Archivio del Tag ‘austerity’
-
La sfida dell’eresia, dai Catari al mondo del pensiero unico
“Airesis”: scelta, contraria al dogma. A cosa servono, gli eretici? Spesso, a far fare passi da gigante, al mondo. La nonviolenza di Gandhi di fronte alla brutalità coloniale inglese. L’eroica tenacia di Nelson Mandela, ai lavori forzati per aver denunciato il delirio sociale di un paese africano per soli bianchi. Può vincere, l’eresia? Forse alla distanza, aprendo una crepa innanzitutto culturale, per poi scavare nella coscienza di ciascuno. Sul piano politico, invece, generalmente gli eretici vengono sconfitti, e il più delle volte ci rimettono la pelle. Martin Luther King sognava un’America fraterna, senza più discriminazioni razziali. Yitzhak Rabin osò immaginare un Medio Oriente libero dall’odio e dall’orrore. Sacco e Vanzetti? Fritti sulla sedia elettrica per aver lottato contro un sistema ingiusto. Thomas Sankara voleva un’Africa nuova, sollevata dal giogo finanziario del debito occidentale. Sono caduti tutti, ma oggi siedono in un pantheon intoccabile: in un certo senso, sono ancora qui. Non è possibile cancellare l’immagine del giovane Cassius Clay che getta nel fiume Hudson la medaglia olimpica conquistata a Roma, dopo esser stato respinto – perché “negro” – da un ristorante di New York. Il dissidente compie sempre qualche gesto simbolico, che costringe l’umanità a pensare. A ragione o a torto, l’eretico rischia in prima persona. Si ribella a un dogma imposto, cioè al non-pensiero di un mondo senza libertà.In questa Italia frastornata da una campagna elettorale stanca e mediocre, condizionata dal dogmatismo neoliberista del pensiero unico imposto da Bruxelles, serpeggia la tentazione di una sorta di diserzione di massa, mentre cresce – silenziosamente – una minoranza sempre meno sparuta di cittadini che si fanno domande, si documentano in proprio e si riuniscono, consultando esperti, nel fondato sospetto che qualsiasi versione ufficiale – dai vaccini alla geopolitica fino alla storiografia, passando per l’esegesi biblica dottrinaria – sia sempre inattendibile, incompleta, reticente. E’ un panorama, questo, nel quale fioriscono iniziative impensabili, fino a dieci anni fa: come la lusinghiera campagna di crowdfunding per finanziare, dal basso, il documentario “Bogre”, girato da Fredo Valla tra Bulgaria, Italia, Catalogna e soprattutto Occitania. Un viaggio affascinante, che ripercorre le remote geografie della più importante eresia del medioevo, cioè il Cristianesimo “dualistico” interpretato dai bogomili nei Balcani e poi dai càtari, i “bulgari” travolti dalla Crociata Albigese nella contea di Tolosa, per poi essere annientati da settant’anni di spietate persecuzioni ad opera dell’Inquisizione. Una tragedia che causò la rovina socio-economica della terra dei Trovatori, che alla fine del 1100 era tra le regioni europee più prospere e avanzate, più libere e tolleranti.Fu un trauma, per lo sviluppo armonico dell’Europa: lo sostiene una scrittrice a sua volta “eretica” come Simone Weil, secondo cui proprio la brutale repressione dell’eresia càtara – gli assedi e le stragi, il terrore scatenato dagli inquisitori – alimentò nel continente la generale rassegnazione al culto della forza, alla guerra come esito inevitabile di qualsiasi conflitto, fino al supremo orrore dell’abominio nazista. Chi è l’eretico? E’ uno che si alza in piedi e dice, semplicemente: non sono d’accordo. E spiega il perché. Chi lo ascolta, sa che sta rischiando il carcere, magari la vita. Il coraggio dell’eretico ricorda a tutti, inevitabilmente, che le versioni dei fatti sono sempre almeno due, mai una sola. Se invece l’ideologia è unica, per di