Archivio del Tag ‘Austria’
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Dal Fmi 400 miliardi a costo zero, però l’Italia non li vuole
Quando la Grecia nel 2010 entrò nel programma del Fondo Monetario, il suo rapporto debito-Pil era del 146%. L’Italia, fatte le debite differenze, quest’anno raggiungerà il 170%. Non lo possiamo certamente ridurre con l’avanzo primario tirando la cinghia. Bisogna parlare di come generare risorse addizionali. Siamo davanti a un shock unico nel suo genere. Come si dice in econometria, c’è un “regime change”. Il problema non è tanto e solo la fine del lockdown, ma quello che verrà fatto nei prossimi mesi. Servono due cose. La prima è incidere in modo sostanziale sulle aspettative di imprenditori e consumatori. La seconda è creare un parallelismo virtuoso, per nulla scontato, tra fine dell’emergenza sanitaria e riaperture. L’unicità di questa crisi dipende anche dal fatto che riaprire le attività commerciali non vuol dire che i consumatori andranno necessariamente a spendere, in assenza di aspettative più favorevoli. Gli strumenti messi in campo dal Decreto Rilancio? Non sono adeguati. Nei primi tempi della pandemia sono stati promessi aiuti a pioggia. Ma interventi di questo genere mi sembrano finalizzati a stabilizzare i consensi piuttosto che favorire la ripartenza nel medio termine. Per costruire quest’ultima occorre una strategia, che manca.Bisogna incidere sulle aspettative, dicendo chiaramente su quante risorse gli italiani possono contare, in quali tempi e a che condizioni. Ci dev’essere, poi, uno effetto shock sulle aspettative. Per semplificare: se metto nel sistema un euro, è un euro buttato; se ci metto un trilione, quel trilione agisce sulle aspettative, perché crea sicurezza intorno ai flussi di reddito che si materializzeranno nel futuro prossimo amplificandone l’impatto. Merkel e Macron hanno trovato un’intesa sul Recovery Fund: 500 miliardi di trasferimenti a fondo perduto dal bilancio Ue. Innanzitutto mi limito ad osservare che Austria, Olanda, Finlandia e Danimarca per ora si oppongono. Sono gli stessi paesi che finora hanno impedito l’accordo. E senza unanimità non se ne fa nulla. Un altro requisito chiave sono le dimensioni: di 100 miliardi in 100 miliardi non andremo da nessuna parte. E poi, ammesso che l’operazione riesca, che fondo sarà? Che tipo di condizionalità imporrà esplicitamente o implicitamente? Un fondo “emasculated”, come dicono gli americani, o che invece ha “grinta e denti”, sono due realtà completamente diverse. Come sarà il Recovery Fund non lo sappiamo e probabilmente occorrerà ancora parecchio tempo per capirlo.Il livello di cooperazione europea è molto importante, ma potrebbe non bastare. Molti dettagli del nuovo strumento sono ancora indeterminati, come quelli di altri strumenti europei. Un fatto è certo: i nostri spazi di finanza pubblica sono angusti e i debiti vanno sempre restituiti. Da dove cominciare? All’Italia serve una modernizzazione della propria economia. Una semplificazione della normativa ci consentirebbe di rilanciare le opere pubbliche e creare posti di lavoro. L’esempio virtuoso è il nuovo ponte di Genova: va riprodotto quel modello. La competitività dei paesi non si misura solo dal rapporto debito-Pil, ma anche dai giorni necessari per attivare i permessi regolamentari necessari, per accedere al credito, o per la risoluzione di una disputa contrattuale. Intervenire su questi parametri non necessariamente comporta l’esborso di risorse finanziarie; e oggi diventa ancora più urgente, visto che le nuove norme anti–Covid hanno l’effetto netto di aumentare ancor più il peso di burocrazie e codicilli sulle attività economiche, per le quali già il nostro paese vantava un considerevole primato.Insieme all’ex segretario al Tesoro britannico Jim O’Neill, io ho elaborato una proposta. Chiediamo che il Fmi emetta dei diritti speciali di prelievo (Dsp, Special Drawing Rights). Il “Financial Times” ha proposto di emettere Dsp per 1,250 trilioni di euro. Noi sviluppiamo una proposta per moltiplicare la capacità di questa allocazione. I Dsp sono assegnati ai paesi membri del Fmi sulla base delle quote detenute nella base di capitale del Fondo. All’Italia, con quota pari al 3,17%, andrebbero circa 40 miliardi di euro. Una cifra superiore alla linea di credito del Mes per la pandemia, e a condizionalità zero. Questi 40 miliardi si possono usare a garanzia per costruire un veicolo finanziario che a sua volta emette obbligazioni acquistabili da altri paesi, utilizzando le rispettive allocazioni di Dsp. Questo eviterebbe l’accumulo di ulteriori passività nel bilancio dello Stato.Prospettive di investimento per l’Italia? Se ipotizziamo un rapporto di leva finanziaria uno a cinque, l’Italia potrebbe aumentare la propria capacità finanziaria da miliardi a 200 miliardi di dollari. Gli altri paesi del Fmi sarebbero d’accordo? Serve l’accordo dell’85% dei paesi membri. Gli Usa, con il 17,45% delle quote, avrebbero potere di veto, ma difficilmente lo userebbero davanti al crollo dell’economia mondiale. Inoltre gli Usa potrebbero acquistare parte di queste obbligazioni senza pesare sul contribuente americano, ma usando parte delle allocazioni che il Tesoro Usa riceverebbe dall’emissione di Dsp. Perché agli investitori dovrebbe convenire sottoscrivere il veicolo? Si tratta di mobilizzare una “coalizione di volenterosi” tra quei paesi con maggiori riserve. Questi mobilizzerebbero parte delle allocazioni di Dsp ricevute per sottoscrivere le obbligazioni del veicolo. Così facendo, beneficerebbero di un interesse positivo, anche se non elevato, sulle loro sottoscrizioni, vedendosi remunerare la loro solidarietà. Ribadisco che utilizzerebbero le risorse addizionali liberate proprio attraverso l’emissione di Dsp, senza pesare sulla fiscalità generale e sui propri contribuenti.E la Cina? Con le sue ingenti riserve, potrebbe essere uno di questi paesi volenterosi, come del resto gli stessi Stati Uniti. Ripeto: non si tratta di chiedere regali, ma piuttosto attivare un meccanismo virtuoso con la creazione di nuove risorse che renda politicamente agevole il sostegno ai paesi maggiormente affetti dalla pandemia, come l’Italia. Che ruolo potrebbe avere la Bce? Potrebbe sottoscrivere parte delle obbligazioni del veicolo insieme ad altri soggetti istituzionali e sovrani. Quello sul Mes non è un reale dibattito. Mi è parso che si trattasse di ratificare una decisione già presa a priori e all’inizio della pandemia. L’impatto della crisi sull’economia italiana è così profondo e avvolgente che non si può arginare con un solo strumento, né il Mes né il nostro. C’è bisogno di più strumenti e della creazione di nuove risorse, che ogni paese dovrebbe o potrebbe coordinare secondo le sue specificità. Ecco, su questo è mancato un dibattito vero, a tutto tondo, nel nostro paese. Perché il governo non ha esplorato altre soluzioni? Questa è un’ottima domanda che giro a voi, fiducioso che interlocutori istituzionali possano raccoglierla.Che cosa mi lascia più perplesso? L’Italia ha chiesto un prestito Mes fino all’altro ieri, addirittura subordinando l’adesione alla scelta di Francia e Spagna. Come se accodarsi ad altri potesse garantire una sorta di immunità di gregge capace di diminuire l’impatto, in termini di responsabilità, associato al programma. Qui nascerebbero molte domande. Perché quei paesi si sono ritirati? L’Italia intende seguirli? Il Mes non era conveniente? Purtroppo, in Italia, si è teso a far coincidere, in modo puramente strumentale, la posizione a favore o contro il Mes come europeismo o anti-europeismo. Dovremmo allora concludere che anche Francia, Spagna, Grecia e Portogallo sono diventati anti-europeisti l’altro giorno, decidendo di non avvalersi del Mes? Io credo che si possa essere europeisti pur avendo qualche riserva su come gli aiuti esterni sono configurati. È vero, stando a come viene presentata, che la linea di credito anti-pandemica del Mes è a bassa condizionalità, per ora. Se a causa del crollo del Pil e del fardello dell’elevato debito pubblico i nostri fondamentali si deteriorassero, scatterebbero clausole di salvaguardia più impegnative. Che impatterebbero sulle tasche dei cittadini. Credo che questo andrebbe spiegato loro.(Domenico Lombardi, dichirazioni rilasciate a Federico Ferraù per l’intervista “Meglio i 200 miliardi (a costo 0) del Fmi che l’Italia non vuole usare”, pubblicata dal “Sussidiario” il 21 maggio 2020. Lombardi è stato un consigliere economico del Fmi).Quando la Grecia nel 2010 entrò nel programma del Fondo Monetario, il suo rapporto debito-Pil era del 146%. L’Italia, fatte le debite differenze, quest’anno raggiungerà il 170%. Non lo possiamo certamente ridurre con l’avanzo primario tirando la cinghia. Bisogna parlare di come generare risorse addizionali. Siamo davanti a un shock unico nel suo genere. Come si dice in econometria, c’è un “regime change”. Il problema non è tanto e solo la fine del lockdown, ma quello che verrà fatto nei prossimi mesi. Servono due cose. La prima è incidere in modo sostanziale sulle aspettative di imprenditori e consumatori. La seconda è creare un parallelismo virtuoso, per nulla scontato, tra fine dell’emergenza sanitaria e riaperture. L’unicità di questa crisi dipende anche dal fatto che riaprire le attività commerciali non vuol dire che i consumatori andranno necessariamente a spendere, in assenza di aspettative più favorevoli. Gli strumenti messi in campo dal Decreto Rilancio? Non sono adeguati. Nei primi tempi della pandemia sono stati promessi aiuti a pioggia. Ma interventi di questo genere mi sembrano finalizzati a stabilizzare i consensi piuttosto che favorire la ripartenza nel medio termine. Per costruire quest’ultima occorre una strategia, che manca.
