Archivio del Tag ‘autonomia’
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Euro, chi tocca muore: Finlandia ko, salve Svezia e Norvegia
Ora sappiamo che la Finlandia è nei guai. Una serie di forti shock dal lato dell’offerta ha devastato l’economia. Quando Nokia è crollata sulla scia della crisi finanziaria del 2007-2008, creando un buco enorme nel Pil del paese, il governo ha risposto con un sostanziale sostegno fiscale. Questo ha rovinato la sua già virtuosa posizione fiscale: in un anno è passata da un surplus del 6% a un deficit del 4%, e anche se il suo deficit da allora è leggermente migliorato, è ancora al di fuori dei parametri di Maastricht. A causa di questo, l’attuale governo – sotto la pressione degli eurocrati folli – sta attuando l’austerità fiscale, per portare il deficit al di sotto del 3% del Pil. Per un’economia che ha subito una grave diminuzione della sua capacità produttiva, questo è disastroso, scrive Frances Coppola, in un post ripreso su “Luogo Comune”. Che svela una verità drammatica: in Scandinavia, si salva solo chi sta lontano dall’euro, come la Svezia. E meglio ancora la Norvegia, che non è neppure nell’Ue.In Finlandia, le misure di austerità non saranno in grado né di ridurre il deficit né di far ripartire l’economia, scrive Coppola. «Al contrario, provocheranno un’ulteriore riduzione dell’economia e, di conseguenza – è una questione di semplice aritmetica – provocheranno un aumento del deficit in percentuale sul Pil». La Finlandia è stata in recessione per quasi tutti gli ultimi quattro anni: «Quello di cui ha bisogno è una politica fiscale espansiva, non di salassi». L’austerità? «E’ una strategia del tutto controproducente per un’economia che ha avuto danni sul fronte dell’offerta a causa di shock esogeni». L’unica cosa che sta impedendo all’economia finlandese di crollare è la politica monetaria espansiva della Bce: «Tassi negativi e “quantitative easing” possono essere uno stimolo debole, ma sono meglio di niente». Ma la verità è che la Finlandia, fatta passare per un paese prospero, «è molto più simile agli Stati deboli del sud Europa». E se la Finlandia sta male, neppure la Danimarca si sente molto bene.La Danimarca ha subito una profonda recessione dopo la crisi finanziaria, toccando il fondo nel secondo trimestre del 2010. Ma, a differenza della Svezia, non ha recuperato: il modello dell’andamento del suo Pil è molto più simile a quello della Finlandia, anche se non ha avuto gli shock sull’offerta subiti da Helsinki. Perché è rimasta stagnante per gran parte degli ultimi sette anni? Molte spiegazioni tendono a incolpare il welfare danese, “troppo generoso” e costoso: una tassazione elevata soffocherebbe le imprese, mentre lo stato sociale scoraggerebbe il lavoro produttivo. Tagliare il welfare, quindi? Ma no: «Anche la Svezia ha un generoso stato sociale e una tassazione relativamente elevata. E anche la Norvegia. E in effetti anche la Finlandia. Tutti gli stati nordici sono così. E tutti, negli ultimi anni, hanno fatto seri sforzi per migliorare l’efficienza dei loro sistemi di welfare e ridurne il costo». La Danimarca è addirittura in testa alla classifica dell’Ocse tra i paesi scandinavi per lo sforzo nell’azione riformatrice. Eppure i suoi risultati economici differiscono enormemente da quelli di Svezia e Norvegia.La vera ragione di questa profonda differenza non è difficile da trovare, scrive Frances Coppola: la Finlandia, quella che tra questi paesi ha le peggiori prestazioni, è un membro dell’euro. «Questo non solo le impedisce di gestire la propria politica monetaria, compresa la possibilità di svalutare per proteggere la sua economia dagli shock esogeni, ma anche incatena la sua politica fiscale alle regole del Patto di Stabilità e Crescita. La Finlandia è soggetta alla procedura prevista in caso di deficit eccessivo e, in quanto membro dell’euro, questo significa che deve conformarsi alle azioni richieste o affrontare le sanzioni – anche se le azioni previste sono direttamente nocive per la sua economia». A Parte la Finlandia, nessuno degli altri paesi scandinavi ha l’euro, ma la Danimarca è un membro del meccanismo di cambio Erm II, che è un precursore dell’euro: «E’ obbligata a mantenere il valore della propria moneta entro fasce stabilite rispetto al valore all’euro».Anche la politica monetaria danese è quindi determinata in larga misura non dalle condizioni locali, ma dalle decisioni della Bce – siano o meno appropriate per l’economia danese. «La Danimarca ha anche accettato di essere vincolata dalla forma più rigorosa del Patto di Stabilità e Crescita, il Fiscal Compact, il che significa che è soggetta alle stesse regole fiscali e alle stesse sanzioni di un membro della zona euro». Al contrario, la Svezia non è un membro dell’Erm II. «Avrebbe dovuto aderire all’euro, a un certo punto, ma – misteriosamente – persiste nel non soddisfare i criteri di convergenza. La corona svedese fluttua rispetto alle valute di tutto il mondo, tra cui l’euro, consentendo alla Svezia un controllo molto maggiore della propria politica monetaria rispetto alla Danimarca o alla Finlandia». Sul versante fiscale, «anche se la Svezia ha ratificato il Fiscal Compact, ha rifiutato di lasciarsi vincolare dalle disposizioni previste finché rimane al di fuori dell’euro. Quindi, anche se dovrebbe mantenersi entro i parametri di Maastricht, non incorre in sanzioni se non lo fa».Quanto alla Norvegia, notoriamente, non è neppure un membro dell’Ue. Dal momento che il paese è un esportatore di petrolio, la corona norvegese è una “petrovaluta”. «La Norvegia ha usato efficacemente il suo fondo sovrano per assorbire le entrate derivanti dalla produzione di petrolio e impedire che la sua moneta si apprezzasse eccessivamente», spiega Coppola. Il recente crollo del prezzo del petrolio l’ha colpita duramente? Certo: la crescita del Pil di gennaio è stata negativa. Ma attualmente la Norvegia sta attingendo al suo fondo sovrano per mantenere i programmi di bilancio. Le difficoltà momentanee sono dovute alla congiuntura globale, «non a legami con un’Eurozona depressa e ossessionata dall’austerità». Attenzione: «La capacità di gestire la propria politica monetaria e di bilancio è preziosa. Le banche centrali dell’Eurozona, bloccate in una politica monetaria uguale per tutti, hanno scarsa capacità di proteggere le loro economie dagli shock locali; con la centralizzazione della vigilanza bancaria, hanno anche in gran parte perso il controllo delle politiche di vigilanza a livello sistemico».Le autorità fiscali dell’Eurozona, a loro volta, hanno poca autonomia se un paese è entrato nella procedura per disavanzo eccessivo; mentre per quelli che ne sono rimasti fuori, evitare la supervisione di Bruxelles può diventare la preoccupazione principale. Per i paesi della zona euro, il vero obiettivo di politica monetaria non è l’inflazione, ma il rapporto deficit-Pil. «La Bce sta combattendo una battaglia persa per alzare l’inflazione, contro la determinazione della burocrazia di Bruxelles nel forzare 19 autorità fiscali a deprimere la domanda in nome dei conti in regola. E così il disastro economico della Finlandia è, almeno in parte, una conseguenza della sua appartenenza all’euro». La Danimarca, invece, «soffre per la perdita dell’autonomia monetaria a causa della sua appartenenza all’Erm II, e della perdita dell’autonomia di bilancio perché ha scelto di essere vincolata al Fiscal Compact». Al contrario, la Svezia «ha il controllo sia della politica monetaria sia di bilancio», mentre la Norvegia «non solo ha il controllo della sua politica monetaria e fiscale, ma è ulteriormente ammortizzata dal suo ampio fondo sovrano». Altro che iper-welfare: «La Grande Divergenza scandinava è principalmente causata dall’euro».Ora sappiamo che la Finlandia è nei guai. Una serie di forti shock dal lato dell’offerta ha devastato l’economia. Quando Nokia è crollata sulla scia della crisi finanziaria del 2007-2008, creando un buco enorme nel Pil del paese, il governo ha risposto con un sostanziale sostegno fiscale. Questo ha rovinato la sua già virtuosa posizione fiscale: in un anno è passata da un surplus del 6% a un deficit del 4%, e anche se il suo deficit da allora è leggermente migliorato, è ancora al di fuori dei parametri di Maastricht. A causa di questo, l’attuale governo – sotto la pressione degli eurocrati folli – sta attuando l’austerità fiscale, per portare il deficit al di sotto del 3% del Pil. Per un’economia che ha subito una grave diminuzione della sua capacità produttiva, questo è disastroso, scrive Frances Coppola, in un post ripreso su “Luogo Comune”. Che svela una verità drammatica: in Scandinavia, si salva solo chi sta lontano dall’euro, come la Svezia. E meglio ancora la Norvegia, che non è neppure nell’Ue.