più non proposta pacificamente ma imposta in modo dogmatico (cioè con l’esplicito divieto di metterne in discussione i fondamenti) allora l’umanità è in pericolo, si disumanizza, si divide in buoni e cattivi. Sotto il governo di Raimondo VI, conte di Tolosa, sul finire del 1100 poteva capitare di assistere, nelle chiese, ad avvincenti dispute teologiche tra parroci cattolici e predicatori càtari, di fronte alla platea dei fedeli: oggi, nel 2018, è praticamente impossibile che alla televisione abbia accesso qualche vero “eretico”, radicalmente critico nei confronti del sistema socio-economico che ci viene presentato come l’unico possibile.Quella del Catarismo è una storia spesso denegata, che le burocrazie religiose tendono a sminuire, come fosse un fantasma scomodo. Lo è: ma per il potere in generale e non solo per la Roma di allora, se è vero che l’Inquisizione inaugurò la prima vera forma di terrorismo totalitario, ostacolato – per reazione – dalla rivolta armata dei cavalieri “Faidits”, i primi guerriglieri della storia europea. Uno schema che poi non ha fatto che ripetersi, in modo tragicamente sistematico. Vaticano medievale e càtari? Ruoli e maschere di quasi mille anni fa. Più che la casacca indossata, in fondo può contare un gesto destinato a rimanere vivo: come l’immensa pietà per gli sconfitti, che risuona tra i versi cavallereschi della Canzone della Crociata, scritti da cattolici. E l’ultimo “perfetto” càtaro d’Occitania, Guilhelm Belibàsta, a un passo dalla morte sul rogo arrivò a perdonare (e a tentare di convertire) l’uomo che l’aveva tradito, consegnandolo ai carnefici. E questa l’umanità che il film “Bogre” cercherà di riesumare, dopo otto secoli di oblio, tra le pieghe di vicende solo in apparenza lontane da noi. L’eresia è una domanda, che costringe a interrogarsi. E’ il contrario dell’odio, che teme le domande e ama le guerre, vietando ai soldati di pensare. Rileggere l’avventura dei càtari può servire a scoprire di cos’è stata capace, l’umanità, prima di arrendersi al comodo letargo delle verità imposte.(E’ possibile aderire alla campagna di crowdfunding del documentario “Bogre” attraverso la piattaforma “Produzioni dal basso”; in cambio, si potrà ricevere il film in anteprima).“Airesis”: scelta, contraria al dogma. A cosa servono, gli eretici? Spesso, a far fare passi da gigante, al mondo. La nonviolenza di Gandhi di fronte alla brutalità coloniale inglese. L’eroica tenacia di Nelson Mandela, ai lavori forzati per aver denunciato il delirio sociale di un paese africano per soli bianchi. Può vincere, l’eresia? Forse alla distanza, aprendo una crepa innanzitutto culturale, per poi scavare nella coscienza di ciascuno. Sul piano politico, invece, generalmente gli eretici vengono sconfitti, e il più delle volte ci rimettono la pelle. Martin Luther King sognava un’America fraterna, senza più discriminazioni razziali. Yitzhak Rabin osò immaginare un Medio Oriente libero dall’odio e dall’orrore. Sacco e Vanzetti? Fritti sulla sedia elettrica per aver lottato contro un sistema ingiusto. Thomas Sankara voleva un’Africa nuova, sollevata dal giogo finanziario del debito occidentale. Sono caduti tutti, ma oggi siedono in un pantheon intoccabile: in un certo senso, sono ancora qui. Non è possibile cancellare l’immagine del giovane Cassius Clay che getta nel fiume Hudson la medaglia olimpica conquistata a Roma, dopo esser stato respinto – perché “negro” – da un ristorante di New York. Il dissidente compie sempre qualche gesto simbolico, che costringe l’umanità a pensare. A ragione o a torto, l’eretico rischia in prima persona. Si ribella a un dogma imposto, cioè al non-pensiero di un mondo senza libertà.