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Draghi: soldi pubblici a tutti, e subito. Ogni ritardo è fatale
La pandemia di coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche. Molti oggi vivono nella paura della propria vita o in lutto per i propri cari. Le azioni intraprese dai governi per evitare che i nostri sistemi sanitari vengano travolti sono coraggiose e necessarie. Devono essere supportati. Ma queste azioni comportano anche un costo economico enorme e inevitabile. Mentre molti affrontano una perdita di vite umane, molti altri affrontano una perdita di sostentamento. Giorno dopo giorno, le notizie economiche stanno peggiorando. Le aziende affrontano una perdita di reddito nell’intera economia. Molti stanno già ridimensionando e licenziando i lavoratori. Una profonda recessione è inevitabile. La sfida che affrontiamo è come agire con sufficiente forza e velocità per evitare che la recessione si trasformi in una depressione prolungata, resa più profonda da una pletora di valori predefiniti che lasciano danni irreversibili. È già chiaro che la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito sostenuta dal settore privato – e qualsiasi debito accumulato per colmare il divario – deve alla fine essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici.Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato. È il ruolo corretto dello Stato distribuire il proprio bilancio per proteggere i cittadini e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile e che non può assorbire. Gli Stati l’hanno sempre fatto di fronte alle emergenze nazionali. Le guerre – il precedente più rilevante – sono state finanziate da aumenti del debito pubblico. Durante la prima guerra mondiale, in Italia e Germania tra il 6 e il 15% delle spese di guerra in termini reali fu finanziato dalle tasse. In Austria-Ungheria, Russia e Francia, nessuno dei costi continui della guerra furono pagati con le tasse. Ovunque, la base imponibile è stata erosa dai danni di guerra e dalla coscrizione. Oggi è a causa dell’angoscia umana della pandemia e della chiusura. La domanda chiave non è se, ma come lo Stato dovrebbe mettere a frutto il proprio bilancio. La priorità non deve essere solo quella di fornire reddito di base a coloro che perdono il lavoro. Dobbiamo innanzitutto proteggere le persone dalla perdita del lavoro. In caso contrario, emergeremo da questa crisi con un’occupazione e una capacità permanentemente inferiori, poiché le famiglie e le aziende lottano per riparare i propri bilanci e ricostruire le attività nette.I sussidi per l’occupazione e la disoccupazione e il rinvio delle tasse sono passi importanti che sono già stati introdotti da molti governi. Ma proteggere l’occupazione e la capacità produttiva in un momento di drammatica perdita di reddito richiede un immediato sostegno di liquidità. Ciò è essenziale per tutte le imprese per coprire le proprie spese operative durante la crisi, siano esse grandi aziende o ancora di più piccole e medie imprese e imprenditori autonomi. Diversi governi hanno già introdotto misure di benvenuto per incanalare la liquidità verso le imprese in difficoltà. Ma è necessario un approccio più completo. Mentre diversi paesi europei hanno diverse strutture finanziarie e industriali, l’unico modo efficace per entrare immediatamente in ogni falla dell’economia è di mobilitare completamente i loro interi sistemi finanziari: mercati obbligazionari, principalmente per grandi società, sistemi bancari e in alcuni paesi anche le Poste. E deve essere fatto immediatamente, evitando ritardi burocratici. Le banche in particolare si estendono in tutta l’economia e possono creare denaro istantaneamente consentendo scoperti di conto corrente o aprendo linee di credito.Le banche devono prestare rapidamente fondi a costo zero alle società disposte a salvare posti di lavoro. Poiché in questo modo stanno diventando un veicolo per le politiche pubbliche, il capitale necessario per svolgere questo compito deve essere fornito dal governo sotto forma di garanzie statali su tutti gli ulteriori scoperti o prestiti. Né la regolamentazione né le regole di garanzia dovrebbero ostacolare la creazione di tutto lo spazio necessario nei bilanci bancari a tale scopo. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrebbe essere basato sul rischio di credito della società che le riceve, ma dovrebbe essere zero indipendentemente dal costo del finanziamento del governo che le emette. Le aziende, tuttavia, non attingeranno al supporto di liquidità semplicemente perché il credito è economico. In alcuni casi, ad esempio le aziende con un portafoglio ordini, le loro perdite possono essere recuperabili e quindi ripagheranno il debito. In altri settori, probabilmente non sarà così.Queste società potrebbero essere ancora in grado di assorbire questa crisi per un breve periodo di tempo e aumentare il debito per mantenere il proprio personale al lavoro. Ma le loro perdite accumulate rischiano di compromettere la loro capacità di investire in seguito. E, se l’epidemia di virus e i blocchi associati dovessero durare, potrebbero realisticamente rimanere in attività solo se il debito raccolto per mantenere le persone impiegate in quel periodo fosse infine cancellato. O i governi compensano i mutuatari per le loro spese, o quei mutuatari falliranno e la garanzia sarà resa valida dal governo. Se il rischio morale può essere contenuto, il primo è migliore per l’economia. Il secondo percorso sarà probabilmente meno costoso per il budget. Entrambi i casi porteranno i governi ad assorbire una grande parte della perdita di reddito causata dalla chiusura, se si vogliono proteggere posti di lavoro e capacità. I livelli del debito pubblico saranno aumentati. Ma l’alternativa – una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e infine per il credito pubblico. Dobbiamo anche ricordare che, visti i livelli attuali e probabili futuri dei tassi di interesse, un tale aumento del debito pubblico non aumenterà i suoi costi di servizio.Per alcuni aspetti, l’Europa è ben equipaggiata per affrontare questo straordinario shock. Ha una struttura finanziaria granulare in grado di incanalare i fondi verso ogni parte dell’economia che ne ha bisogno. Ha un forte settore pubblico in grado di coordinare una risposta politica rapida. La velocità è assolutamente essenziale per l’efficacia. Di fronte a circostanze impreviste, un cambiamento di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempi di guerra. Lo shock che stiamo affrontando non è ciclico. La perdita di reddito non è colpa di nessuno di coloro che ne soffrono. Il costo dell’esitazione può essere irreversibile. Il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni ‘20 è abbastanza una storia di ammonimento. La velocità del deterioramento dei bilanci privati - causata da una chiusura economica che è sia inevitabile che desiderabile – deve essere soddisfatta della stessa velocità nello schierare i bilanci pubblici, mobilitare le banche e, in quanto europei, sostenersi a vicenda nella ricerca di evidentemente una causa comune.(Mario Draghi, “Quella che affrontiamo contro il coronavirus è una guerra, e dobbiamo mobilitarci di conseguenza”, dal “Financial Times” del 25 maezo 2020).La pandemia di coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche. Molti oggi vivono nella paura della propria vita o in lutto per i propri cari. Le azioni intraprese dai governi per evitare che i nostri sistemi sanitari vengano travolti sono coraggiose e necessarie. Devono essere supportati. Ma queste azioni comportano anche un costo economico enorme e inevitabile. Mentre molti affrontano una perdita di vite umane, molti altri affrontano una perdita di sostentamento. Giorno dopo giorno, le notizie economiche stanno peggiorando. Le aziende affrontano una perdita di reddito nell’intera economia. Molti stanno già ridimensionando e licenziando i lavoratori. Una profonda recessione è inevitabile. La sfida che affrontiamo è come agire con sufficiente forza e velocità per evitare che la recessione si trasformi in una depressione prolungata, resa più profonda da una pletora di valori predefiniti che lasciano danni irreversibili. È già chiaro che la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito sostenuta dal settore privato – e qualsiasi debito accumulato per colmare il divario – deve alla fine essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici.
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Edwards, Onu: il wireless 5G è una guerra contro l’umanità
I primi otto mesi della Seconda Guerra Mondiale senza combattimenti si chiamavano “The Phoney War”. L’uso delle onde millimetriche come tecnologia di comunicazione wireless di quinta generazione o 5G è un altro tipo di guerra dissimulata. Anche questa guerra-fantasma è silenziosa, ma questa volta vengono sparati colpi – sotto forma di raggi laser simili a radiazioni elettromagnetiche (Emr) da migliaia di minuscole antenne – e quasi nessuno nella linea di tiro sa che vengono feriti silenziosamente, gravemente e irreparabilmente. Nel primo caso, il 5G rischia di rendere le persone elettro-ipersensibili (Ehs). Forse, a rendermi Ehs è stato il fatto di stare seduto davanti a due grandi schermi di computer per molti dei 18 anni in cui ho lavorato all’Onu. Quando l’ufficio delle Nazioni Unite a Vienna ha installato potenti punti di accesso wi-fi e cellulare – progettati per servire grandi aree pubbliche – in corridoi stretti con pareti metalliche in tutto il Centro internazionale di Vienna, a dicembre 2015, mi sono ammalato continuamente per sette mesi. Ho fatto del mio meglio, per due anni e mezzo, per avvisare il personale delle Nazioni Unite, l’amministrazione e il servizio medico del pericolo per la salute del personale delle Nazioni Unite dell’Emr da questi punti di accesso, ma sono stato ignorato.Ecco perché, a maggio 2018, ho portato la questione al segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres. È un fisico e un ingegnere elettrico, e all’inizio della sua carriera aveva tenuto conferenze sui segnali delle telecomunicazioni, ma ora ha affermato di non sapere nulla al riguardo. Si è impegnato a chiedere all’Organizzazione Mondiale della Sanità di esaminare il caso, ma sette mesi dopo quei punti di accesso pubblico rimangono al loro posto. Non ho ricevuto risposte alle mie numerose e-mail. Di conseguenza, ho accolto con favore l’opportunità di unire gli sforzi per pubblicare un appello internazionale per fermare il 5G sulla Terra e nello spazio perché mi era chiaro che, nonostante ci fossero stati 43 precedenti appelli scientifici, pochissime persone hanno capito i pericoli dell’Emr. La mia esperienza di redattore potrebbe aiutarmi a garantire che un nuovo appello sul 5G, incluso il problema di trasmettere il 5G dallo spazio, fosse chiaro, completo, esplicativo e accessibile al non-scienziato. L’appello internazionale per fermare il 5G sulla Terra e nello spazio è pienamente referenziato, citando oltre un centinaio di articoli scientifici tra le decine di migliaia sugli effetti biologici dell’Emr pubblicati negli ultimi 80 anni.Dopo aver trascorso anni a elaborare documenti delle Nazioni Unite che trattano di spazio, so che lo spazio è contestato in maniera geopolitica e che qualsiasi evento spiacevole che coinvolga un satellite militare rischia di innescare una risposta catastrofica. La legge spaziale è così inadeguata – solo un esempio è la complessità della legge sulla responsabilità spaziale – che potremmo davvero chiamare l’orbita terrestre un nuovo selvaggio West. La Cina ha causato costernazione internazionale nel 2007 quando ha testato un’arma anti-satellite, distruggendo il proprio satellite. I detriti nello spazio sono la principale preoccupazione tra le nazioni “spaziali”, con una cosiddetta Sindrome di Kessler che presenta una cascata di detriti spaziali che potrebbe rendere inutilizzabili le orbite terrestri per mille anni. Il lancio di oltre 20.000 satelliti commerciali 5G in tali circostanze ti sembrano razionali? Vivo a Vienna, in Austria, dove l’implementazione del 5G è improvvisamente alle porte. Nelle ultime cinque settimane, il pre-5G è stato annunciato ufficialmente all’aeroporto di Vienna e il 5G nella Rathausplatz, la piazza principale di Vienna, che attira decine di migliaia di visitatori al suo mercatino di Natale ogni dicembre e una pista di pattinaggio ogni gennaio, due mete speciali per i bambini.Insieme agli uccelli e agli insetti, i bambini sono i più vulnerabili alla deprivazione che il 5G causa sui loro piccoli corpi. Amici e conoscenti e i loro bambini a Vienna stanno già segnalando i classici sintomi di avvelenamento da Emr: sangue dal naso, mal di testa, dolori agli occhi, dolori al petto, nausea, affaticamento, vomito, acufene, vertigini, sintomi simil-influenzali e dolore cardiaco. Riferiscono anche di una “fascia” stretta intorno alla testa; pressione sulla parte superiore della testa; brevi dolori lancinanti intorno al corpo e ronzio degli organi interni. Altri effetti biologici, come tumori e demenza, di solito richiedono più tempo per manifestarsi, ma nel caso del 5G, che non è mai stato testato per la salute o la sicurezza, chi lo sa? In una notte, in Austria è spuntata una foresta di infrastrutture 5G. Nel giro di tre settimane un’amica è passata dalla salute robusta alla fuga da questo paese, dove vive da 30 anni. Ogni persona sperimenta l’Emr in modo diverso. Per lei è stata un’estrema tortura, quindi lei e io abbiamo trascorso le sue ultime due notti in Austria dormendo nei boschi.