Archivio del Tag ‘autonomia’
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Dominano l’Ue (e temono l’Italia) i poteri che uccisero Moro
Aldo Moro viene rapito per toglierci sovranità e libertà. Cosa possiamo fare noi ora per riprendercela? Ormai sono passati 40 anni da quel rapimento, e il quadro è chiaro: è molto più facile giudicare le cose del mondo dopo che il tempo ne ha mostrato il senso. Com’era l’Italia fino a quell’anno? In grande fermento, in grande crescita da tutti i punti di vista. Lati positivi e lati negativi, come il clientelismo, la presenza diffusa della malavita nelle regioni meridionali, un certo malaffare. Una classe imprenditoriale di successo, e una politica effervescente, anche se ammalata di clientelismo e di corruzione. Un insieme di partiti e partitini, logge e loggette e ordini religiosi guidava un paese in modo caotico, ma tale da mantenerlo sostanzialmente libero e sovrano. Proprio il fatto che dalla Seconda Guerra Mondiale era emerso un quadro frazionato, e non un potere unico, o una sola influenza straniera, consentiva sufficienti margini di libertà e di sovranità al paese. Influenze americane e inglesi bilanciate da genuine spinte libertarie, da più di una corrente vaticana e dalla forte presenza comunista. In un gioco faticoso ma sostanzialmente positivo per la nostra indipendenza. L’industria, l’economia, la finanza, la cultura e la scienza italiane avevano trovato possibilità di crescita in un lungo periodo di sostanziale indipendenza. C’erano difetti, anche gravi, ma diciamo che il bilancio era positivo.Alcune personalità si erano occupate, pur nella incredibile complicazione del sistema, di mantenere la barra dritta e di non inginocchiarsi ai poteri esterni transnazionali. Alla fine degli anni Settanta, Aldo Moro rappresentava il fulcro di questi delicati equilibri, e ne costituiva una delle principali garanzie. Ma il sistema nazionale indipendente era di ostacolo alle mire di quei poteri che volevano fermare per tempo l’onda di risveglio delle coscienze, e intendevano distruggere i contesti locali e nazionali, per verticalizzare e centralizzare il potere. Prima a livello europeo e poi mondiale. Moro – ma anche altri politici e imprenditori dell’epoca – avevano come faro, come priorità, la sovranità e la libertà del nostro paese, proprio come lezione appresa durante la guerra mondiale. Moro già si opponeva ad un certo modo di avviare l’integrazione europea a sfavore della nostra sovranità, ed era contrario alle pressioni in quel senso. Non fu rapito perché voleva i comunisti al governo, ma perché era il detentore delle chiavi della nostra sovranità, di un certo modo di intendere la politica come senso del dovere. Di un forte limite interno alla corruzione morale della politica e dell’economia. Per questo venne rapito con la messinscena delle Brigate Rosse, da ben altre forze. Forze anti-coscienza e forze lanciate alla distruzione del sistema degli Stati nazionali, per avere a disposizione dei mega-Stati meglio controllabili.Dal giorno del rapimento e poi della morte di Moro abbiamo progressivamente perso sovranità e libertà. Prima è stata favorita una enorme corruzione della politica, per poi denunciarla per portare via insieme alla corruzione anche quella politica che assicura libertà e sovranità. E i lupi che hanno rapito Moro sono ora quelli che a forza, brandendo crisi finanziarie e politiche, ci stanno comunque spingendo nell’ovile di un super-Stato europeo orwelliano. E se alla gente non piace questa deriva, si creano proprio per chi si sta risvegliando nuove formazioni-gabbia politiche che prima si presentano come “liberatori” per poi mostrare rapidamente il loro vero volto di strumento gattopardesco dei soliti, vecchi poteri. Cosa è rimasto dopo 40 anni di una classe politica e di una economia indipendenti e sovrane? Molto poco… Ma sovrana è rimasta la nostra coscienza, che proprio guardando a queste vicende può rafforzarsi e non ripetere gli errori. E può lavorare per una società più giusta e amorosa, partendo dai contesti e dalle azioni intorno a noi.Il potere si rigonfia e si arrocca? Oppure si maschera da movimenti apparentemente nuovi per spingerci comunque a perdere libertà? E allora noi conquistiamo alla nostra coscienza gli spazi del nostro agire quotidiano. Da questo la vera rivoluzione del futuro. Ed ecco una frase illuminante di Moro: «Questo paese non si salverà e la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera se non nascerà un nuovo senso del dovere». Ecco, la classe che lo ha sostituito e che ora ha preso il controllo dello Stato e dell’economia sente come dovere solo quello dell’obbedienza a certi poteri. Lo stesso vale anche per chi si appresta ora a sostituirla, che conferma le solite obbedienze a Nato, finanza, poteri mondialisti, multinazionali. Ma il senso del dovere (connesso con la coscienza) esiste, in Italia, ed è in pieno fermento. In tante persone. Speriamo che esca fuori dalla riserva indiana, dai contenitori politici-gabbia in cui lo stanno mettendo per renderlo inefficace. Aiutiamo un sano ed amoroso senso del dovere a evadere da queste gabbie per diventare influente nella società. E’ una operazione difficile, faticosa, spesso controcorrente, ma si può fare!(Fausto Carotenuto, “Aldo Moro viene rapito per toglierci sovranità e libertà”, dal blog “Coscienze in Rete” del 16 marzo 2018).Aldo Moro viene rapito per toglierci sovranità e libertà. Cosa possiamo fare noi ora per riprendercela? Ormai sono passati 40 anni da quel rapimento, e il quadro è chiaro: è molto più facile giudicare le cose del mondo dopo che il tempo ne ha mostrato il senso. Com’era l’Italia fino a quell’anno? In grande fermento, in grande crescita da tutti i punti di vista. Lati positivi e lati negativi, come il clientelismo, la presenza diffusa della malavita nelle regioni meridionali, un certo malaffare. Una classe imprenditoriale di successo, e una politica effervescente, anche se ammalata di clientelismo e di corruzione. Un insieme di partiti e partitini, logge e loggette e ordini religiosi guidava un paese in modo caotico, ma tale da mantenerlo sostanzialmente libero e sovrano. Proprio il fatto che dalla Seconda Guerra Mondiale era emerso un quadro frazionato, e non un potere unico, o una sola influenza straniera, consentiva sufficienti margini di libertà e di sovranità al paese. Influenze americane e inglesi bilanciate da genuine spinte libertarie, da più di una corrente vaticana e dalla forte presenza comunista. In un gioco faticoso ma sostanzialmente positivo per la nostra indipendenza. L’industria, l’economia, la finanza, la cultura e la scienza italiane avevano trovato possibilità di crescita in un lungo periodo di sostanziale indipendenza. C’erano difetti, anche gravi, ma diciamo che il bilancio era positivo.
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Moro, storia da riscrivere: prigioniero in una casa dello Ior
Tutto quello che abbiamo saputo fin qui (e sono passati quarant’anni anni) del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, è da riscrivere. Anzi, in gran parte è stato già riscritto dalla commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. La terza e ultima relazione, scrive Maria Antonietta Calabrò sull’“Huffington Post”, spiega come e perché Moro non è stato ucciso sul pianale della Renault 4 rossa parcheggiata nel garage di via Montalcini 8. In base alle nuove perizie espletate dal Ris dei carabinieri, quell’auto non avrebbe potuto neppure avere il cofano aperto, tanto ristretto era il box dove secondo la versione dei brigatisti sarebbe stata eseguita la condanna a morte dello statista. Il documento spiega che il presidente della Dc avrebbe avuto la possibilità di rimanere in vita: la segnalazione di un possibile attentato, giunta a Roma un mese prima del sequestro dalle fonti palestinesi del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, vicinissimo a Moro, era assolutamente attendibile. A evitare la tragedia sarebbe bastata una macchina blindata e una scorta. La commissione Fioroni rivela inoltre che il prigioniero Moro, prima di essere ucciso, ebbe la possibilità di ricevere la visita di un prete e di confessarsi. Il che «dimostra che in un modo o nell’altro uomini del mondo vaticano sono stati centrali nella vicenda».L’ombra del Vaticano spunta «a cominciare dall’individuazione, nella zona della Balduina, in via Massimi 91, di una palazzina di proprietà Ior, la cosiddetta banca vaticana, (posseduta attraverso la società Prato Verde srl, e gestita da Luigi Mennini), abitata (o frequentata) da cardinali (Vagnozzi e Ottaviani), da prelati e dallo stesso presidente dello Ior, Paul Marcinkus», scrive Maria Antonietta Calabrò. Nello stabile aveva sede una società americana che lavorava per la Nato, e vivevano in affitto esponenti tedeschi dell’Autonomia, finanzieri libici e due persone contigue alle Brigate Rosse. «Complesso edilizio che, anche alla luce della posizione, potrebbe essere stato utilizzato – si legge nel documento – per spostare Aldo Moro dalle auto utilizzate in via Fani a quelle con cui fu successivamente trasferito, oppure potrebbe aver addirittura svolto la funzione di prigione dello statista». La relazione, grazie a nuovi testimoni, dimostra addirittura che per alcuni mesi, nell’autunno del 1978, in quello stabile si sarebbe nascosto Prospero Gallinari (il britagatista carceriere di Moro) insieme alle armi usate dal commando che in via Fani sterminò la scorta di Moro. L’alloggio di via Massimi 91 è stato anche il covo-prigione in cui fu detenuto il presidente della Dc? E’ un’ipotesi che la commissione non scarta.Soprattutto, sottolinea l’“Huffington”, grazie alla declassificazione di una grande quantità di atti dei servizi segreti e delle forze dell’ordine, «la commissione ha accertato che la “narrativa” ufficiale sul sequestro e la morte di Moro, contenuta nel cosiddetto memoriale Morucci-Faranda, altro non è che una “versione ufficiale e di Stato” del caso Moro, preparata a tavolino molti anni prima che essa approdasse sul tavolo di Francesco Cossiga». In altre parole, «l’unica verità “dicibile” per chiudere l’epoca del terrorismo». Una verità di comodo, «messa a punto da magistrati (Imposimato, Priore: citati con nome e cognome), esponenti delle forze dell’ordine e naturalmente dai brigatisti». Valerio Morucci divenne addirittura consulente del Sisde, il servizio segreto interno di allora. La stessa vicenda del suo arresto e di quello di Adriana Faranda in casa di Giuliana Conforto (figlia «del più importante agente del Kgb in Italia», come l’ha definito il professor Christopher Andrew nel suo libro “L’Archivio Mitrokhin”), per la commissione «è stata oggetto di una completa rilettura, che ha consentito di mettere finalmente alcuni punti fermi sulla scoperta del rifugio di viale Giulio Cesare 47, ma anche di evidenziare uno scenario più complesso, che chiama in causa la possibilità che l’arresto di Morucci e Faranda sia stato negoziato».Alla luce delle indagini compiute, comunque, scrive Fioroni, «il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro non appaiono affatto come una pagina puramente interna dell’eversione di sinistra, ma acquisiscono una rilevante dimensione internazionale». Ancora: «Al di là dell’accertamento materiale dei nomi e dei ruoli dei brigatisti impegnati nell’azione di fuoco di via Fani e poi nel sequestro e nell’omicidio di Moro, emerge infatti un più vasto tessuto di forze che, a seconda dei casi, operarono per una conclusione felice o tragica del sequestro, talora interagendo direttamente con i brigatisti, più spesso condizionando la dinamica degli eventi, anche grazie alla presenza di molteplici aree grigie, permeabili alle influenze più diverse». Al riguardo, Fioroni parla di «martirio laico» di Moro, sacrificato sull’altare della guerra fredda: gli americani preoccupati dall’apertura al Pci, che avrebbe avvicinato l’Italia alla Jugoslavia di Tito, e i sovietici allarmati dall’eurocomunismo di Berlinguer, polemico con Mosca e virtualmente contagioso per gli altri partiti comunisti europei, a partire da quello francese.Un capitolo particolare, aggiunge Maria Antonietta Calabrò, è dedicato alle “protezioni” che hanno messo al sicuro la latitanza di uno dei brigatisti presenti in via Fani, Alessio Casimirri. «La primula rossa delle Br, tuttora latitante, prima di giungere in Nicaragua, riuscì più volte, in maniera rocambolesca, a sfuggire alla cattura. Per l’ex brigatista, di cui anche nei mesi scorsi è stata sollecitata l’estradizione, ci fu però un momento in cui mancò veramente un nulla ad ammanettarlo. A riconoscerlo, proprio nei dintorni di San Pietro, fu il padre di Jovanotti, al secolo Lorenzo Cherubini, uno dei più noti cantautori italiani». Mario Cherubini, che era un gendarme vaticano, riconobbe Casimirri, già latitante, per strada, «Corse a denunciarlo, ma non si riuscì a fermarlo», racconta Vero Grassi, vicepresidente della commissione Fioroni. Il cantante toscano ha raccontato a “Vanity Fair” di quando la famiglia Casimirri, a metà degli anni ‘70, invitava i Cherubini nella casa di campagna a Monterotondo, dove Alessio (provetto sub) gli mostrava i suoi trofei di pesca. Il padre di Casimirri, Luciano, è a sua volta un personaggio leggendario: sopravvissuto allo sterminio nazista della Divisione Acqui a Cefalonia dopo l’8 settembre del ‘43 (come il protagonista del film “Il mandolino del capitano Corelli”, con Nichoals Cage e Penelope Cruz), era poi stato responsabile della sala stampa vaticana sotto tre Papi: Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI, quello che rivolse lo storico appello agli “uomini delle Brigate Rosse” per la liberazione di Moro – sequestrato e trattenuto, si apprende ora, in un palazzo di proprietà del Vaticano.Tutto quello che abbiamo saputo fin qui (e sono passati quarant’anni) del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, è da riscrivere. Anzi, in gran parte è stato già riscritto dalla commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. La terza e ultima relazione, scrive Maria Antonietta Calabrò sull’“Huffington Post”, spiega come e perché Moro non è stato ucciso sul pianale della Renault 4 rossa parcheggiata nel garage di via Montalcini 8. In base alle nuove perizie espletate dal Ris dei carabinieri, quell’auto non avrebbe potuto neppure avere il cofano aperto, tanto ristretto era il box dove secondo la versione dei brigatisti sarebbe stata eseguita la condanna a morte dello statista. Il documento spiega che il presidente della Dc avrebbe avuto la possibilità di rimanere in vita: la segnalazione di un possibile attentato, giunta a Roma un mese prima del sequestro dalle fonti palestinesi del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, vicinissimo a Moro, era assolutamente attendibile. A evitare la tragedia sarebbe bastata una macchina blindata e una scorta. La commissione Fioroni rivela inoltre che il prigioniero Moro, prima di essere ucciso, ebbe la possibilità di ricevere la visita di un prete e di confessarsi. Il che «dimostra che in un modo o nell’altro uomini del mondo vaticano sono stati centrali nella vicenda».