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Lo spettro dei Balcani e la rivoluzione da fare contro l’Ue
“L’inglese se n’è gghiuto e soli n’ha lasciati”. Non credevo nella Brexit, pensavo che solo un popolo di ubriachi poteva decidere una simile autolesionistica catastrofe. Dimenticavo che gli inglesi sono per l’appunto un popolo di ubriachi. Scherzo, naturalmente, dato che non credo nell’esistenza dei popoli. Ma credo nella lotta di classe, e la decisione degli operai inglesi di affondare definitivamente l’Unione Europea è un atto di disperazione che consegue alla violenza dell’attacco finanzista che da anni impoverisce i lavoratori di tutto il continente e anche di quell’isola del cazzo. La City si preparava a festeggiare l’ennesima vittoria della finanza, e invece l’hanno spuntata i proletari resi nazionalisti dalla disperazione (e dalla patetica arroganza imperialista bianca). Ma non possiamo liquidare come fasciste le motivazioni di coloro che vogliono uscire dalla trappola europea, visto che è ormai dimostratissimo che l’Unione Europea non è (e non è mai stato) altro che un dispositivo di impoverimento della società, precarizzazione del lavoro e concentrazione del potere nelle mani del sistema bancario.Gran parte di quelle motivazioni sono comprensibili, tant’è vero che la maggior parte dei “leave” proviene dalle aree operaie mentre le forze del finanzismo davano per certa la vittoria alla faccia di chi in nome dei “valori europei” si fa derubare il salario. Ma il problema non sta nelle motivazioni, il problema sta nelle conseguenze. L’Unione Europea non esiste più da tempo, almeno dal luglio del 2015, quando Syriza è stata umiliata e il popolo greco definitivamente sottomesso. Ci occorre forse un’Europa più politica come dicono ritualmente le sinistre al servizio delle banche? Sono anni che crediamo nella favoletta dell’Europa che deve diventare più politica e più democratica. Ci siamo caduti anche noi, mi spiace dirlo, ma non è mai stato vero. L’Unione europea è una trappola finanzista da Maastricht in poi.Un articolo di Paolo Rumiz (“Come i Balcani”) uscito il 23 su “La Repubblica” dice una cosa che a me pareva chiara da tempo: il futuro d’Europa è la Yugoslavia del 1992. Rumiz lo dice bene, solo che dimentica il ruolo che la Deutsche Bank svolse nello spingere gli yugoslavi verso la guerra civile (e Wojtyla fece la sua parte). Ora credo che dobbiamo dirlo senza tanti giri di parole: il futuro d’Europa è la guerra. Il suo presente è già la guerra contro i migranti che già è costata decine di migliaia di morti e innumerevoli violenze. Forse suona un po’ antico, ma per me resta vero che il capitalismo porta la guerra come la nube porta la tempesta. Cosa si fa in questi casi? Si ferma la guerra, si impongono gli interessi della società contro quelli della finanza? Naturalmente sì, quando questo è possibile. Ma oggi fermare la guerra non è più possibile perché la guerra è già in corso, anche se per il momento a morire sono centinaia di migliaia di migranti in un Mediterraneo in cui l’acqua salata ha sostituito lo Zyklon-B.I movimenti sono stati distrutti uno dopo l’altro. E allora?, allora si passa all’altra parte dell’adagio leniniano (segnalo per chi avesse qualche dubbio che non sono mai stato leninista e non intendo diventarlo). Si trasforma la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria. Cosa vuol dire? Non lo so, e nessuno può saperlo, oggi. Ma nei prossimi anni credo che dovremo ragionare solo su questo. Non su come salvare l’Unione Europea, che il diavolo se la porti. Non su come salvare la democrazia che non è mai esistita. Ma su come trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria. Pacifica e senz’armi, se possibile. Guerra dei saperi autonomi contro il comando e la privatizzazione. Ma insomma, non porto il lutto perché gli inglesi se ne vanno. Ho portato il lutto quando i greci sono stati costretti a rimanere a quelle condizioni (e adesso che ne sarà di loro?). Cent’anni dopo l’Ottobre, mi sembra che il nostro compito sia chiederci: cosa vuol dire Ottobre nell’epoca di Internet, del lavoro cognitivo e precario? Il precipizio che ci attende è il luogo in cui dobbiamo ragionare su questo.(Franco “Bifo” Berardi, “L’inglese se n’è gghiuto”, da “Alfabeta 2” del 28 giugno 2016).“L’inglese se n’è gghiuto e soli n’ha lasciati”. Non credevo nella Brexit, pensavo che solo un popolo di ubriachi poteva decidere una simile autolesionistica catastrofe. Dimenticavo che gli inglesi sono per l’appunto un popolo di ubriachi. Scherzo, naturalmente, dato che non credo nell’esistenza dei popoli. Ma credo nella lotta di classe, e la decisione degli operai inglesi di affondare definitivamente l’Unione Europea è un atto di disperazione che consegue alla violenza dell’attacco finanzista che da anni impoverisce i lavoratori di tutto il continente e anche di quell’isola del cazzo. La City si preparava a festeggiare l’ennesima vittoria della finanza, e invece l’hanno spuntata i proletari resi nazionalisti dalla disperazione (e dalla patetica arroganza imperialista bianca). Ma non possiamo liquidare come fasciste le motivazioni di coloro che vogliono uscire dalla trappola europea, visto che è ormai dimostratissimo che l’Unione Europea non è (e non è mai stato) altro che un dispositivo di impoverimento della società, precarizzazione del lavoro e concentrazione del potere nelle mani del sistema bancario.
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Carpeoro: via Renzi arriva Di Maio, il Piano-B dello Zio Sam
«Tranquilli, non c’ è pericolo che in Italia cambi qualcosa: se cade Renzi, c’è già pronto Di Maio, il grillino». Con la consueta chiarezza, l’avvocato Gianfranco Carpeoro – scrittore, studioso di linguaggio simbolico e già gran maestro della massoneria di rito scozzese, ospite dell’ultima puntata della trasmissione web-radio “Border Nights”, sostiene che in Italia non vi sarà nessuna immediata conseguenza politica della Brexit. Premessa: secondo Carpeoro, l’Inghilterra è uscita dall’Unione Europea “per modo di dire”, perché di fatto «in Europa la Gran Bretagna non c’è mai stata davvero». Terremoti geopolitici in vista? Nemmeno: «Al di là delle apparenze – terrorismo europeo, crisi, Isis e chi più ne ha più ne metta – il quadro non cambierà, perché gli Usa sono interessati a congelare la situazione: il loro debito è in mano alla Cina e non vedono l’ora di chiudere questo problema, perché non tollerano l’idea di dipendere da qualcun altro. Hanno bisogno tempo, dunque di stabilità. Fingono di osteggiare l’intervento russo in Siria, ma in realtà fa comodo anche a loro. Idem l’Italia: nulla di sostanziale deve cambiare, e quindi non cambierà».Di ispirazione socialista, Carpeoro esprime un punto di vista sempre fuori dal coro, L’esoterismo? «Il potere non esita a metterlo in burletta, promuovendo i Maghi Otelma di turno, perché teme il potenziale di verità dell’esoterismo serio». L’analisi sullo scenario coincide con quella di Gioele Magaldi: «La massoneria reazionaria internazionale è al lavoro per il massimo profitto dell’élite, revocando diritti e sicurezze». Forse qualcuno si sta sfilando, da quel super-vertice occulto, mettendo in allarme i grandi manovratori, che infatti – attraverso i servizi segreti e manovalanza anche islamica – ricorrono in modo ormai sistematico alla strategia della tensione targata Isis. L’Unione Europea azzoppata dalla Brexit? Ma no: l’Ue non è mai stata altro che una colossale trappola congegnata per drenare ricchezza dal basso verso l’alto, impedendo all’Europa di conquistare una vera sovranità, in autonomia dagli Usa. «E poi: come potrebbe mai funzionare una Unione con al suo interno democrazie parlamentari e monarchie?».Insomma, tutto sotto controllo (si fa per dire). Nel senso: nessun rivolgimento in vista. Anche perché non ci sono segni che possa essere insidiato, nel suo meccanismo fondamentale, «un sistema come questo, fondato su un’economia che prevede che, perché qualcuno stia meglio, c’è bisogno che altri stiano peggio». Inutile illudersi che cambi qualcosa di sostanziale, in Europa come in Italia. Da noi c’è in panchina il movimento fondato da Beppe Grillo? Appunto: «I 5 Stelle sono sempre stati la carta di riserva degli americani, nel caso cedesse il Pd». Che i militanti se ne rendano conto o meno, il movimento è stato “coltivato” dallo Zio Sam. Non a caso, oggi non si accoda agli inglesi che hanno scelto il “leave”. Uscire dall’Ue? Nemmeno per idea, hanno subito chiarito i vari portavoce pentastellati. Su cui svetta il possibile futuro premier Luigi Di Maio: «Le sue visite al consolato americano a Roma sono aumentate, forse è un segno che il tempo di Renzi sta davvero per finire. Beninteso: per gli italiani non cambierà assolutamente niente».«Tranquilli, non c’è pericolo che in Italia cambi qualcosa: se cade Renzi, c’è già pronto Di Maio, il grillino». Con la consueta chiarezza, l’avvocato Gianfranco Carpeoro – scrittore, studioso di linguaggio simbolico e già gran maestro della massoneria di rito scozzese, ospite dell’ultima puntata della trasmissione web-radio “Border Nights”, sostiene che in Italia non vi sarà nessuna immediata conseguenza politica della Brexit. Premessa: secondo Carpeoro, l’Inghilterra è uscita dall’Unione Europea “per modo di dire”, perché di fatto «in Europa la Gran Bretagna non c’è mai stata davvero». Terremoti geopolitici in vista? Nemmeno: «Al di là delle apparenze – terrorismo europeo, crisi, Isis e chi più ne ha più ne metta – il quadro non cambierà, perché gli Usa sono interessati a congelare la situazione: il loro debito è in mano alla Cina e non vedono l’ora di chiudere questo problema, dato che non tollerano l’idea di dipendere da qualcun altro. Hanno bisogno tempo, dunque di stabilità. Fingono di osteggiare l’intervento russo in Siria, ma in realtà fa comodo anche a loro. Idem l’Italia: nulla di sostanziale deve cambiare, e quindi non cambierà».