È interessante notare che, mentre guidava attraverso la Germania meridionale, ha sofferto torture anche peggiori che in Austria, mentre nella Germania settentrionale non aveva affatto sintomi e si sentiva completamente normale: il che suggerisce che non vi è stato ancora nessun lancio del 5G. Non ci sono limiti legali all’esposizione all’Emr. Convenientemente per l’industria delle telecomunicazioni, ci sono solo linee guida non legalmente applicabili come quelle prodotte dalla grandiosa Commissione internazionale per la protezione dalle radiazioni non ionizzanti, che risulta essere come il Mago di Oz: solo una piccola Ong in Germania che nomina i propri membri, nessuno dei quali è medico o esperto ambientale. Come il Mago di Oz, l’Icnirp sembra avere poteri magici. La sua prestidigitazione fa scomparire nel nulla gli effetti non termici (non riscaldanti) dell’esposizione all’Emr, poiché tenere conto delle decine di migliaia di studi di ricerca che dimostrano gli effetti biologici dell’Emr invaliderebbe le sue cosiddette linee guida sulla sicurezza. Ha incantato l’Unione internazionale delle telecomunicazioni, parte della famiglia delle Nazioni Unite, nel riconoscere queste linee guida.E una piccola e-mail inviata all’Icnirp nell’ottobre 2018 per presentare il professor Martin Palli commenti sui nuovi progetti di linee guida dell’Icnirp hanno evocato un’immediata esplosione di interesse per la presenza online del mittente – che fino a quel momento non ne aveva attratto – da parte di aziende e individui in tutto il mondo, autorità di immigrazione di un paese, l’ufficio del cancelliere austriaco (capo del governo), uno studio legale a Vienna e persino l’Interpol! Spero che le persone leggano e condividano il nostro Appello sullo Spazio 5G per svegliarsi rapidamente e gli altri e usarlo per agire da soli per fermare il 5G. Persino otto brevi mesi di questa Phoney War del 5G potrebbero provocare una catastrofe per tutta la vita sulla Terra. Elon Musk ha lanciato i primi 4.425 satelliti 5G a giugno 2019 e “coprirà” la Terra con il 5G, in violazione di innumerevoli trattati internazionali. Ciò potrebbe dare inizio all’ultima grande estinzione, per gentile concessione del multi-trilionario 5G Usa, il più grande esperimento biologico e la più atroce manifestazione di arroganza e avidità nella storia umana. La prima reazione delle persone all’idea che il 5G possa essere una minaccia esistenziale per tutta la vita sulla Terra è di solito incredulità o dissonanza cognitiva. Una volta esaminati i fatti, tuttavia, la loro seconda reazione è spesso il terrore.Dobbiamo trascendere questo per vedere il 5G come un’opportunità per potenziarci, assumerci la responsabilità e agire. Potremmo aver già perso l’80% dei nostri insetti a causa dell’Emr negli ultimi 20 anni. I nostri alberi rischiano di essere ridotti a milioni per garantire la segnalazione continua del 5G per auto, autobus e treni a guida autonoma. Staremo a guardare noi stessi e i nostri bambini irradiati, i nostri sistemi alimentari decimati, i nostri ambienti naturali distrutti? I nostri giornali stanno ora diffondendo casualmente il meme che l’estinzione umana sarebbe una buona cosa; quando però la domanda non diventa retorica ma reale, quando è la tua vita, tuo figlio, la tua comunità, il tuo ambiente che è sotto minaccia immediata, puoi davvero iscriverti a un simile suggerimento? In caso contrario, firmare l’appello Stop 5G e mettersi in contatto con chiunque si possa pensare a chi ha il potere di fermare il 5G, in particolare Elon Musk e i Ceo di tutte le altre società che intendono lanciare satelliti 5G, a partire da adesso. La vita sulla Terra ha bisogno del tuo aiuto, ora.(Claire Edwards, “La tecnologia wireless 5G è una guerra contro l’umanità”, da “Global Reserach” del 9 giugno 2019. Funzionario dell’Onu, Edwards è tra i promotori dell’appello internazionale contro la diffusione del 5G sulla Terra e nello spazio orbitale).I primi otto mesi della Seconda Guerra Mondiale senza combattimenti si chiamavano “The Phoney War”. L’uso delle onde millimetriche come tecnologia di comunicazione wireless di quinta generazione o 5G è un altro tipo di guerra dissimulata. Anche questa guerra-fantasma è silenziosa, ma questa volta vengono sparati colpi – sotto forma di raggi laser simili a radiazioni elettromagnetiche (Emr) da migliaia di minuscole antenne – e quasi nessuno nella linea di tiro sa che vengono feriti silenziosamente, gravemente e irreparabilmente. Nel primo caso, il 5G rischia di rendere le persone elettro-ipersensibili (Ehs). Forse, a rendermi Ehs è stato il fatto di stare seduta davanti a due grandi schermi di computer per molti dei 18 anni in cui ho lavorato all’Onu. Quando l’ufficio delle Nazioni Unite a Vienna ha installato potenti punti di accesso wi-fi e cellulare – progettati per servire grandi aree pubbliche – in corridoi stretti con pareti metalliche in tutto il Centro internazionale di Vienna, a dicembre 2015, mi sono ammalata continuamente per sette mesi. Ho fatto del mio meglio, per due anni e mezzo, per avvisare il personale delle Nazioni Unite, l’amministrazione e il servizio medico del pericolo per la salute del personale delle Nazioni Unite dell’Emr da questi punti di accesso, ma sono stata ignorata.
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Craig Roberts: salvare il mondo, l’ora di Putin si avvicina
Vladimir Putin è il leader più impressionante sul palcoscenico mondiale. Sopravvisse e sorse da una Russia corrotta da Washington e Israele durante gli anni di Eltsin e ha ristabilito la Russia come potenza mondiale. Ha affrontato con successo l’aggressione americana-israeliana contro l’Ossezia del Sud e contro l’Ucraina, incorporando su richiesta della Crimea la provincia russa di nuovo nella Madre Russia. Ha tollerato infiniti insulti e provocazioni da Washington e dal suo impero senza rispondere in solido. È conciliante e pacificatore da una posizione di forza. Sa che l’impero americano basato sull’arroganza e sulle bugie sta fallendo economicamente, socialmente, politicamente e militarmente. Capisce che la guerra non serve alcun interesse russo. L’omicidio di Washington di Qasem Soleimani, un grande leader iraniano, anzi, uno dei rari leader nella storia del mondo, ha offuscato la leadership di Trump e ha posto le luci della ribalta su Putin. Il palcoscenico è pronto perché Putin e la Russia assumano la guida del mondo.L’omicidio di Washington di Soleimani è un atto criminale che potrebbe iniziare la Terza Guerra Mondiale proprio come quando l’omicidio serbo dell’arciduca austriaco mise in moto la Prima Guerra Mondiale. Solo Putin e la Russia, con l’aiuto della Cina, può fermare questa guerra che Washington ha messo in moto. Putin ha capito che la destabilizzazione della Siria da parte di Washington e Israele era rivolta alla Russia. Senza preavviso, la Russia è intervenuta, ha sconfitto le “forze per procura” finanziate e armate da Washington e ha ripristinato la stabilità in Siria. Sconfitti, Washington e Israele hanno deciso di aggirare la Siria e portare l’attacco alla Russia direttamente in Iran. La destabilizzazione dell’Iran serve sia a Washington che a Israele. Per Israele la morte dell’Iran interrompe il sostegno a Hezbollah, la milizia libanese che ha sconfitto due volte l’esercito israeliano e ha impedito l’occupazione israeliana del Libano meridionale. A Washington la morte dell’Iran consente ai jihadisti sostenuti dalla Cia di portare instabilità nella Federazione Russa.A meno che Putin non si sottometta alla volontà americana e israeliana, non ha altra scelta che bloccare qualsiasi attacco Washington-israeliano contro l’Iran. Il modo più semplice e pulito per fare questo, da parte di Putin, è annunciare che l’Iran è sotto la protezione della Russia. Questa protezione dovrebbe essere formalizzata in un trattato di mutua difesa tra Russia, Cina e Iran, forse con anche India e Turchia come membri. Questo è difficile da fare per Putin, perché gli storici incompetenti hanno convinto Putin che le alleanze sono la causa della guerra. Ma un’alleanza come questa impedirebbe la guerra. Neanche il folle criminale Netanyahu e i neoconservatori americani impazziti, anche se completamente ubriachi o illusi, dichiarerebbero guerra all’Iran, alla Russia e alla Cina, inclusi nell’alleanza con India e Turchia. Significherebbe la morte dell’America, di Israele e di qualsiasi paese europeo sufficientemente stupido da partecipare.Se Putin non è in grado di liberarsi dall’influenza di storici incompetenti, che in effetti stanno servendo interessi a Washington, non in Russia, ha altre opzioni. Può calmare l’Iran dando all’Iran i migliori sistemi di difesa aerea russi, con equipaggi russi per addestrare gli iraniani, e la cui presenza serva da monito a Washington e Israele: un attacco alle forze iraniane sarebbe un attacco alla Russia. Fatto ciò, Putin può quindi insistere sulla mediazione. Questo è il ruolo di Putin, poiché non c’è nessun altro con il potere, l’influenza e l’oggettività per mediare. L’obiettivo di Putin non è tanto salvare l’Iran, quanto far uscire Trump da una guerra persa che distruggerebbe lo stesso Trump. Putin potrebbe stabilire il suo prezzo. Ad esempio, il prezzo di Putin può essere il rilancio del trattato Inf/Start, il trattato sui missili anti-balistici, la rimozione della Nato dai confini russi. In effetti, Putin è posizionato per richiedere tutto ciò che vuole.I missili iraniani possono affondare qualsiasi nave americana ovunque, vicino all’Iran. I missili cinesi possono affondare qualsiasi flotta americana ovunque, vicino alla Cina. I missili russi possono affondare le flotte americane in qualsiasi parte del mondo. La capacità di Washington di proiettare la sua potenza in Medio Oriente è zero, ora che tutti (ex sciiti e sunniti e gli ex delegati di Washington come l’Isis) odiano gli americani con passione. Il Dipartimento di Stato ha dovuto ordinare agli americani di uscire dal Medio Oriente. In che modo Washingon conta come una forza in Medio Oriente quando nessun americano è al sicuro, lì? Naturalmente Washington è stupida nella sua arroganza. E Putin, la Cina e l’Iran, deve tenerne conto. Un governo stupido è in grado di rovinare non solo se stesso, ma anche gli altri. Quindi ci sono rischi, per Putin, ma anche rischi di cui Putin non può farsi carico. Se Washington e Israele lanciano un attacco sull’Iran, che Israele tenterà di provocare con un evento “sotto falsa bandiera” mentre affonda una nave da guerra americana e incolpa l’Iran, la Russia sarà comunque in guerra. Meglio che l’iniziativa sia nelle mani di Putin. E meglio per il mondo, e la vita sulla Terra, che al comando sia la Russia.(Paul Craig Roberts, “L’ora di Putin è a portata di mano”, dal blog di Craig Roberts del 4 gennaio 2020. Economista liberale e già viceministro di Ronald Reagan, Craig Roberts è un acuto analista indipendente degli scenari geopolitici).Vladimir Putin è il leader più impressionante sul palcoscenico mondiale. Sopravvisse e sorse da una Russia corrotta da Washington e Israele durante gli anni di Eltsin e ha ristabilito la Russia come potenza mondiale. Ha affrontato con successo l’aggressione americana-israeliana contro l’Ossezia del Sud e contro l’Ucraina, incorporando su richiesta della Crimea la provincia russa di nuovo nella Madre Russia. Ha tollerato infiniti insulti e provocazioni da Washington e dal suo impero senza rispondere in solido. È conciliante e pacificatore da una posizione di forza. Sa che l’impero americano basato sull’arroganza e sulle bugie sta fallendo economicamente, socialmente, politicamente e militarmente. Capisce che la guerra non serve alcun interesse russo. L’omicidio di Washington di Qasem Soleimani, un grande leader iraniano, anzi, uno dei rari leader nella storia del mondo, ha offuscato la leadership di Trump e ha posto le luci della ribalta su Putin. Il palcoscenico è pronto perché Putin e la Russia assumano la guida del mondo.