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Colonia Italia: divisa e nata per esser governata da stranieri
Un sud pentastellato, un nord centroleghista e un’Etruria ancora (quasi) colorata di rosso, o almeno di rosa. Vista la palese ingovernabilità della penisola, butta lì Marco Della Luna, tanto varrebbe trasformare l’ennesimo voto inutile in un’occasione per spaccare il Belpaese in tre Italie, ciascuna con la sua economia. «Il dato fondamentale, confermato da questa tornata elettorale – premette Della Luna – è che l’Italia è un paese tanto diviso al suo interno, che può essere governato solo dal suo esterno, come un protettorato». E probabilmente, aggiunge, «gli architetti della City che progettarono e guidarono la costituzione del Regno d’Italia (e che poi assemblarono altri Stati-Arlecchino come Iraq, Siria, Cipro, Libano, Sudan, Jugoslavia) avevano proprio questo intendimento: creare un paese le cui divisioni interne consentissero di manipolarlo dall’esterno, e insieme incapace di una politica di interesse nazionale». Secondo Della Luna, avvocato e saggista, «l’Italia unificata è un artefatto dell’imperialismo britannico». E ora, dopo le elezioni, «non si può nemmeno dire che si sia realizzata una maggioranza in forma di convergenza antisistema tra M5S e Lega», perché il Sud allo stremo ha invocato l’aiuto statale dei 5 Stelle, mentre il Nord produttivo ha chiesto a Salvini meno tasse “per Roma”.Il Movimento 5 Stelle, sostiene Della Luna, «ha raccolto soprattutto voti di meridionali desiderosi di assistenza pubblica, intervento statale, reddito di cittadinanza a spese del Nord», mentre la Lega ha mietuto «soprattutto voti di settentrionali desiderosi di meno tasse, meno Stato, meno trasferimenti dal Nord al Sud, e più autonomia (vedi i recenti referendum di Veneto e Lombardia)». Se i 5 Stelle andassero al governo con parte della sinistra, ipotesi «possibile», secondo Della Luna l’eventuale esecutivo Di Maio «dovrà aumentare le tasse patrimoniali e successorie per finanziare il “reddito di cittadinanza” e altre generosità promesse al suo elettorato – e ciò produrrà una fortissima, forse dirompente tensione con il Nord, e un ulteriore decrescita economica». Di fatto, «nell’attuale Parlamento non si può formare alcuna maggioranza che non sia frutto di un inciucio, in beffa alle promesse fatte agli elettori». Una coalizione «anomala e intrinsecamente instabile». Istituzioni fragili: lo stesso Mattarella, oggi nei panni poco inviadibili di arbitro, è stato incoronato al Quirinale «da un Parlamento a sua volta eletto con una legge che egli stesso, come giudice costituzionale, giudicò incostituzionale».In un corpo elettorale tanto profondamente diviso, sostiene Della Luna, un eventuale premio di maggioranza sarebbe addirittura un rimedio peggiore del male: «Porterebbe una forza minoritaria (rappresentante il 35-40% dell’elettorato) nonché illegittima agli occhi di almeno metà dell’elettorato, a una posizione di potere autosufficiente non solo per l’attività di governo e di ordinaria legislazione, fisco compreso, ma anche per cambiare le regole del gioco (legge elettorale, cittadinanza, Costituzione) e per fare le nomine degli organi di garanzia (presidenti della Repubblica, delle Camere, delle autorità garanti)». Divisi gli elettori, sulla base di aree geografiche «con interessi oggettivamente contrapposti» (il Nord e il Sud), e spaccate anche le forze politiche, le quali «si negano reciprocamente la legittimazione politica e morale: “Berlusconi è un mafioso”, “il M5S è una setta pericolosa”, “la Lega e FdI sono razzisti-fascisti”, “il Pd è servo di banchieri delinquenti”, eccetera. In questo caos, una forza “dopata” dal premio di maggioranza «dovrebbe gestire periodi duri per la popolazione», e quindi «avrebbe presto una forte maggioranza popolare contro di sé». Unica via di uscita? «Una riforma costituzionale, che affidasse le funzioni di garanzia e regole comuni a un Senato eletto col metodo proporzionale puro, e le funzioni di legislazione ordinaria (e fiducia al governo) a una Camera eletta con un premio di maggioranza al ballottaggio».Sempre secondo Della Luna, la nuova Costituzione dovrebbe inoltre stabilire che il Senato «non possa essere sciolto, ma si sciolga solo alla scadenza ogni 5 anni», mentre la Camera dovrebbe sciolgiersi ogni 4 anni, se non prima (con elezioni anticipate). «In tal modo, il premio di maggioranza non comporterebbe che il partito o la coalizione che lo ottiene possa cambiare le regole di fondo a sua convenienza e nominarsi alle cariche di garanzia i personaggi che gli fanno comodo per coprire le trame dei suoi interessi». Ma persino una riforma simile non risolverebbe «il difetto fondamentale del paese», ovvero «le divisioni e contrapposizioni storiche, consolidate, oggettive, soprattutto tra Nord e Sud». L’ideale? Tre Italie distinte, indipendenti, «corrispondenti ciascuna alle rispettive caratteristiche sia politiche che economiche (Aree Monetarie Ottimali)». Ancora più semplice, chiosa Della Luna, sarebbe se il M5S e il Pd si alleassero per governare: «Allora basterebbe fare due repubbliche e il confine potrebbe correre sul crinale appenninico, se non lungo il Po».Un sud pentastellato, un nord centroleghista e un’Etruria ancora (quasi) colorata di rosso, o almeno di rosa. Vista la palese ingovernabilità della penisola, butta lì Marco Della Luna, tanto varrebbe trasformare l’ennesimo voto inutile in un’occasione per spaccare il Belpaese in tre Italie, ciascuna con la sua economia. «Il dato fondamentale, confermato da questa tornata elettorale – premette Della Luna – è che l’Italia è un paese tanto diviso al suo interno, che può essere governato solo dal suo esterno, come un protettorato». E probabilmente, aggiunge, «gli architetti della City che progettarono e guidarono la costituzione del Regno d’Italia (e che poi assemblarono altri Stati-Arlecchino come Iraq, Siria, Cipro, Libano, Sudan, Jugoslavia) avevano proprio questo intendimento: creare un paese le cui divisioni interne consentissero di manipolarlo dall’esterno, e insieme incapace di una politica di interesse nazionale». Secondo Della Luna, avvocato e saggista, «l’Italia unificata è un artefatto dell’imperialismo britannico». E ora, dopo le elezioni, «non si può nemmeno dire che si sia realizzata una maggioranza in forma di convergenza antisistema tra M5S e Lega», perché il Sud allo stremo ha invocato l’aiuto statale dei 5 Stelle, mentre il Nord produttivo ha chiesto a Salvini meno tasse “per Roma”.
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Calise: morti i partiti, solo promesse-bufala e leader zombie
«Il modello è ancora quello della democrazia del leader, ma i leader non ci sono più». Parola di Mauro Calise, politologo e docente universitario a Napoli, nonché editorialista del “Mattino”. «Di Maio non può sostituire Grillo e si regge soltanto sul suo controllo del server, Renzi è in caduta verticale di leadership, Berlusconi è una penosa riedizione di se stesso». Quanto a Salvini, il segretario leghista «sgomita per conquistare nuovo spazio, ma ha ormai esaurito quello disponibile». Di fatto, «di nessuno di loro ci si aspetta che possa diventare sul serio capo del governo». Gli stessi programmi contano poco, «ma questo deriva dal fatto che sono assenti le leadership che hanno fatto da catalizzatore nel passato: penso a Grillo nel 2013, a Renzi prima di andare al governo». Ieri, il leader riusciva a «sfondare nella melassa comunicativa e nell’overflow di informazioni», dice Calise, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”. I partiti oggi sono in tilt: «La capacità di comunicare è sempre più legata a una capacità di leadership forte, ma se questa viene meno, il meccanismo si inceppa e tutto appare piatto». Svaniscono anche i messaggi forti: i programmi, percepiti come poco credibili, non interessano a nessuno.Per Calise, resta solo uno scontro di messaggi finti-forti ma non convincenti: «Le false promesse e le bufale non sono credute, non perché sono tali, ma perché non sono credibili i leader». L’idea di governabilità è stata sconfitta, aggiunge il politologo, e al suo posto non se n’è trovata un’altra. Che cosa vedremo? «Un governo di risulta, appoggiato in buona parte da parlamentari in libera uscita». Intanto si moltiplicano gli appelli al “voto utile”, lanciati da partiti allarmati dall’astensionismo. «Siamo in una fase storica in cui si sono definitivamente destrutturati i grandi partiti», un guaio con risvolti antropologici: agli italiani con basso livello di istruzione e socializzazione «sanno probabilmente tutto di Higuain o di “Amici”, ma poco o nulla di come si vota o della Flat Tax». L’interesse e la passione politica, continua Calise, «non nascono dalla testa dei politici di professione, ma dalle viscere della società». I partiti? «Sono stati i canali che hanno portato le masse nella politica e nello Stato». Attenzione: «La democratizzazione del potere, che non nasce democratico ma verticale e di parte, è avvenuta grazie ai partiti. Ma i tempi sono cambiati e la forza delle fratture sociali che hanno alimentato le battaglie dei partiti si è esaurita. La politica si è liquefatta, e la rappresentanza anche».Che democrazia avremo? Diversa e più fragile. Ma non saremo i soli: «Basta guardarsi intorno per capire che si trema un po’ dappertutto. La Francia si è inventata Macron, che è andato al potere con il 23% dei consensi; oggi forse sono ancora meno, ma nessuno per quattro anni gli toglierà l’Eliseo. La Germania ha la “sfiducia costruttiva”. Noi abbiamo un assetto istituzionale e di governo molto più debole che nelle altre democrazie avanzate». Cosa ci manca? «Un governo che abbia una qualche autonomia costituzionale degna di questo nome», afferma Calise. Un deserto di urla. «Cosa mi preoccupa di più? L’invasivo ricorso all’etica: il grido all’onestà, la caccia allo scontrino, l’epurazione di chi non è conforme», sostiene il politologo. «Quando l’etica diventa un’arma di governo, fa più paura di tutto il resto. Perché l’imperativo etico dell’onestà riscuote tanto consenso? Perché è rimasta la cosa più semplice da dire».«Il modello è ancora quello della democrazia del leader, ma i leader non ci sono più». Parola di Mauro Calise, politologo e docente universitario a Napoli, nonché editorialista del “Mattino”. «Di Maio non può sostituire Grillo e si regge soltanto sul suo controllo del server, Renzi è in caduta verticale di leadership, Berlusconi è una penosa riedizione di se stesso». Quanto a Salvini, il segretario leghista «sgomita per conquistare nuovo spazio, ma ha ormai esaurito quello disponibile». Di fatto, «di nessuno di loro ci si aspetta che possa diventare sul serio capo del governo». Gli stessi programmi contano poco, «ma questo deriva dal fatto che sono assenti le leadership che hanno fatto da catalizzatore nel passato: penso a Grillo nel 2013, a Renzi prima di andare al governo». Ieri, il leader riusciva a «sfondare nella melassa comunicativa e nell’overflow di informazioni», dice Calise, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”. I partiti oggi sono in tilt: «La capacità di comunicare è sempre più legata a una capacità di leadership forte, ma se questa viene meno, il meccanismo si inceppa e tutto appare piatto». Svaniscono anche i messaggi forti: i programmi, percepiti come poco credibili, non interessano a nessuno.
