semi dei rispettivi ortaggi – italiani e francesi – fanno parte di una sorta di “banca” e sono a disposizione di chiunque voglia impegnarsi a propagarli, seminandoli nel proprio orto, in barba ai diktat sempre più invadenti che favoriscono la grande distribuzione a vantaggio delle varietà industriali, che puntano tutto sulla resa a scapito della qualità.Piccolo è bello: mai stato più vero. «Da parte nostra – dice Marie Beysson, giovane coltivatrice di peperoni nella zona del Vaucluse – si tratta di offrire ai consumatori un’alternativa valida, permettendo loro di assaggiare sapori diversi». Fa eco il conterraneo Thierry Varis: «Rinunciare agli ibridi e puntare sui semi autoprodotti significa scommettere sul valore del gusto e della genuinità». Filiere corte, chilometri zero, economia locale dei territori. Volendo, sovranità alimentare. E riconversione ecologica del sistema produttivo. Decrescita virtuosa: se ad essere tagliati sono gli sprechi (trasporti, carburante, energia) ci guadagnano tutti. Il video “Seminare futuro”, che documenta il ciclo vitale del progetto, offre un piccolo affresco di umanità resistente, pienamente consapevole del difficile momento mondiale. «Noi teniamo duro – taglia corto Alberto Lombardo, dalla valle di Susa – perché la salvaguardia del territorio non ha prezzo, e la piccola agricoltura locale resta un baluardo».La pensa così anche Eraldo Dionese, agricoltore-poeta delle Langhe, con all’attivo libri di versi pubblicati da Vallecchi. Eraldo è un “mago” dei fagioli: i suoi “scozzesi” vanno a ruba, contesi dai gruppi d’acquisto solidale. Dice: «Il mercato ci ha abituati a “comprare con gli occhi”, trascurando gli ortaggi più rari e più validi: bisogna impegnarsi a farli sopravvivere, bisogna crederci». Il progetto – presentato nel sito ufficiale – è anche una piccola narrazione di ritrovamenti fortunati. «Lavorando negli impianti vinicoli di Gigondas, a nord di Avignone – racconta Françoise Genies – un giorno mio marito si è imbattuto in un pomodoro particolarissimo, assolutamente delizioso e sconosciuto: l’ho recuperato, e ora è diffuso in diverse zone del Vaucluse, per la felicità dei consumatori». Il paniere della “rete transfrontaliera” trabocca di delizie poco note: la cipolla piatta di Leinì, il prelibato ravanello di Moncalieri, il pisello “quarantin” di Casalborgone, l’insalatina invernale di Castagneto Po che cresce anche sotto la neve.Sul versante francese si segnalano varietà rare come la lattuga sanguigna, coltivata dai suoi agricoltori-custodi sulle colline di Saignon in una sorta di campo sperimentale per le biodiversità orticole, coordinato da Jean-Luc Danneyrolles e Hervé Coullet. Ci sono melanzane locali, pomodori-cachi, peperoncini della Costa Azzurra e peperoni come quello di Lagnes, recuperati grazie alle risorse genetiche di un istituto come l’Inra e ora al centro di un vasto programma di reintroduzione, per dare vita a una filiera locale in grado di realizzare sul posto anche la trasformazione del prodotto. Piccoli passi, ma significativi, partendo dalle verdure di stagione, che grazie all’impegno degli agricoltori-custodi stanno tornando stabilmente sui mercati locali. «E sono tutti prodotti rustici, robusti», assicura Vianney Le Pichon. Ortaggi conservati per generazioni dalla sapienza contadina, oggi trasferita a quelli che vengono chiamati “seed savers”.Orticoltori di tutta Europa