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Operaio accusa: così Mittal perde (apposta) le commesse
«I commerciali di ArcelorMittal hanno avuto un anno di tempo per “passeggiare” nel nostro pacchetto clienti: se sono in gamba, non ci rimarranno neanche le lacrime per piangere». Così parla “Giovanni”, operaio dell’ex Ilva, in un video girato dal Movimento Roosevelt il 10 dicembre. Ha il viso schermato dalla sciarpa, la voce camuffata: «Tutti, qui, hanno paura a dire certe cose». Una, in particolare: ArcelorMittal lascia le maestranze senza i mezzi necessari per lavorare. Risultato: le commesse vanno a farsi benedire. Sembra un suicidio programmato: «Mancano le attrezzature più elementari, e così il lavoro si ferma». E’ più che un sospetto: sembra il modo per avere poi il pretesto per chiudere Taranto e gli altri stabilimenti del gruppo. «Per un ordine di magazzino ci vogliono 6 autorizzazioni. Immaginate quante telefonate, poi magari il materiale arriva 2-3 mesi dopo. E nel frattempo? E’ così che fermi la produzione: non facendo niente». Durante l’amministrazione Riva, dice “Giovanni”, «chiedevi 2 e ti davano 4: il magazzino aveva anche più del necessario». Per questo, all’epoca, «le linee non si fermavano mai, funzionavano 24 ore su 24». Motivo: «C’era un interesse, che adesso evidentemente non c’è più».Roberto Hechich, dirigente del Movimento Roosevelt, ricorda un’analisi di “Micromega”: «Ci si augura – scriveva la rivista – che il governo italiano non stia davvero considerando l’opzione ArcelorMittal come exit strategy da Taranto, e non “per” Taranto: sarebbe l’inizio di un’era di difficoltà ancora maggiori per la città, per i lavoratori e per la popolazione». Scriveva profeticamente lo stesso Hechich: «Consegnare Taranto al gruppo ArcelorMittal vorrebbe dire la fine della città: la sola ragione per la quale un imprenditore spregiudicato come Mittal potrebbe accollarsi uno stabilimento come quello dell’Ilva, obsoleto e al centro di una questione giudiziaria, sarebbe voler acquisire le commesse Ilva e poi chiudere, così come Mittal ha fatto nel resto d’Europa». In effetti, in Francia, Belgio e Bulgaria, la multinazionale indiana ha acquisito stabilimenti per poi chiuderli, trasferendo la produzione dove il lavoro costa meno (ma mantenendo i prezzi elevati, dato che il prodotto è diventato più scarso). Per Taranto, ricorda Hechich, ArcelorMittal ha battuto una cordata semi-pubblica con Leonardo Del Vecchio di Luxottica e Cdp, la Cassa Depositi e Prestiti.«Nessuno dei nostri dirigenti si aspettava che vincesse Mittal», dice oggi “Giovanni”. «E’ vero, la cordata di Del Vecchio prospettava il sacrificio di più dipendenti, ma anche un cambio di paradigma: per Taranto si parlava di nuove tecnologie». Spiega sempre l’operaio: «Ci può stare, che si tagli il personale, perché – per cambiare sistema – l’altoforno lo devi fermare. Però guardi avanti: con gli anni, sarebbe potuta crescere anche l’occupazione». E invece, siamo in balia di una crisi al buio. «L’acciaio resta strategico per l’Italia», sottolinea Hechich: «Senza l’Ilva ci tocca comprare quello tedesco a prezzi più cari, oppure quello indiano (di qualità inferiore)». a Mittal conviene, chiudere l’Ilva, portandosi via i clienti e facendo produrre l’acciaio in India. «Il prezzo aumenta, se cresce la domanda e cala la disponibilità del prodotto», dice “Giovanni”, pensando all’impatto della crisi sul sistema-paese. «Senza più l’Ilva, tutta l’industria metalmeccanica italiana verrebbe a risentirne». Spiega: «La nostra base industriale è fatta di piccole e medie imprese: immaginiamo cosa voglia dire comprare acciaio dall’estero. Noi in Italia viviamo di meccanica e manifattura, e siamo stati anche i migliori al mondo, in questo campo».Con ArcelorMittal, continua la testimonianza dell’operaio, si è avuto un decadimento completo del lavoro, dopo un periodo di amministrazione straordinaria tutt’altro che facile. Tradotto: meno soldi e meno materiali. Carenza di accessori anche elementari: guanti, tubi, saldatrici. Penuria di lavoro e magazzini vuoti. «Speravamo che con ArcelorMittal tutto questo finisse, e invece ci siamo tristemente resi conto che dall’inizio dell’anno si andava avanti come prima, se non peggio». I dirigenti ripetevano: serve tempo, perché sono cambiati i fornitori. «E intanto i mesi passavano. Siamo arrivati a giugno, e questa penuria continuava». Così è tuttora: «Fermi-macchina di più di un mese perché manca l’abc della lavorazione, anche solo un bullone». Storie allucinanti: «A volte i nostri capireparto sono andati a comprare dei siliconi speciali di tasca loro, viceversa si sarebbero fermate le linee», racconta “Giovanni”. «A volte si è andati avanti grazie a noi operai: ci siamo sempre inventati di tutto e di più, pur di non smettere di lavorare. Adesso però non basta più. Ma così si fermano, le cose: facendo finta di niente». L’amministrazione straordinaria? «Aveva comunque comprato attrezzature, anche costose. Ora invece uno stabilimento è in cassa integrazione da 4 mesi per un guasto a una semplice centralina».L’operaio, portavoce dei colleghi, illumina un quadro desolante: «Gli ordinativi c’erano, ma noi non potevamo produrre perché mancavano i materiali necessari. E così, pian piano, le commesse hanno cominciato a venir meno». Una convinzione: «Secondo me c’era, fin dall’inizio, la volontà di non evadere le commesse», proprio per aggravare la crisi e consentire ad ArcelorMittar di accampare alibi per abbandonare l’Italia. «Un anno fa firmavamo con Arcelor, e accanto al contratto c’era il codice etico: dovevamo denunciare disfunzionalità, se le avessimo notate. Ora invece non c’è più nulla che funzioni. Bella presa in giro: una pantomima». Non solo: «Mittal si è lamentata del costo del nostro acciaio, proveniente dal minerale puro e non da rottami, e ne ha abbassato la qualità». E adesso? Appunto: la paura è che tutto finisca, dopo aver costretto gli operai a interrompere il lavoro, lasciandoli senza la strumentazione necessaria. «E’ incredibile sentire come il vissuto quotidiano sia molto più semplice di come viene presentato sugli schermi televisivi e politici», dice Marco Moiso, vicepresidente del Movimento Roosevelt, anche lui in collegamento video con “Giovanni”. «Ci sono persone disposte quasi a morire, per un lavoro che si sa che fa male (a chi lavora, e alla città di Taranto). Eppure, di lavoro c’è bisogno».«E’ chiaro che lo Stato deve tornare a giocare un ruolo, nell’economia. L’Italia è ancora il settimo produttore mondiale di acciaio, perdere l’Ilva avrebbe costi economici insostenibili». Per l’economista Nino Galloni, altro vicepresidente “rooseveltiano”, nel caso dell’ex Ilva «ci sono le condizioni perché lavoratori e management si uniscano, allo scopo di prendere in gestione l’azienda evadendo le commesse e salvaguardando la produzione». Secondo Galloni, «un volano finanziario può esser dato dalla capitalizzazione degli ammortizzatori sociali per circa 400 milioni all’anno». La scommessa, aggiunge, sarà sul mantenimento dei livelli competitivi internazionali: «Se poi la sfida su quei mercati non funzionasse, si aprirebbe l’alternativa tra la nazionalizzazione e forme protezionistiche». Galloni però resta «ottimista sulle nostre capacità tecnologiche di stare al passo coi tempi». Il problema, infatti, è politico: servono soldi. Ristrutturare Taranto con la tecnologia all’idrogeno, come a Linz in Austria? «Costerebbe 4-500 milioni per ogni milione di tonnellate prodotte», sintetizza l’operaio “Giovanni”. «Noi produciamo 8 milioni di tonnellate l’anno, quindi servirebbero 4 miliardi. In cambio avremmo un polo siderurgico all’avanguardia, non pericoloso per gli operai e non più inquinante per la città. Con un impianto del genere, poi, la facoltà di ingegneria di Taranto sfornerebbe fior di tecnici. Ma chi metterebbe quei 4 miliardi?».Lo Stato, risponde Roberto Hechic: non esistono alternative. «L’unica possibilità è che lo Stato ristrutturi gli impianti e risolva il problema ambientale. Poi si può anche rivendere l’acciaieria, ma le partecipate che funzionano bene (Fincantieri, Leonardo) mantengono comunque una quota statale, una “golden share”». Nel frattempo, gli operai soffrono. «A Taranto – dice ancora “Giovanni” – oggi si va avanti come negli anni ‘50, pure col senso di colpa: la fabbrica inquina la città, ma il lavoro manda avanti le famiglie. Vi sembra giusto, insistere con un metodo di produzione che uccide? E vi pare giusto che agli operai non si offrano alternative? E’ logorante, ve lo assicuro». La cosa è ancora più indisponente, chiosa Marco Moiso, se si pensa che «ci siamo appena impegnati per 120 miliardi con il Mes». E dunque, «non spendiamo 4 miliardi per una risorsa assolutamente strategica come il nostro acciaio, che oltretutto è tra i migliori al mondo?».«I commerciali di ArcelorMittal hanno avuto un anno di tempo per “passeggiare” nel nostro pacchetto clienti: se sono in gamba, non ci rimarranno neanche le lacrime per piangere». Così parla “Giovanni”, operaio dell’ex Ilva, in un video girato dal Movimento Roosevelt il 10 dicembre. Ha il viso schermato dalla sciarpa, la voce camuffata: «Tutti, qui, hanno paura a dire certe cose». Una, in particolare: ArcelorMittal lascia le maestranze senza i mezzi necessari per lavorare. Risultato: le commesse vanno a farsi benedire. Sembra un suicidio programmato: «Mancano le attrezzature più elementari, e così il lavoro si ferma». E’ più che un sospetto: sembra il modo per avere poi il pretesto per chiudere Taranto e gli altri stabilimenti del gruppo. «Per un ordine di magazzino ci vogliono 6 autorizzazioni. Immaginate quante telefonate, poi magari il materiale arriva 2-3 mesi dopo. E nel frattempo? E’ così che fermi la produzione: non facendo niente». Durante l’amministrazione Riva, dice “Giovanni”, «chiedevi 2 e ti davano 4: il magazzino aveva anche più del necessario». Per questo, all’epoca, «le linee non si fermavano mai, funzionavano 24 ore su 24». Motivo: «C’era un interesse, che adesso evidentemente non c’è più».
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Tellinger: noi, specie schiava degli Dei venuti dallo spazio
«Siamo stati creati o ci siamo evoluti? La verità sta probabilmente nel mezzo, ed è sconvolgente». Lo afferma UnoEditori, nell’annunciare l’uscita per l’Italia del libro di Michael Tellinger “Specie Schiava degli Dei” (titolo originale: “Slave Species of the Gods”) con la prefazione di Mauro Biglino. «Tellinger ci dimostra come l’uomo sia frutto di una manipolazione genetica effettuata da una specie aliena, gli Anunnaki, per realizzare la loro missione sulla Terra». Lo confermerebbero scoperte spiazzanti, come i fossili di “umanoidi”: quel che resta degli antichi Figli delle Stelle? Attraverso un’analisi meticolosa e comparativa di testi antichi (sumeri e biblici) con moderne conoscenze, secondo l’editore «emerge un affresco storico che ricostruisce l’epopea dell’uomo, la sua relazione di schiavitù con gli “dèi” e la sua possibile riscossa e liberazione». La deduzione è drastica: «La storia ufficiale è una menzogna necessaria a far sì che l’umanità rimanga nell’ignoranza per continuare a servire i creatori». Secondo Tellinger, la specie umana è il risultato di una manipolazione genetica: l’Homo Sapiens sarebbe un ibrido ottenuto dall’incrocio tra Anunnaki e Homo Erectus. Esiste una radice comune all’origine di tutte le civiltà della Terra, e i miti – è la tesi del libro – sono di fatto il riflesso archetipico di realtà storiche, di eventi realmente verificatisi. Quanto al denaro, «è stato inventato dagli Anunnaki come strumento di controllo della razza umana».