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Ci svendono alla Francia, perché ci salvi da Berlino: illusi
La classe dirigente italiana ha preso progressivamente coscienza che il maggior pericolo per la nostra permanenza nel nocciolo europeo è la Germania. «Consapevole però di aver indissolubilmente legate le sue fortune al progetto d’integrazione europea e terrorizzata dal “salto nel vuoto” che comporterebbe un’uscita dall’Europa (si tratterebbe di riesumare una programmazione industriale ed una politica mediterranea, senza che nessuno ne abbia più le capacità), il nostro establishment ha quindi maturato dal 2011 una strategia disperata: “vendere l’Italia” alla Francia, in cambio dell’impegno francese a perorare la nostra causa di fronte alla Germania». Lo sostiene Federico Dezzani, secondo il quale «gli europeisti sognano un futuro da satellite francese». Lo scenario: la liquidità immessa dalla Bce ha “sedato” i mercati finanziari, senza però risolvere nessun problema di fondo. E così, per rimanere agganciata al progetto d’integrazione europea, l’Italia «sta cedendo quote crescenti del nostro sistema economico-finanziario alla Francia, nella speranza che Parigi ci apra le porte della “serie A”». Se l’Ue è ormai prossima al capolinea, emerge il Piano-B: l’Europa “a due velocità”, «che contempla una maggiore integrazione fiscale e politica tra Francia e Germania, con rispettivi satelliti».Un’unione a due, argomenta Dezzani sul suo blog, significherebbe che Berlino si faccia carico di Parigi, trasferendo un ammontare di risorse tale da consentirle di “vivere al di sopra dei propri mezzi”: ipotesi piuttosto remota, visto l’assetto politico tedesco. In compenso, «la Francia dispone ancora di un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu e di un arsenale atomico: per Berlino, “l’acquisto della Francia” sarebbe un buon affare e le consentirebbe di evitare la sindrome di isolamento/accerchiamento di cui ha sofferto dal 1870 in avanti». Al di là di una maggiore integrazione con Parigi, però, Berlino però non andrà: e sicuramente «non è nell’interesse della Germania creare le condizioni perché anche l’Italia possa partecipare “al nocciolo duro”». Tutte le iniziative tedesche di questi ultimi mesi, osserva l’analista, «vanno infatti nella direzione di un’espulsione forzata dell’Europa mediterranea dall’area euro: dall’ipotesi di “default controllati” avanzata da Wolfgang Schaeuble alla stretta sui crediti deteriorati, passando per nuovi criteri per la valutazione dei Btp iscritti nei bilanci delle banche, è chiaro che la Germania sta facendo di tutto per spingere l’Italia e l’euro-periferia fuori dall’euro».Da qui la tentazione, tutta italiana, di aggrapparsi alla Francia. Si considerino gli investimenti, scrive Dezzani: se le acquisizioni tedesche in Italia sono piuttosto limitate dal 2011 in avanti (il marchio Ducati, l’Italcementi della famiglia Pesenti), quelle francesi esplodono letteralmente e, concentrandosi in settori strategici come l’energia, la finanza e le telecomunicazioni, godono dell’esplicita approvazione dei governi Monti-Letta-Renzi. Nel 2011, ricorda l’analista, Parmalat è acquistata da Lactalis, mentre Bulgari è passata a Lvmh. L’anno seguente, Edison ha lasciato l’orbita Acea per entrare nel mondo Gdf Suez. Ancora: nel 2016, Pioneer è stata comprata da Amundi e Telecom è stata scalata da Vivendi. Nel 2017 Luxottica è stata inglobata da Essilor. Saltuariamente, aggiunge Dezzani, circolano voci di un acquisto di Unicredit da parte di Société Générale, mentre le Assicurazioni Generali sarebbero nel mirino di Axa. «Quel che è certo è la finanza italiana è ormai dominata dal trio francese Jean Pierre Mustier (ad di Unicredit), Philippe Donnet (ad di Generali) e Vincent Bolloré (azionista di Mediobanca e padrone di Telecom), a loro volta espressione della finanza Rothschild che occupa attualmente l’Eliseo con Emmanuel Macron».Negli ultimi sette anni, rileva Dezzani, «l’Italia è diventata un sotto-sistema dell’economia francese, con l’avvallo dei governi “europeisti” nostrani: il governo Gentiloni ha persino inviato i nostri militari a presidiare i fortini della Legione Straniera in Niger». Qualsiasi acquisto italiano in Francia è stato bloccato, dal passato interesse di Enel per Suez alle più recenti mire di Fincantieri su Stx Saint-Nazaire. «In quest’integrazione a senso unico si può facilmente scorgere il grande disegno geopolitico della Francia: ridurre l’Italia, acquisendo il controllo di tutti i gangli dell’economia, alla condizione di Stato-vassallo, così da raggiungere una massa tale da confrontarsi con la Germania che, al contrario, sta coagulando attorno a sé i paesi dell’Europa nordica e centrale (Olanda, Austria, Slovenia, Paesi Baltici)». L’Italia, che ha la “stazza” economica e una popolazione sufficiente per restare un attore autonomo, «guadagna invece da questo scivolamento nell’orbita francese soltanto la promessa di rimanere agganciata al processo di integrazione europea: come satellite di Parigi». Secondo Dezzani, «la fallimentare classe dirigente sta, in sostanza, vendendo il paese alla Francia per salvare se stessa, sperando che l’assoggettamento a Parigi eviti la nostra espulsione “dall’Europa”».Anche lo schema dei trattati bilaterali, osserva l’analista, è un indice della gerarchia che si sta creando in Europa: la proposta di un nuovo Trattato dell’Eliseo, presentata il 22 gennaio 20182, dovrebbe rafforzare l’integrazione tra la Germania (contraente forte) e la Francia (contraente debole). «Nessun accordo simile è previsto tra Germania e Italia». Il nostro paese dovrebbe invece siglare entro il 2018 il cosiddetto “Trattato del Quirinale”, presentato dal premier Gentiloni lo scorso 10 gennaio, in occasione della visita a Roma di Emmenuel Macron: «Si tratterebbe del corrispettivo del Trattato dell’Eliseo, dove però la Francia è il contraente forte e l’Italia quello debole». Di fatto, «accantonata qualsiasi pretesa di parità tra i diversi Stati», “l’Europa a due velocità” sarebbe quindi «una struttura gerarchica, dove l’Italia è un sotto-sistema della Francia, a sua volta dipendente dalla Germania». Secondo Dezzani, i prossimi mesi saranno decisivi per le sorti dell’Ue: collasso accelerato o precario asse Merkel-Macron? «In qualsiasi caso, non è interesse dell’Italia rimanere in “serie A” come satellite della Francia». Se una classe dirigente «fallita ed esautorata» sogna di stipulare il “Trattato del Quirinale” e assoggettarci alla Francia, «una nuova classe dirigente dovrebbe studiare come ricollocare l’Italia al centro del Mediterraneo e rimettere in sesto l’economia con un’accurata programmazione industriale».La classe dirigente italiana ha preso progressivamente coscienza che il maggior pericolo per la nostra permanenza nel nocciolo europeo è la Germania. «Consapevole però di aver indissolubilmente legate le sue fortune al progetto d’integrazione europea e terrorizzata dal “salto nel vuoto” che comporterebbe un’uscita dall’Europa (si tratterebbe di riesumare una programmazione industriale ed una politica mediterranea, senza che nessuno ne abbia più le capacità), il nostro establishment ha quindi maturato dal 2011 una strategia disperata: “vendere l’Italia” alla Francia, in cambio dell’impegno francese a perorare la nostra causa di fronte alla Germania». Lo sostiene Federico Dezzani, secondo il quale «gli europeisti sognano un futuro da satellite francese». Lo scenario: la liquidità immessa dalla Bce ha “sedato” i mercati finanziari, senza però risolvere nessun problema di fondo. E così, per rimanere agganciata al progetto d’integrazione europea, l’Italia «sta cedendo quote crescenti del nostro sistema economico-finanziario alla Francia, nella speranza che Parigi ci apra le porte della “serie A”». Se l’Ue è ormai prossima al capolinea, emerge il Piano-B: l’Europa “a due velocità”, «che contempla una maggiore integrazione fiscale e politica tra Francia e Germania, con rispettivi satelliti».
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Usa: stop all’auto tedesca, Berlino falsifica i conti dell’export
Embargo contro le auto tedesche? Non proprio, ma quasi: attaccato a Davos da Angela Merkel, che lo accusa di protezionismo, Donald Trump potrebbe imporre un super-dazio per frenare «l’acciaio europeo». Lo afferma Joseph Carey su “Voci dall’Estero”, ricordando i giudizi della Casa Bianca sulla Germania, «molto scorretta riguardo al commercio», specie in relazione ai «milioni di automobili» vendute negli Usa grazie a imposte doganali ultra-leggere. Gary Hufbauer, esperto di commercio dell’istituto Peterson a Washington, sostiene che l’attacco dei repubblicani potrebbe sfruttare i poteri della “sezione 232”, una forma Usa di auto-tutela contro le importazioni, e lanciare una serie di sanzioni per imporre «una qualche forma di quota-automobili». Il problema? La Germania gioca sporco: mentre impone il massimo rigore ai vicini, bara sui propri conti pubblici. Ultima pietra dello scandalo: il surplus commerciale. L’export tedesco supera l’8% del Pil, andando ben oltre il 6% imposto da Maastricht. L’imbroglio? «La Germania sta falsificando i conti, in modo che non si veda che il surplus sta aumentando», afferma il professor Heiner Flassbeck, ex segretario di Stato tedesco alle finanze. Ecco perché Trump starebbe preparando clamorose contromosse commeciali anti-europee, dopo la lezioncina globalista impartitagli dalla Merkel.Attenzione: l’eccesso di export (non registrato onestamente a bilancio) è solo uno dei tanti trucchi con cui la Germania pretende di qualificarsi “virtuosa” di fronte ai competitori europei, con la quale è in guerra: avversari come l’Italia, che sta letteralmemte schiacciando grazie al tasso di cambio marco-euro che svaluta la divisa tedesca favorendo le esportazioni. Primo trucco, la banca pubblica Kwf (Kreditanstalt für Wiederaufbau), simile all’italiana Cassa Depositi e Prestiti. «Ogni anno raccoglie circa 500 miliardi e li reinveste concedendo prestiti a tassi irrisori alle piccole e medie imprese», ricorda “Linkiesta”. Piccola differenza: «I 300 miliardi di debito contratto dalla nostra Cdp, coperto da garanzia statale, entra nel conteggio del debito pubblico italiano. I 500 miliardi di euro della Kfw invece no». Il motivo? Un cavillo: la Germania esclude dal debito di Stato le società pubbliche che si finanziano con pubbliche garanzie ma che coprono la metà dei propri costi con ricavi di mercato e non con versamenti pubblici, tasse e contributi. «Regola alquanto discutibile: la proprietà di Kfw è pubblica, la sua vigilanza non è deputata alla Bundesbank (la banca centrale tedesca), ma al ministero delle finanze. I suoi tassi sono diretta conseguenza di quelli dei Bund e se avesse problemi sarebbe lo Stato a intervenire».Facendo i conti della serva: 500 miliardi di euro sono pari a circa un quarto dei 2080 miliardi complessivi del debito pubblico tedesco. «Se li sommassimo otterremmo un debito pubblico tedesco che dal 78,4% arriverebbe a lambire il 97% del Pil», scrive “L’inkiesta”, enumerando le altre false “virtù” della Germania. Per esempio: il pareggio di bilancio (imposto all’Italia in tempi strettissimi) Berlino lo realizzerà con modo, a rate, tenendo conto dell’autonomia finanziaria dei suoi 16 Lander, che avranno tempo fino al 2020. In più: gli enti locali sono sovra-indebitati, ma il loro bilancio (in rosso) non viene conteggiato nel debito pubblico nazionale. Terzo trucco: lo Stato nelle banche. A parte la Cdp, scrive “Linkiesta”, «in Italia tutte le banche sono in mano a investitori privati, mentre in Germania il 45% del sistema bancario è in mano al settore pubblico». Ancora: se il mercato non compra i bond tedeschi, li acquista direttamente la banca centrale, la Bundesbank (il che è giusto: peccato che Berlino vieti alle banche centrali dei paesi europei di fare altrettanto). Nell’Unione Europea, dove alcuni sono “più uguali” degli altri, i tedeschi sono, orwellianamente, “i più uguali” di tutti: impiccano la Grecia e azzoppano l’Italia imponendo l’austerity, ma poi chiudono un occhio (anzi, due) sui propri conti-vergogna, da nascondere sotto il tappeto.Tutti contenti, in Germania? Nemmeno per idea: «I lavoratori tedeschi si preparano allo sciopero per l’aumento dei salari», scrive “Bloomberg”. Gli operai e i giganti industriali, dalla Siemens a Daimler, stanno affrontando un crescente conflitto con una serie di giornate di sciopero in tutta la Germania, che secondo gli imprenditori starebbero danneggiando seriamente l’attività produttiva, affermano Carolynn Look e Christoph Rauwald, in un articolo tradotto da “Voci dall’Estero”. «I lavoratori sono davvero molto arrabbiati a causa delle tattiche negoziali degli imprenditori», afferma Joerg Koehlinger, leader regionale del sindacato Ig Metall: «Tutti possono vedere quanto sia buona la situazione economica, per cui vogliamo degli aumenti salariali significativi e degli orari di lavoro adeguati alla vita delle persone». La Germania è il paese dei “mini-job” da 450 euro mensili, introdotti