unitevi. Il momento è propizio: sotto i colpi della crisi economica, cresce ovunque il ritorno alla passione per l’orto, come dimostra anche il proliferare degli orti urbani nelle grandi città. Il progetto transfrontaliero, fondato sull’incontro sistematico tra italiani e francesi, lascia intravedere un germe di futuro, un possibile modello socio-economico alternativo e pieno di vantaggi: «C’è più autonomia per gli agricoltori, che scelgono di coltivare i prodotti che preferiscono», dice Massimo Pinna, «e al tempo stesso più scelta per i consumatori, a cui si offrono varietà locali e genuine». Un modello da replicare: condividendo i suoi saperi sulla coltivazione del proprio prodotto, ogni singolo agricoltore più aiutarlo a sopravvivere e diffondersi, scongiurando l’estinzione. «Il nostro nemico infatti è l’erosione genetica, che impoverisce il patrimonio della biodiversità europea», dice Antonio Balbo, di Leinì. «Coltivare ortaggi locali – insiste Alberto Lombardo – significa anche fare cultura, perché dietro di essi c’è sempre l’umanità».C’è da augurarsi che la “rete delle biodiversità” valichi altri confini europei, sviluppando un’alleanza ecologica e sostenibile fra territori, contadini, consumatori. Del resto, le vie dei semi sono infinite: «Ho recuperato un fagiolo in via di estinzione, il “crochet di Nizza”, grazie a un’appassionata italiana che ho incontrato casualmente a una fiera», racconta Arnaud Dauvillier, agricoltore a Sisteron nella valle della Durance. «Io invece ho già provato a piantare nel mio terreno, con ottimi risulati, i semi che ho ricevuto dai colleghi italiani: sono prodotti come il cavolfiore di Moncalieri e il peperone di montagna», racconta Sylvain Martin, che riesce a coltivare ottimi ortaggi in alta montagna, nel parco nazionale francese degli Écrins. Loris Leali, originario del lago di Garda, si è trasferito in Provenza e ha impiantato un’azienda biologica sulle alture che sovrastano Nizza, a Massoins, nella valle del Var: «Spero che domani i semi recuperati da questo progetto possano diventare patrimonio comune», dice. «Abbiamo bisogno di conoscerci, di essere uniti e solidali, di scambiarci saperi». Anche questa è Europa, sebbene non parli la lingua fredda di Bruxelles.E’ nata, ufficialmente, la Libera Repubblica degli Orti. Si estende dal Piemonte alla Provenza, lungo la frontiera tra Italia e Francia, dalle Alpi fino al Mediterraneo. E’ popolata di melanzane, peperoni, cavolfiori, fagioli, meloni. Non sono prodotti qualsiasi: sono antiche varietà locali, messe in salvo dai loro agricoltori-custodi. Obiettivo: preservare la biodiversità che arricchisce i territori e i consumatori. «Si tratta di specie autoctone, di grande qualità, selezionate nel corso dei decenni e ben adattatesi al clima delle loro zone», dicono Vianney Le Pichon e Massimo Pinna, sviluppatori del progetto europeo “Una rete per le biodiversità transfrontaliere”. Il network ha aggregato decine di coltivatori-pionieri e li ha messi in contatto: oggi i loro saperi sono condivisi, e i semi dei rispettivi ortaggi – italiani e francesi – fanno parte di una sorta di “banca” e sono a disposizione di chiunque voglia impegnarsi a propagarli, seminandoli nel proprio orto, in barba ai diktat sempre più invadenti che favoriscono la grande distribuzione a vantaggio delle varietà industriali, che puntano tutto sulla resa a scapito della qualità.
