Archivio del Tag ‘autonomia’
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Giannuli: Salvini mollerebbe i 5 Stelle, ma non per Silvio
Codice degli appalti, nomine, Tav, autonomia, recessione e assenza di investimenti sono i nodi sui quali si misura quotidianamente la distanza tra M5S e Lega. Tanto che il Quirinale, preoccupato per lo stallo del paese, starebbe lavorando attivamente alla rottura del patto di maggioranza, favorendo una ricomposizione del centrodestra (cui non mancherebbe un’interlocuzione col Pd). Una trappola che Salvini ha fiutato: lo dimostrano le garanzie di fedeltà fatte a Di Maio e il lavoro di “protezione” discreta del leader 5 Stelle che il ministro dell’interno ha raccomandato ai suoi. Salvini ha un problema di tempo: vuole liberarsi dei 5 Stelle, però non può farlo prima di avere normalizzato la destra, togliendosi dai piedi Berlusconi. Due le strade: o tenendo a bagnomaria Forza Italia e prendendosene un pezzetto ogni tanto, vedi le ultime elezioni, o aspettando che il Cavaliere tolga il disturbo. A quel punto si va al voto e Salvini si candida come capo di tutta la destra, con l’obiettivo di fare un governo suo. Questa situazione di stallo corre il rischio di durare troppo, e non è detto che il vento continui a soffiare nelle vele di Salvini. In realtà un poco sta calando, e Salvini se n’è accorto. In Sardegna non ha stravinto, e in Abruzzo è andato bene ma non benissimo. Può anche succedere che le tensioni nel governo esplodano tra una settimana. Ma è meno probabile.Quali sono i fattori più destabilizzanti? Ce ne sono diversi. La crisi economica, le pressioni dell’Unione Europea, la manovra d’autunno. Ancor prima le elezioni in Basilicata (il 24 marzo). Non è la Lombardia, è vero, però una terza sconfitta di seguito dei 5 Stelle anticiperebbe il risultato delle europee, condizionandole. Per quanto Salvini non abbia interesse a esasperare la situazione, i 5 Stelle potrebbero essere tentati di puntare i piedi su tutto. A cominciare dalla Tav e dall’autonomia differenziata, proprio per far vedere che non è Salvini a comandare. Sulla Tav, Tria ha ragione. Anche ammettendo che l’opera è sbagliata (e io sono tra quelli che l’hanno sempre pensato), non si possono firmare accordi internazionali, accettare i finanziamenti dell’Ue e poi tirarsi indietro perché è cambiato il governo. Più dei soldi vale la parola del paese. Venir meno ai patti vuol dire scoraggiare tutti gli investitori, anche coloro che potrebbero acquistare il nostro debito pubblico, con buona pace delle missioni di Giorgetti a Londra e negli Stati Uniti.Gli Usa vedono nell’Italia un grimaldello per scardinare l’Unione Europea, l’Ue è pronta a giocare in Italia con Mario Draghi la sua ultima carta. Come andrà a finire? E’ presto per dirlo. Occorre innanzitutto vedere quale sarà il risultato delle europee, che secondo me ci daranno un Europarlamento ingovernabile, per quello che conta il Parlamento Europeo. Io non sono affatto sicuro che socialdemocratici e popolari insieme avranno ancora la maggioranza, e ci metto anche i liberali. Si prospetta il caos? E’ molto probabile. Senza contare la stagione delle elezioni nazionali che si aprono dopo le europee. Se i partiti antieuropeisti hanno successo, l’Unione Europea rischia di perdere i paesi uno alla volta. Previsioni sul risultato italiano? Non sappiamo nemmeno quali saranno le liste. De Magistris si candida? Pizzarotti fa l’accordo con la Bonino? Si fa il listone di Calenda oppure no? Le variabili sono ancora troppe. Scissione 5 Stelle? Secondo me prima delle europee è difficile, a meno che non si mettano a fare espulsioni. Dopotutto, è possibile.(Aldo Giannuli, dichriarazioni rilasciate a Federico Ferraù per l’intervista “Salvini vuole mollare M5S ma Berlusconi non glielo permette”, pubblicata da “Il Sussidiario” il 1° marzo 2013).Codice degli appalti, nomine, Tav, autonomia, recessione e assenza di investimenti sono i nodi sui quali si misura quotidianamente la distanza tra M5S e Lega. Tanto che il Quirinale, preoccupato per lo stallo del paese, starebbe lavorando attivamente alla rottura del patto di maggioranza, favorendo una ricomposizione del centrodestra (cui non mancherebbe un’interlocuzione col Pd). Una trappola che Salvini ha fiutato: lo dimostrano le garanzie di fedeltà fatte a Di Maio e il lavoro di “protezione” discreta del leader 5 Stelle che il ministro dell’interno ha raccomandato ai suoi. Salvini ha un problema di tempo: vuole liberarsi dei 5 Stelle, però non può farlo prima di avere normalizzato la destra, togliendosi dai piedi Berlusconi. Due le strade: o tenendo a bagnomaria Forza Italia e prendendosene un pezzetto ogni tanto, vedi le ultime elezioni, o aspettando che il Cavaliere tolga il disturbo. A quel punto si va al voto e Salvini si candida come capo di tutta la destra, con l’obiettivo di fare un governo suo. Questa situazione di stallo corre il rischio di durare troppo, e non è detto che il vento continui a soffiare nelle vele di Salvini. In realtà un poco sta calando, e Salvini se n’è accorto. In Sardegna non ha stravinto, e in Abruzzo è andato bene ma non benissimo. Può anche succedere che le tensioni nel governo esplodano tra una settimana. Ma è meno probabile.
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Magaldi: diventi progressista, o “morirà” anche Zingaretti
Povero Nicola Zingaretti: è stato eletto segretario di un partito di zombie. Ce l’ha, un piano per l’Italia? Perché finora non è pervenuto nemmeno un indizio. L’unica cosa che sappiamo è che Zingaretti, almeno, è un leader: non carismatico, ma corretto. Buon presidente della Regione Lazio. Umanamente schietto e leale, diversissimo dal “finto buono” Walter Veltroni e dai suoi troppi epigoni, fino al velenoso Renzi. Meglio del surreale Martina, comunque, e dell’impalpabile Giachetti. Se non altro, Zingaretti è un politico capace anche di vincerle, le maratone. Così almeno lo vede Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, che all’amletico neo-segretario domanda: è sicuro di sapere cosa vuol fare, da grande? Delle due, l’una: o trasforma il Pd in un soggetto progressista, post-keynesiano, o finirà prestissimo come tutte le altre dimenticabili meteore della “ditta”. Se non trova il coraggio della sincerità, insiste Magaldi, Zingaretti sarà travolto, già a partire dalle europee di maggio. «Cari italiani – dovrebbe dire – sappiate che vi abbiamo preso in giro per 25 anni. Ci siamo detti “di sinistra”, ma abbiamo applicato soltanto l’agenda economica del neoliberismo mercantile e finanziario, arrivando allo “Stato minimo” auspicato dai grandi privatizzatori». Come si esce dall’incubo? Riscoprendo Keynes, assicura Magaldi: «Il capitalismo è indispensabile ma va coinugato con lo Stato, in Italia e in Europa. Sarebbe la rivoluzione progressista che cambierebbe tutto: che ne pensa, Zingaretti?».Ce lo faccia sapere alla svelta, dice il presidente del Movimento Roosevelt, perché il tempo stringe: se il nuovo leader del Pd non si sbriga a chiarire che l’Italia non può restare sottomessa agli oligarchi Ue, anche il presidente del Lazio – pur dignitoso, come dirigente – durerà lo spazio di un mattino. E’ fondamentale il coraggio di una rottura con gli ultimi 25 anni del centrosinistra, dice Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”: l’equivoco dei “nostri” al governo, da Prodi in poi, è finito meno di un anno fa con il boom dei 5 Stelle e l’exploit della Lega. Indietro non si torna: e se ora gli italiani sono scontenti anche dei gialloverdi perché a loro volta poco coraggiosi con Bruxelles, figurarsi che futuro avrebbe un remake del Pd in versione-stuoino. Di tutto, ci ha regalato quel partito: dal velleitarismo parolaio di Veltroni ai grotteschi mormorii di Bersani, prono al pareggio di bilancio in Costituzione imposto dal governo Monti. A seguire, nel museo degli orrori, i maggiordomi Letta e Gentiloni, intervallati dal fanfarone inconcludente Renzi, tutto chiacchiere e inchini alla Merkel. Ma peggio: nel Pd, aggiunge Magadi, ha imperversato un figuro come Padoan, anti-keynesiano da giovane (quand’era marxista) e poi anche da ministro, ormai convertito a suon di poltrone – come tanti altri – al neo-feudalesimo ordoliberista che ha materialmente fabbricato la rovina dell’Italia, col prezioso contributo del servizievole centrosinistra.Se la sente, Zingaretti, di affrontare l’operazione-verità? Magaldi la considera l’unica vera chance, per veder tornare in pista il Pd. E’ proprio così difficile, diventare progressisti? Forse a provarci è il sindaco di Milano, Beppe Sala: a patto che non si fermi alle manifestazioni pro-migranti. Magaldi lo invita al convegno del 3 maggio a Milano, in cui il Movimento Roosevelt affronterà un impegnativo confronto con tre giganti: Carlo Rosselli, profetico fautore del socialismo liberale; Olof Palme, visionario artefice del miglior welfare europeo; e Thomas Sankara, rivoluzionario proto-sovranista panafricano. Tre massoni progressisti: il primo assassinato dai fascisti, il secondo dai poteri oscuri della futura Ue e il terzo dall’imperialismo coloniale occidentale. Rosselli e Palme conciliavano socialismo e capitalismo, mentre il comunista Sankara voleva un’Africa libera e autonoma, sostenibile, senza migranti in fuga. Pietre miliari, da cui dovrebbe partire oggi qualsiasi movimento politico progressista. Ci pensi, Zingaretti. E soprattutto, insiste Magaldi, abbia il coraggio di gettare a mare gli ultimi due decenni del finto (e defunto) centrosinistra, che di progressista – nei fatti – non ha mai avuto nulla. Faccia tabula rasa, Zingaretti, e cominci a scrivere una storia nuova, sincera, di cui l’Italia ha disperatamente bisogno.Un primo banco di prova? L’obbrobriosa regionalizzazione della scuola. E’ stata proposta in Lombardia e Veneto, ma non da Salvini: dal governo Gentiloni. «Se ne leggessero il testo – dice Patrizia Scanu, segretaria del Movimento Roosevelt – i padri costituenti si rivolterebbero nella tomba». Motivo: programmi solo locali, gestiti da dirigenti di nomina regionale. Un progetto-vergogna, «in perfetta linea con la “Buona Scuola” di Renzi, a sua volta erede della scuola-azienda delle ministre Moratti e Gelmini». Rischio immediato: scuole di serie B, per formare ragazzi rassegnati a lavori precari, degradanti e sottopagati, con buona pace dell’istruzione pubblica garantita dall’unità nazionale come fabbrica di pari opportunità per tutti. Come la vede, Zingaretti, la faccenda? E soprattutto, andrà oltre le solite ciance sull’Europa? «L’Italia – dice Magaldi – ha una grande possibilità: può esercitare una vera leadership, sia in Europa che nel Mediterraneo: a Bruxelles chiedendo una Costituzione europea finalmente democratica, come quella che sarebbe piaciuta a Olof Palme, e in Africa lanciando una partnership strategica che consenta agli africani di rendersi autonomi, come voleva Sankara». Certo, il Pd resta un partito-zombie: sta a Zingaretti resuscitarlo, se vuole.Povero Nicola Zingaretti: è stato eletto segretario di un partito di zombie. Ce l’ha, un piano per l’Italia? Perché finora non è pervenuto nemmeno un indizio. L’unica cosa che sappiamo è che Zingaretti, almeno, è un leader: non carismatico, ma corretto. Buon presidente della Regione Lazio. Umanamente schietto e leale, diversissimo dal “finto buono” Walter Veltroni e dai suoi troppi epigoni, fino al velenoso Renzi. Meglio del surreale Martina, comunque, e dell’impalpabile Giachetti. Se non altro, Zingaretti è un politico capace anche di vincerle, le maratone. Così almeno lo vede Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, che all’amletico neo-segretario domanda: è sicuro di sapere cosa vuol fare, da grande? Delle due, l’una: o trasforma il Pd in un soggetto progressista, post-keynesiano, o finirà prestissimo come tutte le altre dimenticabili meteore della “ditta”. Se non trova il coraggio della sincerità, insiste Magaldi, Zingaretti sarà travolto, già a partire dalle europee di maggio. «Cari italiani – dovrebbe dire – sappiate che vi abbiamo preso in giro per 25 anni. Ci siamo detti “di sinistra”, ma abbiamo applicato soltanto l’agenda economica del neoliberismo mercantile e finanziario, arrivando allo “Stato minimo” auspicato dai grandi privatizzatori». Come si esce dall’incubo? Riscoprendo Keynes, assicura Magaldi: «Il capitalismo è indispensabile ma va coinugato con lo Stato, in Italia e in Europa. Sarebbe la rivoluzione progressista che cambierebbe tutto: che ne pensa, Zingaretti?».