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Tutti i politici italiani che hanno sempre preso soldi stranieri
In Europa c’è un paese, Metternich avrebbe detto “un’espressione geografica”, che nel XIX secolo ha preso soldi dalle banche inglesi. Lo sostiene lo storico Aldo Mola, quando scrive che «nella spedizione dei Mille, il ruolo della massoneria inglese fu determinante, con un finanziamento di tre milioni di franchi e il monitoraggio costante dell’impresa»; ma lo ha affermato anche il ben più noto Sergio Romano, basandosi su testi di Arrigo Petacco, quando scriveva che «le ragioni dell’atteggiamento britannico furono in parte culturali, in parte strettamente politiche. I liberali inglesi erano favorevoli ai moti nazionali europei. Il loro leader, William Gladstone, scrisse un feroce pamphlet contro il Regno delle due Sicilie. Londra accolse generosamente Mazzini e contribuì a fare di lui un grande personaggio europeo. Il viaggio di Garibaldi a Londra fu un successo e suggerì alle aziende di ceramica dello Staffordshire la costruzione di statuette variopinte del generale che hanno decorato da allora i caminetti delle case del Regno Unito». Certo, direte voi, ma questa è roba vecchia, vecchissima, e che risale all’Ottocento. E poi, che male c’è? Gli inglesi ci hanno aiutato contro i Borbone e contro l’Imperatore d’Austria, e hanno fatto bene. Sì, ma…In Europa c’è un paese che si è fatto finanziare dagli stranieri anche dopo, ad Italia unificata. Il Duce d’Italia, Benito Mussolini, fu finanziato dagli inglesi e dagli americani, e chi lo ha seguito al governo del paese dopo la guerra lo fece in modo anche più esplicito. E’ il caso di un certo Alcide de Gasperi, trentino, che prese un aereo per gli Stati Uniti al fine di ottenere il placet e agevolazioni finanziarie. Poi arrivò il celeberrimo Piano Marshall, un fondo basato sul finanziamento in dollari, la cui “generosità” è oggi ampiamente contestata, dato che la ripresa in Europa “occidentale” si era già avviata da sola e la politica dei prezzi americana fu pilotata per indurre gli europei a vincolarsi al sostegno americano. Non sono nessuno per avvalorare questa linea storiografica; ma, anche volendola rifiutare, al mondo solo gli zulù non ammetterebbero che ci furono finanziamenti all’Italia. E non furono sempre trasparenti come il Piano Marshall. Sereno Freato, stretto collaboratore di Aldo Moro, negli anni Novanta dichiarava ad un giudice: «Mi meraviglio, è la scoperta dell’acqua calda: i finanziamenti del governo Usa alla Democrazia Cristiana ci sono sempre stati! Ho incassato di persona un assegno da 60 milioni dal capo-stazione della Cia a Roma, un assegno destinato alle casse dello scudo crociato nei primi anni ‘60».Vabbè, direte voi, ma questa era la Dc, il partito di maggioranza relativa che doveva combattere una guerra, seppur fredda. Va bene, come osservazione ci sta, peccato che in Europa c’è un paese ove anche le opposizioni si sono fatte finanziare dagli stranieri. E mica tanti anni fa. C’era l’Urss, e quindi parliamo di soli 30 anni or sono. In un libro del 1993 apparso presso Baldini e Castoldi (“L’oro di Mosca”), Gianni Cervetti racconta di essere stato per un certo periodo il procuratore del partito, incaricato di bussare ogni anno alla porta dell’ufficio di un omino magro, taciturno, con la testa pelata e la vivacità espressiva di un busto di marmo (la descrizione è mia) che si chiamava Boris Ponomariov. Cervetti gli rappresentava le esigenze del Pci e, dopo qualche considerazione sull’entità della cifra, incassava un assegno in dollari. La pratica durò sino alla fine degli anni Settanta quando Enrico Berlinguer, allora segretario del partito, decise di mettervi fine. Vi sarebbero stati altri contributi del Pcus (Partito comunista dell’Unione Sovietica) negli anni successivi, ma destinati al «membro della direzione del Partito comunista italiano compagno Cossutta», e sarebbero serviti ad ammonire il Pci che la definitiva rottura con Mosca avrebbe comportato un rischio di scissione.L’informazione su questi ultimi finanziamenti è in un altro libro, “Oro da Mosca”, di Valerio Riva, pubblicato da Mondadori qualche anno dopo l’apparizione del libro di Cervetti. Dunque, anch’io con questo breve (e parziale) excursus storico ho scoperto l’acqua calda: governi e partiti di “quel paese in Europa” (che si chiama Italia) si sono fatti sempre SEMPRE finanziare dagli stranieri. Ora si scopre che (forse) un altro partito italiano, la Lega, si sarebbe fatto finanziare da stranieri, precisamente da industriali russi. Ricalcando la propagadanda Usa contro Trump, anche in Italia si accendono i riflettori sul Russiagate, nonostante tutti i politici italiani di centro, di destra e di sinistra sempre SEMPRE si siano fatti finanziare dagli stranieri. Chiedo allora agli illustrissimi giuristi che si buttano per terra e si contorcono in preda agli spasmi quando leggono di industriali russi che avrebbero promesso fondi ad un partito filorusso: dove accidenti sta scritto che questa cosa non si possa fare? Siamo forse in guerra con la Russia? Non lo sapevo!Sapevo di italiani in guerra contro la Russia negli anni Quaranta, quando le presero di santa ragione sul Don, ma non sapevo che anche oggi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni e Conte avessero messo in piedi un’Armir. perché solo in caso di guerra con la Russia sarebbe scandaloso un finanziamento di russi a politici italiani. Ad inizio 2018 si è completata la transizione dal finanziamento pubblico a quello (quasi) totalmente privato, come previsto dal decreto Letta del 2013. La legge non pone alcun veto al finanziamento da parte di soggetti esteri, se non con alcuni limitati distinguo a partire dall’aprile 2019, quando il governo gialloverde (no, dico… il governo gialloverde!!!), ha ridimensionato questa possibilità limitandola a fondazioni e associazioni. La verità è che, in mancanza di euro, dovrebbero consentirci di ripagare il debito pubblico in bufale: lo avremo ripianato da un pezzo.(Massimo Bordin, “Russiagate, dove diavolo è scritto che non si può?”, dal blog “Micidial” del 23 ottobre 2019).In Europa c’è un paese, Metternich avrebbe detto “un’espressione geografica”, che nel XIX secolo ha preso soldi dalle banche inglesi. Lo sostiene lo storico Aldo Mola, quando scrive che «nella spedizione dei Mille, il ruolo della massoneria inglese fu determinante, con un finanziamento di tre milioni di franchi e il monitoraggio costante dell’impresa»; ma lo ha affermato anche il ben più noto Sergio Romano, basandosi su testi di Arrigo Petacco, quando scriveva che «le ragioni dell’atteggiamento britannico furono in parte culturali, in parte strettamente politiche. I liberali inglesi erano favorevoli ai moti nazionali europei. Il loro leader, William Gladstone, scrisse un feroce pamphlet contro il Regno delle due Sicilie. Londra accolse generosamente Mazzini e contribuì a fare di lui un grande personaggio europeo. Il viaggio di Garibaldi a Londra fu un successo e suggerì alle aziende di ceramica dello Staffordshire la costruzione di statuette variopinte del generale che hanno decorato da allora i caminetti delle case del Regno Unito». Certo, direte voi, ma questa è roba vecchia, vecchissima, e che risale all’Ottocento. E poi, che male c’è? Gli inglesi ci hanno aiutato contro i Borbone e contro l’Imperatore d’Austria, e hanno fatto bene. Sì, ma…
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L’Onu: viene dalle piccole imprese il 70% dei posti di lavoro
Il lavoro autonomo, le microimprese e le piccole imprese svolgono un ruolo molto più importante nell’offerta di posti di lavoro rispetto a quanto si pensasse in precedenza, secondo le nuove stime dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil). I dati raccolti in 99 paesi hanno rivelato che queste cosiddette “piccole unità economiche” rappresentano nel loro insieme il 70% dell’occupazione totale, il che le rende di gran lunga il principale motore dell’occupazione. I risultati hanno implicazioni “altamente rilevanti” per le politiche e i programmi volti alla creazione di posti di lavoro, alla qualità del lavoro, alle start-up, alla produttività aziendale e regolarizzazione del lavoro, che, secondo il rapporto, devono concentrarsi maggiormente su queste piccole unità economiche. Lo studio ha anche scoperto che una media del 62% dell’occupazione in questi 99 paesi è di tipo informale, per cui le condizioni di lavoro in generale tendono a essere peggiori (mancanza di sicurezza sociale, salari più bassi, scarsa sicurezza e salute sul lavoro e relazioni industriali più deboli). Il livello di informalità varia ampiamente, passando da oltre il 90% in Benin, Costa d’Avorio e Madagascar a meno del 5% in Austria, Belgio, Brunei Darussalam e Svizzera.Le informazioni sono pubblicate nel nuovo rapporto dell’Oil “Piccolo è importante: prove globali sul contributo all’occupazione dei lavoratori autonomi, delle microimprese e delle Pmi”. Il rapporto rileva che nei paesi ad alto reddito il 58% dell’occupazione totale è in piccole unità economiche, mentre nei paesi a basso e medio reddito la percentuale è considerevolmente più alta. Nei paesi con i livelli di reddito più bassi la percentuale di occupazione nelle piccole unità economiche è quasi del 100%, afferma il rapporto. Le stime si basano su indagini nazionali sulle famiglie e sulla forza lavoro, raccolte in tutte le regioni ad eccezione del Nord America, anziché utilizzare la fonte più tradizionale di indagini sulle imprese che tende ad avere un ambito più limitato. «Per quanto ne sappiamo, questa è la prima volta che il contributo all’occupazione delle cosiddette piccole unità economiche è stato stimato, in termini comparativi, per un gruppo di paesi così ampio, in particolare i paesi a basso e medio reddito», ha detto Dragan Radic, che guida l’Unità per le piccole e medie imprese dell’Oil.La relazione suggerisce che il sostegno alle piccole unità economiche dovrebbe essere una parte centrale delle strategie per lo sviluppo economico e sociale. Sottolinea l’importanza di creare un ambiente favorevole per queste imprese, garantendo che abbiano una rappresentanza efficace e che i modelli di dialogo sociale funzionino anche per loro. Altre raccomandazioni includono; comprendere in che modo la produttività aziendale è modellata da un “ecosistema” più ampio, facilitando l’accesso ai finanziamenti e ai mercati, promuovendo l’imprenditoria femminile e incoraggiando la transizione verso l’economia formale e la sostenibilità ambientale. Le microimprese sono definite come quelle che hanno fino a nove dipendenti, mentre le piccole imprese hanno fino a 49 dipendenti.(“Oil: le piccole imprese e i lavoratori autonomi coprono la maggior parte dei lavori in tutto il mondo”, da “Voci dall’Estero” del 18 ottobre 2019. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil, in inglese Ilo) è l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere il lavoro dignitoso e produttivo in condizioni di libertà, uguaglianza, sicurezza e dignità umana per uomini e donne).Il lavoro autonomo, le microimprese e le piccole imprese svolgono un ruolo molto più importante nell’offerta di posti di lavoro rispetto a quanto si pensasse in precedenza, secondo le nuove stime dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil). I dati raccolti in 99 paesi hanno rivelato che queste cosiddette “piccole unità economiche” rappresentano nel loro insieme il 70% dell’occupazione totale, il che le rende di gran lunga il principale motore dell’occupazione. I risultati hanno implicazioni “altamente rilevanti” per le politiche e i programmi volti alla creazione di posti di lavoro, alla qualità del lavoro, alle start-up, alla produttività aziendale e regolarizzazione del lavoro, che, secondo il rapporto, devono concentrarsi maggiormente su queste piccole unità economiche. Lo studio ha anche scoperto che una media del 62% dell’occupazione in questi 99 paesi è di tipo informale, per cui le condizioni di lavoro in generale tendono a essere peggiori (mancanza di sicurezza sociale, salari più bassi, scarsa sicurezza e salute sul lavoro e relazioni industriali più deboli). Il livello di informalità varia ampiamente, passando da oltre il 90% in Benin, Costa d’Avorio e Madagascar a meno del 5% in Austria, Belgio, Brunei Darussalam e Svizzera.