-
Ma la bufera sulle logge non sfiora la massoneria che conta
«Aboliamo la massoneria», titola “L’Espresso”, di fronte all’offensiva della commissione antimafia guidata da Rosy Bindi, dopo la denuncia di una trentina di massoni calabresi “dissidenti”, usciti allo scoperto in seguito a un’indagine su riciclaggio e narcotraffico. «Un’inchiesta politica e giudiziaria senza precedenti dai tempi della P2 mette sotto scacco il mondo degli incappucciati», scrive il settimanale di De Benedetti. « E la commissione antimafia vuole i nomi degli affiliati: era ora, ma non basta». Il reportage di Gianfrancesco Turano, che documenta l’attività investigativa allora in corso, risale a una anno fa e fotografa alla perfezione il clamore suscitato dalla Bindi, a mezzo stampa: «C’è da sperare che venga rieletta: in politica farebbe comunque meno danni che all’università, dove tornerebbe a insegnare», commenta sarcastico il massone Gianfranco Carpeoro, saggista, già a capo dell’autodisciolta Gran Loggia Serenissima di Piazza del Gesù. Carpeoro (al secolo Gianfranco Pecoraro, avvocato di lungo corso) è uno spietato giudice dei grembiulini nazionali: «Quella italiana è la peggior situazione massonica al mondo: quando va bene, entrare in una loggia oggi significa perdere il proprio tempo». Ancora più caustico un altro massone progressista, Gioele Magaldi, che contesta l’ipocrisia del sistema politico-mediatico: «Se la prendono sempre con le logge provinciali, fingendo di non sapere che i massimi vertici dello Stato militano nelle Ur-Lodges sovranazionali che hanno imposto all’Italia la tragedia dell’austerity».«Ci vogliono mettere il triangolo rosso come ai tempi delle persecuzioni naziste», protesta il gran maestro del Goi, Stefano Bisi, a capo di 23.000 affiliati distribuiti in oltre 800 logge. Sull’“Espresso”, Turano sostiene che le nuove indagini «hanno stretto i liberi muratori in una morsa politico-giudiziaria senza precedenti dai tempi della P2 (marzo 1981) quando Licio Gelli, il “venerabile” per eccellenza, gestiva un potere occulto, alternativo allo Stato democratico, raccogliendo un’oligarchia di deputati, ministri, generali, imprenditori e criminali che si erano sottratti alle leggi della Repubblica». Il giornale cita lo storico Aldo Mola, secondo cui la P2 non era affatto una loggia coperta, ma una cellula speciale regolarmente affiliata al Goi, con tre caratteristiche. «Primo: l’iniziazione non avveniva in loggia. Secondo: non c’era diritto di visita, ossia altri fratelli non potevano visitare la loggia. Terzo: non c’era obbligo di riunioni. Infatti la P2 non si è mai riunita». La loggia di Gelli, afferma Mola, era una replica della loggia Propaganda, costituita nel 1877 «come vetrina e fiore all’occhiello del Goi, tanto che i fratelli erano dispensati dal pagare le quote». Peraltro, si trattava di “capitazioni” ridicole: «Il cantante Claudio Villa versava 2 mila lire all’anno e lo scrittore Roberto Gervaso 60 mila. Erano somme piccole anche negli anni Settanta».Finisce lì, l’analisi sulla P2 offerta dall’“Espresso”. Secondo Gioele Magadi, presidente del Movimento Roosevelt e autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere) la P2 non era altro che il braccio operativo della superloggia sovranazionale “Three Eyes”, fondata da Kissinger e Rockefeller, “mente” storica della supermassoneria globalista neo-reazionaria, che avrebbe affiliato – tra gli altri – Giorgio Napolitano. Un circuito potentissimo, quello delle Ur-Lodges di ispirazione neo-aristocratica, che terrebbe insieme politici e tecnocrati, da Monti a Draghi passando per D’Alema e per il governatore Visco di Bankitalia, inclusi tutti i recenti ministri