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Galloni: pastori sardi, una moneta locale li salverebbe tutti
Anche questa volta, come per i Gilet Jaunes o i Forconi, la storia pare essere la stessa. Un movimento nasce e, non potendosi (o non riuscendo a) darsi una forma organizzativa e dei leader comuni, si scinde tra due componenti: i banditi e i “coglionati”. Senza una chiara strategia e leader da tutti riconosciuti, infatti, la maggioranza svolge una sterile protesta che tende ad affievolirsi; mentre la componente minoritaria, ma molto attiva, si spinge persino fuori dai confini della legalità. In casi particolarissimi, tale componente (magari grazie ad appoggi internazionali) riesce ad imporsi sostituendo un “vecchio regime”. Pare non sia la sorte di questi movimenti, destinati a ricalcare la stessa divisione che c’è nella società tra “irriducibili” e coglionati. Il partito, in fondo è questo: il passaggio dal cenacolo di pochi saggi ispirati a una forma organizzativa più evoluta, ma attraverso la fase del movimento (semprechè quest’ultima, come stiamo cercando di dire, non si esaurisca). Quindi abbiamo tre diverse situazioni: i movimenti che si esauriscono, i cenacoli che non riescono a crescere e i partiti politici che sono frutto dell’incontro tra una leadership adeguata e un movimento che non si esaurisce.Il movimento che trova guida e strategie può trasformarsi in partito politico, dunque, se lascia il terreno monotematico e si allarga ai tanti problemi di una società. Nel caso dei pastori sardi, ad esempio, pur essendo urgente e vitale spuntare un prezzo del latte adeguato (ma che ci stanno a fare le istituzioni se non sanno gestire una produzione abbondante e lasciano cadere il prezzo illimitatamente?), tuttavia la domanda strategica era ed è: ma come fa un prezzo a scendere al di sotto del costo (di produzione)? In due casi: quando la domanda ovvero il mercato non è più interessato al prodotto (e non è il caso del latte sardo); quando il prezzo lo decide il compratore a prescindere dal mantenimento dei minimi vitali per i produttori. Ciò non accade solo per illimitata ingordigia di chi ha potere ed obiettivi di massimizzazione del profitto, ma anche per situazioni dei prezzi internazionali che non tengono conto della qualità. I prezzi internazionali, infatti, dipendono dalla concorrenza sui prodotti finiti e distribuiti al dettaglio: se essa avviene solo sul prezzo, allora sarà favorito il produttore peggiore che imporrà il prezzo sul mercato internazionale e tutti dovranno accettare la sua imposizione (anche facendo peggiorare la qualità del prodotto).Come ci si difende da questa diabolica situazione? O facendo rispettare regole precise o costituendo il cartello dei produttori (ma se la concorrenza non è agguerrita) o sottraendosi alle dinamiche della globalizzazione (quando essa, appunto, è senza regole e con logiche che il buon senso ed il bene comune dovrebbero respingere). Come ci si sfila, dunque, dalla globalizzazione in un caso come quello della Sardegna? Molto semplice, immettendo una moneta locale per consentire ai produttori di approvvigionarsi di tutto ciò che loro necessita: quindi il pastore – ottenendo tale moneta in cambio del suo prodotto – potrà comperare tutti gli altri beni e servizi che servono alla sua attività ed al sostentamento suo e della famiglia; se, dopo saturato il mercato interno, avanza una produzione, quest’ultima potrà essere venduta all’esterno in valuta internazionale. Questa valuta servirà a comprare quanto non si riesce a produrre all’interno (non si deve dimenticare, infatti, che i prodotti locali possono venir pagati anche in valuta locale, mentre per quelli di importazione è necessaria la valuta estera, ovvero gli euro).Lo stesso può dirsi per il grano duro siciliano: inutile e dannoso importare grano di diversa qualità (e magari pieno di glifosato!); difendere il prodotto locale non è protezionismo, ma riferimento ad un modello economico sostenibile e più etico (che anche i produttori degli altri paesi possono praticare). Un modello economico in cui si parte dall’economia reale del territorio e dove – tutti – esportino le eccedenze dopo aver saturato il proprio mercato interno senza le interferenze dei monopoli internazionali a scapito del lavoro e della salute collettiva. Ma è anche molto importante esportare prodotti finiti (ad esempio formaggio) e non materie prime o semilavorati, perché chi esporta questi ultimi rinuncia alla quota più importante di valore aggiunto ovvero di reddito. Non sarebbe male, quindi, che le Regioni dotate di autonomia provvedessero, anche, a limitare l’esportazione di materie prime e semilavorati come fondamentale misura di sostegno del reddito interno.(Nino Galloni, “Pastori in movimento, banditi e partiti”, da “Scenari Economici” del 26 febbraio 2019).Anche questa volta, come per i Gilet Jaunes o i Forconi, la storia pare essere la stessa. Un movimento nasce e, non potendosi (o non riuscendo a) darsi una forma organizzativa e dei leader comuni, si scinde tra due componenti: i banditi e i “coglionati”. Senza una chiara strategia e leader da tutti riconosciuti, infatti, la maggioranza svolge una sterile protesta che tende ad affievolirsi; mentre la componente minoritaria, ma molto attiva, si spinge persino fuori dai confini della legalità. In casi particolarissimi, tale componente (magari grazie ad appoggi internazionali) riesce ad imporsi sostituendo un “vecchio regime”. Pare non sia la sorte di questi movimenti, destinati a ricalcare la stessa divisione che c’è nella società tra “irriducibili” e coglionati. Il partito, in fondo è questo: il passaggio dal cenacolo di pochi saggi ispirati a una forma organizzativa più evoluta, ma attraverso la fase del movimento (semprechè quest’ultima, come stiamo cercando di dire, non si esaurisca). Quindi abbiamo tre diverse situazioni: i movimenti che si esauriscono, i cenacoli che non riescono a crescere e i partiti politici che sono frutto dell’incontro tra una leadership adeguata e un movimento che non si esaurisce.
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Tutti contro i 5 Stelle, eppure Di Maio sta limitando i danni
Marcucci (Pd) imputa il recente smottamento dell’industria italiana al reddito di cittadinanza che ancora deve entrare in vigore. Allo stesso tempo, come fanno anche molti altri del monopartito Pd-Fi, afferma che a causa dello spread gli italiani dilapidano soldi pubblici. In realtà se la Bce svolgesse il suo lavoro in modo efficace e non nazionalista (Aquisgrana) ma onesto, lo spread non dovrebbe proprio esistere, ma questo ai poveri cittadini non viene detto. Non viene detto nemmeno che quando Di Battista ha informato sul doping con cui la Francia riesce a resistere nella moneta unica (cioè lo sfruttamento dei paesi africani che ancora colonizza e che paghiamo anche noi italiani, economicamente e socialmente), lo spread si è impennato; e questo perché molto probabilmente soggetti finanziari francesi amici di “Didì” Macron hanno venduto titoli decennali italiani (magari comprandone di tedeschi). Una ritorsione quindi nazionalista, oltre che ovviamente di stampo speculativo. Sarebbe interessante che in questo splendido contesto di identità europea “spinelliana” (spero si colga l’ironia) nell’Europarlamento qualcuno si incaricasse di chiedere una indagine su come si sono mossi i capitali in questione.
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Abruzzo, Caporetto 5 Stelle: più vicina la fine del governo
«Nel decennale del tragico terremoto dell’Aquila parte dall’Abruzzo un terremoto di altro genere, meno cruento, ma destinato a far sentire le proprie onde sussultorie sino a Roma». Lo scrive Anselmo Del Duca sul “Sussidiario”, di fronte al risultato delle regionali in Abruzzo: vittoria del centrodestra e tracollo dei 5 Stelle, che vedono dimezzare il 40% ottenuto alle politiche meno di un anno fa. Quello che ha più colpito chi ha potuto osservare l’andamento del consenso attraverso i sondaggi – osserva Del Duca – è stato il progressivo indebolimento dei grillini, rimontati persino dal Pd. «La batosta grillina appare ancora più evidente di fronte a un’ottima tenuta del centrodestra unito, che stravince con un candidato targato Fratelli d’Italia», Marco Marsilio, ma soprattutto «grazie a una Lega straripante». Per la maggioranza gialloverde «non ci poteva essere un campanello d’allarme più rumoroso». Nell’immediato è probabile che non succeda nulla, aggiunge Del Duca, anche perché Salvini si è affrettato a spiegare che a Roma non cambia nulla. «Ma fra due settimane, se il trend abruzzese dovesse essere confermato nelle elezioni regionali della Sardegna, allora davvero si potrebbero aprire scenari imprevedibili».Secondo il “Sussidiario”, la sconfitta in Abruzzo potrebbe avviare la resa dei conti dentro il Movimento 5 Stelle, con Di Maio sul banco degli imputati. «E una seconda solenne sconfitta in terra sarda potrebbe costituire per la sua leadership il colpo di grazia». Del resto, annota Del Duca, l’elenco dei fronti caldi per i grillini si allunga giorno dopo giorno: la Tav, la Francia e da ultimi la polemica di Di Battista contro Napolitano e quella contro la Banca d’Italia. «Per di più, solo in quest’ultimo caso si è registrata una perfetta identità di vedute con l’alleato leghista. Per il resto la distanza è siderale». Si pensi alla crisi venezuelana, all’autonomia delle Regioni del Nord, alla legittima difesa o all’autorizzazione a procedere contro Salvini per il caso Diciotti. «Unica speranza di invertire il trend, il reddito di cittadinanza». Il Movimento 5 Stelle «vive con apprensione l’isolamento crescente che verifica intorno a sé, compreso il crescente pressing del Quirinale, che ormai non perdona passi falsi. «Alla Lega, al contrario, si rivolgono in tanti, ad esempio sindacati e imprenditori, come l’unica forza ragionevole, in grado di stoppare le leggerezze di un governo giudicato del tutto inadeguato».Finora, prosegue Del Duca, il rapporto personale fra Salvini e Di Maio ha puntellato il traballante governo Conte. Presto però potrebbe non bastare, «se l’ala dura dei grillini dovesse pretendere di più». Allo stesso modo, Salvini «potrebbe non riuscire più a resistere alle sirene di chi gli chiede di staccare la spina». Per prendere una decisione sul futuro il tempo stringe: a fine maggio ci sono le europee, ma soprattutto – in prospettiva – si preannuncia «una legge di bilancio drammatica, con la necessità di trovare una cifra enorme, 23 miliardi, solo per evitare l’aumento automatico dell’Iva». Sarà quindi una manovra “lacrime e sangue”, «di quelle che si possono fare solo in una fase immediatamente successiva a un turno elettorale, non subito prima». Secondo Del Duca, infatti, “zoppica” l’ipotesi che questo governo possa arrivare a fine anno, e poi portare il paese alle elezioni a inizio 2020. Mattarella si convincerà che il voto è il male minore per il paese? «Dall’Abruzzo però potrebbe davvero essere partita una valanga in grado di travolgere l’esecutivo gialloverde».«Nel decennale del tragico terremoto dell’Aquila parte dall’Abruzzo un terremoto di altro genere, meno cruento, ma destinato a far sentire le proprie onde sussultorie sino a Roma». Lo scrive Anselmo Del Duca sul “Sussidiario”, di fronte al risultato delle regionali in Abruzzo: vittoria del centrodestra e tracollo dei 5 Stelle, che vedono dimezzare il 40% ottenuto alle politiche meno di un anno fa. Quello che ha più colpito chi ha potuto osservare l’andamento del consenso attraverso i sondaggi – osserva Del Duca – è stato il progressivo indebolimento dei grillini, rimontati persino dal Pd. «La batosta grillina appare ancora più evidente di fronte a un’ottima tenuta del centrodestra unito, che stravince con un candidato targato Fratelli d’Italia», Marco Marsilio, ma soprattutto «grazie a una Lega straripante». Per la maggioranza gialloverde «non ci poteva essere un campanello d’allarme più rumoroso». Nell’immediato è probabile che non succeda nulla, aggiunge Del Duca, anche perché Salvini si è affrettato a spiegare che a Roma non cambia nulla. «Ma fra due settimane, se il trend abruzzese dovesse essere confermato nelle elezioni regionali della Sardegna, allora davvero si potrebbero aprire scenari imprevedibili».