da Gerhard Schroeder su ispirazione di Peter Haartz, l’ex ad della Volkswagen condannato per aver corrotto sindacalisti, inducendoli a introdurre contratti-capestro. Le paghe bassissime sono una delle chiavi del super-export su cui si fonda l’aggressiva economia industriale tedesca. Oggi, il tasso di disoccupazione è sceso a un record minimo: 5,4%. «Con livelli di produzione manufatturiera vicini ai massimi da due decenni a questa parte, e con gli ordini che vanno a gonfie vele, qualsiasi rallentamento della produzione potrebbe avere serie ripercussioni», avvertono Look e Rauwald su “Bloomberg”.Una situazione su cui, domani, potrebbe incombere l’ira di Trump, insolentito dalla Merkel davanti alla platea internazionale per il suo presunto protezionismo. Tutto vero? Macché. E’ solo l’ennesima “fake news” su cui si fonda l’egemonia tedesca. «La Germania non è affatto equa riguardo alle auto, perché la Ue adotta una tariffa doganale del 10%, mentre gli Usa hanno una tariffa del 2,5%», spiega il professor Flassbeck. «Il notevole “surplus commerciale bilaterale” preoccupa molto gli Usa, che potrebbero finire col punire l’intera Ue per i flussi commerciali sbilanciati di Berlino». Secondo l’ultimo rapporto del Tesoro Usa, «il surplus commerciale bilaterale della Germania con gli Usa è molto ingente e fonte di preoccupazione». La Germania, «in quanto quarta potenza economica globale», dovrebbe invece avvertire «la responsabilità di contribuire a una crescita della domanda più bilanciata e a flussi commerciali più bilanciati». Dai rapporti risulta che tra l’80 e il 90% del commercio di Berlino sfrutta la domanda estera. E Peter Navarro, consulente commerciale alla Casa Bianca, ricorda che la Merkel mantiene il “marco tedesco” «fortemente svalutato», sfruttando le regole dell’Ue e dell’Eurozona. «E’ una situazione molto iniqua: non riusciamo a esportare i nostri prodotti, mentre loro esportano da noi i propri, con tasse molto basse», dichiara Trump. «Se la Casa Bianca dovesse imporre sanzioni contro le auto e l’acciaio tedesco», avverte Carey su “Voci dall’Estero”, «l’intera Ue verrebbe trascinata nel conflitto».Embargo contro le auto tedesche? Non proprio, ma quasi: attaccato a Davos da Angela Merkel, che lo accusa di protezionismo, Donald Trump potrebbe imporre un super-dazio per frenare «l’acciaio europeo». Lo afferma Joseph Carey su “Voci dall’Estero”, ricordando i giudizi della Casa Bianca sulla Germania, «molto scorretta riguardo al commercio», specie in relazione ai «milioni di automobili» vendute negli Usa grazie a imposte doganali ultra-leggere. Gary Hufbauer, esperto di commercio dell’istituto Peterson a Washington, sostiene che l’attacco dei repubblicani potrebbe sfruttare i poteri della “sezione 232”, una forma Usa di auto-tutela contro le importazioni, e lanciare una serie di sanzioni per imporre «una qualche forma di quota-automobili». Il problema? La Germania gioca sporco: mentre impone il massimo rigore ai vicini, bara sui propri conti pubblici. Ultima pietra dello scandalo: il surplus commerciale. L’export tedesco supera l’8% del Pil, andando ben oltre il 6% imposto da Maastricht. L’imbroglio? «La Germania sta falsificando i conti, in modo che non si veda che il surplus sta aumentando», afferma il professor Heiner Flassbeck, ex segretario di Stato tedesco alle finanze. Ecco perché Trump starebbe preparando clamorose contromosse commeciali anti-europee, dopo la lezioncina globalista impartitagli dalla Merkel.
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Ratto: questa scuola fabbrica soltanto servi, ragazzi infelici
I ragazzi sono spinti ad accettare tutto da una scuola che educa alla servitù, al non lamentarsi, alla sottomissione. A scuola si esercita una forma di terrorismo già dai primi anni delle secondarie superiori. Si ripete cioè: occhio, guarda che siamo in crisi – cosa che è sempre molto utile da ribadire – e quindi sarà difficilissimo trovare lavoro. Dunque prendi qualsiasi cosa ti capiti, non alzare la testa, non farti valere, sottomettiti alle logiche neoliberiste e a tutto quello che ne consegue. Quindi nessuno si lamenta più. Il fatto stesso che nel mio liceo qualcuno abbia osato lamentarsi del freddo, visto che si viveva in gran parte delle aule e dei corridoi a 14 gradi per sei ore di seguito, ha suscitato un grandissimo scalpore. Quasi tutti gli insegnanti si sono nascosti dietro a un dito. Da un lato speravano che i ragazzi si lamentassero perché loro stessi avevano freddo. Dall’altro, però li punivano se lo facevano, “perché io devo interrogare, perché io devo spiegare”. Insomma, il sistema che si sta creando è un sistema che insegna molto bene a sottomettersi. Faccio un esempio per tutti: è un classico trovare il ragazzo che ti dice: «Il tema è andato bene perché ho detto quello che voleva la professoressa». Questo è il modo grazie al quale, con una gravissima responsabilità da parte nostra, noi produciamo servi.E questa scuola – che ha preso spunto dal sistema d’istruzione statunitense – è una scuola fortemente globalizzata, finalizzata esattamente a questo genere di obiettivo. L’aspetto negativo è questa trasformazione progressiva che l’istruzione pubblica ha subìto in una logica aziendale, dal 2000 in avanti. La scuola è sempre più un sistema, in cui i ragazzi sono stati progressivamente trasformati in “clienti”. Tramite questa scuola dell’autonomia, i singoli istituti locali si sono trovati in competizione per attirare più “clienti” possibili. Quindi questo ha significato anche promuoverli più facilmente. Si è creata una situazione in cui si è parlato sempre più di “saperi minimi”. Si è diffusa una disistruzione di ragazzi sempre meno a conoscenza dei fatti, sempre meno istruiti. E in questa situazione, dopo una prima fase di coccole, siamo entrati nella seconda fase, quella attuale, in cui gli alunni sono oramai inebetiti, annichiliti, con una bassa cultura, così come probabilmente un certo sistema vuole, così come il modello americano impone. Quindi una cultura molto bassa, un grado di consapevolezza pressoché pari a zero. Passioni politiche, interessi, convinzioni religiose pari a zero, nel senso che basta aderire alla tradizione: ragazzi che in classe te li trovi come delle specie di mummie, non interessati a nulla se non all’ultima generazione di smartphone.In qualche modo gli elettori ideali, i cittadini consumatori ideali, individui che sono come delle nere lavagne vuote, su cui puoi scrivere quello che vuoi. E’ come sottomettere l’insegnamento dei valori elevati della vita alle esigenze di un pensiero neoliberista, perché in realtà ormai chi va a scuola è inserito nell’ottica del profitto, del primeggiare sugli altri, ognuno per sé. La stessa introduzione del concetto di credito scolastico, avvenuta con la riforma Berlinguer, ha portato a una svalutazione della centralità del voto, con la sua connotazione morale: se prendevi quattro ti vergognavi, ti sentivi un verme perché avevi preso quattro. Adesso il voto è solo un tramite per arrivare a un punteggio e il punteggio è il più possibile appiattente: annulla molto le differenze tra i più bravi e i meno bravi. E soprattutto è l’anticamera dei soldi: i ragazzi a scuola sono tirati su in forte competizione gli uni con gli altri, finalizzando tutto a prendere più credito possibile, più punteggio possibile, per una questione utilitaristica. C’è questa idea del sapere che deve servire a qualcosa. Sempre più spesso, mentre spiego, mi capita di sentirmi interrompere da qualcuno: “Questa cosa la dobbiamo sapere? Questa cosa serve?”. Non è che ci siano la passione o l’interesse: c’è soltanto l’interrogativo rispetto a quanto ciò che diciamo possa poi essere spendibile in termini di credito, in termini di pezzi di carta, in termini di soldi, in termini occupazionali.Una delle strategie che io trovo più orrende è proprio quella dell’orientamento scolastico. Cioè i ragazzi vengono convogliati solo in alcuni rami, in alcuni percorsi di studio universitario e poi occupazionale: quelli che interessano a chi gestisce l’aspetto tecnologico, quelli più valorizzati nel sistema economico, scoraggiando invece inclinazioni artistiche, inclinazioni letterarie e umanistiche. Perché? Perché ormai da un po’ di tempo sappiamo tutti che la potenza di uno Stato è basata sulla sua capacità tecnologica, su quella economico-capitalistica e non certo sulla bellezza delle sue opere d’arte o sulla musica, come in Italia invece dovrebbe essere. Si indottrinano persone che interiorizzano che l’unica cosa che conta sono i soldi, attraverso l’insegnamento della scuola, della televisione e della pubblicità. Bisogna apparire, bisogna essere di successo. Tra i vari termini orrendi di cui si alimentano tutte le ultime riforme scolastiche, c’è quella del “successo formativo”, che in qualche modo gonfia di significato il vuoto di una conoscenza spesso piuttosto mediocre. È chiaro che è tutta una rincorsa a costruire una società, un sistema di persone che ha in cima alla sua scala di valori questo apparire, questo possedere, questo avere più soldi possibile, ma infelice.La cosa che noto di più è questa diffusissima infelicità che si dirama dai ragazzi di quest’età, fino poi agli individui di età superiore. Una società in cui ogni individuo non è messo nelle condizioni di essere ciò che è, ovvero di realizzare sé stesso, costituirà una società di infelici. Ce l’ha insegnato Platone ne “La Repubblica” e di fatto le cose stanno effettivamente andando in questa direzione. Quale valore ha il dubbio e come lo si coltiva, in un mondo che emargina gli anticonformisti? Il dubbio ha un valore totale. Io dico sempre ai miei ragazzi: se c’è un’unica cosa che deve restarvi nell’animo, alla fine dei cinque anni di liceo, quella cosa è il dubbio. La cultura è soltanto quello. Non è il sapere, ma è il dubbio di non sapere. E d’altra parte, socraticamente, la questione è sempre la stessa: è il sapere di non sapere che fa la differenza tra chi è (forse) sapiente, e chi no. Sapiente nel senso che sa che non sa, e che quindi deve continuare a cercare. Quando non è scetticismo fine a se stesso, il dubbio scatena voglia di capire, voglia di interessarsi, di cercare. E dunque scatena un impegno personale, individuale, mette in gioco aspirazioni che portano poi a un percorso individuale di crescita continua. Finché c’è dubbio c’è la crescita, quando si arriva alla certezza si smette di crescere.È una scuola che invece svende il sapere a un livello estremamente banale, marginale. Una scuola che sforna esperti. Seminare, senza curarsi del raccolto? Uno dei più grandi filosofi dell’ottocento, Kierkegaard, ha insistito moltissimo su questo aspetto. E dopo lui altri, compreso in Italia Augusto Del Noce. I problemi insiti in una cultura per obiettivi è stato analizzato benissimo dai grandi filosofi come un pericolo enorme, perché se un obiettivo venga raggiunto o meno è qualcosa che si valuta dal di fuori, nel momento in cui viene esternato. Questa cultura per obiettivi di fatto vanifica e banalizza il lavoro, che spesso non è valutabile così facilmente da un punto di vista esteriore. Mi ricordo quando ho cominciato a insegnare, all’inizio degli anni 90: ci si lamentava molto della riforma di Gentile. Di fatto la scuola reggeva ancora su quelle che erano le linee direttive della scuola gentiliana della metà degli anni Venti. E si diceva: è una scuola fascista o comunque nata in quell’ambito. Ma c’erano dei concetti, come quello della vocazione all’insegnamento, come una missione con un ruolo che non può essere in nessun modo insegnato, perché l’insegnante quel ruolo ce l’ha dentro. Insegnante è colui che sa insegnare perché dentro di sé è insegnante. C’era una fiducia nei nostri insegnanti, che poi di fatto è la fiducia che forse avevamo gli uni nei confronti degli altri.Una società invece basata su questo clima del sospetto – questo mettere tutti contro tutti, questo smantellamento di ogni valore – ha portato a tutta una serie di privazioni e di abbassamenti del valore degli insegnanti, così come di moltissimi altri profili. L’insegnante adesso è un impiegato. Non ci sono più i presidi, ci sono i “dirigenti”, in una logica assolutamente aziendale. L’insegnante non può essere l’impiegato, quello che compila i moduli, quello che progetta per rendere la scuola sempre più apprezzabile dall’esterno. Deve essere un insegnante nel senso di “lasciare un segno”. Invece gli insegnanti oggi non lasciano nulla: lasciano il vuoto, quel vuoto che ci portiamo dietro tutti e che abita nella nostra società. Io credo che questa scuola non sia certo ormai il luogo ideale per l’apprendimento. Quella che può insegnare è una scuola invece fatta di insegnanti veri, persone che sanno lasciare un segno, che coinvolgono, che danno un’impronta importante ai ragazzi. Sì, la Rete è importante: io insegno filosofia e storia, non termino mai una lezione di storia che non finisca con questa esortazione: «Andate a informarvi». E informarsi vuol dire andare a cercare.C’è il problema della verità: come faccio a sapere chi ha la verità? Questo è un problema, ma forse la verità non è tanto la conseguenza di una certa testimonianza: forse la verità è il dialogo tra le varie testimonianze. Cioè forse la verità è il confronto: forse la verità sta nel problematizzare non nel risolvere. E si ritorna a quello che secondo me è l’aspetto fondamentale: la cultura sta nella domanda, non nella risposta. Io esorto gli studenti a pretendere una scuola che li coinvolga, che li interessi, che li appassioni. Avete diritto ad una scuola che vi faccia saltare sulle sedie, che vi prenda. Una scuola nella quale il tempo passi alla stessa velocità con cui passa quando siete col fidanzato, quando siete a giocare a calcio, quando state suonando la chitarra con il vostro gruppo. Deve essere una scuola interessante nel senso proprio di interessarvi, di farvi entrare all’interno del meccanismo, di farvi partecipare. Voi vi meritate una scuola così, una scuola che in qualche modo vi chiami in causa, che vi faccia sentire vivi e che riesca a produrre in voi la felicità, cioè accordare per ognuno di voi la propria strada e la propria capacità di realizzare se stessi.