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Mdf: cari forconi, la rivoluzione parte dai consumi
Cari concittadini (lavoratori, studenti, pensionati, disoccupati…) giustamente stufi e al limite della sopportazione, condividendo la preoccupazione di chi è sceso in piazza ed evitando considerazioni personali sul colore delle manifestazioni (fermo restando il rifiuto della violenza, aspetto che vogliamo ribadire), vorremmo solo condividere alcune riflessioni con voi. Siamo pienamente in sintonia con le motivazioni alla base della protesta (corruzione e sbando della classe politica, globalizzazione, finanza e mercato selvaggi e senza limiti che strangolano il piccolo commercio locale, etc); riteniamo, tuttavia, che un’alternativa migliore debba partire da noi e che il cambiamento di questo sistema economico deve essere attuato con azioni concrete.Con il massimo rispetto e pienamente consci della diversità delle situazioni che ognuno sta vivendo e dei drammi personali, vogliamo porre – anche in maniera provocatoria – alcune domande. Perché il punto fondamentale è chiedersi quale futuro (e quale modello di società) auspichiamo. Commercianti, artigiani, piccoli imprenditori, è evidente quanto la crisi che stiamo vivendo si sia abbattuta su di voi con violenza; ma vi chiediamo, quando chiudete il vostro negozio la sera, dove andate a comprare il pasto duramente sudato? All’ipermercato o in un piccolo negozio a km0 o magari da un gruppo di acquisto solidale che si rifornisce da piccoli contadini? Sapete che buona parte delle arance e dei pomodori che trovate nei supermercati sono raccolte da persone in condizioni di schiavitù, vendute ad un prezzo ridicolo dal produttore alla grande distribuzione che poi le rivende negli ipermercati vicino a casa?Cittadini e lavoratori, anche noi, seppure sosteniamo la riduzione della giornata lavorativa (“lavorare meno, lavorare tutti”), l’autoproduzione e la riduzione dei consumi, abbiamo bisogno di andare a lavorare, ci scontriamo con la precarietà e abbiamo il timore che i soldi che ci vengono versati in contributi non li vedremo mai; ma quando chiamiamo un elettricista o andiamo dal barbiere, chiediamo la ricevuta fiscale? Abbiamo il coraggio di spendere 20 euro in più o di rinunciare a qualche consumo – magari superfluo – scegliendo di pagare “il giusto” e premiare chi paga le tasse e contribuisce a sostenere le scuole, gli ospedali e il nostro sistema previdenziale? Scegliamo di orientare i nostri consumi verso chi paga le persone rispettando i diritti? Se scopriamo che il pub dove andiamo regolarmente paga i suoi baristi in nero, siamo disposti a cambiare per andare in un posto dove magari la birra costa 0,50€ in più ma dove la legalità è di casa? E se quei 50 centesimi in più fossero un problema sareste disposti a far massa critica con altre persone e chiedere insieme un prezzo più basso e/o competitivo?!Non cadiamo nel qualunquismo del “tutti rubano, tutti se ne fregano…”. Alzi la mano chi è disposto a comprare dell’olio da un gruppo di acquisto solidale pagandolo 3-4 euro in più al litro, invece di quello della grande distribuzione che, seppure prodotto in Italia, è ottenuto da olive che vengono da fuori l’Europa, mentre i nostri contadini sono allo stremo! A tutti coloro che ritengono come noi che la finanza sta distruggendo l’economia reale e le banche siano istituzioni corrotte e spesso immorali chiediamo: dove avete posto i vostri risparmi? Avete pensato di investirli nell’economia reale, nelle banche etiche o in mille altri luoghi dove non saranno oggetto di speculazione? Certo, non avremo il 3-4% di interesse come promettono (e probabilmente mantengono) alcune banche on-line… vi siete chiesti cosa se ne fanno dei vostri soldi?Anche noi, che nella vita di tutti giorni siamo presi dalle nostre difficoltà, speranze e mille impegni, vorremmo che la politica desse risposte ai nostri problemi. Ci piacerebbe vedere nei programmi politici come punti fondamentali diritti, ambiente, lotte alle speculazioni, alle mafie e tutti coloro che impediscono alle persone di poter realizzare il diritto a vivere senza patimenti e liberi di poter perseguire la propria felicità. Dopodiché, se questo non accade, dobbiamo imparare dalla frase di Gandhi “sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. Le cose possiamo cambiarle anche noi dal basso e subito senza chiedere niente a nessuno (senza per questo rinunciare al nostro diritto di manifestare e urlare la nostra rabbia se necessario). Domani forse inizia un altro giorno di proteste. Ma possiamo anche provare a informarci di più, cambiare le nostre abitudini e costruire un nuovo futuro a partire da noi stessi e dalle nostre scelte. Ora!(“Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo! Una nostra riflessione sulle recenti manifestazioni di protesta”, lettera-appello a cura del Circolo Mdf di Torino, pubblicata dal sito del Movimento per la Decrescita Felice il 12 dicembre 2013).Cari concittadini (lavoratori, studenti, pensionati, disoccupati…) giustamente stufi e al limite della sopportazione, condividendo la preoccupazione di chi è sceso in piazza ed evitando considerazioni personali sul colore delle manifestazioni (fermo restando il rifiuto della violenza, aspetto che vogliamo ribadire), vorremmo solo condividere alcune riflessioni con voi. Siamo pienamente in sintonia con le motivazioni alla base della protesta (corruzione e sbando della classe politica, globalizzazione, finanza e mercato selvaggi e senza limiti che strangolano il piccolo commercio locale, etc); riteniamo, tuttavia, che un’alternativa migliore debba partire da noi e che il cambiamento di questo sistema economico deve essere attuato con azioni concrete.