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Foa: battuta l’élite, ora sappiamo che dall’Ue si può evadere
E ora cambia, davvero, tutto. La decisione degli elettori britannici di lasciare l’Unione Europea è storica innanzitutto per il contesto elettorale in cui è maturata. Tutto, ma proprio tutto, lasciava presagire una vittoria del fronte europeista, soprattutto dopo l’uccisione della deputata Jo Cox, che aveva cambiato la dinamica e il clima della campagna elettorale a sette giorni dal voto. L’ondata del cordoglio è stata enorme. E infatti i sondaggi, i mercati, gli scommettitori davano il sì praticamente scontato. Ci voleva un miracolo per ricambiare il corso della campagna elettorale. E miracolo c’è stato. Forse quel miracolo ha un nome e un volto. Quello della Regina Elisabetta. O meglio del quotidiano popolare più influente del mondo, il “Sun”, che mercoledì ha fatto lo scoop, lasciando intendere che Sua Maestà era favorevole all’uscita dalla Ue, rivitalizzando così le corde di un patriottismo che si pensava fosse diventato marginale e che invece vibra ancora nel cuore del popolo.La tempra di un paese ha prevalso sull’emozione e sul cordoglio. La Gran Bretagna fiera della propria autonomia, convinta della propria unicità, capace di scegliere da sola nei momenti topici della propria storia è risorta, dando ragione a Nigel Farage – un ex uomo d’affari che dal nulla ha creato un partito e trascinato un paese a una svolta storica – e a Boris Johnson, il sindaco di Londra uscente, che non ha esitato a schierarsi contro l’establishment del proprio Paese, dando forza e autorevolezza al movimento anti-Ue. Molti diranno che nei britannici ha prevalso la paura di un’immigrazione ed è innegabile che questo sia stato uno dei temi forti della campagna, ma non è stato un voto razzista; semmai la prova che l’immigrazione è salutare e bene accetta se regolata, ma provoca comprensibili reazioni di rigetto quando diventa impetuosa e di massa.C’era di più, però, in questo referendum: c’era la volontà di difendere l’autenticità delle proprie istituzioni, della sovranità del voto popolare e dunque della propria democrazia. Di dire basta a un’Unione Europea i cui meccanismi decisionali sono opachi, in cui il processo di integrazione viene portato avanti da un’élite transnazionale, vero potere dominante dell’Europa e non solo, tramite un processo caratterizzato da un persistente “deficit democratico”, che li ha portati ad ignorare o ad aggirare la volontà dei popoli, ogni volta che si è opposta ai loro disegni. Talvolta persino a calpestare, come accadde un anno fa, quando la Troika costrinse Atene a rinnegare l’esito schiacciante di un referendum. Lo stesso potrebbe avvenire oggi a Londra, considerato che il referendum era consultivo, ma sarebbe una scelta gravissima, al momento improbabile.Ora si apre una fase di incertezza: i mercati la faranno pagare alla Gran Bretagna, e quell’establishment non si arrenderà facilmente. Vedremo. Quella di ieri è stata, però, una giornata davvero storica. E’ la rivincita della sovranità nazionale. Per la prima volta un paese ha dimostrato che il processo di unificazione europea non è ineluttabile, che dalla Ue si può uscire, rendendo concreta la possibilità che altri paesi seguano l’esempio britannico. Un voto che costringerà l’Unione Europea a gettare la maschera di fronte a un’Europa diversa, autentica, che molti pensavano defunta e che invece è forte e vitale, quella dei popoli. Alla faccia delle élite.(Marcello Foa, “Incredibili britannici, rinasce l’Europa dei popoli”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 24 giugno 2016).E ora cambia, davvero, tutto. La decisione degli elettori britannici di lasciare l’Unione Europea è storica innanzitutto per il contesto elettorale in cui è maturata. Tutto, ma proprio tutto, lasciava presagire una vittoria del fronte europeista, soprattutto dopo l’uccisione della deputata Jo Cox, che aveva cambiato la dinamica e il clima della campagna elettorale a sette giorni dal voto. L’ondata del cordoglio è stata enorme. E infatti i sondaggi, i mercati, gli scommettitori davano il sì praticamente scontato. Ci voleva un miracolo per ricambiare il corso della campagna elettorale. E miracolo c’è stato. Forse quel miracolo ha un nome e un volto. Quello della Regina Elisabetta. O meglio del quotidiano popolare più influente del mondo, il “Sun”, che mercoledì ha fatto lo scoop, lasciando intendere che Sua Maestà era favorevole all’uscita dalla Ue, rivitalizzando così le corde di un patriottismo che si pensava fosse diventato marginale e che invece vibra ancora nel cuore del popolo.
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Colpi di mano e tradimenti, nell’ascesa di Renzi (e di Hitler)
Questo appunto, serio e faceto insieme, intende descrivere oggettive analogie di metodo politico-giuridico nella scalata al potere compiuta dai due statisti e non affermare qualsivoglia equivalenza dei loro meriti o demeriti, né assimilar tra loro le rispettive personalità. Hitler nel 1933 e Renzi nel 2016 stanno ambedue giocandosi il tutto per tutto per scalare il controllo dello Stato e per mutarne radicalmente la Costituzione vigente, ma nel rispetto formale delle sue norme, ossia per rivoltarli dall’interno, servendosi dei poteri dello Stato, anziché attaccandoli materialmente dall’esterno. Entrambi riconoscono che l’ostacolo principale al loro progetto è la separazione dei poteri dello Stato assieme all’esistenza di organi di controllo indipendenti, e puntano a eliminarlo unendo in sé il potere esecutivo, quello legislativo, quello di nomina degli organi di controllo.Entrambi vengono terzi e ultimi di una serie di premier (il primo dopo Von Papen e Von Schleicher, il secondo dopo Monti e Letta) che sono “premier del presidente” (rispettivamente, del vecchio presidente Von Hindenburg e del vecchio presidente Napolitano), dove “premier del presidente” significa “capo del governo scelto e sostenuto dal capo dello Stato” che gli firma i decreti legge anche al di fuori dei presupposti costituzionali per la loro emissione e che assicura loro il voto del Parlamento (forzando i partiti a collaborare e minacciando i parlamentari di scioglierlo se gli vota la sfiducia, così da far loro perdere seggio e vitalizio). E qui segnalo una differenza tra Hitler e Renzi: Von Hindenburg era stato eletto dal popolo a maggioranza assoluta, mentre Napolitano da una maggioranza parlamentare frutto di una legge poi dichiarata incostituzionale, cioè del Porcellum, che è la medesima maggioranza con cui Renzi ha fatto votare la sua Costituzione. Quindi il percorso di Renzi verso il potere è meno democraticamente legittimato e meno formalmente “legalitario” di quello di Hitler.Torniamo alle analogie. Entrambi epurarono l’ala sociale del loro partito (rappresentate rispettivamente, diciamo, da Strasser e da Fassina) per assicurarsi l’appoggio e le sovvenzioni del grande capitale. Hitler divenne premier pugnalando alle spalle Von Schleicher, Renzi pugnalando alle spalle Enrico Letta. Entrambi rassicurarono la vittima prima di colpirla. Hitler fece uccidere Von Schleicher il 30giugno 1934. Ambedue hanno cercato invano di ottenere la maggioranza assoluta alla elezioni generali, e hanno conseguito il potere sfruttando le divisioni e la miopia dell’insieme delle altre forze politiche. Ambedue hanno sfiorato il 40% dei suffragi popolari, per poi iniziare a perdere consensi, ma hanno continuato nondimeno la scalata al potere e le rispettive riforme, fino a conseguirle, nonostante il declino della fiducia popolare. Una volta divenuti premier, entrambi hanno preteso e ottenuto di modificare la Costituzione in modo da accentrare nelle proprie mani le fila di tutti i poteri dello Stato, eliminando i controlli indipendenti di garanzia e la possibilità di una reale opposizione parlamentare.Entrambi hanno usato il governo, il potere esecutivo, per promuovere queste riforme costituzionali. Entrambi hanno chiamato il popolo a un referendum confermativo del nuovo ordine – Hitler nell’agosto 1934, Renzi nell’ottobre 2016 – presentando il referendum come un plebiscito per legittimare politicamente la propria persona senza sottoporsi ad elezioni generali, e per legare alla propria persona il nuovo ordine costituzionale. Entrambi hanno fatto riforme che limitano sostanzialmente la partecipazione e la scelta politica popolari in favore delle liste bloccate redatte dal capo del partito. Inoltre entrambi hanno preteso e ottenuto di sopprimere le autonomie federali, imponendo ai governi e i parlamenti regionali il principio di supremazia del governo centrale.Ancora, entrambi hanno soppiantato la figura del presidente, dopo averla usata per scalare il potere: Hitler assorbendone le funzioni alla morte di Von Hindenburg, Renzi, alle dimissioni di Napolitano, scegliendosi in proprio una persona assecondante, senza spicco né autonomia, come poi avverrà automaticamente sotto la sua Costituzione, con effetto analogo a quello ottenuto da Hitler quando riunì alla propria carica di premier quella di presidente. Entrambi, prima delle votazioni decisive, si sono assicurati appoggio e visibilità da parte dei principali mezzi di informazione di massa, sostituendo i direttori delle testate con uomini di loro fiducia: Hitler prevalentemente con la forza, Renzi prevalentemente con le sovvenzioni, il canone in bolletta e soprattutto occupando la direzione della Rai. Entrambi hanno saputo comperare, fino all’ultimo, il sostegno dei cattolici centristi. Hitler li scaricò non appena possibile. Entrambi, infine e naturalmente, hanno agito per il dominio della Germania sull’Europa.(Marco Della Luna, “Hitler e Renzi, analogie di metodo”, dal blog di Della Luna del 15 maggio 2016).Questo appunto, serio e faceto insieme, intende descrivere oggettive analogie di metodo politico-giuridico nella scalata al potere compiuta dai due statisti e non affermare qualsivoglia equivalenza dei loro meriti o demeriti, né assimilar tra loro le rispettive personalità. Hitler nel 1933 e Renzi nel 2016 stanno ambedue giocandosi il tutto per tutto per scalare il controllo dello Stato e per mutarne radicalmente la Costituzione vigente, ma nel rispetto formale delle sue norme, ossia per rivoltarli dall’interno, servendosi dei poteri dello Stato, anziché attaccandoli materialmente dall’esterno. Entrambi riconoscono che l’ostacolo principale al loro progetto è la separazione dei poteri dello Stato assieme all’esistenza di organi di controllo indipendenti, e puntano a eliminarlo unendo in sé il potere esecutivo, quello legislativo, quello di nomina degli organi di controllo.