(Pietro Ratto, dichiarazioni rilasciate a Claudio Messora nella video-intervista “Noi insegnanti produciamo servi”, pubblicata su “ByoBlu” il 15 dicembre 2017. Scrittore, filosofo e saggista, il professor Ratto ha appena pubblicato il romanzo “La scuola nel bosco di Gelsi”).I ragazzi sono spinti ad accettare tutto da una scuola che educa alla servitù, al non lamentarsi, alla sottomissione. A scuola si esercita una forma di terrorismo già dai primi anni delle secondarie superiori. Si ripete cioè: occhio, guarda che siamo in crisi – cosa che è sempre molto utile da ribadire – e quindi sarà difficilissimo trovare lavoro. Dunque prendi qualsiasi cosa ti capiti, non alzare la testa, non farti valere, sottomettiti alle logiche neoliberiste e a tutto quello che ne consegue. Quindi nessuno si lamenta più. Il fatto stesso che nel mio liceo qualcuno abbia osato lamentarsi del freddo, visto che si viveva in gran parte delle aule e dei corridoi a 14 gradi per sei ore di seguito, ha suscitato un grandissimo scalpore. Quasi tutti gli insegnanti si sono nascosti dietro a un dito. Da un lato speravano che i ragazzi si lamentassero perché loro stessi avevano freddo. Dall’altro, però li punivano se lo facevano, “perché io devo interrogare, perché io devo spiegare”. Insomma, il sistema che si sta creando è un sistema che insegna molto bene a sottomettersi. Faccio un esempio per tutti: è un classico trovare il ragazzo che ti dice: «Il tema è andato bene perché ho detto quello che voleva la professoressa». Questo è il modo grazie al quale, con una gravissima responsabilità da parte nostra, noi produciamo servi.
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Carpeoro: il potere dell’eggregora, energia esponenziale
Se qualcuno ci racconta che abbiamo le ali, forse è il caso di credergli. A patto che non dica di essere lui, a farcele spuntare. Mai sentito parlare di eggregore? Eccome, quasi sempre a sproposito. Sono energie sovrumane, ma non soprannaturali: «Si innescano durante le manifestazioni cerimoniali, quando molte persone pensano la stessa cosa, nel medesimo istante – non solo in un rito religioso, va bene anche un concerto di Vasco Rossi». Parola di Gianfranco Carpeoro, simbologo, autore del saggio “Summa Symbolica”, a colloquio con Fabio Frabetti di “Border Nights” in diretta streaming su YouTube alla vigilia di Natale. A proposito: «Non sparate sul Natale, solo perché è diventato un festival del consumismo. Quello del Natale è un simbolismo affascinante: la nascita è la memoria ancestrale di come iniziamo a vivere». Francesco Saba Sardi, grande intellettuale triestino, fu scomunicato dopo aver scritto il libro “Il Natale ha 5.000 anni”? «Volendo, sono anche di più: Gesù è un simbolo universale, non un individuo figlio di Dio. E’ un archetipo, per il quale la divinità è in ognuno di noi». Le ali, appunto: sono roba nostra, fin dall’inizio, anche se poi qualcuno va dal “mago” a chiedere consigli, «come faceva Gianni Agnelli con Gustavo Rol».«Spero che nessuno mi denunci», premette Carpeoro, nel raccontare un risvolto finora inedito della vita dell’Avvocato: «Filmava i suoi incontri d’affari e poi mostrava a Rol le pellicole, chiedendogli di pronunciarsi sulla credibilità dell’interlocutore». Potere e chiaroveggenza, magia e divinazione? Su questo, Carpeoro ha più volte espresso il suo parere, che è nettissimo: la magia è illusionismo, puro strumento del potere. L’effetto magico? Non è mai il “mago” a innescarlo, ma il “cliente”, che però non ne è consapevole. Le religioni? Vittime, anch’esse, di una «deriva magica del pensiero». Inclusa la celebrazione del Natale, che può avere un effetto di grandissima suggestione: «La nascita di un bambino è per noi un momento di grande commozione, la stessa morte non commuove quanto una nascita». Ma attenzione: «Lasciamo perdere i dati folkloristici legati ai dogmi del Cristianesimo. Se esiste un Dio, per mostrarsi a noi ha dovuto necessariamente intervenire al momento della nostra nascita. E’ un evento immanente, irripetuto, incredibile, importante». L’effetto che ha su di noi? «E’ inconsapevole, ma solo per colpa nostra: siamo noi che vogliamo che sia inconsapevole. Anche il Natale fa parte di quelle aree di consapevolezza che, col tempo, ci siamo precluse».Per questo, è possibile che molte persone diano una interpretazione “magica” dell’effetto – teoricamente anche molto potente – delle cosiddette eggregore, le forme-pensiero suscitate da comunità di persone. Nessuna magia, assicura Carpeoro: quell’effetto esiste, ma dipende da precise leggi energetiche. Spiegazione: «Ognuno di noi è espressione anche di energie, che porta dentro. Per uno strano meccanismo – potrei dire coincidenza, Jung direbbe sincronicità, altri direbbero qualcos’altro – quando diventano assolutamente complementari l’una all’altra e viaggiano tutte in un’unica direzione, si sommano in un’unica energia: che nella maggior parte dei casi è addirittura superiore, come forza, all’addizione delle singole unità». Nel campo delle eggregore, aggiunge Carpeoro, «uno più uno non fa due – può fare tre, cinque, dieci». Il che non è “magico”, è “soltanto” sovrumano: sta al di sopra dell’ordinarietà. «Se tu una cosa la interpreti in senso magico avrai un tipo di conseguenza, se invece la interpreti in senso simbolico e laico, ne trai altre conseguenze». Generalmente, precisa Carpeoro, «di fronte a cose che abbiano un senso magico, la gente non deve sforzarsi di capire». Ovvero: «Quando una cosa ha un effetto magico – che poi si nasconda sotto una religione, una fascinazione – la gente non si preoccupa di capire, tant’è vero che uno dei principi della magia è la ripetizione astratta delle formule».Tutt’altro pianeta, invece, la dimensione – libera, seria, autonoma – del pensiero simbolico: «Quando tu alle cose dai un’interpretazione in senso simbolico, ti poni nella logica del capire il perché. Puoi anche non metterne in discussione l’effetto, ma sai che questo effetto risponde a delle leggi, a dei meccanismi che teoricamente noi siamo in grado di capire. Meccanismi che hanno una logica e, per la loro caratura, una caratteristica quasi scientifica». Secondo Carpeoro, nel caso delle eggregore «possono verificarsi effetti notevoli quando tutte le menti delle persone sono dirette verso un unico obiettivo». Uno dei casi più eclatanti di eggregora? «E’ quello delle manifestazioni cerimoniali. Chiamali concerti, eventi religiosi, Via Crucis del Papa, preghiere collettive. Chiamatele come volete: sono manifestazioni cerimoniali. E nelle manifestazioni cerimoniali – anche quelle della massoneria, tipo la Catena d’Unione – nel momento in cui tutte le menti riescono a essere rivolte verso un unico obiettivo, allora si crea quella forza, che non è più dovuta alla forza della somma delle singole menti, ma è una forza superiore. La sua durata? Dipende dall’obiettivo e dalle circostanze. E’ positivo partecipare a questo tipo di raduni? Non sempre».Generalmente, aggiunge Carpeoro, l’obiettivo non dev’essere mai individuale, né riguardare uno dei partecipanti: «Sarebbe un ostacolo, perché colui che è oggetto pensa diversamente dagli altri. I partecipanti devono essere in una posizione di tale complementarità che mi sembra impossibile che uno abbia un pensiero diverso e si individualizzi». Gli ultras allo stadio fanno un tipo di cerimoniale? «Può succedere, sì. Anche la diffusione di certe notizie può avere l’effetto di far concentrare le stesse persone, simultaneamente, su un unico obiettivo». La televisione invece «non può creare eggregore, ma solo sovrastrutture, mentre l’eggregora è un’energia. E la televisione può creare dicerie, dogmi, luoghi comuni e pregiudizi, ma non può creare energie». Ammette Carpeoro: «Un paio di volte queste eggregore hanno consentito la mia purificazione, rispetto a stati di agitazione o di torpidità momentanea che mi avevano coinvolto. Uno degli effetti positivi di un’eggregora può essere il fatto che ne esci completamente purificato da determinate cose». Ma anche qui, attenzione: «Non è l’eggregora a toglierti la negatività. L’hai eliminata tu stesso. Bisogna smetterla di spostare tutto fuori: è tutto dentro. Ogni cosa si verifica sempre al nostro interno. La stessa negatività fa parte di noi, è una nostra componente».Prima ancora di essere individui, cosa siamo? «Siamo parte di qualcosa di più grande. Oppure “non siamo”; ma, anche “non essendo”, siamo parte di qualcosa di più grande. Quindi, l’eggregora cosa fa? Restituisce un’integrazione». Nell’eliminare la tua individualità, continua Carpeoro, puoi avere conseguenze positive o negative. «Quando tu, reintegrandoti in una comunità particolare, in un organismo più grande, elimini l’individualità con conseguenze positive, vuol dire che poi, quando ne esci, tutta una serie di problemi legati all’ego li hai in qualche modo eliminati, rimossi». Domanda: è da respingere con forza la credenza in base alla quale altre persone ci possano inculcare delle negatività? «Dipende sempre da te», risponde Carpeoro: «Se io sono un soggetto pensante, non ci riesce». Chi pensa, in sostanza, non è manipolabile. «E’ che noi, in certi casi, non pensiamo. Pensare significa: avere l’aspirazione di capire tutto quello che ti succede. In realtà, il 90% delle cose che ci succedono e che ci troviamo a fare, il 90% delle nostre scelte, le facciamo non pensando. E questo è frutto del pensiero magico, che è un non-pensiero».Sicché noi possiamo “creare” la realtà, se circoscriviamo l’ego? «Noi siamo realtà», sottolinea Carpeoro: «Possiamo essere consapevoli della realtà che siamo». Poi, appunto, ci sono anche le eggregore. Una rockstar come Vasco? Ne ha create di enormi, secondo il suo pubblico anche molto positive: «Sicuramente, tramite le parole e alcune sue canzoni, ha mosso delle energie in un’unica direzione». Può farlo anche una messa cattolica? «Se il celebrante è bravo, sì». In altre parole: ci sono straordinarie concentrazioni di energia, che possono raggiungerci. Esistono dimensioni invisibili, ma non per questo non naturali o non fisiche. E ci sono leggi che tuttora ci sfuggono: «Una cosa che mi capita quasi quotidianamente – racconta Carpeoro – è che, se penso intensamente a qualcuno, un amico che non sento da tempo, nel giro di pochi secondi mi telefona. Mi succede quasi ogni giorno, con una frequenza che a volte mi disorienta». Ipotesi: «Secondo me sono messaggi che noi mandiamo e che automaticamente il destinatario è in grado di recepire, e quindi poi chiama. Il fatto che questo non avvenga nella consapevolezza non significa che non sia possibile», conclude Carpeoro. «La cosa in sé non mi meraviglia: me ne meraviglia la frequenza».Se qualcuno ci racconta che abbiamo le ali, forse è il caso di credergli. A patto che non dica di essere lui, a farcele spuntare. Mai sentito parlare di eggregore? Eccome, quasi sempre a sproposito. Sono energie sovrumane, ma non soprannaturali: «Si innescano durante le manifestazioni cerimoniali, quando molte persone pensano la stessa cosa, nel medesimo istante – non solo in un rito religioso, va bene anche un concerto di Vasco Rossi». Parola di Gianfranco Carpeoro, simbologo, autore del saggio “Summa Symbolica”, a colloquio con Fabio Frabetti di “Border Nights” in diretta streaming su YouTube alla vigilia di Natale. A proposito: «Non sparate sul Natale, solo perché è diventato un festival del consumismo. Quello del Natale è un simbolismo affascinante: la nascita è la memoria ancestrale di come iniziamo a vivere». Francesco Saba Sardi, grande intellettuale triestino, fu scomunicato dopo aver scritto il libro “Il Natale ha 5.000 anni”? «Volendo, sono anche di più: Gesù è un simbolo universale, non un individuo figlio di Dio. E’ un archetipo, per il quale la divinità è in ognuno di noi». Le ali, appunto: sono roba nostra, fin dall’inizio, anche se poi qualcuno va dal “mago” a chiedere consigli, «come faceva Gianni Agnelli con Gustavo Rol».