dell’economia (da Siniscalco a Grilli, da Saccomanni a Padoan), ridotti a cinghie di trasmissione dei diktat neoliberisti del super-potere globalista, quello delle crisi finanziarie e della disoccupazione di massa. Lo stesso Carpeoro, che nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Revoluzione) svela i retroscena ben poco islamici degli attentati europei firmati Isis (chiamando in causa settori dell’intelligence Nato), sostiene che la P2 di Gelli serviva a “coprire” il vero ponte di comando del potere: «Si tratta della loggia P1, mai scoperta ufficialmente, responsabile della “sovragestione” che ha eterodiretto in Italia la strategia della tensione e poi la crisi degli ultimi anni».Fatevi qualche domanda, insiste Carpeoro: «Non è strano che nessun giornale, nemmeno per sbaglio, abbia mai evocato la P1?». La lettera P, come scrive lo stesso Mola, sta per “propaganda”: doveva essere una vetrina di iscritti prestigiosi, destinati a dare lustro al Grande Oriente. «E allora che senso ha, poi, fare la P2 e tenerla nascosta?». In proposito, Carpeoro ha le idee chiare: «Un tempo, ogni anno, la massoneria apriva le porte delle logge alla cittadinanza, ricordando i massoni illustri che avevano fatto qualcosa di meritevole per la loro città». Dal canto suo, Magaldi contesta il farisaismo della politica italiana: «Questo è uno Stato nato dalla massoneria risorgimentale», e non solo: era notoriamente massone Meuccio Ruini, capo della commissione per la Costituente, così come il giurista Pietro Calamandrei, uomo simbolo dell’antifascismo e della rinascita democratica del paese. Era massone – trentatreesimo grado del Rito Scozzese – lo stesso Giacomo Matteotti, martire antifascista, come ricorda Carpeoro nel saggio “Il compasso, il fascio e la mitra” (Uno Editori), che documenta lo strano “inciucio” tra massoneria e Vaticano all’origine del regime di Mussolini – col placet del sovrano Vittorio Emanuele III, che in cambio avrebbe intascato una maxi-tangente petrolifera dalla Sinclair Oil della famiglia Rockefeller.Grandi poteri, non beghe di cortile: il reportage dell’“Espresso” cita solo di striscio il drammatico caso Mps, che ha coinvolto il Goi nelle recenti inchieste. «Politica e giornali hanno attaccato il gran maestro Stefano Bisi – protesta Magaldi – guardandosi bene dal citare Anna Maria Tarantola e Mario Draghi, cioè i due tecnocrati allora ai vertici di Bankitalia che avrebbero dovuto vigilare sulle azioni del Montepaschi». Peggio: sul caso incombe la strana morte di David Rossi, alto funzionario della banca senese, precipitato da una finestra. Un suicidio da più parti ritenuto inverosimile, che secondo Carpeoro (intervistato da Fabio Frabetti di “Border Nights”) lascia pensare a una guerra inframassonica senza esclusione di colpi, tutta interna all’ala destra della supermassoneria internazionale oligarchica: «Da una parte il gruppo di Draghi, e dall’altra i suoi antagonisti, che probabilmente vogliono metterlo in difficoltà – con la tempesta su Mps – per poi arrivare a sostituirlo». Carpeoro e Magaldi, massoni entrambi (il primo uscito dal circuito delle logge, il secondo fondatore del Grande Oriente Democratico, che punta a creare una massoneria trasparente) sono tra i pochissimi a spiegare, in modo convincente, un mondo di cui sui giornali continua a non esservi traccia.Lo stesso libro “Massoni” (sottotitolo, “La scoperta delle Ur-Lodges”), dopo infinite ristampe che ne hanno fatto un bestseller italiano è stato recensito soltanto dal “Fatto Quotidiano”, nel silenzio assordante della grande stampa mainstream, quella che poi si scatena sulle inchieste che coinvolgono le periferie massoniche provinciali. «Come