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Io faccio così: diario dall’Italia che ha voltato pagina
Il futuro, questo sconosciuto. Da una parte la faccia dura della crisi, l’Europa-zombie che sembra stata creata apposta per non funzionare, se non a scapito di milioni di sventurati senza più lavoro né diritti. Sopravvive benone solo la cosiddetta casta: partiti e istituzioni, banche e finanzieri, ex industriali convertiti alla finanza speculativa. Ma il sistema sembra ora sul punto di crollare, schiantato da una globalizzazione senza paracadute. Un disastro, che sta già travolgendo l’altra Italia, quella che ancora presidia i territori, li difende dalle “grandi opere inutili” e prova a resistere al deserto della deindustrializzazione. E’ rabbia, che sfila in corteo e chiede giustizia e democrazia. Ma soprattutto sovranità. Che in fondo significa: tornare padroni della propria vita. E’ quello che, in silenzio, migliaia di italiani hanno cominciato a fare, completamente ignorati dai grandi media. Una foresta che cresce, e che sta gettando semi. Giovani e famiglie che, semplicemente, hanno cambiato vita. Si sono rimboccati le maniche, inventandosi un nuovo lavoro. Un nuovo modo di stare al mondo. «E funziona?». «Sì, certo: guarda, io faccio così».Ne è testimone Daniel Tarozzi, reduce da un “giro d’Italia” di sette mesi, alla guida del suo camper, lungo i paesaggi dell’Italia in cambiamento. Tutte e 20 le Regioni dello Stivale, isole comprese. Migliaia di contatti, centinaia di storie. Tutte diverse e tutte simili. «Quando avete cominciato, a vivere così?». Risposta invariabile: «Cinque, sei anni». Cioè da quando la Grande Crisi ha affondato le zanne nel tessuto socio-economico: gli sciacalli della speculazione, Wall Street, il rigore imposto dall’Eurozona. Ovvero: la certezza matematica che sarebbe crollato, con la recessione, un sistema peraltro insopportabile e insostenibile come quello basato sui consumi inutili, drogati dalla pubblicità. Vite in scatola? No, grazie. «La scoperta – racconta Daniel Tarozzi – è che si sta creando una rete diffusa, dal nord al sud, di micro-economie che valorizzano il territorio e le competenze delle persone, spesso promuovendo lavori che le statistiche nemmeno rilevano».Succede anche in città, non solo in campagna, per iniziativa di gruppi organizzati ma anche di singoli “pionieri” convertiti alla sostenibilità, al risparmio e alla qualità della vita. Parola d’ordine: ridurre le dipendenze. Autocostruzione, energia pulita e autoprodotta, cibo di stagione assicurato tutto l’anno dall’orto sotto casa, grazie alla pratica della permacoltura. E’ una rivoluzione culturale, che spinge le persone a cooperare tra loro riscoprendo il valore spontaneo della solidarietà. «Io credo che dobbiamo passare dal “vinco io, perdi tu” al “vinciamo tutti”», sintetizza Michela Scibilia, di Venezia. E non è solo un orizzonte per nuovi contadini. Ci sono anche inventori, imprenditori, manager. E artigiani, neolaureati, artisti. «Le loro storie non fanno più parte dell’aneddotica, ma ormai costituiscono una realtà che va raccontata e fotografata. E dimostrano che un altro Pil, più vero e di qualità, è possibile». Ci sono tantissime realtà italiane in movimento, conferma l’altoatesino Hans Schmieder, promotore dell’Accademia dei Colloqui di Dobbiaco, Bressanone. «Il problema è che queste realtà sono invisibili: dobbiamo lavorare per farle vedere».E’ quello che ha fatto Daniel Tarozzi, col suo diario “on the road” pubblicato da “Chiarelettere”. «L’idea di questo viaggio e poi di questo libro – dice – è nata da un’esigenza fortissima che sentivo da dieci anni». Da giornalista, direttore del newsmagazine “Il