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Chavez fu ucciso, ma ora è Maduro a uccidere il Venezuela
Hugo Chavez è stato assassinato: la notizia è pressoché certa. Poi ci ha pensato l’indegno Maduro, a “terminare” il Venezuela. Ma non da solo: è stato aiutato, nell’opera di devastazione del paese, dai vizi capitali del “bolivarismo” venezuelano. La giusta crociata contro il latifondo ha finito per affidare le terre a cooperative gestite da incapaci, scelti per la loro fedeltà politica. Idem le imprese, simbolo dell’odiata borghesia “coloniale” e parassitaria, alleata dagli Usa: troppe aziende sono state consegnate ai militari, che le hanno fatte fallire. Risultato: il Pil è franato, togliendo al paese la capacità di produrre beni diversi dal petrolio. E quando il prezzo del greggio è crollato, si è spalancato il baratro. La tragedia? Ad affrontarla non c’era più il popolarissimo Chavez, ma l’incolore Maduro. Che poi, di fronte alle proteste, non ha trovato di meglio che forzare la Costituzione, sospendere la democrazia e far sparare sulla folla, salvo poi accusare gli yankee di aver strangolato il Venezuela. Chi oggi si ostina a difendere Maduro – scrive Giuseppe Angiuli, su “L’Intellettuale Dissidente” – dimostra la stessa cecità del potere imperiale neoliberista che ha fatto la guerra a Chavez fin dal primo giorno, cercando anche di deporlo con il golpe del 2002, neutralizzato dal popolo venezuelano che si strinse attorno al suo leader – l’unico che in tanti anni abbia davvero lavorato, giorno e notte, per il benessere della sua gente.Rifiutarsi di leggere con lucidità la storia recente del Venezuela, scrive Angiuli nella sua accurata ricostruzione, significa innanzitutto fare un torto ai venezuelani, oggi alla fame. Un affronto alla memoria dello stesso Chavez, strenuo difensore del suo popolo. E’ stato grande, Chavez, ma inevitabilmente imperfetto: proprio i suoi errori ottici, secondo Angiuli, hanno creato le premesse di una crisi spaventosa, che oggi – senza più il carisma e l’onestà di fondo del leader – stanno mettendo in pericolo il Venezuela. Il paese perde milioni di cittadini, ridotti a profughi. Mancano cibo e medicinali, e c’è anche il rischio concreto che le sue frontiere vengano violate da un intervento militare ispirato dagli Usa e condotto da paesi come la Colombia e l’inquietante Brasile di Bolsonaro. La domanda che sfugge, nel derby delle opposte tifoserie italiane ed europee, è la seguente: com’è possibile che sia finito nella disperazione di massa uno dei paesi virtualmente più ricchi del mondo? Quella del Venezuela è considerata la prima riserva petrolifera del pianeta: e da parte degli Usa, certamente ostili al regime chiavista, non c’è però mai stato nessun embargo del greggio venezuelano. Al contrario: proprio grazie all’export dell’oro nero, a Caracas negli ultimi vent’anni sono circolati fiumi di petrodollari. Che fine hanno fatto?All’inizio, miliardi di dollari sono serviti a finanziare il grandioso welfare ideato da Chavez per allievare le storiche sofferenze dei poveri. Ma non un soldo è stato investito nell’economia non-petrolifera. In compenso, grazie al controllo centralizzato della gestione dei cambi, è fiorito il contrabbando di valuta estera. E oggi si mangia acquistando alla borsa nera i generi alimentari che i gerarchi di Maduro – che controllano i petrodollari – fanno sparire all’ingresso del paese, prima che possano raggiungere i supermercati, dove i prezzi sarebbero calmierati per legge. Ma l’attuale tragedia del Venezuela – umanitaria, sociale, politica – non può impedire di guardare col necessario distacco (e col rispetto che merita) a quello che è stato il più clamoroso fenomeno sudamericano degli ultimi decenni: la “rivoluzione bolivariana” di Chavez, per 14 anni alla guida del paese caraibico. Un quasi-capolavoro, fondato su una scommessa di tipo socialista: nazionalizzare il petrolio per finanziare grandiosi programmi di assistenza e liberare la popolazione della piaga cronica della povertà, generata dallo spietato sfruttamento delle multinazionali occidentali.Nella sua meticolosa ricostruzione sulla crisi venezuelana pubblicata da “L’Intellettuale Dissidente”, Angiuli scrive che la morte di Chavez, nel marzo 2013, è «quasi certamente avvenuta per avvelenamento radioattivo, messo in atto da non ben identificati servizi segreti di qualche paese nemico». Magari gli Usa, che a Chavez non avevano mai perdonato il coraggio e l’indipendenza politica. O qualche entità sudamericana allineata alla Dottrina Monroe, secondo cui l’America Latina deve restare sottomessa a Washington. Il Venezuela di Chavez – poi letteralmente tradito da Maduro – ha rappresentato una grande speranza per tutto il Sud del mondo. Ma sarebbe sbagliato trasformarlo in un culto, osserva Angiuli: perché Chavez ha commesso l’errore (fatale) di basare il riscatto economico nazionale solo sul petrolio, mortificando l’industria e l’agricoltura. Ancora oggi, ridotto alla fame, il Venezuela continua a dividere: da una parte le destre neoliberiste che hanno sempre criminalizzato il chavismo fin dall’inizio, e dall’altra la vecchia sinistra terzomondista, che arriva a perdonare un dittatore come Maduro pur di non ammettere i gravi errori della politica venezuelana, che hanno messo nei guai il paese ben prima che scattasse l’accerchiamento geopolitico neoliberista che ha isolato il governo di Caracas.Il pensiero unico mainstream «tende a demonizzare alla radice l’intera vicenda del socialismo venezuelano, relegandola nell’ambito del caudillismo alla sudamericana». Per contro, gli epigoni delle residuali correnti marxiste-leniniste si erano illusi di poter finalmente riscattare, in Venezuela, «la tragica sconfitta del comunismo novecentesco», seppellito dalle macerie del Muro di Berlino. All’intera vicenda del “socialismo bolivariano” inaugurato da Hugo Chavez, Angiuli ammette di essersi accostato con emozione, sperando di trovarvi «un nuovo laboratorio politico capace di ripensare l’idea stessa e la pratica del socialismo». Angiuli è stato spesso in Venezuela, a stretto contatto con la società e con gli ambienti filogovernativi. Dopo l’entusiasmo, però, è subentrata l’amara disillusione. Beninteso: a prescindere dall’orrendo regime militare di Maduro, «resta in ogni caso intangibile – precisa Angiuli, a scanso di equivoci – il diritto del popolo venezuelano di costruire il suo futuro in condizioni di libertà, sovranità e autonomia rispetto a qualsiasi intervento di destabilizzazione esterna, a cominciare dalle esplicite minacce di invasione che ultimamente provengono dai governi dell’ultradestra insediatisi al potere delle nazioni vicine, con lo scontato supporto degli Usa che da sempre considerano quella parte del mondo come il proprio cortile di casa».Detto questo, ammette Angiuli, «è triste giungere alla conclusione di dover affermare che il socialismo venezuelano ha purtroppo tradito una buona parte dei suoi propositi, e oggi non può più costituire un modello positivo di giustizia e di benessere per i popoli oppressi di tutto il mondo». Cionondimeno, il “bolivarismo” di Chavez era partito con le migliori intenzioni. Analizzarne i difetti è indispensabile: provare a capire «cosa non ha funzionato in Venezuela» è fondamentale, per tentare di spiegarsi la drammatica situazione in cui oggi versa il paese che dette i natali al “libertador” Simon Bolivar, «un personaggio passato alla storia quale nemico giurato del colonialismo ispanico». Anche Hugo Chavez ha fatto la storia: la sua presa del potere a Caracas, a cavallo tra il 1998 e il 1999, ha simboleggiato per l’intero continente di Neruda e Garcia Marquez «la più grande sfida di discontinuità storico-politica rispetto alla lunga notte neoliberista, vissuta per alcuni decenni dall’America Latina». Micidiali le dittature militari filo-Usa degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Per questo, è naturale che il chavismo abbia suscitato «una grande ondata di legittime speranze fra tutti i popoli».Ex ufficiale paracadutista dell’esercito venezuelano, tradizionalmente “popolare” anche nei suoi ranghi più alti, Hugo Chavez – autore di un fallito tentativo di colpo di Stato del 1992 ai danni dell’allora presidente in carica Carlos Andres Perez – era riuscito in pochi anni a far coagulare attorno a sé «i migliori sentimenti e le aspirazioni di riscatto delle fasce sociali medio-basse del suo paese, fino a quel momento escluse dal godimento dei profitti della “Venezuela Saudita”». L’ideologia di Chavez? Un mix originale e composito, «che attinge tanto al panamericanismo di Simon Bolivar quanto all’umanesimo socialista di ispirazione massonica caro a Giuseppe Garibaldi e a Salvador Allende». Innegabili le influenze esercitate dal pensiero di Antonio Gramsci e dalla prassi rivoluzionaria di Ernesto Che Guevara e Fidel Castro. «Cuba rivoluzionaria, la piccola isola che da decenni resiste ad un crudele embargo degli Usa, per Chavez costituiva un esempio di dignità e un prototipo da emulare, soprattutto sotto il profilo dell’indipendenza nazionale e della lotta all’imperialismo a stelle e strisce». E proprio a partire dagli accordi di mutua assistenza con la Cuba di Fidel – petrolio in cambio di medici – Hugo Chavez, appena insediatosi alla presidenza, iniziò a «costruire sapientemente il suo modello di integrazione politica latinoamericana attorno ai principi generali di cooperazione, equità e solidarietà».Lo stesso Che Guevara, nei suoi scritti, aveva ben individuato la “maledizione” dei paesi dell’America Latina, «storicamente condannati a programmare le loro economie non in base ai propri bisogni interni, bensì in rapporto agli appetiti famelici dei loro paesi dominanti». Fin dall’epoca del colonialismo ispano-portoghese, gli europei avevano imposto a quei territori un modello “rentista” o monoculturale, «tutto basato sull’estrazione a costo zero di materie prime»: un “prelievo forzoso” grazie a cui sarebbero state edificate le basi dell’impero industriale e capitalistico dell’Occidente. A partire dal suo esordio, ricorda Angiuli, «uno dei principali meriti politici di Hugo Chavez è stato quello di sottrarre il controllo dell’oro nero del Venezuela a quella ristretta borghesia “compradora” fortemente compromessa col capitalismo a stelle e strisce». Una borghesia che «per decenni, dopo essersi appropriata della rendita petrolifera, era stata abituata a delocalizzare sistematicamente i suoi profitti a Miami, umiliando il paese estrattore con delle infime royalties e con dei contratti-capestro». Fino a quel momento, gli immensi giacimenti petroliferi non avevano mai consentito al Venezuela di trarre risorse per investimenti sociali. A questo ha provveduto proprio Chavez, all’inizio del suo mandato, con una nossa clamorosa: nazionalizzare la compagnia petrolifera Pdvsa, per poi tenere alto il prezzo del greggio premendo sull’Opec – insieme all’Iraq di Saddam e alla Libia di Gheddafi – al fine di contenere i volumi di estrazione.Destinare la rendita petrolifera alla spesa assistenziale finalizzata ad appianare le gravi diseguaglianze sociali del suo popolo – prosegue Angiuli – ha costituito indubbiamente l’atto più rivoluzionario compiuto da Hugo Chavez. Interventi imponenti, per garantire servizi sanitari anche nei “barrios” più poveri e alfabetizzare milioni di venezuelani, compresi i gruppi indigeni. Diritti: la nuova Costituzione varata da Chavez nel 1999 «contiene sulla carta alcuni principi inediti che possono fare da insegnamento anche alle democrazie più avanzate». E’ fondata su una netta separazione fra i poteri e contempla molteplici strumenti di democrazia diretta: c’è anche l’istituto del “referendum revocatorio”, che consente perfino di far dimettere il presidente a metà mandato, mediante una consultazione popolare indetta dal basso. La nuova Carta, poi, decreta l’intangibilità di Madre Natura quale soggetto titolare di diritti. E in più tutela l’identità etnoculturale delle comunità dei nativi amerindi, «facendosi così portatrice di un generale messaggio di rinascita dell’orgoglio indigeno», dopo secoli di sottomissione ai “conquistadores” e ai “gringos”.Il primo decennio del chavismo, riconosce Giuseppe Angiuli, è stato contrassegnato «da un risveglio delle coscienze del popolo venezuelano e da una straordinaria voglia di partecipare a riscrivere la storia del proprio paese da parte di milioni di persone, fino ad allora del tutto escluse dalla scena politica e incapaci perfino di intendere lo stesso concetto di cittadinanza». Solo gli osservatori più prevenuti, sottolinea l’analista, possono avere finto di non accorgersi della reale genuinità che ha connotato i primi anni del processo politico “bolivariano”, contraddistinti da un fermento rivoluzionario autentico, addirittura emozionante. E contro l’imperialismo mercantile “yankee”, Chavez s’è mosso anche a livello geopolitico: ha dato vita all’Alba (Alianza Bolivariana para los pueblos de nuestra America), reclutando Cuba, la Bolivia del leader sindacale Evo Morales, l’Ecuador dell’economista Rafael Correa, il Nicaragua sandinista, l’Honduras di Manuel Zelaya e vari piccoli Stati insulari caraibici. Checché ne dicessero i media occidentali, sottolinea Angiuli, il governo di Chavez – fino alla sua rielezione nel 2012 – è sempre stato largamente supportato dal popolo venezuelano. Ma oggi, ribadisce, il Venezuela non sarebbe in crisi nera, se lo stesso Chavez non avesse commesso clamorose ingenuità sul piano economico.Dopo aver distribuito soldi a pioggia per «contrastare la povertà più estrema di una parte significativa della popolazione», il chavismo ha mancato l’appuntamento con lo sviluppo, nonostante la felice congiuntura petrolifera, col prezzo del barile rimasto sopra gli 80 dollari fino al novembre 2014. Nonostante il fiume di valuta forte, piovuto su Caracas per almeno un decennio, il governo «non ha mai messo in campo alcuna