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Guai agli inglesi: col Brexit, finiranno tra i nemici degli Usa
Guai se gli inglesi voterranno il Brexit: devono restare al guinzaglio dell’Ue, cioè di Washington. Guinzaglio corto, rappresaglie contro chi “sgarra” e rotta di collisione contro le potenze mondiali che aspirano a una piena autonomia: «La mia previsione è che la Russia e la Cina saranno presto di fronte a una decisione sgradita: accettare l’egemonia americana o andare in guerra», afferma Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan nonché editore associato del “Wall Street Journal”. Impossibile non citare il britannico Ambrose Evans-Pritchard, che sul “Telegraph” ricorda come la Cia, negli anni ‘50 e ‘60, abbia direttamente finanziato gli attori che avrebbero creato l’Unione Europea. Motivo: è più facile controllare un solo governo, quello di Bruxelles, piuttosto che molti Stati separati. Washington ha fatto «un investimento a lungo termine nell’orchestrare l’Unione Europea», ed è per questo che Obama è appena andato a Londra «per raccontare al sua cagnolino, il primo ministro britannico, che non ci potrebbe essere alcuna uscita britannica dall’Ue».Come altre nazioni europee, scrive Craig Robers su “Information Clearing House”, i britannici non sono mai stati autorizzati a votare per scegliere di essere pienamente sovrani o sottoposti all’Unione Europea. «La natura oppressiva di leggi comunitarie irresponsabili e l’esigenza dell’Ue di accettare un massiccio numero di immigrati del terzo mondo hanno creato una grande richiesta per un voto britannico per decidere se rimanere un paese sovrano o di sciogliere il vincolo e rispedire a Bruxelles e le sue disposizioni dittatoriali». In vista del fatidico 23 giugno, la posizione degli Usa è che «al popolo britannico non deve essere consentito di decidere contro l’Ue, in quanto una tale decisione non è nell’interesse di Washington». Il lavoro di Cameron, dunque, è quello di «spaventare gli inglesi con presunte gravi conseguenze dell’“andare da soli”». Lo slogan: la “piccola Inghilterra” non può stare in piedi da sola. Al popolo britannico viene detto che l’isolamento segnerà la sua fine, e il paese diventerà uno stagno archiviato dal progresso. Tutto accadrà altrove, loro saranno lasciati fuori. Ma attenzione: «Se la campagna di paura non riesce e il voto britannico sarà per uscire dalla Ue – dice Craig Roberts – la questione aperta è se Washington permetterà al governo britannico di accettare l’esito democratico». In alternativa, il governo inglese potrebbe truccare le carte, raccontando di aver negoziato concessioni straordinarie.Una cosa è certa: Washington non permetterà agli inglesi di decidere liberamente: «Non devono essere autorizzati a prendere decisioni che non rispettano l’interesse di Washington». E’ lo stesso schema “egocentrico” grazie al quale gli Usa stanno trasformando in “minaccia” la Russia di Putin: flotte da guerra nel Baltico e nel Mar Nero, nonché basi missilistiche in Polonia vicino ai confini russi, con la volontà di incorporare Georgia e Ucraina in patti di difesa anti-russi. «Quando Washington, i suoi generali e i vassalli europei dichiarano che la Russia è una minaccia, significa che la Russia ha una politica estera indipendente e agisce nel suo proprio interesse, piuttosto che in quello di Washington». La Russia diventa una “minaccia”, perché ha dimostrato la capacità di bloccare l’invasione filo-americana della Siria e il bombardamento dell’Iran. Nel mirino di Washington anche piccoli paesi come Iraq, Libia e Yemen. Motivo: «Avevano politica estera ed economica indipendenti, non avendo accettato l’egemonia statunitense». Persino il Venezuela, per Obama, è diventato «una minaccia inusuale e straordinaria alla sicurezza nazionale e la politica estera degli Stati Uniti», quando il governo di Caracas «ha messo gli interessi del popolo venezuelano davanti a quelli delle società americane».Analogamente, la Russia è diventata “una minaccia” quando Mosca ha neutralizzato le aggressioni di Washingon ai danni di Teheran e Damasco, e quando ha impedito agli Usa di appropriarsi della base navale della Crimea dopo il golpe neonazista in Ucraina promosso dalla Cia. «E’ assolutamente certo che la Russia non ha formulato minacce di alcun tipo contro i paesi baltici, la Polonia, la Romania, l’Europa o gli Stati Uniti», scrive Craig Roberts. Così come è certo che la Russia «non ha invaso l’Ucraina». Se l’avesso fatto, oggi «l’Ucraina non sarebbe più lì: sarebbe tornata una provincia russa». E in effetti, anche se i media occidentali si guardano bene dall’ammetterlo, «l’Ucraina appartiene alla Russia più di quanto le Hawaii appartengano agli Stati Uniti». Quanto alla Siria, quel paese «esiste ancora», solo «perché è sotto la protezione russa». Se davvero Cina e Russia fossero “una minaccia”, di certo non permettebbero la proprietà straniera («cioè riconducibile alla Cia») di molti dei loro media: è americana la proprietà del 20% dei media russi, mentre in Cina operano 7.000 Ong finanziate direttamente dagli Usa.«Solo il mese scorso il governo cinese si è finalmente mosso, seppure molto tardivamente, per introdurre alcune restrizioni su questi agenti stranieri che stanno lavorando per destabilizzare il paese», scrive Roberts. «Ma i membri di queste organizzazioni “a tradimento” non sono stati arrestati, sono stati semplicemente messi sotto sorveglianza della polizia. Una restrizione quasi inutile, dato che Washington può fornire montagne di denaro con cui corrompere la polizia cinese: Russia e Cina pensano forse che i loro poliziotti siano meno sensibili alle tangenti rispetto alla polizia americana e del Messico». Parla da sola la sconfitta storica della guerra ai narcos: la “guerra alla droga” è una miniera d’oro per gli agenti messicani e statunitensi, «sotto forma di mezzette». Altro che libertà: «Negli Stati Uniti, gli osservatori di verità sono perseguitati e imprigionati, o vengono liquidati come “teorici della cospirazione”, “anti-semiti” o “estremisti domestici”. Una distopia peggiore di quella descritta da Orwell. Per paura dei media occidentali, Mosca e Pechino «permettono a Washington di operare nei loro media, nelle loro università, nei loro sistemi finanziari, mentre i “buoni” delle Ong si infiltrano in ogni aspetto della loro società». Secondo Craig Roberts, russi e cinesi sono davanti a un bivio terribile: piegarsi allo Zio Sam o prepararsi alla Terza Guerra Mondiale.Guai se gli inglesi voteranno il Brexit: devono restare al guinzaglio dell’Ue, cioè di Washington. Guinzaglio corto, rappresaglie contro chi “sgarra” e rotta di collisione contro le potenze mondiali che aspirano a una piena autonomia: «La mia previsione è che la Russia e la Cina saranno presto di fronte a una decisione sgradita: accettare l’egemonia americana o andare in guerra», afferma Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan nonché editore associato del “Wall Street Journal”. Impossibile non citare il britannico Ambrose Evans-Pritchard, che sul “Telegraph” ricorda come la Cia, negli anni ‘50 e ‘60, abbia direttamente finanziato gli attori che avrebbero creato l’Unione Europea. Motivo: è più facile controllare un solo governo, quello di Bruxelles, piuttosto che molti Stati separati. Washington ha fatto «un investimento a lungo termine nell’orchestrare l’Unione Europea», ed è per questo che Obama è appena andato a Londra «per raccontare al sua cagnolino, il primo ministro britannico, che non ci potrebbe essere alcuna uscita britannica dall’Ue».