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Macché neofascismo: comanda il denaro, l’Italia non esiste
Al di là del ridicolo di un ministero della difesa che scambia la bandiera della marina militare guglielmina per quella del Terzo Reich e colpisce con ignorante ingiustizia il carabiniere che l’aveva esposta nella sua stanza, chi oggi paventa un pericolo neofascista o populista è uno sciocco, perché la realtà è che il potere politico ed economico sta saldamente nelle mani (armate) di una oligarchia globale tecnocratico-finanziaria che si impone unilateralmente a due terzi del mondo, e ciò rende impossibile non soltanto il ritorno del fascismo o del comunismo per spinta dal basso, ma qualsiasi cambiamento politico strutturale che venga dal basso e dagli umori popolari anziché dall’alto. E’ finita l’epoca dei movimenti popolari che cambiano qualcosa di importante (se mai vi è stata). Al più, un’ideologia rossa o nera o verde potrebbe essere usata come verniciatura per nuove operazioni di ingegneria sociale calate dall’alto, oppure per agitare le masse additando un capro espiatorio, oppure per giustificare giri di vite sulla libertà di pensiero, stampa, insegnamento, privacy, diretti a corroborare il dominio del pensiero unico e dei suoi falsi clichés.Appare ormai chiaramente che le costituzioni reali oggi sono foggiate e trasformate dalle tecnologie finanziarie, informatiche, elettroniche e biologiche (sempre più rapidamente evolutive) della dominazione top-down sulla società. Non sono fatte dalle ideologie o dalle morali diffuse né da processi democratici. L’Italia unitaria è stata progettata e realizzata durante il cosiddetto Risorgimento da forze e interessi esterni ad essa (finanza anglo-francese), progettata e costruita come una specie di protettorato al loro servizio e non per essere uno Stato indipendente. Tale essa è rimasta e rimarrà. Nel corso della sua storia, l’Italia unitaria ha cercato più volte di sollevarsi a una condizione di indipendenza e parità con le altre potenze e di tutelare i propri interessi rispetto ad esse. Tentò dapprima partecipando alla Grande Guerra, ma poi gli Usa imposero che rinunciasse a quanto le spettava in base ai trattati con l’Intesa. La seconda volta tentò con Mussolini, conquistando una sorta di impero e alleandosi con Hitler; finì come sappiamo: da quella sconfitta in poi, abbiamo più di cento basi militari Usa sul territorio nazionale.Si provarono a darle almeno una qualche autonomia politica e capacità di difendere i propri interessi dapprima Craxi (ricordate Sigonella e la sua politica medio-orientale?) e poi Berlusconi (ricordate i suoi accordi con la Libia e la sua resistenza alle imposizioni tedesche in materia di bilancio?): entrambi sono stati tolti di mezzo con mezzi giudiziari. Dimenticavo: prima ancora aveva tentato qualcosa di simile Enrico Mattei (ricordate la sua politica petrolifera in concorrenza con i petrolieri angloamericani?), e fu tolto di mezzo con l’esplosivo. I migliori interpreti del ruolo dell’italia (con la “i” minuscola) nell’ordinamento mondiale sono stati, per contro, gli statisti europeisti come Ciampi e da ultimo soprattutto Giorgio Napolitano con l’operazione Monti, che oggi viene messa alla luce persino da gente quale Romano Prodi, come colpo di palazzo richiesto dall’estero.(Marco Della Luna, “Simboli fascisti e destini italiani”, dal blog di Della Luna del 7 dicembre 2017).Al di là del ridicolo di un ministero della difesa che scambia la bandiera della marina militare guglielmina per quella del Terzo Reich e colpisce con ignorante ingiustizia il carabiniere che l’aveva esposta nella sua stanza, chi oggi paventa un pericolo neofascista o populista è uno sciocco, perché la realtà è che il potere politico ed economico sta saldamente nelle mani (armate) di una oligarchia globale tecnocratico-finanziaria che si impone unilateralmente a due terzi del mondo, e ciò rende impossibile non soltanto il ritorno del fascismo o del comunismo per spinta dal basso, ma qualsiasi cambiamento politico strutturale che venga dal basso e dagli umori popolari anziché dall’alto. E’ finita l’epoca dei movimenti popolari che cambiano qualcosa di importante (se mai vi è stata). Al più, un’ideologia rossa o nera o verde potrebbe essere usata come verniciatura per nuove operazioni di ingegneria sociale calate dall’alto, oppure per agitare le masse additando un capro espiatorio, oppure per giustificare giri di vite sulla libertà di pensiero, stampa, insegnamento, privacy, diretti a corroborare il dominio del pensiero unico e dei suoi falsi clichés.
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Dezzani: Draghi punta sui 5 Stelle, scommette contro di noi
Mario Draghi e l’élite economica italiana puntano ormai sui 5 Stelle e scommettono contro l’Italia, per ultimare la svendita dell’industria: il nostro futuro si fa sempre più minaccioso man mano che il 2018 si avvicina. All’incertezza elettorale si somma un quadro europeo ostile: la Germania non ha alcuna intenzione di concederci sconti. Forse Berlino è disposta a sobbarcarsi la Francia per ragioni geopolitiche, mentre dell’Italia le interessa solo il Veneto. Si avvicina «un commissariamento esplicito o subdolo, sulla falsariga del governo Monti», scrive Federico Dezzani. E se in Germania dovesse prevalere una linea ancora più rigorista, «non si potrebbe neanche escludere l’imposizione di un “default ordinato”». Di fronte a questo scenario, sostiene l’analista, l’Italia sarà costretta a scegliere: capitolazione o uscita dall’euro. Un soccorso, per sottrarsi all’attacco della Germania, «può venire soltanto dalle potenze emergenti». I prossimi 12-18 mesi saranno cruciali per il futuro del nostro paese e della stessa Europa, insiste Dezzani: il “nuovo sacco di Roma” è stato già preparato da Germania e Francia. L’Italia deve quindi «stringere una serie di alleanze internazionali per evitare un tristissimo epilogo». Anche perché gli “Stati Uniti d’Europa”, ammesso che qualcuno li abbia mai davvero presi in considerazione, «sono stati ormai scartati da anni».Il vertice a Deauville dell’ottobre 2010, cui parteciparono Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, secondo Dezzani può essere considerato lo spartiacque che separa il progetto dell’Europa allargata da quello dell’Europa franco-tedesca, moderna riproposizione dell’Impero Carolingio. È un disegno che non soddisfa pienamente gli Usa (Dezzani lo deduce dagli attacchi al sistema-Germania, come Volkswagen e Deutsche Bank), ma ha il probabile assenso della Gran Bretagna (da cui il tentativo di fondere Lse-Deutsche Boerse e l’uscita dall’Unione Europea per facilitare i piani federativi di Angela Merkel e Macron). All’interno della coppia franco-tedesca, la posizione dominante spetta ovviamente alla Germania, la cui prestazioni economiche e finanziarie surclassano quelle della Francia. Probabilmente Berlino, se ragionasse in termini meramente egoistici – continua Dezzani – procederebbe con l’integrazione politica della sola area euro-marco (Austria, Olanda, Slovenia, Lussemburgo, Slovacchia, Estonia, Finlandia). «Ma ragioni di natura geopolitica la inducono a sobbarcarsi anche la storica rivale: la Francia dispone ancora di un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, è dotata di testate atomiche e, se abbandonata a se stessa, rischia di scivolare verso pericolose posizioni revanchiste-nazionaliste».In ogni caso, qualsiasi proposta di ulteriore integrazione europea, come l’introduzione di eurobond, è ormai circoscritta all’asse franco-tedesco. «E gli ultimi sviluppi politici in Germania, dove la destra nazionalista è in forte crescita, chiudono la porta a qualsiasi integrazione a 27 (complicando persino la convergenza tra Emmanuel Macron e Angela Merkel)», continua Dezzani. Il “resto” dell’Europa, invece, nell’ottica franco-tedesca ha un valore modesto: «Non dispiacerebbe, se possibile, annettere al neo-impero carolingio la Catalogna, regione sviluppata e contigua alla Francia. Farebbe gola anche quella “Padania” che Gianfranco Miglio sognava di federare alla Germania: il Triveneto, in particolare, è il naturale sbocco della Germania sul Mar Adriatico». E non è un caso se Luca Zaia, esponente della vecchia Lega Nord, «abbia presentato il recente referendum sull’autonomia come “una risposta al plebiscito del 18662”, che separò Venezia ed il suo retroterra all’orbita germanica». La penisola italiana nel suo complesso, però – aggiunge l’analista – non è nei desideri di Berlino. E l’improvvisa ricomparsa dei secessionismi “insulari”, in primis quello sardo, testimonia che altre cancellerie europee (Londra in testa) sono interessate allo “spezzatino” dell’Italia.«Se la Germania non ha intenzione di spendere un centesimo perché Roma rimanga agganciata all’Eurozona – ragiona Dezzani – è solo questione di tempo prima che la situazione dell’Italia, sottoposta a letali dosi di austerità (perché “smetta di vivere al di sopra dei propri mezzi”), si faccia insostenibile». In prossimità del 2018, a distanza di sette anni dall’imposizione delle ricette della Troika, l’Italia è allo stremo: «Il rapporto debito pubblico/Pil ha raggiunto livelli record», mentre «la caduta verticale dell’attività economica ha gonfiato i bilanci delle banche di crediti inesigibili». Gli indicatori occupazionali e demografici, poi, sono drammatici: «Il Sud Italia e alcune aree del Nord stanno sperimentando un vero processo di desertificazione». Se la Germania avesse interesse a tenere la penisola nell’euro, continua Dezzani, dovrebbe immediatamente invertire marcia. «Invece, tutti i segnali che provengono dal Nord vanno nella direzione di un ulteriore inasprimento dell’austerità: il testamento politico di Wolfgang Schäuble, lasciato al prossimo ministro delle finanze (un liberale ultra-rigorista?), contempla apertamente il “default ordinato” per i membri dell’Eurozona». E pesa anche il recente “ammonimento” del vicepresidente della Commissione Europea, il finlandese Jyrki Katainen, sulla «necessità di varare una manovra-bis subito dopo le elezioni». Una conferma: «Berlino non intende fare alcuno sconto all’Italia in materia di riduzione/contenimento del debito».Nel 2018, quindi, per Dezzani l’Italia avrà di fronte due strade: «La capitolazione di fronte all’asse franco-tedesco o l’uscita dall’Eurozona». La prima soluzione equivarrebbe ad inasprire ulteriormente le politiche sul lato dell’offerta (tagli alla sanità e pensioni, licenziamenti). Vorrebbe dire «taglieggiare il risparmio privato (prelievo sui conti o patrimoniale), saccheggiare quel che rimane del patrimonio pubblico (riserve di Bankitalia, immobili e partecipate) e lasciare che le ultime medie-grandi imprese italiane passino in mano straniera». Secondo Dezzani, a premere per questa soluzione è il “partito Draghi” (o “partito Bilderberg”) «che annovera, oltre al governatore della Bce, Ignazio Visco, Giorgio Napolitano, Eugenio Scalfari, Ferruccio De Bortoli, Carlo De Benedetti, Paolo Mieli, Mario Monti, Romano Prodi, gli Agnelli-Elkann». Sempre secondo Dezzani, in viste delle politiche 2016 il “partito Draghi” «punta sulla vittoria elettorale del Movimento 5 Stelle, cui andrebbe sommata in Parlamento la sinistra “prodiana”: il reddito di cittadinanza o provvedimenti analoghi sarebbero ottimi paraventi per completare con discrezione la definitiva spoliazione dell’Italia».La seconda opzione, invece, prevede l’abbandono dell’Eurozona di fronte ai diktat franco-tedeschi sempre più gravosi e umilianti. «L’uscita dalla moneta unica sarebbe emergenziale, dettata dal semplice istinto di sopravvivenza del nostro paese: non esiste al momento “un