Cambiamento”, si è sempre occupato di sostenibilità, decrescita e transizione. «Tutti questi movimenti e queste realtà, solo apparentemente piccoli, non solo sono attivi sul territorio, ma riescono a incidere concretamente e positivamente nel cambiare, nel raggiungere i propri obiettivi. E la cosa bella è che queste persone alla fine riescono nel loro intento». “Io faccio così”, il leit-motiv di tanti incontri, è diventato il titolo del libro, anticipato da un blog sul “Fatto Quotidiano”. Fotogrammi da un popolo in marcia. Il cambiamento richiede pazienza, ammette un religioso come don Gianni Fazzini, promotore dell’iniziativa “Bilanci di giustizia”, per aiutare le persone bisognose a risparmiare. L’importante, però, è non perdere mai di vista un fatto decisivo: «Il bene più prezioso è un bene immateriale: il tempo». Pazienza e fiducia. «C’è un’Italia che non molla, che va avanti e crede nel futuro».Dal centro di Bologna alla trincea degradata di Scampia, si moltiplicano iniziative solidali che diventano attività organizzate e sostenibili. Nel libro di Daniel Tarozzi, abbondano i paesaggi extraurbani. E il ritorno alla terra è un richiamo potente. «Vogliamo convincere le amministrazioni a inserire gli orti nei loro piani regolatori», dicono Gianfranco Bettega e Adriana Stefani dello Slow Food di Trento, ideatori del progetto “orto in condotta”, nelle scuole. «E’ andato molto bene: ci cercano in tantissimi, non riusciamo a star dietro a tutte le chiamate». Cristina Tagliavini, di “Accesso alla Terra”, sta realizzando una cooperativa aperta a tutti, che acquisti terreni abbandonati o destinati all’edilizia, per affidarli a chi voglia iniziare a coltivare la terra. «Vogliamo seguire i neo-contadini offrendo assistenza e formazione, mettendoli in rete tra loro». Buone notizie da tutta Italia. «Oggi in Puglia c’è un ritorno di tanti giovani che erano emigrati e che – spesso per mancanza di lavoro – decidono di riprovare a costruirsi un futuro qui», racconta Virginia Meo di “Ressud”, sodalizio che mette in contatto le realtà di economia solidale dall’Abruzzo alla Sicilia. «Sono davvero tante – dice Daniel Tarozzi – le persone che, in questo momento di crisi e senza neppure avere le spalle coperte, si licenziano e cercano di costruire una vita diversa». Motivo: «Contestano il sistema in cui vivono, e i suoi falsi valori». Ebbene sì: «C’è davvero un’Italia che cambia, ed è quella che ho cercato di raccontare».(Il libro: Daniel Tarozzi, “Io faccio così”, Chiarelettere, 368 pagine, euro 14,50).Il futuro, questo sconosciuto. Da una parte la faccia dura della crisi, l’Europa-zombie che sembra stata creata apposta per non funzionare, se non a scapito di milioni di sventurati senza più lavoro né diritti. Sopravvive benone solo la cosiddetta casta: partiti e istituzioni, banche e finanzieri, ex industriali convertiti alla finanza speculativa. Ma il sistema sembra ora sul punto di crollare, schiantato da una globalizzazione senza paracadute. Un disastro, che sta già travolgendo l’altra Italia, quella che ancora presidia i territori, li difende dalle “grandi opere inutili” e prova a resistere al deserto della deindustrializzazione. E’ rabbia, che sfila in corteo e chiede giustizia e democrazia. Ma soprattutto sovranità. Che in fondo significa: tornare padroni della propria vita. E’ quello che, in silenzio, migliaia di italiani hanno cominciato a fare, completamente ignorati dai grandi media. Una foresta che cresce, e che sta gettando semi. Giovani e famiglie che, semplicemente, hanno cambiato vita. Si sono rimboccati le maniche, inventandosi un nuovo lavoro. Un nuovo modo di stare al mondo. «E funziona?». «Sì, certo: guarda, io faccio così».