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Stupid-economy, non ci salveranno neppure le rinnovabili
Che si producano milioni di prodotti inutili con le fonti fossili o con il solare, sempre prodotti inutili saranno e quello che si guadagna ambientalmente o energeticamente da una parte, lo si perde dall’altra. Per quanto sia certamente meglio utilizzare il solare piuttosto che il petrolio, comunque si sprecano preziose risorse non rinnovabili per produrre qualcosa di inutile. Pensiamo alle automobili; si fa un gran parlare dell’auto elettrica come se fosse la soluzione magica. Ma ve le immaginate centinaia di milioni di auto elettriche di quante risorse ed energia hanno bisogno per essere prodotte? Risorse che non sono di certo rinnovabili, perché quello che c’è dentro ad un’auto ha poco di rinnovabile. A meno che non la si voglia fare tutta di legno, ma allora non è più un’automobile ma un carretto e serve il cavallo, difatti è lì che andremo a finire se non fermiamo la follia della crescita. Inutile poi diminuire il consumo di carburante per automobile se poi ogni anno le vetture aumentano sempre di più e vanificano il risultato ottenuto dal minor consumo.Per sostenere con la green economy la crescita che fa felici industriali e governanti, dovremmo lastricare l’intero pianeta di pannelli solari e nemmeno basterebbe; pannelli solari che a loro volta hanno bisogno di materiali ed energia per essere prodotti, materiali che spesso non sono rinnovabili. Per quante fandonie si possano raccontare per poter continuare a vendere qualsiasi cosa, fortunatamente dai limiti terrestri non si scappa. La vera green economy e l’uso delle energie rinnovabili hanno senso solo se si mette in discussione la crescita e se per ogni prodotto ci si chiede se veramente è utile e quale è il suo grado di rinnovabilità. A certi nuovi convertiti, a cui non è mai interessato nulla dell’ambiente, importa maggiormente il portafoglio; lo dimostra in Italia il boom del fotovoltaico che spesso è stato solo speculazione. Il fotovoltaico fra le energie rinnovabili è quella che ha il rendimento minore ed è la meno interessante da un punto di vista ambientale. Ha molto più senso coibentare la casa con materiali naturali, quelli sì rinnovabili; e con quelli si abbassano drasticamente i consumi di riscaldamento e raffrescamento fino quasi a eliminarli del tutto, come per le case passive.Sono tanti coloro che hanno installato pannelli fotovoltaici nella propria casa o azienda e hanno continuato a consumare come e più di prima; in questo caso più che green economy si tratta di stupid economy. Agire così non ha senso e ha solo arricchito imprenditori senza scrupoli che si sono buttati sul fotovoltaico esclusivamente perché rendeva; poi gli stessi li vedi andare in giro in mega Suv, Maserati o Ferrari, che in quanto a protezione ambientale e risparmio energetico sappiamo bene essere il top. Per quanto ci si possa illudere o mettersi adesso questa copertina trasparente della green economy, non si scappa: è la crescita il problema e finchè quella non sarà messa in discussione e accantonata, non ci saranno rinnovabili o green economy che tengano. Anche le multinazionali dell’energia, dopo aver inquinato tutto l’inquinabile, si stanno buttando sulle rinnovabili ma dal punto di vista centralizzato, cioè l’energia ce la devono comunque vendere loro, mica ci dicono di renderci autonomi, che è invece la peculiarità principale delle energie rinnovabili stesse.Le risorse sono finite, inutile prenderci in giro; tutto quello che si produce deve essere attentamente vagliato per fare in modo che sia rinnovabile o comunque, se si utilizzano risorse finite, occorre fare in modo che i prodotti si possano riparare, riciclare, rendendone la vita più lunga possibile: l’esatto contrario di quello che dice il dogma del PIL, che per crescere ha assolutamente bisogno di usa e getta a ritmo continuo e più le discariche aumentano e più il Pil gioisce. Ma verrà un giorno, non molto lontano, che malediremo i sacerdoti del Pil mentre ci ritroveremo a scavare nelle discariche per trovare materiali preziosi che nel tempo della follia consumistica avevamo così stupidamente buttato per fare ingrassare industriali e politici senza scrupoli.(Paolo Ermani, “Le energie rinnovabili e la green economy non basteranno a salvarci”, da “Il Cambiamento” del 29 aprile 2016).Che si producano milioni di prodotti inutili con le fonti fossili o con il solare, sempre prodotti inutili saranno e quello che si guadagna ambientalmente o energeticamente da una parte, lo si perde dall’altra. Per quanto sia certamente meglio utilizzare il solare piuttosto che il petrolio, comunque si sprecano preziose risorse non rinnovabili per produrre qualcosa di inutile. Pensiamo alle automobili; si fa un gran parlare dell’auto elettrica come se fosse la soluzione magica. Ma ve le immaginate centinaia di milioni di auto elettriche di quante risorse ed energia hanno bisogno per essere prodotte? Risorse che non sono di certo rinnovabili, perché quello che c’è dentro ad un’auto ha poco di rinnovabile. A meno che non la si voglia fare tutta di legno, ma allora non è più un’automobile ma un carretto e serve il cavallo, difatti è lì che andremo a finire se non fermiamo la follia della crescita. Inutile poi diminuire il consumo di carburante per automobile se poi ogni anno le vetture aumentano sempre di più e vanificano il risultato ottenuto dal minor consumo.
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Lacrime e sangue? Certo, un’altra Europa è impossibile
La maggioranza della “sinistra” si crogiola nell’illusione che l’Europa possa mutare pelle sotto la spinta della solidarietà fra i popoli europei. Da dove scaturisca tale speranza non è dato capire. Il problema europeo è legato alla crisi della democrazia, all’anti-politica, alla diffusa disaffezione, se non aperta ostilità di gran parte della popolazione ai meccanismi della rappresentanza e della mediazione politica. In termini più accademici questa è definita la crisi della democrazia. Questa disaffezione si traduce nell’idea che la politica sia tutta uguale, destra e sinistra, e che i politici siano tutti disonesti. Alla base di questa disaffezione, e in fondo anche alla base della pochezza progettuale ed etica dei politici, v’è la sostanziale impotenza della politica nazionale ad affrontare piccoli e grandi problemi, una volta privata delle leve della politica economica, e in particolare della sovranità monetaria, improvvidamente cedute a istanze sovranazionali dominate dalle potenze europee più forti. Questo spiega dunque molte cose.Spiega la disaffezione come dovuta all’incapacità dei politici di risolvere i problemi, la disoccupazione in primis, mentre tutti si riempiono la bocca del medesimo mantra delle riforme (operando delle feroci contro-riforme). Spiega la sostanziale somiglianza fra destra e sinistra che agli occhi del comune cittadino è giustamente scomparsa. Qual’è la differenza fra Berlusconi e Prodi? Fra Monti e Bersani? Fra Renzi e Tsipras? La politica è (nei tratti di fondo) la medesima ed è quella dettata da Bruxelles, Francoforte o Berlino. E spiega anche il drammatico scadimento della politica, screditata agli occhi delle persone capaci, per cui chi vale fa altro, e monopolio di personaggi che non hanno altro da occuparsi se non di conservare le poltrone per sé e per le proprie consorterie. Detto in termini un poco più nobili, una volta esautorato e reso impotente lo Stato nazionale, che è il terreno primario in cui si svolge il conflitto sulla distribuzione del reddito, viene a mancare il sale della democrazia.Ma in verità il “sogno europeo”, è precisamente questo: un disegno liberista volto a esautorare i popoli nazionali dal potere di incidere sulle scelte dei propri governi nazionali, resi impotenti se non come strumenti d’ordine (vedi le riforme costituzionali in questa direzione). Stati nazionali filiali regionali dell’ordine ordo-liberista che “trasforma le leggi del mercato in leggi dello Stato” (Alessandro Somma), e ben individuato dai tedeschi nel Ministro unico dell’economia. Questa espropriazione dello Stato nazionale perfeziona lo svuotamento del terreno del conflitto sociale, dunque della democrazia, già mortificato dalla globalizzazione del capitale, lasciato libero di collocarsi dove più gli aggrada. E non ci si dica, per favore, che piccoli stati sovrani avrebbero vita dura nell’”economia globalizzata”, come si sente spesso. Polonia e Corea del Sud se la passano meglio dell’Italia, per