seria misura per provare a debellare il vero cancro comune a tutti quei paesi la cui economia, come quella del Venezuela, si basa su un modello “rentista”», ovvero: «La dipendenza dalla estrazione della materia prima quale unica risorsa del proprio modello di sviluppo». Nonostante i tanti proclami, non è mai riuscito a diversificare le attività produttive: anzi, i governi chavisti hanno attuato «una massiccia politica di disincentivo al lavoro delle piccole e medie imprese», determinando così una contrazione drammatica del Pil, in quei settori, «con la conseguenza che la classe media è progressivamente scomparsa». Paradossale: «Oggi i venezuelani conducono in media un tenore di vita clamorosamente più basso di quello che si ricordi anche negli anni più bui della notte neoliberista dell’America Latina». E scontano «una diffusa scarsità di prodotti di prima necessità che oggi forse non si riscontra nemmeno a Cuba, paese ininterrottamente sotto embargo da più di mezzo secolo».Pessimo il bilancio dall’agricoltura: buona l’idea di una riforma agraria per smantellare i latifondi improduttivi. Ma poi è subentrata «una deriva ideologica di tipo estremistico velleitario, che ha condotto ad una espropriazione generalizzata delle terre anche di media dimensione». Terre assegnate «a improvvisate cooperative di lavoratori che non si sono mai realmente dimostrate all’altezza del loro compito», e con incarichi direzionali «troppo spesso affidati obbedendo unicamente a meri criteri di fedeltà politica». Risultato: la produzione agricola è crollata, ricorda Angiuli, persino per i più tipici prodotti alla base della dieta venezuelana: riso e farina di mais, frutta e verdura, polli d’allevamento, uova e caffè. Stessa sorte ha colpito l’industria: «Una analoga degenerazione demagogica del chavismo, nel segno del collettivismo spinto – scrive Angiuli – ha condotto negli anni a una diffusa e capillare occupazione delle fabbriche», da parte di «settori disinvolti delle forze armate». I militari, «arrogandosi il diritto di agire sempre e comunque nell’interesse del “pueblo” e contro l’odiata borghesia nazionale», si sono spesso impadroniti «con modalità arbitrarie e violente» dei mezzi di produzione, «lasciandoli cadere quasi sempre e molto presto in malora e facendo così crollare la produzione anche in quei settori nei quali – prima del chavismo – il Venezuela riusciva tranquillamente a soddisfare il suo fabbisogno interno, raggiungendo perfino l’obiettivo di esportare una discreta quantità di merci all’estero: ferro, acciaio, automobili, caffè».L’aspetto più inquietante di questo fallimento economico di dimensioni catastrofiche, scrive Angiuli, non risiede neppure nella pianificazione centralistica stile Urss e Cina maoista: il paradosso sta nella pessima gestione dell’oceano di petrodollari. Fino al 2013, il petrolio rappresentava ancora il 95% dell’export. Anziché sfruttare quell’enorme massa di denaro per rendere il Venezuela più autonomo economicamente, i governi socialisti «hanno finito per accentuare oltre ogni limite il tradizionale carattere “rentista” dell’economia venezuelana, legandone le sorti in modo irreversibile alla ciclicità dell’andamento del prezzo degli idrocarburi». Gli effetti di questa politica sono esplosi a partire dal 2015, con il crollo della quotazione del greggio: di colpo, il Venezuela ha incassato meno soldi, sia per il welfare che per pagare l’enorme volume di importazioni, cresciuto negli anni col progressivo calo della produzione interna di beni primari. Risultato: «La scarsità di prodotti sugli scaffali dei supermercati si è manifestata in modo crescente e irrimediabile». Ecco perché, osserva Angiuli, sta semplicemente mentendo, Maduro, quando si sforza ogni giorno di attribuire l’odierna crisi alla guerra economica orchestrata dall’odiato imperialismo yankee. Le sanzioni americane – varate da Obama e inasprite da Trump – non bastano a spiegare la catastrofica penuria di generi di prima necessità.Le stesse sanzioni, peraltro, non hanno impedito alle grandi banche d’affari statunitensi, prima fra tutte la Goldman Sachs, di investire copiose somme nell’acquisto di buoni obbligazionari emessi dalla compagnia petrolifera Pdvsa: «Un elemento che smaschera tanto l’ipocrisia del capitalismo a stelle e strisce quanto quella della retorica antimperialista così tanto sbandierata dal governo di Caracas». Inoltre, sebbene Trump abbia proibito nel 2018 l’acquisto di titoli del colosso petrolifero venezuelano, «nessun embargo commerciale petrolifero è mai stato decretato da Washington verso Caracas». Lo confermano i numeri delle esportazioni, che ora – non a caso – Maduro ha addirittura proibito di diffondere, roprio per non compromettere il suo vittimismo retorico che attribuisce al nemico imperialista la causa di ogni male. L’altra verità che Maduro nasconde, continua Angiuli, è che il suo Venezuela ha affidato a una ristretta oligarchia – società riconducibili all’establishment militare – l’intera gestione del cambio dei dollari necessari per accedere al mercato delle importazioni di beni dall’estero. Sono questi privilegiati ad accedere ai dollari, e in modo truffaldino, cioè con un cambio alterato sopravvalutando il bolivar: se la moneta venezuelana era stimata 1.000 a 1, rispetto al dollaro, l’élite governativa monopolista ha invece intascato 10 bolivar per ogni dollaro destinato ad acquistare beni dall’estero.Una volta che gli importatori della ristretta cerchia governativa hanno acquisito i dollari ad un cambio preferenziale e privilegiato, quella valuta forte, «ufficialmente necessaria per pagare le merci che si dovrebbero importare dall’estero», ha finito in realtà per alimentare «un circuito vorticoso e perverso, con cui gli stessi importatori filogovernativi sono troppo spesso riusciti ad occultare clandestinamente sia la valuta che le stesse merci importate». Una colossale frode valutaria, insomma, «che ogni giorno sottrae ricchezza al paese caraibico», e oggi costringe i venezuelani a lasciare le loro case. Elementare: «Se la moneta venezuelana viene scambiata sui mercati ad un valore reale spesso anche di 100 volte inferiore a quello con cui viene scambiata dagli organismi governativi, tutti coloro i quali sono nelle condizioni di mettere le mani sulla rendita petrolifera, una volta ottenuti i dollari col sistema del cambio preferenziale, ne investono effettivamente solo una parte nell’attività di importazione». E al contempo, aiutandosi con sovrafatturazioni fittizie (di merci mai effettivamente acquistate) occultano facilmente grandi quantità di valuta forte, trasferendole dei paradisi fiscali, «ovvero alimentando il mercato nero del dollaro all’interno degli stessi confini del Venezuela». Lo si capisce già all’aeroporto, appena si sbarca a Caracas: si viene assaliti da “agenti del cambio in nero” che offrono disinvoltamente i bolivar in cambio di dollari (o euro) secondo un rapporto di cambio molto distante da quello ufficiale.Per questo, aggiunge Angiuli, da quando si è diffusa la pratica governativa di sopravvalutare artificiosamente il bolivar, «il traffico di valuta è diventato di gran lunga il business più redditizio per chiunque riesca a venire in possesso di una certa quota della rendita petrolifera incamerata dal Venezuela». Negli anni, il fenomeno ha acquisito dimensioni impressionanti e incontrollabili. E il suo principale effetto nefasto sull’economia del paese è il generale disincentivo verso l’avvio di qualsiasi genere di attività produttiva. L’ex ministro per la pianificazione economica Jorge Giordani, grande amico di Chavez (dimessosi nel 2014 da ogni incarico governativo in polemica con Maduro) ha pubblicamente denunciato il furto, attraverso questo meccanismo fraudolento, di qualcosa come 25 miliardi di dollari dall’organismo governativo addetto alle operazioni di cambio su larga scala. E oltre al mercato nero di valuta, c’è anche la piaga che colpisce gli approvvigionamenti: il cibo, i medicinali e i prodotti manifatturieri che dovrebbero entrare in Venezuela a prezzo calmierato vengono in gran parte intercettati e rivenduti clandestinamente. Borsa nera: «Un formidabile, gigantesco contrabbando di merci vendute al mercato nero a prezzi molto più alti di quelli che il governo si sforza inutilmente di imporre nelle catene dei supermercati popolari», nei quali ormai scarseggia di tutto, dallo shampoo al dentifricio, dal sapone alla carta igienica.Giuseppe Angiuli lo descrive come «il disastro di una economia nazionale ormai strutturalmente e capillarmente fondata sul malaffare, sulla frode valutaria e sulla speculazione parassitaria, con un sistema di complicità e protezioni che purtroppo investe anche le sfere più alte del potere centrale». A questo si aggiunge l’iper-inflazione scatenata irresponsabilmente dalla banca centrale del Venezuela, «ricorsa in questi anni in misura sempre più massiccia alla stampa di cartamoneta priva di ogni copertura e valore reale». Tra il 1999 e il 2016, la massa monetaria circolante nel paese è cresciuta di circa il 33.000%. Inflazione folle: nel 2017 si è attestata al’830%, per poi raggiungere l’anno seguente il 4.684,3 percento, vero e proprio record mondiale. Secondo il Fmi, si viaggia ormai verso il “milione per cento” su base annua. Una catastrofe: paralisi economico-produttiva, l’iper-inflazione, crollo del valore reale dei salari. Generale impossibilità di procurarsi da vivere lavorando. Collasso del sistema sanitario nazionale, scarsità di viveri e medicinali, drammatico aumento della mortalità neonatale e della denutrizione infantile. Tutto questo sta oggi facendo vivere al Venezuela «un esodo di proporzioni bibliche dei suoi cittadini verso l’estero, come non si era mai visto nella storia recente del paese».Un fallimento così apocalittico, osserva Angiuli, avrebbe dovuto obbligare da tempo il governo Maduro ad adottare misure radicali, in forte discontinuità rispetto alle politiche suicide fin qui condotte. Di fronte all’esperazione popolare, sfociata in drammatiche proteste, Maduro ha risposto violando la Costituzione, truccando le elezioni e ordinando all’esercito di sparare sulla folla. Hugo Chavez non l’avrebbe mai fatto. Anzi: il “comandante” accettò lealmente il verdetto del referendum perduto, attraverso cui i venezuelani avevano bocciato la sua proposta di riforma costituzionale in senso presidenzialista. Maduro è solo, spelleggiato esclusivamente dai militari. Diversi dirigenti chavisti storici della prima ora – come l’ex ministro dell’ambiente Ana Elisa Osorio, l’ex ministro dell’economia Jorge Giordani, lo storico presidente della Pdvsa Rafael Ramirez e l’ex procuratrice generale Luisa Ortega Diaz – sono stati delegittimati ed emarginati. Qualcuno è riparato all’estero «per sottrarsi alla furia vendicatrice della cricca di potere vicina a Maduro».Non sappiamo quale futuro attende il Venezuela, conclude Angiuli, ma dopo vent’anni di chavismo «i risultati dell’economia del paese parlano un linguaggio implacabile, che non ammette repliche». Un fallimento di dimensioni così catastrofiche dimostra «l’evidente sconfitta politica del gruppo dirigente cresciuto all’ombra di Chavez, che non si è dimostrato all’altezza dei propri compiti storici». I meriti dell’azione ispiratrice dei primi anni del chavismo «andrebbero rivalorizzati e recuperati», ripensando le radici dottrinali del socialismo “bolivariano”, «che andrebbero rinforzate e vivificate». Attenzione: a livello geopolitico, il Venezuela resta «un attore decisivo per la possibile formazione di un nuovo mondo multipolare». E infatti, sottolinea Angiuli, «attorno alla tenuta dell’indipendenza del paese da eventuali aggressioni militari esterne si gioca gran parte del suo futuro». Certo, la catastrofe sociale potrebbe sfociare in esiti terribili. E se il Venezuela «dovesse progressivamente subire delle aggressioni militari da parte degli Usa o di paesi vicini governati dall’ultradestra, come la Colombia o il Brasile», secondo Angiuli occorrerà battersi «a difesa della sacrosanta intangibilità dei suoi confini e della sua legittima sovranità». Quello che non serve, per aiutare il Venezuela a uscire dall’incubo, è continuare a «fornire un sostegno acritico e fideistico al governo di Maduro». Meglio rileggere con onestà la grande storia di Hugo Chavez e anche i suoi limiti, onde avviare al più presto «quegli interventi indifferibili e vitali che il popolo venezuelano si attende, e di cui oggi non può più fare a meno».Hugo Chavez è stato assassinato: la notizia è pressoché certa. Poi ci ha pensato l’indegno Maduro, a “terminare” il Venezuela. Ma non da solo: è stato aiutato, nell’opera di devastazione del paese, dai vizi capitali del “bolivarismo” venezuelano. La giusta crociata contro il latifondo ha finito per affidare le terre a cooperative gestite da incapaci, scelti per la loro fedeltà politica. Idem le imprese, simbolo dell’odiata borghesia “coloniale” e parassitaria, alleata dagli Usa: troppe aziende sono state consegnate ai militari, che le hanno fatte fallire. Risultato: il paese ha perso la capacità di produrre beni diversi dal petrolio. E quando il prezzo del greggio è crollato, si è spalancato il baratro. La tragedia? Ad affrontarla non c’era più il popolarissimo Chavez, ma l’incolore Maduro. Che poi, di fronte alle proteste, non ha trovato di meglio che forzare la Costituzione, sospendere la democrazia e far sparare sulla folla, salvo poi accusare gli yankee di aver strangolato il Venezuela. Chi oggi si ostina a difendere Maduro – scrive Giuseppe Angiuli, su “L’Intellettuale Dissidente” – dimostra la stessa cecità del potere imperiale neoliberista che ha fatto la guerra a Chavez fin dal primo giorno, cercando anche di deporlo con il golpe del 2002, neutralizzato dal popolo venezuelano che si strinse attorno al suo leader – l’unico che in tanti anni abbia davvero lavorato, giorno e notte, per il benessere della sua gente.