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Erdogan spietato con i curdi. Invece gli altri sono meglio?
Ci sono approfondimenti talmente contrari al comune sentire che scontentano tutti: destra, sinistra, moderati, massimalisti, patrioti, nazionalisti, sovranisti ed iperliberisti. Ebbene, l’approfondimento che segue appartiene proprio alla categoria degli “inaccettabili”. Tuttavia, come diceva Franz Kafka, bisogna anche sforzarsi di leggere testi che sono un pugno nello stomaco. Se vi siete abituati a leggere solo le informazioni che vengono dai media tradizionali, sconsiglio dunque la lettura di quel che segue. Da appassionato di storia, ho sempre nutrito una certa simpatia per le cause separatiste. Che si tratti della causa basca o catalana in Spagna, di quella irlandese nel Nord dell’isola o di quella del Donbass in Ucraina, a mio modo di vedere le comunità hanno il diritto di autodeterminarsi. Ci sono molte importanti eccezioni, però, perchè in alcuni casi il separatismo è solo anticamera di guerre civili, e quelle che a prima vista possono sembrare cause separatiste, nascondono lotte di potere interne alle comunità, oppure torbide relazioni con paesi del tutto estranei. Il caso della Cecenia è in tal senso illuminante: non si trattò affatto di guerre per l’autodetermianzione del popolo ceceno, ma di una guerra civile sponsorizzzata.Dunque, i distinguo servono eccome, altrimenti si rischia di non capirci nulla e di fare, come si suol dire, di tutta l’erba un fascio. In queste ore il presidente turco Erdogan ha ordinato un’operazione militare nel nord della Siria al fine di annullare l’operatività dei militanti curdi. Erdogan maschera questo intervento con la solita manfrina della lotta al terrorismo. Questo tema (il terrorismo), viene usato da tutti, senza eccezioni, per reprimere gli oppositori internazionali. I Bush contro Iraq e Afghanistan, Sarkozy contro la Libia, Umberto I e Bava Beccaris contro i manifestanti a Milano, l’austriaco Cecco Beppe contro i serbi e giù giù fino a Metternich contro Mazzini. Dunque, l’argomentazione di Erdogan non regge così come non reggevano quelle di Obama, di Clinton e financo di James Brooke contro Sandokan. C’è però almeno un aspetto per il quale faccio seriamente fatica a criticare l’intervento di Erdogan. Ed è la consapevolezza che il Medioriente è la polveriera del mondo. I turchi hanno dominato, amministrato e costruito infrastrutture in Medioriente per più di 500 anni di storia moderna. Le aree confinanti con l’attuale Turchia erano dentro la Turchia stessa (alias Impero Ottomano) fino al 1922 e lo erano per l’appunto, da oltre mezzo millennio. Gli stati mediorientali attuali: Siria, Libano, Israele, Giordania, Arabia Saudita sono un’invenzione geometrica anglofrancese, realizzata a tavolino dopo la Prima Guerra Mondiale attraverso il trattato Sykes-Picot.Quel trattato ha conferito potere alla tribù più retriva dell’area, i wahabiti (oggi “sauditi”) ed è una divisione innaturale, che non tiene conto delle culture delle varie altre tribù. Detto diversamente, il caos che regna in Medioriente da quasi un secolo a questa parte è interamente imputabile alle proiezioni coloniali anglofrancesi, non ai turchi che furono storicamente più tolleranti in quelle aree di quanto non lo sono oggi le tribù autoctone eterodirette (e lo ripeto: eterodirette prima da francesi e inglesi; poi da americani ed israeliani). Com’è logico che sia, dal 1922 – anno della dissoluzione dell’Impero Ottomano – ad oggi, di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, e non è posssibile far finta di nulla. I turchi si sono macchiati di crimini orrendi, in primis il genocidio degli armeni durante la Prima Guerra Mondiale, avvenuto per opera di un gruppo di fanatici ottomani ai danni delle popolazioni storicamente più vicine ai russi in quel periodo: gli armeni, appunto.Non si trattò affatto però, come Hollywood vorrebbe far credere, della natura malvagia dei turchi: poco prima i coloni inglesi avevano perseguitato e sterminato fino all’estinzione la stragrande maggioranza delle tribù pellerossa in Nord America e costretto i neri africani a fare da schiavi. I belgi avevano pochi anni prima massacrato milioni di congolesi ed i tedeschi di lì a poco si sarebbero interessati agli ebrei in un modo a dir poco maniacale e demoniaco. Sì, insomma, se i turchi sono cattivi, trovatemi quelli buoni, che io ancora non ne ho conosciuti. Venendo in modo più stringente alla questione curda, al separatismo della regione del Kurdistan, ecc, la vicenda è solo apparentemente complessa. Quand’è che – storicamente – una regione separatista realizza il suo progetto e diventa uno Stato nazionale? La risposta è duplice: da un lato, ciò avviene quando quella regione riesce a farsi riconoscere come Stato dalla stragrande maggioranza degli altri paesi. In subordine, ma neanche tanto, quando un’altra nazione la aiuta in questo tortuoso e rischioso percorso. In Iraq, in Siria ed in Turchia – cioè nei paesi ove alla faccia del trattato Sykes-Picot vivono i curdi – la comunità ha fatto una scelta precisa e inequivocabile dicendo che “ad aiutarci in questa impresa saranno gli Stati Uniti d’America! Non importa se siamo comunisti, non importa se siamo antimperialisti! Sarà l’America a liberarci dai turchi e da Assad”.Al netto di tale ingenuità (fidarsi degli americani in geopolitica è come fidarsi di un promotore finanziario in banca), i siriani lealisti hanno teso una mano ai curdi in diverse occasioni. Com’è noto, date le vicende in Siria e la chiamata del leader Assad dei russi in suo soccorso, cercare una collaborazione con Assad per i curdi avrebbe significato anche cercare una collaborazione con Putin. I curdi hanno declinato gentilmente l’invito preferendo gli americani e, ora, tutti ad allargarsi la bocca e stracciarsi le vesti perchè gli americani li hanno mollati. Ma dire che i curdi hanno avuto sfortuna puntando sul cavallo sbagliato non basta. C’è dell’altro. Anche se gli americani tramite milizie ribelli l’avessero spuntata contro i siriani lealisti, che ne sarebbe stato del Kurdistan? L’ipotesi più probabile è che avrebbero realizzato una microscopica autonomia in perenne contrasto con la Turchia. Io non trascurerei tanto facilmente il fatto che Erdogan, appena tre anni or sono, ha represso un colpo di Stato militare contro di lui. Non se ne parla più, ma che gli americani non sapessero nulla di quel colpo di stato, per cortesia, lo andate a raccontare ai vostri bambini, la sera, prima di addormentarsi e dopo avergli letto quella di Biancaneve.Ora, immaginatevi questo scenario: una Turchia sempre più vassalla dell’America dopo la fine di Erdogan. Una Siria inesistente ed in mano all’Isis. Che ne sarebbe stato del laico e comunista Kurdistan? Non sarebbe forse diventato un Israele dei poveri, ulteriore elemento di destabilizzazione e di attentati? Gli islamisti vittoriosi non se lo sarebbero pappato in un attimo? Conclusione: i curdi sono stati pagati per anni dagli americani per destabilizzare l’area nella speranza che i vari gruppi di ribelli rovesciassero la Siria con la guerriglia e la Turchia con il colpo di stato. Le cose non sono andate così ed ora Erdogan fa quello che tutti farebbero: riportare la stabilità con le cattive col tacito consenso di Putin, Assad e Trump. In cambio, Erdogan acquista armi dai russi, non metterà in discussione il ruolo di Assad a Damasco e custodirà gli jihadisti catturati dagli americani per fare un piacere anche a Trump, che ha dato il via libera. E’ sempre difficile giustificare umanamente un intervento militare. Ma a comprendere Erdogan non ci vuole niente.(Massimo Bordin, “La versione di Erdogan”, dal blog “Micidial” del 10 ottobre 2019).Ci sono approfondimenti talmente contrari al comune sentire che scontentano tutti: destra, sinistra, moderati, massimalisti, patrioti, nazionalisti, sovranisti ed iperliberisti. Ebbene, l’approfondimento che segue appartiene proprio alla categoria degli “inaccettabili”. Tuttavia, come diceva Franz Kafka, bisogna anche sforzarsi di leggere testi che sono un pugno nello stomaco. Se vi siete abituati a leggere solo le informazioni che vengono dai media tradizionali, sconsiglio dunque la lettura di quel che segue. Da appassionato di storia, ho sempre nutrito una certa simpatia per le cause separatiste. Che si tratti della causa basca o catalana in Spagna, di quella irlandese nel Nord dell’isola o di quella del Donbass in Ucraina, a mio modo di vedere le comunità hanno il diritto di autodeterminarsi. Ci sono molte importanti eccezioni, però, perchè in alcuni casi il separatismo è solo anticamera di guerre civili, e quelle che a prima vista possono sembrare cause separatiste, nascondono lotte di potere interne alle comunità, oppure torbide relazioni con paesi del tutto estranei. Il caso della Cecenia è in tal senso illuminante: non si trattò affatto di guerre per l’autodetermianzione del popolo ceceno, ma di una guerra civile sponsorizzzata.