fare qualche esempio.Ma perché, mi si obietta, non lottare per un’Europa diversa? L’analisi economica – a cui invito a prestar fede non in nome della fiducia in una scienza discutibile, ma in nome del realismo politico a cui ci invitava un grande intellettuale, Danilo Zolo – ha da tempo indicato che un’unione monetaria fra paesi a diverso grado di sviluppo può reggere solo con un cospicuo bilancio federale a scopo perequativo, precisamente la “tax-transfer union” tanto temuta dai tedeschi. Di che parliamo allora? Di utopie da cui Danilo Zolo ci suggeriva di sfuggire come la peste? Hayek lo disse chiaramente in un saggio del 1939: uno Stato federale fra paesi culturalmente ed economicamente diversi e dotato di un cospicuo bilancio perequativo non sarebbe destinato a durare, e si lacererebbe presto sulla destinazione delle risorse (Jugoslavia docet). L’unico Stato federale possibile è quello con uno Stato minimo, uno Stato ordo-liberista che detti le sole regole di mercato.Ma questo è lo Stato europeo che già abbiamo, e che la potenza dominante di cui parliamo oggi intende rafforzare. Quella che abbiamo è la sola Europa possibile, anzi potrebbe andar peggio. La “sinistra” è responsabile di cotanto disastro continentale. In Inghilterra e negli Stati Uniti, la Thatcher e Reagan si sono resi responsabili di sconfiggere Keynesismo e Stato Sociale. In Europa l’ha in gran parte fatto la sinistra, in nome dell’Europa. Le responsabilità dell’Ulivo devono essere ancora conteggiate – ma c’è chi ha cominciato a farlo, come Giulio Sapelli. Ma forse non c’è n’è bisogno. La sinistra italiana sta finendo da sola nella spazzatura del 3%. Abbiamo invece bisogno di una sinistra italiana che della battaglia per il ripristino dell’autonomia della politica economica nazionale faccia il proprio vessillo. Siccome la sinistra è più sensibile all’orecchio della difesa della Costituzione, bene faremmo ad affiancare questa battaglia a quella della difesa dei valori costituzionali.Ma attenzione, se la sinistra ufficiale e intellettuale è sensibile ai valori costituzionali, la gente normale vede questi temi come estranei, lontani. Guarda con favore, per esempio, alla semplificazione dei processi politici. Quindi anche la battaglia per la difesa della Costituzione se ne gioverebbe, se da astratta difesa di principi si mostrasse come strumento di avanzamento sociale su temi concreti come piena occupazione, difesa di salari e Stato Sociale. Un’ultima precisazione. Personalmente non credo che lo slogan “fuori dall’euro” sia oggi popolare. Tuttavia un sentimento anti-Europeo sta montando. L’euro crollerà se e quando diventerà politicamente insostenibile, e quest’esito va perseguito e preparato, progettando il dopo, una nuova Europa di Stati indipendenti e cooperativi. Purtroppo la sinistra italiana, nella sua maggioranza, va nella direzione opposta di coltivare il “sogno europeo”, predisponendosi all’oblio della storia.(Sergio Cesaratto, “Sveglia, un’altra Europa è impossibile”, da “Sollevazione” del 12 marzo 2016).La maggioranza della “sinistra” si crogiola nell’illusione che l’Europa possa mutare pelle sotto la spinta della solidarietà fra i popoli europei. Da dove scaturisca tale speranza non è dato capire. Il problema europeo è legato alla crisi della democrazia, all’anti-politica, alla diffusa disaffezione, se non aperta ostilità di gran parte della popolazione ai meccanismi della rappresentanza e della mediazione politica. In termini più accademici questa è definita la crisi della democrazia. Questa disaffezione si traduce nell’idea che la politica sia tutta uguale, destra e sinistra, e che i politici siano tutti disonesti. Alla base di questa disaffezione, e in fondo anche alla base della pochezza progettuale ed etica dei politici, v’è la sostanziale impotenza della politica nazionale ad affrontare piccoli e grandi problemi, una volta privata delle leve della politica economica, e in particolare della sovranità monetaria, improvvidamente cedute a istanze sovranazionali dominate dalle potenze europee più forti. Questo spiega dunque molte cose.
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Progettista: l’F-35 è un bidone, lo abbatte anche un Mig-21
Ho definito l’F-35 un bidone, assolutamente. E’ un bidone. E’ essenzialmente un pessimo aereo, perché è costruito su un’idea stupida. Nel momento in cui provi a progettare un aereo multi-missione, hai già fallito. Nel momento in cui cerchi di costruire un aereo che faccia supporto ravvicinato, combattimenti aria-aria, bombardamenti di interdizione profonda, e che voglia compiere una lista pressoché illimitata di compiti tecnologici, hai già fallito. Non otterrai mai un buon aereo, otterrai un catafalco tecnologico che porterà a un fallimento dietro l’altro. Per fare un esempio, ultimamente i marines hanno sviluppato una passione insensata per gli aerei a decollo verticale, da quando hanno avuto gli Harrier inglesi. Questo rende l’aereo molto tozzo, perché deve ospitare una ventola centrale che spinga l’aria verticalmente, per farlo decollare e atterrare in verticale. Ma con una sezione centrale così grossa ti ritrovi con troppa resistenza aerodinamica. Le ali molto piccole aiutano il decollo verticale, ma impediscono le manovre in combattimento: niente ali, niente virate. Nel duello aereo non ha speranze.Potete star certi che un Mig-21 progettato negli anni ‘50, oppure un vecchio Mirage francese, farebbe fuori in modo impietoso un F-35. Un velivolo da supporto aereo per le truppe? Questo è l’aspetto più ridicolo di tutti, perché per supportare le truppe devi poterti avvicinare molto, devi poter manovrare per riuscire a scoprire bersagli ben camuffati. Devi poter virare a velocità molto bassa. Devi avere una grossa mitragliatrice, come quella che ad esempio ha l’A-10, e devi poter restare nelle vicinanze delle truppe per 4-6 ore. Devi poter gironzolare nella zona, in modo da dargli veramente una copertura per tutta la giornata, fino a quando ce n’è bisogno. Questo è disperatamente impossibile con l’F-35, perché consuma decisamente troppo carburante: ti va bene se riesce a restare in zona per un’ora, un’ora e mezza al massimo. La sua manovrabilità è ridicola: con quell’aereo non si può certo “scendere tra i fili d’erba”, come dicono i piloti, né virare in tempo per individuare un carro armato.Alla velocità in cui deve viaggiare, per via delle ali molto piccole, questo aereo non può manovrare. E non può nemmeno volare lentamente – né dovrebbe farlo, in combattimento, perché si renderebbe vulnerabile. A cosa serve, allora, l’F-35? Assolutamente a niente: è un bidone. E’ anche un pessimo bombardiere. Essendo uno stealth, è progettato per trasportare le bombe al suo interno. Peraltro, va detto che la tecnologia stealth è una fregatura: semplicemente, non funziona. I radar costruiti nel 1942 potrebbero rilevare qualsiasi aereo stealth oggi esistente al mondo – i radar della “battaglia d’Inghilterra”: non che avessero qualcosa di speciale, ma funzionavano sulle onde molto lunghe. Qualunque radar della “battaglia d’Inghilterra” sarebbe in grado di avvistare l’F-35, ma anche l’F-22 e il bombardiere B-2. Qual è allora il compito dell’F-35? Far spendere soldi: questa è la sua unica missione. Serve a fare in modo che il Parlamento Usa mandi dei soldi alla Lockeed. E’ il vero compito dell’aereo.(Pierre Sprey, “L’F-35 è un bidone”, video-intervista pubblicata su YHo definito l’F-35 un bidone, assolutamente. E’ un bidone. E’ essenzialmente un pessimo aereo, perché è costruito su un’idea stupida. Nel momento in cui provi a progettare un aereo multi-missione, hai già fallito. Nel momento in cui cerchi di costruire un aereo che faccia supporto ravvicinato, combattimenti aria-aria, bombardamenti di interdizione profonda, e che voglia compiere una lista pressoché illimitata di compiti tecnologici, hai già fallito. Non otterrai mai un buon aereo, otterrai un catafalco tecnologico che porterà a un fallimento dietro l’altro. Per fare un esempio, ultimamente i marines hanno sviluppato una passione insensata per gli aerei a decollo verticale, da quando hanno avuto gli Harrier inglesi. Questo rende l’aereo molto tozzo, perché deve ospitare una ventola centrale che spinga l’aria verticalmente, per farlo decollare e atterrare in verticale. Ma con una sezione centrale così grossa ti ritrovi con troppa resistenza aerodinamica. Le ali molto piccole aiutano il decollo verticale, ma impediscono le manovre in combattimento: niente ali, niente virate. Nel duello aereo non ha speranze.