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Sechi: il governo è finito, ma durerà. Mancano alternative
«Non stiamo facendo una bella figura», ha detto Salvini al Movimento 5 Stelle che sta bloccando il riconoscimento di Guaidó come presidente del Venezuela. Il ministro dell’interno non ha perso l’occasione per replicare all’alleato di governo dopo che Di Maio ha sonoramente bocciato le aperture sulla Tav del collega vicepremier. «Che si tratti di Venezuela, di Torino-Lione o di caso Diciotti – scrive Federico Ferraù sul “Sussidiario” – tra M5S e Lega sembra si sia toccato un punto di non ritorno». Ma secondo Mario Sechi, direttore di “List”, è la mancanza di alternative a consolidare, almeno per ora, la coabitazione a Palazzo Chigi. Con tre variabili: la crisi, l’autonomia differenziata e i voti al Sud. Davvero non c’è tregua: «C’è tanto rumore: per nulla, aggiungerei», dice Sechi, intervistato da Ferraù. «In un sistema normale i governi vanno in crisi, ma qui di normale c’è ben poco». Ovvero: «Siamo in una situazione eccezionale, con un governo di necessità». Realismo: «Questo esecutivo è l’unico “format” disponibile, non ci sono alternative».Dunque Di Maio e Salvini non possono aprire una crisi? «Per andare dove e con chi? Il governo – sostiene Sechi – dal punto di vista della coesione delle forze che lo compongono, è finito. Questo non significa che sia morto». Coabitazione forzata: «Una coabitazione necessaria», secondo Sechi. «In questo quadro, M5S e Lega possono litigare su cose molto serie, ma sapendo che alla fine conviene ad entrambi trovare un accordo». Eppure, sottolinea Ferraù, sul progetto Tav Torino-Lione la tensione è alta. «Se la Lega non porta a casa la Tav è un problema. Per il M5S invece è un problema se la Tav si fa. Però sarebbe un problema ancora maggiore, per entrambi, aprire una crisi di governo». Stallo completo, dunque. Eppure, si domanda Ferraù, perché i sondaggi continuano a premiare l’esecutivo? «La gente non è soddisfatta della politica economica di M5S e Lega, ma li voterebbe ancora – secondo Sechi – perché hanno mantenuto intatta la capacità di alimentare la speranza di cambiamento. Le due cose non sono in contraddizione».Che rischio corrono i pentastellati? «Che il reddito di cittadinanza non funzioni e che alla fine siano assunti soltanto i “navigator”». E la Lega? Il pericolo, per Sechi, è che salti l’autonomia: «La “constituency” del M5S sono gli italiani in cerca di reddito e protezione, quella della Lega sono le imprese del Nord. Autonomia, nei fatti, significa secessione dolce». Lombardia e Veneto, dopo un referendum dirompente che tutti hanno sottovalutato, secondo Sechi vogliono l’autonomia differenziata per avere il controllo delle risorse. «Questo fa ancora parte dell’immaginario del Nord ed è anche il patto fondativo della prima Lega di Bossi con il suo elettorato di riferimento. Salvini lo sa e deve fare presto». Ma quella Lega non s’era pensato che non esistesse più? «Al Nord esiste, eccome. Alle imprese di Lombardia e Veneto non importa nulla o molto poco del partito nazionale che ha in mente Salvini». La nuova Lega sembra importare a Salvini, «ma per altre ragioni, che non interessano i ceti produttivi». E cioè: «Salvini prende i voti del Sud sulla sicurezza e sull’idea di una leadership forte. Per il Nord l’autonomia differenziata è un’assicurazione sulla vita in tempo di recessione, una salvaguardia contro lo spreco di soldi al Sud».L’eventuale statuto autonomo del Nord-Est spaccherebbe l’Italia? «Ma l’Italia è già spaccata», risponde Sechi: «Basta scendere sotto Firenze per vedere un altro paese. Anzi, la vera riuscita del governo gialloverde sarebbe proprio quella di tenere insieme il Sud in cerca di occupazione e il Nord produttivo. La novità, semmai, è un’altra ed è lo scontro generato dalla gestione condominiale». Dovuto a che cosa? «A un imprevisto che ha cambiato i piani iniziali: i voti di Salvini sono destinati a crescere anche al Sud». E sono cifre importanti, sottolinea Sechi. «Ma siccome il voto ravvicinato Salvini non lo avrà, e forse segretamente nemmeno lo vuole perché è troppo rischioso, si tratterà di vedere se e come il suo consenso al Sud si consolida nel tempo». E poi, ricorda Ferraù, per andare al voto occorre un capo dello Stato disposto a sciogliere le Camere. Infatti: «Senza il sì del Quirinale è da pazzi lanciarsi in una crisi al buio». Quindi, conclude Sechi, in queste condizioni «a Salvini resta solo una cosa da fare, perdere tempo per prendere tempo. Il tempo che gli serve per dare l’autonomia al Nord».E con le europee, si domanda Ferraù, cosa potrà cambiare? Il voto di maggio, dice Sechi, «può essere lo spartiacque se le cose vanno molto male ai 5 Stelle, anche se – aggiunge – non credo che accadrà». I grillini potrebbero avere una flessione, «ma non eccessiva, perché tutto il Sud sta aspettando il reddito». Altra mina, l’autorizzazione a procedere contro Salvini per lo sbarco ritardato dei migranti della Diciotti. «Mi auguro che venga respinta», dichiara Sechi, perché «per i pentastellati, votarla sarebbe un suicidio politico». Però, aggiunge, «è vero che sono capaci di tutto». E la Tav valsusina? Alla fine si farà o resterà nel congelatore? Dipende, ragiona Sechi: «I grillini avevano detto che avrebbero chiuso l’Ilva e l’Ilva è aperta; il Tap non si doveva fare e si fa». Insomma, «non mi sorprenderei se anche sulla Tav si trovasse un compromesso». Da parte sua, «Salvini ci starebbe». E con la Francia si può sempre trattare. «Il tema vero – insiste Sechi – è cosa succede nella base a 5 Stelle con il sì alla Tav e nel voto pro-Lega al Nord con il no all’opera. Il rischio del cortocircuito è molto grande, ma torniamo all’inizio: nessuno apre una crisi se non è certo di poterla condurre».«Non stiamo facendo una bella figura», ha detto Salvini al Movimento 5 Stelle che sta bloccando il riconoscimento di Guaidó come presidente del Venezuela. Il ministro dell’interno non ha perso l’occasione per replicare all’alleato di governo dopo che Di Maio ha sonoramente bocciato le aperture sulla Tav del collega vicepremier. «Che si tratti di Venezuela, di Torino-Lione o di caso Diciotti – scrive Federico Ferraù sul “Sussidiario” – tra M5S e Lega sembra si sia toccato un punto di non ritorno». Ma secondo Mario Sechi, direttore di “List”, è la mancanza di alternative a consolidare, almeno per ora, la coabitazione a Palazzo Chigi. Con tre variabili: la crisi, l’autonomia differenziata e i voti al Sud. Davvero non c’è tregua: «C’è tanto rumore: per nulla, aggiungerei», dice Sechi, intervistato da Ferraù. «In un sistema normale i governi vanno in crisi, ma qui di normale c’è ben poco». Ovvero: «Siamo in una situazione eccezionale, con un governo di necessità». Realismo: «Questo esecutivo è l’unico “format” disponibile, non ci sono alternative».