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Il “nuovo” Draghi spaventa i mostri del rigore eurocratico
Chi ha paura del “nuovo” Mario Draghi, che – insieme a Christine Lagarde – auspica una governance monetaria che sia l’esatto contrario di quella esibita finora, alla guida della Bce? Dopo gli attacchi arrivati da banche e assicurazioni tedesche, segnala il “Fatto Quotidiano”, la politica di Draghi finisce nel mirino della vecchia guardia dell’Eurotower. «Da ex banchieri centrali e cittadini europei assistiamo con crescente preoccupazione all’attuale modalità di crisi della Bce», si legge nel documento di due pagine firmato tra gli altri dall’ex capo economista della Bce, Juergen Stark. Il sospetto è che il nuovo quantitative easing, cioè il piano di acquisto di titoli di Stato, possa nascondere l’obiettivo di «proteggere i paesi altamente indebitati da un rialzo dei tassi di interesse». Inoltre, secondo gli ex banchieri centrali, i tassi di interesse bassissimi creano effetti redistributivi «a favore dei proprietari di asset immobiliari», che genererebbero «serie tensioni sociali», mentre «le giovani generazioni si vedono private dell’opportunità di provvedere alla vecchiaia con investimenti sicuri che rendano».Il documento è firmato anche da Herve Hannoun, ex vice governatore della Banque de France, dall’ex componente del comitato esecutivo della Bce Otmar Issing, dall’ex governatore della banca centrale austriaca Klaus Liebscher, dall’ex presidente della Bundesbank Helmut Schlesinger e dall’ex governatore della banca centrale olandese Nout Wellink. Le valutazioni sono state condivise anche dall’ex governatore francese Jacques de Larosiere. Il tono del documento è inequivocabile: «L’acquisto protratto di titoli da parte della Bce difficilmente produrrà un effetto positivo sulla crescita». Parole che sembrano comiche, se si tiene conto che a pronuciarle sono proprio gli ingegneri europei della non-crescita deliberata. Uomini come Issing, che – prima ancora dello stesso Draghi – hanno teorizzato apertamente la disciplina del massino rigore nei conti pubblici, condannando in tal modo i paesi Ue alla sofferenza economica. E infatti, ecco il punto: «Da un punto di vista economico, la Bce è già entrata nel territorio del finanziamento monetario della spesa dei governi, che è strettamente proibita dai Trattati», cioè gli accordi-sciagura su cui è stata costruita la stessa Eurozona.Due giorni prima, ricorda sempre il “Fatto”, Draghi era stato attaccato dal capo della più grande compagnia assicurativa europea, Oliver Baete della tedesca Allianz, che in un’intervista al “Financial Times” ha sostenuto che il banchiere centrale europeo non sarebbe indipendente dai governi. «La ragione per la quale non stiamo facendo riforme fiscali è perché tu stai rendendo facile per la gente spendere soldi che non ha», ha detto l’amministratore delegato di Allianz. «Mi dispiace. Invero abbiamo creato banche centrali indipendenti affinché questo non succedesse, affinché le banche centrali non stampassero denaro. La gente dice che Draghi è indipendente. No, non lo è», ha sostenuto. Getta la maschera, il potere finanziario eurocratico: voleva una Bce arcigna e non disponibile a garantire lo svilippo dell’economia reale con gli eurobond? Draghi ha eseguito gli ordini, per anni. Solo ora, lasciando l’incarico, evoca scenari di segno opposto. E questo, a quanto pare, basta a scatenare il panico tra i signori dell’austerity, quelli che hanno letteralmente sabotato proprio quelle “giovani generazioni” che fingono di tutelare.Chi ha paura del “nuovo” Mario Draghi, che – insieme a Christine Lagarde – auspica una governance monetaria che sia l’esatto contrario di quella esibita finora, alla guida della Bce? Dopo gli attacchi arrivati da banche e assicurazioni tedesche, segnala il “Fatto Quotidiano”, la politica di Draghi finisce nel mirino della vecchia guardia dell’Eurotower. «Da ex banchieri centrali e cittadini europei assistiamo con crescente preoccupazione all’attuale modalità di crisi della Bce», si legge nel documento di due pagine firmato tra gli altri dall’ex capo economista della Bce, Juergen Stark. Il sospetto è che il nuovo quantitative easing, cioè il piano di acquisto di titoli di Stato, possa nascondere l’obiettivo di «proteggere i paesi altamente indebitati da un rialzo dei tassi di interesse». Inoltre, secondo gli ex banchieri centrali, i tassi di interesse bassissimi creano effetti redistributivi «a favore dei proprietari di asset immobiliari», che genererebbero «serie tensioni sociali», mentre «le giovani generazioni si vedono private dell’opportunità di provvedere alla vecchiaia con investimenti sicuri che rendano».
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Greta recita: sta minacciando personalmente ognuno di noi
Dovete consumare di meno (voialtri, non loro lassù). E dunque: rassegnatevi alla precarietà, all’esclusione sociale. E sentitevi in colpa, se avete appena cambiato il frigo e osato concedervi una vacanza. Dovete smettere, punto e basta. A chi parla, Greta Thunberg? A noi, le vittime dei suoi burattinai. Fino a ieri, la giovanissima attrice svedese si limitava a mormorare, dispensando saggezza dall’alto dei suoi 16 anni. Oggi ha cambiato passo: intima, minaccia, insolentisce. Le hanno messo a disposizione addirittura la platea della Nazioni Unite, per esibirsi nel suo nuovo spettacolo. Una viperetta tracotante, livida: ne saranno felcissimi, gli azionisti del suo business. In primis, a brindare è la filiera industriale delle energie rinnovabili, con la potente macchina di propaganda ben oliata dall’oligarca Al Gore, ex vice di Clinton, l’uomo che ha scatenato la finanza-canaglia globalizzata. Ma in generale, nel mirino della piccola fiammiferaia svedese (ovvero, dei suoi sceneggiatori) c’è suprattutto il famoso 99% dell’umanità, o meglio ancora dell’Occidente, il “primo mondo” che era benestante e che si è improvvisamente impoverito proprio mentre l’economia mondializzata ha moltiplicato in modo esponenziale il Pil finanziario dei decenni precedenti la caduta del Muro di Berlino.Il grande artefice del disgelo, Mikhail Gorbaciov, sognava un mondo senza più guerre. Sfrattato dal Cremlino, ha visto l’Urss smembrata e la Russia brutalmente privatizzata e saccheggiata. Ma il colpo da maestro degli strateghi del globalismo a mano armata è stato permettere alla Cina di entrare nel gioco planetario con merci prodotte sottocosto, grazie anche a condizioni schiavistiche di lavoro, senza le tutele sindacali di Europa e Usa. In pochi anni il mondo è esploso, insieme al suo fatturato, in una sorta di festa truccata: l’europeo e l’americano medio hanno perso terreno, hanno smesso di crescere in termini di benessere, hanno cominciato a intaccare i risparmi familiari e a dover mantenere i figli senza lavoro, costretti a non sposarsi o a emigrare all’estero. Devastante il fenomeno delle delocalizzazioni, la fuga delle industrie nei paesi asiatici dove l’operaio costava un dollaro al giorno. In Europa – vero laboratorio mondiale del suicidio tecnocratico della democrazia – la truffa neoliberale ha indossato la maschera austera e perbenista dell’ordoliberismo autoritario, l’ipocrita moralismo del guru austriaco Friedrich von Hayek: l’illuminato economista concepiva il welfare (ridotto a poche briciole, s’intende) solo come misura estrema e preventiva per cautelarsi dalla rivolta delle masse impoverite.Agli italiani, personaggi come Ciampi e Prodi avevano presentato l’Ue e l’Eurozona come il paradiso, il regno dell’età dell’oro. Dopo meno di vent’anni non restano che macerie, nazioni che si guardano in cagnesco e che si fanno le scarpe appena possono, mentre il Belpaese (depredato, secondo i piani) ha perso il 25% del suo potenziale industriale. L’Europa intera ha assistito senza muovere un dito alla macellazione senza anestesia del popolo greco: cos’avrebbe da dire, Greta Thunberg, ai sopravvissuti della Grecia che si sono visti scippare il Pireo e gli aeroporti, chiudere i bancomat, tagliare i salari, ridurre le pensioni fino alla soglia della fame? Cicale irresponsabili, quelle che hanno assistito alla morte dei neonati, nei loro ospedali, per mancanza di medicine? Spendaccioni scellerati, i greci, che oggi devono vedersela con piaghe che si credevano sepolte dalla storia, come la malnutrizione infantile? E’ sconcertante la consonanza fra le parole di Greta e quelle degli oligarchi europei che hanno messo la Grecia in ginocchio, accusandola di aver abusato del debito pubblico. La canzone – vagamente nazista – è sempre la stessa: la colpa è vostra, peggio per voi.La Thunberg, si sa, è una pedina importantissima della grande manipolazione mediatica sul “climate change”, ovvero la teoria – non suffragata scientificamente – secondo cui il surriscaldamento globale (peraltro appena contestato all’Onu da 500 scienziati) sarebbe di origine antropica. Sommessamente, qualche anno fa, il fisico Carlo Rubbia, Premio Nobel, ricordava che, ai tempi dell’Impero Romano, le temperature medie erano superiori a quelle di oggi. Nel solo medioevo, come gli storici sanno, si è passati dalla mini-glaciazione (che d’inverno congelava il Tamigi e la Senna, attraversabili camminando) al grande caldo del periodo basso-medievale, con colture mediterranee come l’ulivo diffuse ovunque nel Nord Italia. Ancora nom c’era neppure la macchina a vapore, figurarsi le emissioni velenose delle odierne megalopoli. L’inquinamento è tangibile e pericoloso, quello sì: negli oceani galleggiano isole di plastica vaste quanto continenti. Come è possibile che non si impieghi la tecnologia necessaria a bonificare la Terra e riconvertire ecologicamente l’industria? E soprattutto: perché – in primis – i padroni dell’universo che muovono i fili della marionetta Greta vogliono, a tutti i costi, colpevolizzare noi per quanto sta accadendo, raccontandoci addirittura che il degrado della biosfera altera il clima del pianeta?E’ tutto talmente surreale da sembrare comico, se non fosse per il caos sanguinoso che sfiora o assedia miliardi di esseri umani. Il cielo è vistosamente coperto dalle emissioni aeree della geoingegneria (guai a chiamarle scie chimiche), mentre l’aviazione Usa ammette, di colpo, che i piloti dei jet sono frastornati dai continui avvistamenti di Ufo. Il Medio Oriente non fa più notizia, eppure dovrebbe: non si è ancora spenta l’eco del terrore scatenato dal sedicente Stato Islamico, protetto e armatissimo da precisi settori dell’intelligence atlantica prima dell’elezione di Trump alla Casa Bianca. Gli stregoni della finanza oggi hanno paura: temono un crollo catastrofico dell’economia fittizia gonfiata dalla speculazione. Mario Draghi smentisce integralmente la sua vicenda professionale e arriva a evocare addirittura la Modern Money Theory, cioè la restituzione della sovranità monetaria agli Stati, mentre Christine Lagarde, in uscita dal Fmi e diretta alla Bce, parla apertamente degli eurobond che metterebbero fine all’incubo dello spread, consentendo all’economia europea di tornare a investire e produrre lavoro. Sono voci frammentarie di élite potentissime che oggi appaiono divise e lacerate da faglie profonde, come quella che oppone il governo Usa al cartello Rothschild, ora schierato con Silicon Valley e con la Cina, pronto a sostituire il dollaro con un’altra possibile valuta internazionale, come propone la Bank of England.I segnali non sono rassicuranti, c’è chi teme un collasso che potrebbe spalancare scenari di guerra. Nell’Italia che assiste alla strage indiscriminata di alberi d’alto fusto, tagliati per fare spazio al misterioso 5G (vera incognita, per la salute), i genitori si rassegnano a sottoporre i bambini a vaccinazioni improvvisamente obbligatorie, somministrate in batteria – oggi ai neonati e forse domani anche agli adulti, pena la pedita del passaporto e della patente di guida come in Argentina? Ma non importa, evidentemente, se in tanti battono le mani alla piccola strega Greta Thunberg, che recita a soggetto davanti alle Nazioni Unite puntando il dito contro tutti noi. Un’intimidazione ad personam, minacciosa e sinistra: guai a voi, branco di incoscienti. Come osate continuare a sperare di migliorare la vostra vita? Musica, per le orecchie dei tagliatori di bilanci. Nulla che possa impensierire le major, gli oligarchi, le multinazionali. Greta ce l’ha con noi, con ognuno di noi: punta a far crescere il nostro senso di colpa, quello del giovane che sogna l’auto nuova, del pensionato che fatica ad arrivare alla fine del mese. Grazie a Greta, i cialtroni dell’austerity – da Palazzo Chigi alla Commissione Ue – potranno accanirsi sul popolo bue con meno scrupoli, specie se l’economia mondiale volgerà al peggio. Nuovi sacrifici in vista? Niente paura, in soccorso ai lestofanti arriva la lezione della piccola attrice svedese: soffrire è giusto, ce lo meritiamo.Dovete consumare di meno (voialtri, non loro lassù). E dunque: rassegnatevi alla precarietà, all’esclusione sociale. E sentitevi in colpa, se avete appena comprato lo smartphone ultimo modello e avete osato concedervi una bella vacanza. Dovete smettere, punto e basta. A chi parla, Greta Thunberg? A noi, le vittime dei suoi burattinai. Fino a ieri, la giovanissima attrice svedese si limitava a mormorare, dispensando saggezza dall’alto dei suoi 16 anni. Oggi ha cambiato passo: intima, minaccia, insolentisce. Le hanno messo a disposizione addirittura la platea della Nazioni Unite, per esibirsi nel suo nuovo spettacolo. Sembra una viperetta tracotante, livida: ne saranno felicissimi, gli azionisti del suo business. In primis, a brindare è la filiera industriale delle energie rinnovabili, con la potente macchina di propaganda ben oliata dall’oligarca Al Gore, ex vice di Clinton, l’uomo che ha scatenato la finanza-canaglia globalizzata. Ma in generale, nel mirino della piccola fiammiferaia svedese (ovvero, dei suoi sceneggiatori) c’è soprattutto il famoso 99% dell’umanità, o meglio ancora dell’Occidente, il “primo mondo” che era benestante e che si è improvvisamente impoverito proprio mentre l’economia mondializzata ha moltiplicato in modo esponenziale il Pil finanziario dei decenni precedenti la caduta del Muro di Berlino.