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Bravi, lavorate da casa: così vi sfrutteremo ancora di più
Non è la prima volta che affronto su queste pagine l’argomento del taylorismo digitale, e quanto leggo in due articoli recenti mi induce a tornare sul tema. Un pezzo del “New York Times” spiega perché il famoso venture capitalist John Doerr ha deciso di investire nella società di software Better Works: i lavoratori che adottano i suoi prodotti sono incoraggiati a mettersi reciprocamente in competizione, “misurando” i rispettivi risultati con metodi che richiamano quelli con cui si stabiliscono i punteggi dei videogame e/o dei programmi di fitness. Doerr si dice entusiasta di tale metodo, perché richiama il sistema Okr (Objectives and Key Results) che lui stesso aveva escogitato quando lavorava per la società Intel e che descrive così: si tratta di fare in modo che gli impiegati si auto attribuiscano degli obiettivi misurabili, e che rendano pubblici i risultati ottenuti, in modo che i colleghi possano metterli a confronto con i propri. Un sistema, commentano gli autori del pezzo, che smentisce l’opinione secondo cui il concetto di organizzazione scientifica del lavoro sarebbe un ferrovecchio.In questo modo i principi di autonomia, responsabilità individuale e libertà da costrizioni gerarchiche dirette, elaborati dal management postfordista (e copiati di peso, come dimostra un bel libro di Boltanski tradotto da Mimesis intitolato “Il nuovo spirito del capitalismo”, dalla cultura dei movimenti post sessantottini), vengono resi perfettamente compatibili con i principi del taylorismo: autocontrollo e autosfruttamento sostituiscono il controllo da parte di capiufficio e capisquadra. Non basta: per rendere ancora più efficace il sistema, occorre “emancipare” il lavoratore anche dalla vicinanza fisica con i capi, virtualizzare il loro rapporto. Ecco perché, come apprendiamo da un altro articolo pubblicato dall’“Huffington Post”, il telelavoro – dopo un periodo in cui sembrava avere perso appeal, smentendo le profezie entusiastiche dei guru della rivoluzione digitale – torna di attualità, al punto che anche Yahoo – società simbolo della New Economy, che qualche anno fa aveva imposto ai dipendenti che praticavano il telelavoro di rientrare in azienda – ha cambiato idea e ora favorisce l’esodo di chi preferisce lavorare da casa.Questa inversione di tendenza si spiega con il fatto che molte ricerche hanno dimostrato che i lavoratori a domicilio sono più produttivi, lavorano più ore (perdendo consapevolezza della differenza fra tempo di lavoro e tempo libero), fanno meno pause, non si danno mai malati; in poche parole: si auto sfruttano selvaggiamente. Per spiegare questa docilità autoimposta alle esigenze di valorizzazione del capitale non basta evocare l’indebolimento dei rapporti di forza delle classi subordinate, logorate dagli effetti di decenni di “guerra di classe dall’alto”: disoccupazione, individualizzazione, desindacalizzazione, che li inducono a ingaggiare una spietata guerra fra poveri per “meritarsi” un salario; la catastrofe è in primo luogo frutto della disfatta culturale provocata dalla conversione delle sinistre all’ideologia liberista. Una conversione che, per la socialdemocrazia, ha assunto la forma della “sottomissione” (per citare Houellebecq) al dio mercato, per i “nuovi movimenti” quella dell’emancipazionismo individuale e identitario.(Carlo Formenti, “Telelavoro e autosfruttamento”, da “Micromega” del 22 marzo 2015).Non è la prima volta che affronto su queste pagine l’argomento del taylorismo digitale, e quanto leggo in due articoli recenti mi induce a tornare sul tema. Un pezzo del “New York Times” spiega perché il famoso venture capitalist John Doerr ha deciso di investire nella società di software Better Works: i lavoratori che adottano i suoi prodotti sono incoraggiati a mettersi reciprocamente in competizione, “misurando” i rispettivi risultati con metodi che richiamano quelli con cui si stabiliscono i punteggi dei videogame e/o dei programmi di fitness. Doerr si dice entusiasta di tale metodo, perché richiama il sistema Okr (Objectives and Key Results) che lui stesso aveva escogitato quando lavorava per la società Intel e che descrive così: si tratta di fare in modo che gli impiegati si auto attribuiscano degli obiettivi misurabili, e che rendano pubblici i risultati ottenuti, in modo che i colleghi possano metterli a confronto con i propri. Un sistema, commentano gli autori del pezzo, che smentisce l’opinione secondo cui il concetto di organizzazione scientifica del lavoro sarebbe un ferrovecchio.
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I cent’anni di Ingrao e l’estinzione della sinistra italiana
Cent’anni di solitudine, anche se carismatica, collezionando sconfitte incassate per mancanza di coraggio. Questo l’impietoso ritratto che, da storico, Aldo Giannuli dipinge dell’anziano Pietro Ingrao, gran veterano della sinistra comunista. Al centesimo compleanno, il 29 marzo, attorno al vecchio leone del granitico Pci di Togliatti e Berlinguer c’è il nulla cosmico: disoccupazione record e Jobs Act, fine dei diritti dei lavoratori, precariato universale, povertà e paura, Costituzione rottamata, legge elettorale di regime. La fine della democrazia moderna, archiviata dai diktat dell’élite. Rileggendo Ingrao con gli occhiali di Giannuli, si svela il mistero della fine della sinistra italiana: la sinistra che non ha “visto” la crisi e non ha più saputo “leggere” il mondo, per poi arrendersi al nuovo potere cosmopolita degli oligarchi globalizzati e, all’occorrenza, accomodarsi a tavola per votare leggi-capestro e abbattere gli ultimi diritti, in cambio di poltrone, confidando ancora e sempre nell’antica fiducia di un elettorato “di sinistra”, pronto a qualunque autolesionismo pur di avere l’illusione di opporsi al cattivo di turno, prima Craxi e poi Berlusconi.Pietro Ingrao, uno strano Charlie Brown che ha fatto scuola: il suo stile «attraverso Bertinotti giunge sino a noi, essendo palese l’ascendenza ingraiana anche di Landini». Ingrao, ricorda Giannuli, appartiene a quella seconda generazione di dirigenti comunisti che ebbe la sua prima formazione nell’Italia fascista e scoprì solo in un secondo momento il comunismo, attraverso il tunnel doloroso della guerra, della Resistenza, per incontrarsi con Togliatti prima ancora che con Gramsci. Si enfatizzò l’antifascismo «come negazione assoluta e incontaminata del fascismo», eppure «il fascismo seminò concetti che poi sono restati, finendo impastati con la successiva cultura politica dell’Italia repubblicana». Usi obbedir tacendo: la cultura della disciplina. Ingrao era stato influenzato dalla figura di Giuseppe Bottai, «il maggior intellettuale del regime e, insieme, il gerarca più attivo nel promuovere la formazione delle giovani generazioni». Dalle sue riviste, continua Giannuli, presero le mosse alcuni dei nomi migliori dell’intellettualità post-fascista e antifascista: Salvatore Quasimodo e Nicola Abbagnano, Enzo Paci, Mario Alicata, Vitaliano Brancati, Cesare Pavese, Vasco Pratolini. E poi Vittorio Sereni, Giuseppe Ungaretti, Enzo Biagi, Renato Guttuso, Sandro Penna, Eugenio Montale. «Diversi di loro, come Giame Pintor, li ritroveremo fra i primi a combattere con la Resistenza».Ad avvicinare Bottai e Ingrao, «due figure inconsuete del Novecento italiano», secondo Giannuli «non fu solo la propensione all’eresia e la profonda compenetrazione fra politica e cultura, ma anche il gusto del dubbio sistematico, la propensione all’astrattezza», nonché «una certa sofisticatezza intellettuale e l’eterna insoddisfazione per la propria ricerca». In controluce, anche «il forte narcisismo, l’irresolutezza, la mancanza di tempismo politico, lo scarso coraggio». Bottai divorziò da Mussolini solo all’ultimo, e «non senza un profondissimo tormento interiore», mentre Ingrao «ha avuto sempre fede nel Partito, contro il quale non cercò mai di aver ragione» Tant’è vero che «in nome di questa fede approvò – colpa non da poco, anche se condivisa con molti – il brutale intervento sovietico in Ungheria». Così, Ingrao «piegò il capo dopo la sconfitta all’XI congresso». In più «restò fedele al partito anche quando (contro le sue convinzioni) esso cessò di essere comunista, per distaccarsene anni dopo e da solo. Era fedeltà all’ideale o feticismo organizzativo? Lasciamo decidere a chi ci legge».Questo attaccamento insieme fideistico e tormentato, continua Giannuli, lo ha portato ad essere “l’uomo delle occasioni mancate”: nel 1966 tentò di dare battaglia all’XI congresso, ma senza avere il coraggio di presentare una sua mozione di minoranza e finendo sconfitto senza neppure aver combattuto davvero la sua battaglia. Tre anni dopo, assistette inerte all’espulsione del gruppo del “Manifesto” (tutti suoi storici seguaci) senza avere il coraggio di votare contro (come fecero Cesare Luporini e Lucio Lombardo Radice) e neppure di astenersi, ma «tristemente votò a favore». Nel 1973 incassò la proposta di compromesso storico di Berlinguer, accennando solo una “lettura di sinistra” che non spostava di un millimetro i termini politici della questione (fu più esplicito nella critica il vecchio Longo). Nel 1976, infine, «incassò con altrettanta mancanza di coraggio anche la politica di Unità Nazionale, accontentandosi di andar a fare il presidente della Camera». Altra ombra sul suo passato: «Non si dissociò neppure per un attimo dalla politica della fermezza sul caso Moro», evitando di adoperarsi per una trattativa che avrebbe potuto salvare il leader democristiano.Ingrao, prosegue Giannuli, ebbe un suo momento di fulgore dall’80 all’84, quando Berlinguer ruppe con Amendola e cercò il suo appoggio, per reggere la svolta del dopo-terremoto e della “questione morale”, ma con l’unico risultato di inasprire l’isolamento identitario e settario del Pci, che ne avviava la decadenza. «L’ultima occasione di incidere nella storia di questo paese la ebbe con la trasformazione del Pci in Pds». Dopo essersi messo alla testa del cartello di opposizione che sfiorò il 30% al congresso di scioglimento, «come sempre gli mancò il coraggio del passo successivo: guidare la scissione di Rifondazione». Ingrao infatti si tirò indietro: «Preferì restare inutilmente nel Pds per uscirne, da solo e fra le lacrime, pochi anni dopo». Spiegazione: «In queste ripetute battaglie perse senza esser date, ha inciso certamente la sua devozione al partito, assunto non come mezzo ma come fine in sé». Era spesso accusato di astrattezza, dice Giannuli, e i detrattori avevano ragione: Amendola, il leader della destra riformista del Pci, forniva a «analisi datatissime, come quella di Pietro Grifone sulla contrapposizione fra rendita e profitto in Italia», ma almeno era molto concreto nella proposta, sempre incerta fra alleanze sociali destinate a non tradursi mai in alleanze politiche.