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La verità sul debito italiano: siamo stati “rapinati” nel 1981
Spread e debito pubblico: fanno ormai parte delle nostre vite, ne sentiamo parlare continuamente, ossessivamente, tanto da preoccuparcene più della disoccupazione giovanile a livelli inverosimili e di una mancata crescita che ormai ci sta traghettando dalla crisi alla recessione. Eppure l’opinione pubblica ha talmente interiorizzato la narrazione mercato-centrica del mainstream che non sembra credere ad altro: siamo stati spendaccioni e irresponsabili (Piigs) e dobbiamo dunque espiare le nostre colpe con una giusta dose di rigore e disciplina. Dunque l’austerity è la giusta – nonché unica – strada da percorrere, così come vuole l’approccio dogmatico del modello economico neoliberista, il tatcheriano Tina, “there is no alternative”. Abbiamo un debito pubblico intorno al 130% del Pil, secondo in Ue solo a quello della Grecia, per cui meritiamo la condizione di sorvegliati speciali di Bruxelles e di essere dunque defraudati di una nostra politica fiscale autonoma (di quella monetaria siamo già stati privati). È la strada indicata dalla “virtuosa” Germania, esempio di disciplina e rispetto delle regole per noi italiani, così dissoluti e un anche un po’ scostumati. Ma quando si è creato il fardello del debito pubblico italiano? Tutto parte nel 1981, in cui accade un evento epocale, che fa da spartiacque nella storia della sovranità economica italiana: il famoso divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro.Con un atto quasi univoco, cioè una semplice missiva all’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, Andreatta mette fine alla possibilità del governo di finanziare monetariamente il proprio disavanzo. Rimuovendo l’obbligo allora vigente da parte di Palazzo Koch di acquistare i titoli di Stato emessi sul mercato primario, la Banca d’Italia dismette il ruolo di prestatrice di ultima istanza. D’ora in poi, per finanziare la propria spesa pubblica, l’Italia deve attingere ai mercati finanziari privati, con la conseguente esplosione dei tassi d’interesse rispetto a quelli garantiti in precedenza. Ma non solo: viene rivisto il meccanismo di collocamento dei titoli di Stato, introducendo il cosiddetto “prezzo marginale d’asta”, che consente agli operatori finanziari di aggiudicarsi i titoli al prezzo più basso tra quelli offerti e, quindi, al tasso di interesse più alto. Ad esempio, se durante un’emissione di 50 miliardi di Btp, 40 vengono aggiudicati a un rendimento del 3%, mentre il restante al 5%, alla fine tutti i 50 miliardi saranno aggiudicati al 5%! Gli effetti sono tanto disastrosi quanto immediati: l’ammontare di debito, che nel 1981 era intorno al 58,5%, dopo soli tre anni raddoppia e nel 1994 arriva al 121% del Pil.Come riportato dallo stesso Andreatta alcuni anni dopo, questo stravolgimento strutturale era necessario per salvaguardare i rapporti tra Unione Europea e Italia, e per consentire al nostro paese di aderire allo Sme, ossia l’accordo precursore del sistema euro. Quando l’Italia fa il suo ingresso nell’euro non risponde ai parametri del debito pubblico richiesti da Maastricht, ma l’interesse politico e l’artefatto entusiasmo generale per la sua partecipazione hanno la meglio. Sarà la crisi del 2008 a far emergere tutti i limiti e la fallimentarietà di un’area valutaria non ottimale e insostenibile come l’Eurozona: l’Italia, come altri paesi, senza la possibilità di ricorrere alla svalutazione del cambio, non riesce a recuperare terreno. Il debito pubblico, che finora era rientrato in una fase discendente, passa dal 102,4% al 131,8% del 2017. Una crescita notevole, ma di gran lunga ridimensionata se paragonata all’incremento del debito pubblico di altri paesi dell’area euro, come Spagna, Portogallo e la stessa Francia.Nello stesso arco temporale, infatti, Madrid ha visto il suo debito pubblico schizzare dal 38,5% al 98,3%, il che significa un tasso incrementale di circa il 150%! La crisi non ha risparmiato neanche il vicino Portogallo, che è arrivato lo scorso anno a un livello del debito molto vicino al nostro (125,7%), partendo da un “contenuto” 71,7% del 2008. Eppure i due paesi iberici hanno sforato ripetute volte il famigerato vincolo del 3% – parametro tanto assiomatico quanto infondato – permettendo così all’economia di tornare a crescere, a differenza di quella italiana che si è incamminata nel percorso distruttivo dell’austerity. Situazione analoga per la Francia, con un valore del debito pubblico allo scoppiare della crisi inferiore del 70% e che oggi si aggira intorno al 100%, ma senza che ciò le abbia impedito di aumentare la spesa pubblica e il deficit di bilancio, assicurando in questo modo la crescita del Pil.Dunque, sintetizzando, il nostro famigerato debito pubblico è sì più elevato, ma è partito da una situazione di evidente svantaggio, ed è cresciuto in termini percentuali del tutto in linea con l’andamento degli altri paesi dell’euro a seguito della crisi; anzi, anche meno di altri, come abbiamo visto, e aggravato dalle politiche di austerity, i cui effetti deprimenti sull’economia sono conclamati. Rimane il problema dei tassi d’interesse (da cui il famigerato spread), da noi più elevati che altrove, proprio a causa delle modalità dei meccanismi di collocamento dei titoli di Stato introdotte a seguito dell’epocale divorzio tra i due istituti finanziari italiani. È stato stimato che in trent’anni abbiamo pagato la colossale cifra di 3mila miliardi di interessi sul debito pubblico! In queste circostanze a nulla valgono gli sforzi fiscali dell’Italia, che registra da quasi trent’anni avanzo primario, ossia quella situazione, del tutto antisociale, per cui lo Stato incassa più di quanto spende, esclusi gli interessi sul debito pubblico. Per onorare il costo del debito, ossia quell’assurda creazione del denaro dal denaro, vengono sottratte risorse finanziarie per servizi pubblici e sostegno alla popolazione in difficoltà. Dunque, una redistribuzione al contrario, dai cittadini ai mercati finanziari. Il tempo delle riforme è ormai improcrastinabile.(Ilaria Bifarini, “Tutta la verità sul debito pubblico, contro le menzogne di Bruxelles”, da “Il Primato Nazionale” del 10 gennaio 2019).Spread e debito pubblico: fanno ormai parte delle nostre vite, ne sentiamo parlare continuamente, ossessivamente, tanto da preoccuparcene più della disoccupazione giovanile a livelli inverosimili e di una mancata crescita che ormai ci sta traghettando dalla crisi alla recessione. Eppure l’opinione pubblica ha talmente interiorizzato la narrazione mercato-centrica del mainstream che non sembra credere ad altro: siamo stati spendaccioni e irresponsabili (Piigs) e dobbiamo dunque espiare le nostre colpe con una giusta dose di rigore e disciplina. Dunque l’austerity è la giusta – nonché unica – strada da percorrere, così come vuole l’approccio dogmatico del modello economico neoliberista, il tatcheriano Tina, “there is no alternative”. Abbiamo un debito pubblico intorno al 130% del Pil, secondo in Ue solo a quello della Grecia, per cui meritiamo la condizione di sorvegliati speciali di Bruxelles e di essere dunque defraudati di una nostra politica fiscale autonoma (di quella monetaria siamo già stati privati). È la strada indicata dalla “virtuosa” Germania, esempio di disciplina e rispetto delle regole per noi italiani, così dissoluti e un anche un po’ scostumati. Ma quando si è creato il fardello del debito pubblico italiano? Tutto parte nel 1981, in cui accade un evento epocale, che fa da spartiacque nella storia della sovranità economica italiana: il famoso divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro.
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Della Luna: aria di recessione, verso un golpe stile 2011?
Serie tanto ripetute e brutte di perdite sui titoli, sia azionari che obbligazionari (e in quasi tutti i comparti dei portafogli dei fondi di investimento) si erano avute solo nel 1929. Ma oggi, rispetto al 1929, ci sono aggravanti: un rallentamento in atto dell’economia su scala globale; banche in crisi per migliaia di miliardi di perdite su derivati e crediti; prossima riduzione o fine del quantitative easing, sia in Europa che in America; ripetuti rialzi dei tassi; un tedesco o simile a capo della Bce al posto di Draghi. Con quanto sopra si prepara la tempesta perfetta, che – a volerlo – si poteva facilmente prevenire sin dagli interventi statali nella crisi del 2008, ma che l’oligarchia bancaria globalista ha per contro voluto permettere (con la solita strategia del pump-and-dump, ma elevata al cubo), perché grazie ad essa potrà rastrellare tutti gli asset e tutti i residui di autonomia politica dalle nazioni che sta mettendo in ginocchio. Pare che questo piano sia contrastato da una forza politica incarnata soprattutto negli alti gradi del Pentagono nell’amministrazione Trump, il quale, oltre ad aver imposto alla Fed moderazione nei rialzi dei tassi, nel 2018 ha emesso decreti presidenziali idonei a colpire con sequestri, arresti e corti marziali chi attacca i diritti umani e l’economia, anche dall’estero.Se la tempesta perfetta non verrà sventata, l’Italia, col suo debito pubblico e la sua inefficienza comparata, e con un tedesco o finlandese a capo della Bce, verrà colpita più duramente di molti paesi che, dal 2008 ad oggi, hanno recuperato fortemente sia nel Pil che nel mercato immobiliare, acquisendo così la capacità di assorbire i colpi dei mercati. L’Italia cadrà in recessione e lo spread diverrà insostenibile. A quel punto, delle due, l’una: o uscirà dall’euro e magari anche dall’Ue, recuperando la sovranità monetaria e sperando che i suoi governanti siano tecnicamente capaci di gestire il cambiamento; oppure il trinomio Bce-Ue-Quirinale farà un nuovo golpe, mettendo su un governo alla Monti, si dice con Draghi premier, o con una Trojka europeista, che imporrà una nuova stangata fiscale, ovviamente anche patrimoniale, e dovrà reprimere con la forza le inevitabili proteste.Questo nuovo golpe avrebbe come protagonisti: un presidente della Repubblica nominato da una maggioranza parlamentare frutto di una legge già dichiarata incostituzionale, e scelto da Renzi e soci, cioè dal partito dei banchieri, pensando a tornare al governo senza passare per nuove elezioni. Nel suo passato, di notevole vi è solo la sua importante partecipazione, come vicepremier, a un governo che, in violazione della Costituzione e senza nemmeno dichiarare la guerra, bombardò i civili serbi su richiesta e per conto di interessi stranieri, al fine – come ha ricordato Diego Fusaro – di fare del Kosovo una grande piattaforma Nato anti-russa; e un Draghi, che dapprima, il 2 giugno ‘92, partecipò quale direttore generale del Tesoro al famigerato Britannia party, nel quale fu pianificata la destabilizzazione e privatizzazione dell’Italia in favore di capitalisti stranieri, e poi si impose sulle perplessità della Sorveglianza di Bankitalia al fine di permettere l’acquisto di Antonveneta da parte di Mps – che, fatto appositamente senza previa “due diligence”, mandò in rovina la banca senese, arricchendo enormemente soggetti la cui identità è ancora ben coperta. Si avvicina, insomma, il termine ultimo per potersi trasferire con le proprie attività in terre più salubri.(Marco Della Luna, “Le nozze di golpe e recessione”, dal sito di Della Luna del 5 gennaio 2019).Serie tanto ripetute e brutte di perdite sui titoli, sia azionari che obbligazionari (e in quasi tutti i comparti dei portafogli dei fondi di investimento) si erano avute solo nel 1929. Ma oggi, rispetto al 1929, ci sono aggravanti: un rallentamento in atto dell’economia su scala globale; banche in crisi per migliaia di miliardi di perdite su derivati e crediti; prossima riduzione o fine del quantitative easing, sia in Europa che in America; ripetuti rialzi dei tassi; un tedesco o simile a capo della Bce al posto di Draghi. Con quanto sopra si prepara la tempesta perfetta, che – a volerlo – si poteva facilmente prevenire sin dagli interventi statali nella crisi del 2008, ma che l’oligarchia bancaria globalista ha per contro voluto permettere (con la solita strategia del pump-and-dump, ma elevata al cubo), perché grazie ad essa potrà rastrellare tutti gli asset e tutti i residui di autonomia politica dalle nazioni che sta mettendo in ginocchio. Pare che questo piano sia contrastato da una forza politica incarnata soprattutto negli alti gradi del Pentagono nell’amministrazione Trump, il quale, oltre ad aver imposto alla Fed moderazione nei rialzi dei tassi, nel 2018 ha emesso decreti presidenziali idonei a colpire con sequestri, arresti e corti marziali chi attacca i diritti umani e l’economia, anche dall’estero.