partito dell’uscita dall’euro” analogo a quello che preme per il commissariamento», osserva Dezzani: «Formazioni come la Lega Nord si sono appropriate della causa anti-euro per meri fini elettorali, senza possedere né prevedere alcun programma concreto per l’Italexit». Se non altro, «la vittoria della destra alle politiche del 2018 favorirebbe senza dubbio questa strada», secondo l’analista, che fa notare che «l’unico “boiardo di Stato” ad aver apertamente contemplato un “piano B” è stato l’economista Paolo Savona, ex-ministro del governo Ciampi». Eppure, nonostante il “partito dell’uscita dall’euro” sia ancora in gestazione, «c’è da scommettere che cresca in fretta nel corso del 2018 e, entro la fine dell’anno, prenda il sopravvento».Il progetto federativo europeo «è ormai morto», ribadisce Dezzani. E quindi, «arrendersi al commissariamento franco-tedesco significherebbe soltanto abbandonare l’Eurozona con 2-3 anni di ritardo, spogliati di ogni ricchezza residua (proprio come i governi Monti-Letta-Renzi hanno favorito il saccheggio del paese, anziché risanare le finanze)». Gli squilibri sul mercato interbancario europeo (ben visibili dai saldi dal sistema Target 2), secondo l’analista «lasciano pensare che nel mondo della finanza continentale ci si stia preparando per una Italexit nel corso dei prossimi dodici mesi». Osserva Dezzani: «Mai le banche tedesche hanno accumulato così tanto denaro presso la Bundesbank e mai, specularmente, le banche italiane si sono indebitate in maniera così alta presso Bankitalia». Un’imminente uscita dall’euro, quindi, per non essere schiacciati: contando su quali alleanze internazionali? «Evaporate in fretta le speranze riposte in Donald Trump, totalmente paralizzato dagli intrighi di Washington, solo le potenze emergenti hanno interesse a sostenere la svolta italiana: un terremoto finanziario, quindi, e geopolitico».Mario Draghi e l’élite economica italiana puntano ormai sui 5 Stelle e scommettono contro l’Italia, per ultimare la svendita dell’industria: il nostro futuro si fa sempre più minaccioso man mano che il 2018 si avvicina. All’incertezza elettorale si somma un quadro europeo ostile: la Germania non ha alcuna intenzione di concederci sconti. Forse Berlino è disposta a sobbarcarsi la Francia per ragioni geopolitiche, mentre dell’Italia le interessa solo il Veneto. Si avvicina «un commissariamento esplicito o subdolo, sulla falsariga del governo Monti», scrive Federico Dezzani. E se in Germania dovesse prevalere una linea ancora più rigorista, «non si potrebbe neanche escludere l’imposizione di un “default ordinato”». Di fronte a questo scenario, sostiene l’analista, l’Italia sarà costretta a scegliere: capitolazione o uscita dall’euro. Un soccorso, per sottrarsi all’attacco della Germania, «può venire soltanto dalle potenze emergenti». I prossimi 12-18 mesi saranno cruciali per il futuro del nostro paese e della stessa Europa, insiste Dezzani: il “nuovo sacco di Roma” è stato già preparato da Germania e Francia. L’Italia deve quindi «stringere una serie di alleanze internazionali per evitare un tristissimo epilogo». Anche perché gli “Stati Uniti d’Europa”, ammesso che qualcuno li abbia mai davvero presi in considerazione, «sono stati ormai scartati da anni».
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Delitto Matteotti: vero mandante il Re, socio dei petrolieri
Non fu Mussolini il vero mandante del delitto Matteotti, ma il Re: Vittorio Emanuele III decretò la morte del parlamentare socialista Giacomo Matteotti, assassinato a Roma il 10 giugno 1924 dalla squadraccia fascista capeggiata da Amerigo Dumini. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, nel suo nuovissimo saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, che ricostruisce – sulla base di archivi inediti – il vero ruolo dei due massimi sponsor occulti del fascismo, la massoneria e il Vaticano. Due poteri che “coltivarono” un regime che forse mostrò il suo vero volto, per la prima volta, proprio con l’omicidio Matteotti. Il leader socialista, si disse per decenni, fu punito per il suo straordinario coraggio: il 30 maggio 1924 denunciò alla Camera i brogli e le intimidazioni che avevano permesso ai fascisti di vincere le elezioni, il 6 aprile. Solo in questi ultimi anni è progressivamente emerso l’altro movente, più segreto: la maxi-tangente pagata al governo italiano dalla società petrolifera Sinclair Oil, per lo sfruttamento del greggio in Emilia e in Sicilia. Lo stesso Matteotti, dopo un viaggio a Londra, aveva scoperto la verità e stava per renderla pubblica. Lo scandalo avrebbe travolto il neonato regime, dato che risultava implicato anche Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Ma quello era solo il “primo livello” della tangente: perché il maggiore beneficiario dell’affare non sarebbe stato Mussolini, bensì il Re.Era lui, Vittorio Emanuele III, il vero dominus del business petrolifero, e quindi anche del delitto Matteotti. A gettare nuova luce sul “peccato originale” del fascismo sono le carte dell’obbedienza massonica di Piazza del Gesù, il Rito Scozzese italiano, di cui lo stesso Carpeoro è stato “sovrano gran maestro”. «Attenzione: lo stesso Matteotti era un 33° grado del Rito Scozzese», premette l’autore, presentando alcune anticipazioni del libro nel corso della diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”. Massone Matteotti, e massoni i “fratelli” inglesi che lo informarono dell’affare Sinclair Oil, spiegandogli – carte alla mano – che a intascare il grosso della colossale tangente petrolifera (addirittura una ingente quota azionaria della compagnia) non sarebbe stato il Duce, ma direttamente il numero uno di casa Savoia. A indagare sul ruolo occulto della massoneria all’origine del fascismo è anche il recente saggio “Mussolini e gli Illuminati”, del giovane Enrico Montermini, suffragato da un politologo del calibro di Giorgio Galli.Montermini ricostruisce il ruolo delle società segrete nell’affermazione del fascismo “antemarcia”, a partire dalla manifestazione di piazza San Sepolcro, fino al macabro epilogo di piazzale Loreto, dove il cadavere del Duce viene simbolicamente “capovolto”, appeso a testa in giù, dopo esser stato fotografato con in mano uno scettro (come l’Imperatore dei tarocchi) e poi un ramo di acacia, inequivocabile “firma” massonica. Carpeoro conferma: prima di concorrerre ad abbattere il Duce, «la massoneria ha certamente appoggiato il primo fascismo, anche perché era Mussolini stesso a presentarsi come “vero socialista”». Poi, come sappiamo, il dittatore – mai iniziato alla libera muratoria – arrivò a mettere al bando le logge, in ossequio agli accordi di potere con il Vaticano che avrebbero portato ai Patti Lateranensi. C’era stato un piccolo precedente antimassonico del Duce, quando ancora era un dirigente socialista: impegnò il partito a escludere i massoni dai propri ranghi. «Ma era solo una ritorsione: Mussolini aveva ripetutamente chiesto di essere accolto, nella massoneria, ma non era stato accettato».Un’anomalia episodica, quell’improvvisa allergia socialista per i grembiulini: «E’ stata proprio la massoneria a partorire il socialismo», sostiene Carpeoro: «Anche all’epoca del fascismo, erano massoni i maggiori esponenti del partito socialista, a cominciare dal leader storico, Filippo Turati». Autore di accurati studi sui Rosacroce, leggendaria confraternita iniziatica, Carpeoro spiega che furono proprio i manifesti rosacrociani – come la “Fama Fraternitatis” del 1614 – a delineare l’orizzonte sociale egualitario (la fine dei privilegi di casta) che peraltro si riverbera in opere altrettanto “rosacrociane” del periodo, come “Utopia” di Thomas More, “La nuova Atlantide” di Francis Bacon e “La città del sole” di Tommaso Campanella. La stessa “Fama Fraternitatis” accenna, per la prima volta, a un mondo senza più la proprietà privata né i confini tra le nazioni: sono gli albori del futuro internazionalismo socialista, che riflette le sue luci persino nel primissimo fascismo delle origini, quello di piazza San Sepolcro, tenuto a battesimo dal Grande Oriente d’Italia (Domizio Torrigiani) e poi anche da Piazza del Gesù, il cui gran maestro era Raoul Palermi – ma il vero capo del Rito Scozzese, ipotizza lo stesso Montermini, probabilmente era il sovrano in persona, Vittorio Emanuele III.Di origine scozzese è la stessa famiglia Sinclair: gli antenati dei petrolieri coinvolti nell’affare costato la vita a Matteotti, racconta Carpeoro, in qualità di eminenti rappresentanti del network rosacrociano britannico, alla fine del ‘700 avrebbero fatto segretamente tradurre nel Regno Unito le spoglie del “confratello” Mozart, ufficialmente sepolto in una fosse comune in Austria. Ma, a parte i Sinclair – passati dalla musica al petrolio – il saggio di Carpeoro ricostruisce i passaggi cruciali (e occulti) all’origine del fascismo, mettendo a fuoco il ruolo della massoneria, e non solo. Se Montermini accende i riflettori sulle società segrete che allevarono il regime fascista, Carpeoro segnala il ruolo dell’altro grande potere, antagonista della massoneria eppure suo “socio in affari” durante il ventennio: il Vaticano. Entrambi i centri potere, quello massonico e quello cattolico, puntarono su Mussolini e cercarono di pilotarlo. E il Duce, «peraltro già a libro paga dei servizi segreti inglesi, nonché collaboratore dell’intelligence statunitense e di quella francese», tentò a sua volta di destreggiarsi, ritagliandosi una sua autonomia: «Si passò così dal masso-fascismo iniziale al catto-fascismo seguente», quello dei Patti Lateranensi.Figura cruciale e onnipresente, in quegli anni di precario equilibrio, il massone Filippo Naldi, che Carpeoro definisce «il Licio Gelli dell’epoca», capace di passare con disinvoltura da un tavolo all’altro, uscendone sempre indenne e traendone il massimo vantaggio personale. Carpeoro ricorda una celebre intervista televisiva all’anziano Naldi, a cura del grande Sergio Zavoli: «Riuscì a ottenere quell’intervista perché era massone anche Zavoli», rivela Carpeoro, che ricostruisce un altro momento decisivo della parabola del Duce, la destituzione del 25 luglio ‘43: «Era un piano progettato dallo stesso Mussolini, che voleva farsi arrestare per poi uscire dall’alleanza con Hitler, instaurando a Salò una vera repubblica di orientamento socialista». Ma fu tradito, Mussolini, proprio dall’uomo-ombra della massoneria (e della monarchia), che svelò gli intenti del Duce alla segreteria pontificia. A sua volta, la diplomazia vaticana si rivolse prontamente ai nazisti: temenva che a Salò potesse davvero nascere una repubblica anticlericale.