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Il finto sovranismo della “serva Italia” e l’inganno di Grillo
Nell’800 l’Italia unitaria è nata serva al servizio di potenze dominanti, per loro volere e intervento. Con le guerre coloniali e con l’inopportuna partecipazione alla Prima Guerra Mondiale ha cercato invano di affrancarsi e di parificarsi a Francia, Germania, Regno Unito. Poi ci ha provato Mussolini. Poi, nel secondo dopoguerra, in diversi modi, grandi personaggi hanno tentato di difendere gli interessi nazionali dal predominio e dall’ingerenza degli interessi stranieri: Mattei, Moro, Craxi, Berlusconi; i primi due stati neutralizzati da criminali, il terzo dalla giustizia, il quarto di nuovo dalla giustizia in collaborazione con lo spread (Draghi-Merkel). Gli spavaldi economisti che prospetta(va)no una facile e vantaggiosa uscita dell’Italia dall’euro per sottrarsi al rigorismo recessivo, forse non tenevano presente la realtà storica. E’ stato provato che l’Italia è inserita, da poteri tecno-finanziari esterni ad essa e contrari ai suoi interessi, in un certo programma europeo o atlantico, che comprende il suo spolpamento e la cessione dei suoi assets a controllo straniero.L’euro e le sue regole sono uno strumento essenziale a questo fine (vedi i miei “Euroschiavi”, “Tecnoschiavi”, “Cimiteuro”, “Traditori al Governo”, “Oligarchia per popoli superflui”). L’Italia neanche se unita e neanche se guidata da autentici statisti – quali oggi non esistono né in Italia né altrove in Occidente – potrebbe battere il liberal-capitalismo finanziario imperante, e affrancarsi da tale programma: gli strumenti finanziari, monetari, mediatici e giudiziari in mano agli interessi dominanti sono troppo forti; prima bisognerebbe che il loro apparato di potenza fosse abbattuto da un rivolgimento perlomeno continentale. Soprattutto sotto leader modesti come Salvini, Di Maio, Renzi, con certezza non si raggiunge la libertà. I tentativi di affrancamento, come quello, vago e timido, del governo gialloverde, non possono che fallire e ricadere in danno agli italiani. Dai tempi dell’occupazione longobarda, e poi franca, normanna, francese, spagnola, austriaca, la gran parte dei politici italiani aspira a collaborare coi padroni stranieri aiutandoli a sfruttare l’Italia, perché aiutandoli si eleva verso di essi e sopra i comuni italiani. E’ un tratto culturale storicamente consolidato. In Italia, fare il Quisling non è un titolo di demerito, ma all’opposto di nobiltà; questo va ricordato a coloro che hanno dato del Quisling al Quirinale: non è un vilipendio, è un encomio.Da tutto quanto sopra consegue che agli italiani conviene un governo non ribelle agli interessi stranieri, specificamente franco-tedeschi, piuttosto che uno ribellista ma impotente, che attira ritorsioni su di loro. Un governo sottomesso ma dialogante, che attenui la violenza del processo di spolpamento, espropriazione ed invasione afroislamica, e lo diluisca nel tempo, dando modo alla popolazione generale di vivere decentemente qualche anno in più, e alla parte più valida di essa di emigrare e trasferire aziende e patrimonio all’estero. Agli intellettuali antisistema non conviene farsi partito politico, sia perché non vi è spazio per l’azione politica, sia perché verrebbero attaccatati dai magistrati politici e dall’apparato mediatico. L’azione antisistema, di critica e controproposta al regime tecnofinanziario, sebbene impossibile sul piano governativo, potrebbe invece parallelamente continuare sul piano culturale e informativo: la critica intelligente e competente potrebbe costituire un’associazione internazionale di ricerca scientifica socio-economica, geostrategica e storica, meglio se con sede all’estero (fuori della portata della giustizia nostrana), indipendente da ogni ente pubblico e dal capitale privato, avente lo scopo di mettere in luce la verità, gli inganni e i meccanismi monetari-finanziari che essi nascondono.Ora qualche nota sulla crisi di governo in atto. Salvini l’ha aperta in un momento scelto razionalmente, forse non il migliore, ma verosimilmente l’ultimo possibile (non voglio pensare l’abbia aperta confidando nelle assicurazioni di Zingaretti, che non si sarebbe alleato coi grillini ma avrebbe spinto per le elezioni: se Salvini si fosse fidato di tali dichiarazioni, ignorerebbe l’abc della politica, ossia che menzogna e dissimulazione sono parte essenziale del metodo politico). Poi l’ha gestita male, con tentennamenti, incertezze, contraddizioni e scarse analisi economico-giuridiche. Al Senato non si è difeso efficacemente dalle stroncature di Conte: ha replicato usando argomenti deboli mentre ne aveva a disposizione di ben più forti; non ha ribattuto sul piano giuridico-costituzionale; è apparso in pallone, impacciato, patetico nei suoi appelli alla Madonna e nel suo offrirsi come bersaglio.La sua difesa è stata fatta molto meglio dalla senatrice Bernini di Forza Italia, che ha smascherato l’ipocrisia e le contraddizioni di Conte. Salvini è un buon comunicatore, ha un buon fiuto, non è stupido, è ben sopra la media dei politici nostrani, ma adesso tutti hanno potuto vedere che non ha la saldezza né la preparazione culturale dello statista. E’ o è stato un leader carismatico, e i leader carismatici perdono il carisma allorché appaiono perdenti. Però Salvini può ancora rinquartarsi e recuperare, specialmente se la Lega va all’opposizione e fa opposizione dura e aggressiva nelle piazze, o anche se ricuce con il partito della Casaleggio & Associati, perlomeno al fine di proteggersi dagli attacchi giudiziari stando al governo. Però in ogni caso dovrebbe colmare le sue lacune in diritto costituzionale ed economia internazionale. Ad ogni modo, la carica sovranista e antisistema dei capi grillini e leghisti era da tempo andata scemando e riducendosi a poche banalità pressoché inoffensive e a denunce sterili.Ben diversamente, Grillo era partito, prima che fosse fondato il M5S, da una vera critica antisistema, che metteva in luce il fattore centrale del potere e dell’iniquità, che spoglia della loro sovranità i popoli: la privatizzazione della sovranità monetaria, il monopolio privato della produzione e allocazione della moneta e del credito. Poi, divenendo capo di una formazione partitica assieme alla Casaleggio e Associati, aveva smesso di parlare di queste cose, troppo autenticamente disturbanti per il sistema, e si era giustificato, ad usum imbecillium, asserendo che si tratterebbe di cose che la gente non capisce. Era passato alla dottrina del vaffa, più alla portata della classe cui si rivolgeva, e ben tollerabile per il sistema. Tuttavia, ancora nei due anni precedenti le elezioni politiche del 2018, alcuni esponenti grillini, segnatamente Villarosa (attuale sottosegretario alle finanze), Pesco e Sibilia, si erano interessati e avevano approfondito con impegno la materia monetaria e bancaria, richiedendo e ricevendo la collaborazione mia e di altri studiosi di questo campo, organizzando eventi pubblici e promettendo iniziative concrete una volta al governo. Ma, al contrario, una volta accomodatisi sulle poltrone governative, i predetti non solo non hanno preso alcuna concreta e visibile iniziativa, ma hanno addirittura rifiutato ulteriori contatti con noi.Evidentemente avevano ricevuto ordini di scuderia e calcolato la loro convenienza. Si sono allineati al sistema, con tutto il Movimento, il quale si è rivelato e confermato uno strumento per raccogliere il dissenso antisistema e poi neutralizzarlo, anzi portarlo al sistema convertendolo in consenso ad esso, a braccetto col partito dei finanzieri detto Pd, e con la risibile mascheratura di contentini demagogici, rumorosi e dannosi come il cosiddetto reddito di cittadinanza, il salario minimo, una riforma giacobina e incompetente del processo penale. E dopo hanno votato Ursula von der Leyen, falco finanziario germano-rigorista, gettando completamente la maschera: servono interessi opposti a quelli dichiarati. Ancor prima, Movimento e Lega erano entrambi passati da posizioni critiche verso l’euro, spavaldamente contemplanti la possibilità di uscirne senza danno (Borghi, Bagnai) in caso di rifiuto di opportune e strutturali riforme dell’apparato europeo, a posizioni di definitiva accettazione dell’euro e di arrendevolezza a Bruxelles. Ma ciò non è bastato ad evitare l’isolamento e la marginalizzazione dell’Italia in sede europea, né a ottenere più margini di spesa pubblica. Insomma, come governo antisistema il governo gialloverde era fallito prima di cadere, o più precisamente prima di nascere. Non abbiamo perso molto. Anzi, abbiamo guadagnato in chiarezza.(Marco Della Luna, “Il soranismo della serva Italia”, dal blog di Della Luna del 22 agosto 2019).Nell’800 l’Italia unitaria è nata serva al servizio di potenze dominanti, per loro volere e intervento. Con le guerre coloniali e con l’inopportuna partecipazione alla Prima Guerra Mondiale ha cercato invano di affrancarsi e di parificarsi a Francia, Germania, Regno Unito. Poi ci ha provato Mussolini. Poi, nel secondo dopoguerra, in diversi modi, grandi personaggi hanno tentato di difendere gli interessi nazionali dal predominio e dall’ingerenza degli interessi stranieri: Mattei, Moro, Craxi, Berlusconi; i primi due stati neutralizzati da criminali, il terzo dalla giustizia, il quarto di nuovo dalla giustizia in collaborazione con lo spread (Draghi-Merkel). Gli spavaldi economisti che prospetta(va)no una facile e vantaggiosa uscita dell’Italia dall’euro per sottrarsi al rigorismo recessivo, forse non tenevano presente la realtà storica. E’ stato provato che l’Italia è inserita, da poteri tecno-finanziari esterni ad essa e contrari ai suoi interessi, in un certo programma europeo o atlantico, che comprende il suo spolpamento e la cessione dei suoi assets a controllo straniero.