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Magaldi: la sinistra ignorante che vorrebbe spegnere Rinaldi
Uso criminoso della televisione: manca solo la formula del famigerato “editto bulgaro” di berlusconiana memoria, all’invettiva di Steven Forti su “Rolling Stone” contro Antonio Maria Rinaldi, per chiedere l’allontanamento dell’economista dalle reti televisive italiane, evidentemente inquinate da un economista non-mainstream, non-neoliberista, estraneo all’autismo del pensiero unico. Tu chiamalo, se vuoi, giornalismo. Nel libro “M, il figlio del secolo”, Antonio Scurati ricorda che Benito Mussolini, direttore socialista de “L’Avanti” prima di diventare Duce, almeno una cosa l’aveva detta giusta: e cioè che «la gran parte dei giornalisti italiani sono dei pennivendoli con la schiena poco dritta». Lo sottolinea Gioele Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, in una video-chat su YouTube con Marco Moiso. Tema: l’ordinaria macelleria giornalistica che trasforma in carne di porco chiunque non canti nel coro – il sovranista Rinaldi e lo stesso Magaldi, definito (comicamente) «scrittore complottista, fissato col pericolo massonico». E per giunta «vittimista», per via della congiura del silenzio che ha oscurato il suo bestseller “Massoni”, pubblicato da Chiarelettere nel 2014 e tuttora in vetta classifiche Ibs. Figurarsi: come farebbero, gli attuali talkshow, a citare un saggio che rivela l’appartenenza supermassonica di personaggi come Monti, Draghi, D’Alema e Napolitano?Nonostante lo sgangherato assalto al promotore del blog “Scenari Economici”, liquidato come «narcisista e caciarone», economista senza prestigio accademico e piccolo opportunista a caccia di poltrone, Magaldi invita lo stesso Steven Forti, e gli analoghi missionari neoliberali asserragliati tra i ranghi dell’ex sinistra, a farsi avanti in modo aperto: perché non intervistare lo stesso Magaldi, per parlare finalmente del suo libro e magari anche del Movimento Roosevelt e del “partito che serve all’Italia”, progetto al quale Antonio Maria Rinaldi si è accostato in modo interlocutorio, «come battitore libero e autonomo pensatore», per prendere nota di quanto si va discutendo? Scoprirebbero, Steven Forti e i suoi sodali, che i problemi del mondo hanno sempre almeno due spiegazioni, in democrazia. Sono le famose due campane, che un tempo i giornalisti si peritavano di ascoltare, non foss’altro che per un elementare rispetto dei loro lettori. Intanto prendano nota, alla redazione di “Rolling Stone”: sono tutti invitati alla London Metropolitan University, il 30 marzo, dove parleranno un bel po’ di economisti post-keynesiani, impegnati a spiegare come mai questa Europa è sempre in crisi, perde i pezzi (Gran Bretagna) ed è diventata una Disunione Europea dove tutti si fanno le scarpe a vicenda. Vuoi vedere che la politica di austerity introdotta dall’Eurozona è una catastrofe, e in ultima analisi si è trasformata in una fabbrica di sovranismi, nazionalisti, populismi e Gilet Gialli?Il mainstream che si trincera dietro il politically correct non perdona a Rinaldi di tifare per i gialloverdi: fa scialo del più convenzionale corredo squadristico a base di insulti (razzismo, xenofobia, fascismo) per infangare Salvini, il nuovo mostro da sbattere in prima pagina, ma si guarda bene dall’interrogarsi sulle ragioni del fenomeno. Pensiero magico: la demonizzazione dell’Uomo Nero a questo serve, a evitare di chiedersi il perché delle cose. Un consiglio? Tornare a essere laici, smettendo i panni del fanatismo religioso. E magari, cessare di considerare l’avversario un nemico da abbattere. In altre parole, converrebbe ragionare. A proposito, aggiunge Magaldi: hanno una proposta, i coristi “di sinistra” come Steven Forti, su come uscire dalla crisi? Sono bravissimi a censurare le idee altrui, e a demolirle in modo unilaterale, senza mai dialogo, quando non riescono più a soffocarle (come nel caso di Rinaldi, spesso ospitato in televisione). Ma ce l’hanno, in tasca, un Piano-B? E se ce l’hanno, perché non ne parlano mai? Non sarebbe ora di cominciare a farlo? «Informo Steven Forti che diversi esponenti di quella che immagino sia la sua area di riferimento, cioè il Pd e LeU, fanno parte del Movimento Roosevelt». Non solo, aggiunge Magaldi: «Alcuni di loro, come Rinaldi, guardano con interesse anche alla prospettiva del “partito che serve all’Italia”, dato che – dalle loro parti – vedono che si va verso il disfacimento».“Rolling Stone” definisce «un gruppetto», la pattuglia di intellettuali, da Nino Galloni a Ilaria Bifarini, aggregati per ora nelle prime riunioni convocate per valutare la possibilità del nuovo soggetto politico, «il cui sviluppo, a partire dal nome, sarà a cura dei costituenti, dato il rispetto che abbiamo per il metodo democratico». Gruppetto? Sui numeri sarà il tempo a dire la sua, perché siamo solo ai preliminari, assicura Magaldi. Che però aggiunge: anche se alla fine non fossimo in tantissimi, «informo Steven forti che un “gruppetto” di massoni riuniti intorno alla Loggia delle Nove Sorelle, alla fine del ‘700, determinò tanto i preparativi per la Rivoluzione Americana, quindi per la Guerra d’Indipendenza, che quelli per la Rivoluzione Francese: talvolta i gruppetti, se ben coesi e agguerriti, fanno le rivoluzioni». Se Steven Forti non afferra il concetto, prosegue Magaldi, forse è perché «non ha grande dimestichezza con lo studio della storia», benché il suo curruculum accademico lo accrediti come esperto in storia contemporanea. Iniste Magadi: «Steven Forti mi sembra carente di letture», se in qualche modo associa la massoneria al cospirazionismo. L’autore di “Massoni”, libro che smonta moltissime tesi complottistiche, cita il filosofo Gian Mario Cazzaniga, che nel saggio “La religione dei moderni” «spiega come la religione dei moderni sia la politica, e spiega anche che la politica, nel senso moderno e contemporaneo, l’hanno creata i proprio massoni».Altre letture consigliate alla redazione di “Rolling Stone”: le opere di un grande sociologo come Jürgen Habermas, «che ha spiegato come lo stesso concetto di opinione pubblica sia nato da ambienti massonici». E cioè: si prenda atto, meglio tardi che mai, che «la massoneria è un soggetto storico importante». Se poi il giovane Steven Forti leggesse pure il saggio di Magaldi, scoprirebbe che negli ultimi decenni un’élite massonica internazionale, reazionaria e neoaristocratica, ha progettatto e gestito la globalizzazione neoliberista che ha privatizzato il pianeta, rottamando i caposaldi del welfare tanto cari alla sinistra, a loro volta “fabbricati” sempre da massoni, ancorché progressisti, come il massimo economista del Novecento, l’inglese John Maynard Keynes, e il connazionale William Beveridge, l’inventore del “welfare system”. Per inciso: il progressista Keynes era iscritto al partito liberale. I laburisti, invece – come i socialisti francesi, i socialdemocratici tedeschi e l’ex Pci italiano – sono stati i più zelanti esecutori, negli ultimi decenni, delle direttive antidemocratiche dell’élite globalista: è stata proprio la sedicente sinistra a obbedire alla peggiore destra economica. In Italia l’ha fatto prima con Prodi e Draghi, poi con il governo Monti: Fiscal Compact votato senza fiatare, così come la legge Fornero sulle pensioni e il pareggio di bilancio inserito proditoriamente nella Costituzione, con lo Stato terremotato dal ricatto dallo spread.Non la si vuole vedere, la realtà? E allora all’intellighenzia dell’ex sinistra non resta che godersi Salvini, dandogli ogni giorno del fascista. Almeno, puntualizza Magaldi, si eviti di scadere nella disinformazione più scorretta, rinfacciando come una colpa – a un uomo come Antonio Maria Rinaldi – la libertà intellettuale di cui gode: avrà diritto o no, di dirsi scontento della manovra economica del governo gialloverde? Proprio non glielo si vuole riconoscere, il diritto di aspettarsi di più dall’esecutivo Conte? Scherno, disprezzo e criminalizzazione di chi non la pensa come te, riassume Magaldi, non fanno parte dell’abc dell’informazione, che può essere anche fortemente critica, ma mai scorretta. I media mainstream sembrano lo specchio della politica italiana, basata su scontri quotidiani dal sapore tribale. Puoi anche farlo cadere, un avversario, ma poi sapresti come agire, al suo posto? Qualcuno ricorda un’idea – una sola – che negli ultimi vent’anni la sedicente sinistra abbia partorito, per migliorare la situazione, mentre passava il tempo a tuonare contro l’orrido Berlusconi – per poi fare persino peggio, una volta a Palazzo Chigi? Il punto è che c’è bisogno di tutti, sembra dire Magaldi. Oggi più che mai, nessuno deve sentirsi escluso. Lo gridano, gli elettori, quando votano per i cosiddetti populisti. Ormai vedono benissimo quant’è infame, la post-democrazia Ue. E’ tanto comodo, ricamare indignati elzeviri sui tweet di Salvini: serve a continuare a non vedere cosa sta succedendo, lassù, dove un pugno di decisori tiene in ostaggio mezzo miliardo di persone, in Europa. Fino a quando?Uso criminoso della televisione: manca solo la formula del famigerato “editto bulgaro” di berlusconiana memoria, all’invettiva di Steven Forti su “Rolling Stone” contro Antonio Maria Rinaldi, per chiederne l’allontanamento dalle reti televisive italiane, evidentemente inquinate da un economista non-mainstream, non-neoliberista, estraneo all’autismo del pensiero unico. Tu chiamalo, se vuoi, giornalismo. Nel libro “M, il figlio del secolo”, Antonio Scurati ricorda che Benito Mussolini, direttore socialista de “L’Avanti” prima di diventare Duce, almeno una cosa l’aveva detta giusta: e cioè che «la gran parte dei giornalisti italiani sono dei pennivendoli con la schiena poco dritta». Lo sottolinea Gioele Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, in una video-chat su YouTube con Marco Moiso. Tema: l’ordinaria macelleria giornalistica che trasforma in carne di porco chiunque non canti nel coro – il sovranista Rinaldi e lo stesso Magaldi, definito (comicamente) «scrittore complottista, fissato col pericolo massonico». E per giunta «vittimista», per via della congiura del silenzio che ha oscurato il suo bestseller “Massoni”, pubblicato da Chiarelettere nel 2014 e tuttora in vetta classifiche Ibs. Figurarsi: come farebbero, gli attuali talkshow, a citare un saggio che rivela l’identità supermassonica di personaggi come Monti, Draghi, D’Alema e Napolitano?
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Gilet Gialloverdi, ora gli italiani si aspettano risposte vere
In campagna elettorale sembravano impazziti: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano? Ovvio, ma lo facevano anche gli altri. Loro di più? Infatti hanno vinto. O meglio: hanno vinto i 5 Stelle, col doppio dei voti di Salvini. Già l’indomani, però, Di Maio disorientava il pubblico votante, dichiarandosi disposto ad allearsi con chicchessia, dalla Lega al Pd, pur di andare al governo. D’accordo, ma per fare cosa? Poi è arrivato il Contratto, con dentro quasi tutto: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano ancora? Possibile, ma forse a fin di bene: sapevano che sarebbe stata dura, con Bruxelles, ma ne erano consapevoli e si preparavano a dare battaglia. Davvero? Non si direbbe, vista la mala parata di fronte ai cani da guardia della Commissione Europea, gli stessi che invece ora si preparano a condonare all’anti-italiano Macron persino il massimo sacrilegio possibile, nell’euro-santuario: la violazione del sacro vincolo del 3% nel rapporto deficit-Pil. Prima ancora che il “governo del cambiamento” nascesse, del resto, i gialloverdi avevano dovuto ingoiare un super-rospo: il “niet” del Quirinale su Paolo Savona all’economia. Di Maio ventilò l’impeachment per Mattarella, Salvini se ne guardò bene. Oggi Di Maio è in caduta libera, mentre Salvini si muove da padrone della scena. Un caso?Salvini è abile, si dice. Ha osato rompere il tabù dell’accoglienza obbligatoria a costo di fare la faccia feroce coi più deboli, anche per smascherare l’ipocrisia egoistica dell’Ue e quella di chi – sui migranti – ha costruito carriere milionarie. Poi però è arrivato il decreto sicurezza, con limitazioni allarmanti alle libertà personali, specie quelle di chi ha motivo di esprimere la propria sofferenza sociale e quindi potrebbe protestare: pesantissime sanzioni per il blocco stradale e l’occupazione di terreni. Poi Salvini ha difeso a oltranza il topo morto che sta marcendo nella pancia del Piemonte, cioè un progetto-vergogna come il Tav Torino-Lione, notoriamente utile solo a chi costruisse tunnel e ferrovia. Infine, dopo aver chiesto mandato “a 60 milioni di italiani” per trattare con l’Ue, ha proposto alla Germania “un asse Roma-Berlino” (alla Germania, cioè al paese che più di ogni altro ha danneggiato l’Italia da quando esiste l’Eurozona). Poco dopo s’è involato verso Israele per la più classica delle genuflessioni diplomatiche, sperando di ottenere l’agognato sdoganamento come leader credibilmente moderato. Solo che si è fatto fotografare “alla Salvini”, tra soldati sorridenti e Stelle di David. Una foto lo ritrae mentre, addirittura, impugna una mitragliatrice. Non pago, il neoleghista post-padano s’è sbilanciato sul terreno della politica estera, definendo “terrorista” il network libanese Hezbollah, impegnato in Siria contro i terroristi veri, quelli dell’Isis.Baravano fin dall’inizio, i gialloverdi? Hanno preso in giro gli elettori italiani fin dal primo giorno di vita del “governo del cambiamento” o si sono semplicemente accorti di aver catastroficamente sottovalutato l’avversario? La flessione ingloriosa di fronte ai ragionieri finto-europeisti della Commissione Europea è un ultimo tentativo (tattico) per prendere tempo in attesa di una prossima controffensiva pro-Italia o è solo il classico inizio della fine, con la sepoltura delle illusioni e la rassegnazione alla consueta chemio-economia del rigore ammazza-Stati? Domande sospese ma ormai ridondanti, vista la rapida evoluzione dello scenario: i francesi nelle strade fanno tremare l’ex onnipotente Macron costringendolo alla resa, mentre il governo italiano (“populismo” in carica, regolarmente insediato) anziché rilanciare sull’onda dei Gilet Gialli si lascia prendere a sberle dal primo Moscovici di passaggio. Era sbagliato sbilanciarsi in campagna elettorale per