«In politica estera, dopo il 1970, Ingrao non ha mai proposto l’uscita dalla Nato», aggiunge Giannuli. Sul piano istituzionale invece ha puntato sulle autonomie locali, senza però prevedere la proliferazione incontrollata di poltrone. «Altra proposta caratterizzante della sua azione sul piano istituzionale – continua Giannuli – fu il tentativo di ridare centralità al Parlamento, attraverso un regime assembleare che scavalcasse la tradizionale divisione fra maggioranza ed opposizione. Il frutto fu la riforma dei regolamenti parlamentari del 1971 che proprio Ingrao, in veste di capogruppo alla Camera, trattò con il capogruppo della Dc, Andreotti. Ma il risultato finale non fu quello di un improbabile regime assembleare, quanto la premessa del consociativismo Dc-Pci». Libertà e autonomia ai parlamentari? «In presenza di un partito retto con la ferrea regola del centralismo democratico, come era il Pci, era una pretesa piuttosto irragionevole». Indeterminata anche la sua critica al “socialismo reale” dei regimi dell’est. Poi il Muro è crollato, e il vecchio Ingrao è scomparso dai radar. Proprio come la sinistra italiana, che dopo Tangentopoli ha consegnato il paese al dominio dell’élite neoliberista, quella della privatizzazione universale che impone i suoi diktat tramite l’Ue a guida tedesca e il braccio secolare dell’euro.Cent’anni di solitudine, anche se carismatica, collezionando sconfitte incassate per mancanza di coraggio. Questo l’impietoso ritratto che, da storico, Aldo Giannuli dipinge dell’anziano Pietro Ingrao, gran veterano della sinistra comunista. Al centesimo compleanno, il 29 marzo, attorno al vecchio leone del granitico Pci di Togliatti e Berlinguer c’è il nulla cosmico: disoccupazione record e Jobs Act, fine dei diritti dei lavoratori, precariato universale, povertà e paura, Costituzione rottamata, legge elettorale di regime. La fine della democrazia moderna, archiviata dai diktat dell’élite. Rileggendo Ingrao con gli occhiali di Giannuli, si svela il mistero della fine della sinistra italiana: la sinistra che non ha “visto” la crisi e non ha più saputo “leggere” il mondo, per poi arrendersi al nuovo potere cosmopolita degli oligarchi globalizzati e, all’occorrenza, accomodarsi a tavola per votare leggi-capestro e abbattere gli ultimi diritti, in cambio di poltrone, confidando ancora e sempre nell’antica fiducia di un elettorato “di sinistra”, pronto a qualunque autolesionismo pur di avere l’illusione di opporsi al cattivo di turno, prima Craxi e poi Berlusconi.
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Taylorismo digitale, finta creatività e schiavitù informatica
Com’è noto, l’organizzazione scientifica del lavoro teorizzata da Taylor consisteva in una serie di pratiche di quantificazione/misurazione di ogni gesto lavorativo – pratiche che servivano a definire (e successivamente imporre) il “modo migliore” (cioè più veloce, efficiente e produttivo di valore per l’impresa) di effettuare una determinata mansione. Negli ultimi anni è prevalsa la convinzione che lo spirito del taylorismo sia tramontato assieme alla fabbrica fordista, sostituito da un modo di produrre che – grazie alle tecnologie di rete – si fonda sulla creatività e sull’autonoma capacità di cooperare dei lavoratori autonomi. Questa visione ottimista è andata in crisi a mano a mano che ci si è resi conto del fatto che le tecnologie digitali – in particolare gli algoritmi del software – incorporano una serie di regole, procedure e schemi cognitivi che sono in grado di controllare/disciplinare i comportamenti del lavoro “creativo” (più o meno “autonomo”) in misura non inferiore a quella in cui la catena di montaggio subordinava il lavoro dell’operaio fordista.Si è così iniziato a parlare di “taylorismo digitale”, ma questa metafora, al pari di quella – cara ai teorici post-operaisti – che parla di “vita messa al lavoro”, appare insufficiente a descrivere il salto qualitativo che il capitalismo si appresta a compiere a mano a mano che il mezzo di lavoro computer viene sostituito dagli smartphone e altre tecnologie “indossabili” (ma soprattutto dalle “app” che animano questi dispositivi). Per rendersene conto basta seguire il dibattito americano sul concetto di “Quantified Self” (letteralmente: sé quantificato, o misurato). Il termine è stato coniato da Gary Wolf e Kevin Kelly, noto apologeta della “rivoluzione” digitale fin dalla metà dei ’90. Riferendosi alla capacità dei dispositivi in questione di raccogliere dati su salute, performance fisiche e mentali e gestualità (oltre che sull’ambiente ad essi circostante) di coloro che li indossano, i due parlano della chance di attivare una sorta di autoanalisi della vita quotidiana per “migliorarsi” e aiutare gli altri (visto che i dati possono, anzi devono, essere condivisi) a fare lo stesso.Mikey Siegel, un ex ingegnere della Nasa laureatosi al Mit, è il guru di una versione New Age di questo “movimento”. Tenere traccia dei propri passi, consumo di calorie, sonno, numero di volte in cui si controllano le mail, sostiene Siegel, è un potente strumento per ottenere un allargamento della coscienza, un’attenzione focalizzata sul proprio sé complementare a quella che si può raggiungere attraverso la meditazione. Così, conclude, anche noi occidentali capiremo che le cause delle nostre sofferenze, paure, angosce, stanno nella psiche e non nel mondo che ci circonda (cioè in bazzecole come miseria, disuguaglianze, sfruttamento, violenza, oppressione dell’uomo sull’uomo). Se poi nemmeno così riusciremo a superare il disagio provocato dall’eccesso di alternative che una realtà iperconsumistica ci offre, rendendoci incapaci di scegliere, ecco venirci in soccorso un’altra generazione di nuove “app”, capaci di trovare sempre la soluzione migliore per noi.Per farla breve: qui siamo ben oltre il taylorismo digitale, andiamo verso uno scenario in cui si tenterà di garantire pace sociale, massimizzazione produttiva, autocontrollo e autodisciplina attraverso la disponibilità dei singoli soggetti di “godere” della consulenza operativa, psicologica e morale dei propri gadget e degli “spiritelli” che li abitano. Uno scenario in cui il capitale non si limiterebbe ad appropriarsi a posteriori della libera e spontanea creatività del lavoro cognitivo, ma ne spegnerebbe a priori ogni reale margine di autonomia (Marx avrebbe parlato di transizione dalla subordinazione formale alla subordinazione sostanziale del lavoro al capitale).Ma gli algoritmi non servono solo a disciplinare/controllare la vita messa al lavoro: sono al centro delle strategie di repressione delle “classi pericolose” escluse o confinate ai margini del processo produttivo. Come racconta Massimo Gaggi in un articolo (“L’algoritmo che anticipa in crimini?”) apparso sul “Corriere della Sera” dell’8 marzo, le polizie di 58 città americane pattugliano ormai solo le sezioni di territorio che il software della società Predictive Policing (un marchio sinistramente evocativo del racconto “Minority Report” di Philip Dick, che descrive un regime totalitario in cui i criminali vengono arrestati “prima” che possano delinquere) seleziona come quelle statisticamente più esposte a ospitare reati. E indovinate chi merita di finire sotto lo sguardo di questo Panopticon digitale? Neri e Latinos.(Carlo Formenti, “Le insidie del taylorismo digitale”, da “Micromega” del 9 marzo 2015).Com’è noto, l’organizzazione scientifica del lavoro teorizzata da Taylor consisteva in una serie di pratiche di quantificazione/misurazione di ogni gesto lavorativo – pratiche che servivano a definire (e successivamente imporre) il “modo migliore” (cioè più veloce, efficiente e produttivo di valore per l’impresa) di effettuare una determinata mansione. Negli ultimi anni è prevalsa la convinzione che lo spirito del taylorismo sia tramontato assieme alla fabbrica fordista, sostituito da un modo di produrre che – grazie alle tecnologie di rete – si fonda sulla creatività e sull’autonoma capacità di cooperare dei lavoratori autonomi. Questa visione ottimista è andata in crisi a mano a mano che ci si è resi conto del fatto che le tecnologie digitali – in particolare gli algoritmi del software – incorporano una serie di regole, procedure e schemi cognitivi che sono in grado di controllare/disciplinare i comportamenti del lavoro “creativo” (più o meno “autonomo”) in misura non inferiore a quella in cui la catena di montaggio subordinava il lavoro dell’operaio fordista.