“Il fascio, il compasso e la mitra” getta luce sui retroscena più oscuri del ventennio mussoliniano, rivelando il peso dei due superpoteri – massoneria e Vaticano – nelle decisioni del governo Mussolini. Anche la monarchia giocò le sue carte, comprese quelle (coperte) su cui aveva messo le mani Giacomo Matteotti. «Io il mio discorso l’ho fatto, ora voi preparate il discorso funebre per me», disse il deputato ai colleghi socialisti, in aula, consapevole che gli sarebbe costata carissima la sua clamorosa denuncia sui brogli elettorali. «Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere», rispose Mussolini, mesi dopo, di fronte alle proteste per l’insabbiamento delle indagini sull’omicidio. Ma non si trattò solo di una denuncia politica sulla regolarità delle elezioni del ‘24: il primo a rivelarlo, alla fine degli anni ‘80, è stato un ricercatore fiorentino, Paolo Paoletti, dopo aver scovato negli archivi di Washington una lettera in cui Dumini, il capo del commando omicida, rivela che Matteotti fu ucciso soprattutto per impedirgli di mettere in piazza lo scandalo petrolifero, che coinvolgeva Arnaldo Mussolini.Poche settimane prima del delitto, proprio alla Sinclair Oil (John Davison Rockefeller), il governo italiano aveva concesso l’esclusiva per la ricerca e lo sfruttamento per 50 anni di tutti i giacimenti petroliferi presenti in Emilia e in Sicilia. La compagnia aveva ottenuto condizioni di esclusivo vantaggio, tra cui l’esenzione da imposte. Per questo Matteotti doveva essere ucciso: aveva saputo della super-tangente. Tesi confermata dallo storico Mauro Canali nel ‘97 e poi da un ex dirigente Eni, Benito Li Vigni, nel saggio “Le guerre del petrolio” uscito nel 2004. All’inizio degli anni Venti, in Italia, l’80% del fabbisogno di idrocarburi era garantito dalla Standard Oil, tramite la “Società Italo-Americana pel Petrolio”, mentre la restante quota era fornita dalla filiale italiana della Royal Dutch Shell. Secondo Canali, la Standard Oil avrebbe stipulato un accordo sottobanco con la Sinclair Oil, delegando ad essa un’operazione strategica: bloccare la temuta espansione del Regno Unito sul mercato italiano. Guardando al Medio Oriente, a Londra faceva gola la posizione geografica dell’Italia, nel cuore del Mediterraneo: perfetta, per il trasporto del greggio. Per questo gli inglesi avevano sviluppato progetti con l’Italia, anche l’impianto di una raffineria, al punto da preoccupare gli Usa – che a quel punto risposero mettendo in campo la Sinclair Oil, a suon di dollari pagati sottobanco.Lo stesso Canali documenta come a intascare una maxi-rata dell’affare Sinclair fu Filippo Filippelli, un personaggio molto influente, legato ad Arnaldo Mussolini e fondatore del “Corriere Italiano”, giornale a cui – fra l’altro – era stato intestato il noleggio dell’auto con cui venne prelevato Matteotti. Gli accordi con la Sinclair Oil furono stipulati il 29 aprile del ‘24: sempre in cambio di cospicue mazzette, la compagnia ottenne dall’Italia la garanzia che nessun ente petrolifero statale avrebbe intrapreso trivellazioni nel deserto libico. All’accordo, Londra reagì a modo suo: tramite politici laburisti, rivelò a Matteotti i veri termini dell’accordo. Lo stesso Canali conferma che il leader socialista acquisì le carte che provavano la corruzione del governo italiano. Dopo l’omicidio, il “Daily Herald” accusò apertamente Arnaldo Mussolini di essere tra i politici destinatari di una tangente di 30 milioni di lire pagata dalla Sinclair Oil per ottenere la concessione. Sulla rivista “English Life” venne pubblicato (postumo) un articolo dello stesso Matteotti, in cui il deputato affermava di avere la certezza che vi era stata corruzione tra la Sinclair Oil e alcuni esponenti del governo.Tutto giusto? Sì, ma è una verità incompleta, spiega Carpeoro: perché finora le ricostruzioni sul delitto Matteotti non hanno inquadrato il principale colpevole, il Re d’Italia. «Mettendo a disposizione i killer, Mussolini ha fatto un favore innanzitutto alla monarchia», afferma Carpeoro, nel colloquio in streaming su YouTube con Fabio Frabetti. «Matteotti aveva fiutato che sull’Italia, tramite il fascismo, stavano mettendo le mani determinati poteri, in particolare petroliferi – uno su tutti, quello della Siclair Oil». Il leader socialista, continua Carpeoro, «andò a Londra con regolari referenze massoniche e venne accolto con tutti gli onori da una loggia inglese». Loggia che gli mise a disposizione una documentazione decisiva, che gli permise di scoprire «che la Sinclair Oil aveva dato delle quote azionarie a Vittorio Emanuele III». Tornò in patria di corsa, per far scoppiare lo scandalo. «E guardacaso, venne assassinato proprio al ritorno da quel viaggio quasi clandestino». Il regista dell’assassinio? «E’ colui che affittò le auto a noleggio e si fece dare da Mussolini i manovali del delitto: il massone Filippo Naldi, rappresentante degli interessi della Sinclair Oil in Italia ma, soprattutto, fedelissimo del Re».Lui, l’uomo-ombra: «E’ vero che Naldi aiutò Mussolini a uscire dal Psi e gli finanziò il “Popolo d’Italia”, ma sempre e soltanto per conto di poteri forti che volevano che in Italia rimanesse la monarchia e ci fosse sempre un certo tipo di regime». Tant’è vero che i soldi per finanziare il “Popolo d’Italia”, oltre a quelli della Sinclair Oil, sono quelli di Eridania (colosso mondiale dello zucchero) e di Ansaldo, leader dell’acciaio. «Sono i soldi che creano il fascismo, ma lo creano per mantenere un preciso assetto politico rispetto a forze che rischiavano di metterlo in discussione, come i socialisti e i repubblicani». Baricentro del potere, la monarchia. Clamorosa, la rivelazione di Carpeoro: sua maestà in persona era addirittura diventato socio della Sinclair, mentre il governo Mussolini si apprestava a favorire la compagnia. E da dove ricava, Carpeoro, le sue esplosive informazioni? Ovvio: dagli stessi archivi (massonici) ai quali, nel 1924, ebbe accesso l’eroe socialista Giacomo Matteotti, massone del 33° grado del Rito Scozzese.Non fu Mussolini il vero mandante del delitto Matteotti, ma il Re: Vittorio Emanuele III decretò la morte del parlamentare socialista Giacomo Matteotti, assassinato a Roma il 10 giugno 1924 dalla squadraccia fascista capeggiata da Amerigo Dumini. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, nel suo nuovissimo saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, che ricostruisce – sulla base di archivi inediti – il vero ruolo dei due massimi sponsor occulti del fascismo, la massoneria e il Vaticano. Due poteri che “coltivarono” un regime che forse mostrò il suo vero volto, per la prima volta, proprio con l’omicidio Matteotti. Il leader socialista, si disse per decenni, fu punito per il suo straordinario coraggio: il 30 maggio 1924 denunciò alla Camera i brogli e le intimidazioni che avevano permesso ai fascisti di vincere le elezioni, il 6 aprile. Solo in questi ultimi anni è progressivamente emerso l’altro movente, più segreto: la maxi-tangente pagata al governo italiano dalla società petrolifera Sinclair Oil, per lo sfruttamento del greggio in Emilia e in Sicilia. Lo stesso Matteotti, dopo un viaggio a Londra, aveva scoperto la verità e stava per renderla pubblica. Lo scandalo avrebbe travolto il neonato regime, dato che risultava implicato anche Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Ma quello era solo il “primo livello” della tangente: perché il maggiore beneficiario dell’affare non sarebbe stato Mussolini, bensì il Re.
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Di Maio verso il Pd, attraverso Grasso e l’amico americano?
Sta’ a vedere che i 5 Stelle si preparano a fare da stampella post-elettorale al Pd, con la mediazione delle “frattaglie piddine” capitanate da Grasso, a sua volta eterodiretto, tramite D’Alema, dagli ambienti “democrat” Usa, clintoniani e obamiani. «Se non avremo la maggioranza assoluta ci assumeremo la responsabilità di non lasciare il paese nel caos», ha detto Luigi Di Maio a Conrad Tribble, funzionario del Dipartimento di Stato. «Di Maio all’interprete fa tradurre la parola ‘convergenze’», scrive la “Stampa”: «Non si sbilancia ma fa intendere che intese in Parlamento, magari su un programma di pochi punti, sono possibili». E questa è una notizia, rileva Roberto Buffagni sul blog “Italia e il Mondo”: «Senza averne mai fatto cenno né a militanti ed elettori del M5S, né in generale agli italiani, Di Maio annuncia a un diplomatico americano di medio rango che il M5S opera una conversione di 180° non solo della sua linea politica, ma della sua carta dei principi fondatori», uno su tutti: “mai alleanze con nessuno”. Se alle elezioni 2018 l’area Pd non dovesse raggiungere il 40%, quindi il premio di maggioranza, potrebbero essere i 5 Stelle a «metterci una toppa e sostenere il governo piddino o parapiddino, entrando nella maggioranza di governo nella forma più opportuna», cioè raccontando «la supercazzola che può meglio confondere le idee ai suoi elettori».Questa inversione di rotta provocherà reazioni serie nel Movimento 5 Stelle dei “duri e puri”? «Qualcosa mi dice che non le provocherà, visto il grado di autonomia dei dirigenti e il quoziente di intelligenza politica del militanti», scrive Buffagni. E questo potrebbe voler dire che «ci beccheremo un governo Pd + frattaglie piddine + M5S, una prospettiva apocalittica». Aggiunge Buffagni: «Dopo questa tragica pagliacciata, per credere che il M5S non sia eterodiretto dagli ambienti “democrat” Usa ci vuole una riserva di ingenuità e fiducia nella bontà del mondo della quale disponevo (forse) a dodici anni. A sessantuno, ho finito le scorte da un pezzo». E adesso, aggiunge Buffagni, «si capisce meglio da dove origina l’imprevista candidatura di Piero Grasso a leader delle frattaglie piddine: origina dai referenti americani di D’Alema, gli ambienti clintoniani e obamiani presso i quali D’Alema si accreditò bombardando illegalmente Belgrado». Ambienti oggi non esattamente in piena forma, ma che «ogni tanto pensano anche a noi, la loro cara portaerei mediterranea, e in vista delle prossime elezioni si preparano un ventaglio di possibilità favorevoli».Buffagni immagina un prevedibile stallo elettorale: da una parte il Pd che cala ma non perde troppi voti, e le “frattaglie piddine” che riescono a superare lo sbarramento e quindi a entrare in Parlamento, e dall’altra Forza Italia che supera la Lega: in questo caso, si prospetterebbe una grande coalizione Pd-Fi, con Renzi o Gentiloni premier. Ipotesi due: il Pd prende una mazzata epocale e le “frattaglie” fanno un discreto risultato, mentre Forza Italia supera la Lega: a quel punto, «governo Pd+M5S guidato dal Capofrattaglie Piero Grasso, il Magistrato Integerrimo che garantisce il Governo dell’Onestà per i trinariciuti 5 Stelle». In breve, chiosa Buffagni, «il M5S si fa protagonista di una riedizione aggiornata dello schema di subalternità della “sinistra critica” alla “sinistra ortodossa”: intercettare il dissenso, e al momento buono riversare i voti sulla sinistra di governo; solo che lo fa con il 25% dei voti, il che cambia tutto». Nota di speranza finale: «Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, e anche alla stupidità c’è un limite. Non è detto che questa indigesta ciambella Centrosinistra+Cinquestelle riesca col buco».Sta’ a vedere che i 5 Stelle si preparano a fare da stampella post-elettorale al Pd, con la mediazione delle “frattaglie piddine” capitanate da Grasso, a sua volta eterodiretto, tramite D’Alema, dagli ambienti “democrat” Usa, clintoniani e obamiani. «Se non avremo la maggioranza assoluta ci assumeremo la responsabilità di non lasciare il paese nel caos», ha detto Luigi Di Maio a Conrad Tribble, funzionario del Dipartimento di Stato. «Di Maio all’interprete fa tradurre la parola ‘convergenze’», scrive la “Stampa”: «Non si sbilancia ma fa intendere che intese in Parlamento, magari su un programma di pochi punti, sono possibili». E questa è una notizia, rileva Roberto Buffagni sul blog “Italia e il Mondo”: «Senza averne mai fatto cenno né a militanti ed elettori del M5S, né in generale agli italiani, Di Maio annuncia a un diplomatico americano di medio rango che il M5S opera una conversione di 180° non solo della sua linea politica, ma della sua carta dei principi fondatori», uno su tutti: “mai alleanze con nessuno”. Se alle elezioni 2018 l’area Pd non dovesse raggiungere il 40%, quindi il premio di maggioranza, potrebbero essere i 5 Stelle a «metterci una toppa e sostenere il governo piddino o parapiddino, entrando nella maggioranza di governo nella forma più opportuna», cioè raccontando «la supercazzola che può meglio confondere le idee ai suoi elettori».