un’espansione del deficit? Niente affatto. Però poi bisognava tenere il punto, a tutti i costi, pena la perdita della propria reputazione pubblica, italiana e internazionale. Era così assurdo, dare credito ai gialloverdi? No, perché l’espansione del deficit è esattamente la direzione appropriata – necessariamente eretica – per sconfessare il pretestuoso economicismo delle oligarchie finanziarie che utilizzano per i loro scopi la tecnocrazia di Bruxelles.Chi sono, in realtà, i due politici che avrebbero dovuto condurre una storica vertenza “sindacale” a favore dell’Italia? Di Maio è sbucato quasi dal nulla, attraverso il videogame elettorale interno messo in piedi da Grillo e Casaleggio, e prima delle elezioni vagava tra gli Usa e Londra in cerca di endorsement nei palazzi del massimo potere, quello che ha organizzato la globalizzazione unilaterale che ha messo in ginocchio anche l’Italia. Fino ad allora, sull’euro e l’Europa, i 5 Stelle erano riusciti a dire tutto e il contrario di tutto, senza mai delineare né un’analisi chiara né una linea politica definita, fino alla clamorosa pagliacciata del trasloco (tentato, ma non riuscito) tra gli ultra-euristi dell’Alde al Parlamento Europeo. La nuova Lega salviniana, per converso, è partita da posizioni radicalmente euroscettiche, arrivando a portare in Parlamento un economista keynesiano come Bagnai, salvo poi cominciare progressivamente a cedere ai soliti diktat di Bruxelles – spettacolo triste, solo in parte occultato dal quotidiano agitarsi di Salvini, nel tentativo di distrarre l’opinione pubblica dai fallimenti governativi. Al di là dei limiti strutturali di un’alleanza debole – i grillini “anticasta” e i leghisti “anti-migranti” – restano oscuri i piani della sovragestione da parte del vero potere, vista la confusione che regna sovrana dalle parti dell’esecutivo.Ancora non è dato sapere quanto durerà la coabitazione gialloverde, e se per caso i suoi sponsor dietro le quinte non abbiano già mollato Di Maio per puntare sul solo Salvini, a patto che scenda a più miti consigli – cosa che ha tutta l’aria di fare, a giudicare dalle recenti sterzate verso l’elettorato più tradizionalmente cauto. C’è un disegno di più lungo respiro, non ancora visibile? L’unica vera certezza riguarda la crisi dell’assetto europeo: la Francia in panne, la Germania in affanno, la Gran Bretagna ancora alle prese con l’irrisolta Brexit, l’Est Europa che scalpita per ritagliarsi spazi di autonomia. Salvini e Di Maio avevano illuso moltissimi spettatori, lasciando credere che l’Italia potesse diventare il motore di un cambiamento capace di smontare i dogmi dell’Ue, che hanno rapidamente impoverito il continente. Se non altro, i due esponenti gialloverdi hanno costretto gli italiani (e gli europei) a prendere atto, almeno, della necessità di una diversa narrazione: non è più possibile continuare ad accettare passivamente le politiche di rigore, che l’élite finanziaria neoliberista somministra alle nazioni attraverso i tecnocrati dell’Unione. Il funesto “ce lo chiede l’Europa” non è più proponibile, anche grazie a Salvini e Di Maio. Troppo poco, certo.Persino il tormentato governo Conte, comunque, potrebbe rivelare a posteriori una sua effettiva utilità, se domani – dopo le europee – prendesse corpo un vasto movimento politico, trasversale, disposto a rivendicare per l’Europa il diritto alla sovranità democratica, cominciando da una Costituzione Europea che insedi finalmente a Bruxelles un vero governo federale, regolarmente votato dal Parlamento Europeo eletto dai cittadini. Sogni, speranze e grandi incognite, a cominciare dalla paventata grande recessione in arrivo, che potrebbe far precipitare tutte le crisi politiche in atto. E gli italiani come reagirebbero, se dovessero arrendersi all’evidenza di una vera e propria resa? Che fine farebbe Di Maio, se non riuscisse a varare neppure l’ombra dello sbandieratissimo reddito di cittadinanza? E dove finirebbero i tatticismi del disinvolto Salvini, di fronte alla porta che l’Ue pare stia per sbattere il faccia all’Italia? Da più parti si osserva come manchi, tuttora, una classe dirigente all’altezza della situazione politica. Grazie al governo gialloverde sono caduti alcuni tabù e un bel po’ di leggende, per esempio sull’intoccabilità dei deficit. Ma resta, a monte, il macigno di un’Europa non democratica, non alleata, non amica. Anche grazie alla Lega e ai 5 Stelle, oggi gli italiani il problema lo vedono benissimo. A farsi attendere, ancora, è la soluzione.(Giorgio Cattaneo, “Bravi i gialloverdi a denunciare il rigore Ue, ma ora gli italiani si aspettano i fatti”, dal blog del Movimento Roosevelt del 14 dicembre 2018).In campagna elettorale sembravano impazziti: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano? Ovvio, ma lo facevano anche gli altri. Loro di più? Infatti hanno vinto. O meglio: hanno vinto i 5 Stelle, col doppio dei voti di Salvini. Già l’indomani, però, Di Maio disorientava il pubblico votante, dichiarandosi disposto ad allearsi con chicchessia, dalla Lega al Pd, pur di andare al governo. D’accordo, ma per fare cosa? Poi è arrivato il Contratto, con dentro quasi tutto: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano ancora? Possibile, ma forse a fin di bene: sapevano che sarebbe stata dura, con Bruxelles, ma ne erano consapevoli e si preparavano a dare battaglia. Davvero? Non si direbbe, vista la mala parata di fronte ai cani da guardia della Commissione Europea, gli stessi che invece ora si preparano a condonare all’anti-italiano Macron persino il massimo sacrilegio possibile, nell’euro-santuario: la violazione del sacro vincolo del 3% nel rapporto deficit-Pil. Prima ancora che il “governo del cambiamento” nascesse, del resto, i gialloverdi avevano dovuto ingoiare un super-rospo: il “niet” del Quirinale su Paolo Savona all’economia. Di Maio ventilò l’impeachment per Mattarella, Salvini se ne guardò bene. Oggi Di Maio è in caduta libera, mentre Salvini si muove da padrone della scena. Un caso?
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Il debito globale esplode. L’Italia? Meglio di quanto si creda
Nel secondo trimestre del 2018 le dimensioni globali del debito hanno raggiunto un nuovo massimo, arrivando a 260.000 miliardi di dollari. Al tempo stesso il rapporto globale debito/Pil ha superato per la prima volta la soglia del 320%. Su questo totale, il 61% (160.000 miliardi di dollari) è rappresentato dal debito privato del settore non-finanziario, mentre solo il 23% è rappresentato dal tanto vituperato debito pubblico. Gli Usa da soli hanno emesso più del 30% del nuovo debito pubblico, con una notevole accelerazione negli ultimi due anni sotto la gestione Trump. Il ministero del Tesoro statunitense è seguito, in questo, dalle agenzie di debito giapponesi e cinesi e, a grande distanza, dalle maggiori economie dell’Eurozona. I valori riportati dalle agenzie pubbliche cinesi vanno valutati con cautela alla luce dei ripetuti casi di falsificazione delle statistiche perfino da parte di funzionari pubblici. È quindi probabile che non solo il debito pubblico di Pechino, ma anche quello delle imprese cinesi, che già è il più elevato al mondo, sia in realtà più allarmante di quanto le stime ufficiali vogliano far credere.Storicamente il debito di un paese, sia pubblico che privato, tende a crescere nel tempo in rapporto costante con la dimensione dell’economia. Fanno eccezione, seppure notevole, i casi di default improvvisi, che cancellano grandi porzioni del debito. Pertanto l’enormità del debito totale non fornisce, di per sé, informazioni sulla sua sostenibilità. Non si può nemmeno dedurre, per contro, che un debito totale più basso sia segno di stabilità finanziaria. In realtà un livello molto basso, o addirittura l’assenza di debito, potrebbe rivelare solo una completa mancanza di fiducia, tale da escludere tutti gli agenti economici nazionali dai mercati internazionali del credito. Questo fu, per esempio, il caso dell’Argentina nei cinque anni successivi al drammatico default del 2002. In una prospettiva adeguata, un’equa valutazione dovrebbe tenere conto della dimensione del debito totale in rapporto al Pil. Da questo punto di vista, usando una misura opportuna, la classifica globale appare rovesciata: il Lussemburgo balza al primo posto con un debito totale pari al 434% del Pil, composto quasi esclusivamente da debiti societari.Ad una certa distanza troviamo il Giappone, con un debito totale che si aggira sul 373% del Pil, caratterizzato da una componente preponderante di debito pubblico, il 216%. L’elevata incidenza del debito sia pubblico che privato pone la Francia, la Spagna e il Regno Unito nei primi otto posti della classifica, mentre l’Italia fa la sua comparsa solo al nono posto, con un rapporto di debito totale ben bilanciato, al 265% del Pil, e con bassi livelli di debito delle famiglie e delle imprese, che compensano il più elevato livello del debito pubblico. Ma anche un basso rapporto tra debito totale e Pil non può essere considerato segno di virtù o salute economica. Al fondo della classifica stanno i casi paradossali dell’Argentina e della Turchia. Sebbene entrambi i paesi abbiano debiti totali sotto controllo (il debito privato è praticamente inesistente in Argentina, mentre il debito pubblico in Turchia è appena il 28% del Pil), entrambi i paesi corrono il rischio di perdere l’accesso ai mercati a causa delle loro crisi valutarie e della bilancia dei pagamenti.Per un apparente paradosso, i tassi di interesse a breve termine dell’Argentina, che ha ambiente finanziario a basso indebitamento, sono al 70%, mentre quelli del Giappone, che ha un debito mostruoso, sono stabilmente negativi. Preoccuparsi solo del debito pubblico quando si vuole valutare lo stato di un’economia, magari facendo riferimento a delle soglie arbitrarie, è sempre una cattiva pratica, che porta a conclusioni errate. I criteri usati dai mercati per valutare la solvibilità del debito sono molteplici: la percentuale del debito detenuto da investitori esteri rispetto a quelli interni, il fatto che il debito sia emesso sotto legge nazionale oppure legge estera, la crescita dell’economia, la ricchezza finanziaria dei cittadini, l’efficienza del gettito fiscale, la sovranità monetaria, eccetera. Nel caso del Giappone, per esempio, il 90% del debito è nelle mani della sua stessa banca centrale, dei suoi fondi pensione e delle banche giapponesi, ed è quasi perfettamente bilanciato dalla buona salute finanziaria delle istituzioni pubbliche. È quasi impossibile immaginare una crisi di fiducia che semini dubbi sulla solvibilità del governo giapponese. Allo stesso modo, il fatto che i paesi dell’Eurozona non possano gestire la propria politica monetaria in modo autonomo fa sì che tutti i debiti pubblici appaiano, di fatto, come soggetti a legge estera, e questa è una condizione che rende il problema enormemente più complesso da gestire.Inoltre, questo debito è in media detenuto per più del 70% da investitori stranieri, una categoria che per definizione è più reattiva sui mercati secondari, e alimenta facilmente il panico in caso di vendita generalizzata. E c’è di più. Le statistiche ufficiali non considerano il problema del “debito implicito”, ovvero il peso legato agli impegni finanziari che i governi si sono assunti rispetto alle pensioni e alla spesa sanitaria. In generale, questi debiti futuri non appaiono nelle cifre dei conti nazionali per fondate ragioni, legate alle difficoltà di stimare l’aumento dei costi su orizzonti temporali così lontani. Se questi debiti impliciti dovessero essere messi nel conto, il debito Usa sarebbe, per esempio, quintuplicato, raggiungendo i 100.000 miliardi di dollari. Ma la Spagna, il Lussemburgo e l’Irlanda sarebbero messi ancora peggio, dato che le loro passività aumenterebbero di oltre 10 volte, superando il 1.000% del Pil nel caso irlandese. L’Italia, invece, dal punto di vista del debito implicito, sotto la legislazione attuale, risulterebbe il paese europeo più virtuoso.A livello globale, il debito delle imprese è la variabile che i mercati temono maggiormente. Un settore privato pesantemente indebitato è vulnerabile all’aumento dei tassi di interesse, dopo anni in cui i tassi di interesse sono stati mantenuti artificialmente bassi favorendo l’espansione del credito e la riduzione del capitale societario attraverso il massiccio riacquisto di azioni proprie. L’instabilità intrinseca dell’indebitamento rispetto all’apporto di capitale proprio suggerisce che il prossimo rallentamento della crescita potrebbe portare a un congelamento insolitamente forte degli investimenti aziendali. Questo in Italia è già successo durante la Grande Recessione del 2008-2009: per ogni punto percentuale di riduzione della crescita del credito, c’è stata una contrazione di quattro punti negli investimenti nelle imprese più dipendenti dal credito bancario, e due punti di contrazione in quelle finanziariamente più indipendenti. Questo è un disastro economico che non si deve ripetere.(Marcello Minenna, “Il debito globale è al suo apice e l’Italia sta meglio di quanto si creda”, da “Social Europe” del 28 novembre 2011; analisi tradotta e ripresa da “Voci dall’Estero”).Nel secondo trimestre del 2018 le dimensioni globali del debito hanno raggiunto un nuovo massimo, arrivando a 260.000 miliardi di dollari. Al tempo stesso il rapporto globale debito/Pil ha superato per la prima volta la soglia del 320%. Su questo totale, il 61% (160.000 miliardi di dollari) è rappresentato dal debito privato del settore non-finanziario, mentre solo il 23% è rappresentato dal tanto vituperato debito pubblico. Gli Usa da soli hanno emesso più del 30% del nuovo debito pubblico, con una notevole accelerazione negli ultimi due anni sotto la gestione Trump. Il ministero del Tesoro statunitense è seguito, in questo, dalle agenzie di debito giapponesi e cinesi e, a grande distanza, dalle maggiori economie dell’Eurozona. I valori riportati dalle agenzie pubbliche cinesi vanno valutati con cautela alla luce dei ripetuti casi di falsificazione delle statistiche perfino da parte di funzionari pubblici. È quindi probabile che non solo il debito pubblico di Pechino, ma anche quello delle imprese cinesi, che già è il più elevato al mondo, sia in realtà più allarmante di quanto le stime ufficiali vogliano far credere.