tutte le associazioni umane, anche la massoneria si degrada se smarrisce lo scopo iniziale e si riduce a essere una struttura, che poi diventa inevitabilmente appetibile per il potere», sintetizza Carpeoro: «L’architetto Christopher Wren, capo della massoneria inglese incaricato di ricostruire Londra dopo l’incendio che la distrusse nel 1666, riprogettò tutti i maggiori edifici tranne uno, il tempio massonico. Il 1717 è ufficialmente la data di nascita della massoneria moderna, ma in realtà segna l’inizio della sua morte». Magaldi non concorda appieno: «Dobbiamo a quella massoneria la Rivoluzione Francese, la Rivoluzione Americana e persino la Rivoluzione d’Ottobre che abbattè lo zarismo. Lo Stato laico, la democrazia elettiva: valori che oggi diamo per scontati, ma che nascono dalla libera muratoria del ‘700».Per questo, sostiene Magaldi, è assolutamente disonesto sparare sulla massoneria tout-court. E lo dice uno che l’ha messa in croce, per iscritto, la supermassoneria oligarchica “contro-iniziatica” che ha letteralmente inquinato l’Occidente, sabotandone il percorso democratico. Nel suo libro, Magaldi ascrive alle Ur-Lodges reazionarie il colpo di Stato del massone Pinochet in Cile (contro il massone Allende) e il doppio omicidio di Bob Kennedy e del massone Martin Luther King, nonché i tentativi di golpe nell’Italia del dopoguerra, orchestrati con la collaborazione della P2 di Gelli su mandato della “Three Eyes”. Capolavoro europeo dell’offensiva neo-oligarchica, l’omicidio del premier svedese Olof Palme, assassinato nel 1986 alla vigilia della sua probabile elezione all’Onu, come segretario generale. «Socialista democratico – sottolinea Carpeoro – Palme era un trentatreesimo grado del Rito Scozzese». Poco prima del delitto, Gelli inviò un telegramma negli Usa per avvertire che «la palma svedese» sarebbe stata abbattutta. «Il telegramma – scrive Carpeoro – era destinato a Philip Guarino, parlamentare allora vicino al politologo Michael Ledeen, massone e membro del B’nai B’rit sionista, negli anni ‘80 vicino a Craxi e poi a Di Pietro, quindi a Renzi ma al tempo stesso anche a Di Maio e Grillo».«Se Olof Palme fosse rimasto in campo, mai e poi mai avremmo visto nascere questo obbrobrio di Unione Europea», scommette Carpeoro, intenzionato – con Magaldi e il Movimento Roosevelt – a promuovere un convegno, a Milano, proprio sulla figura del leader svedese, «l’uomo che creò il miglior welfare europeo e scongiurò la disoccupazione impegnando direttamente lo Stato nelle imprese in crisi: la sua missione dichiarata era “tagliare le unghie al capitalismo”, contenerlo e limitarne l’egemonia». Non poteva non sapere, Olof Palme, che all’inzio degli anni ‘80 l’intera comunità delle potentissime Ur-Lodges, comprese quelle di ispirazione progressista, aveva firmato lo storico patto “United Freemasons for Globalization”, che diede il via alla mondializzazione definitiva dell’economia, archiviando decenni di diritti e conquiste democratiche. Era scomoda, la “palma svedese”: andava “abbattuta”. Per mano di fratelli massoni? «Nella ritualistica, l’iniziazione del maestro rievoca l’uccisione del mitico architetto Hiram Abif, assassinato proprio da due confratelli», sottolinea Carpeoro. «Lo stesso organizzatore del delitto Matteotti, il massone Filippo Naldi, fece in modo – con estrema perfidia – che fossero massoni i killer del leader socialista, massone anche lui».Analisi e retroscena, spiegazioni, ragionamenti in controluce che permettono di rileggere la storia da un’altra angolazione. Nulla che si possa rintracciare, tuttora, nella stampa mainstream. «Di certo Gelli, a poco più di un anno dalla sua morte, sembra avere seminato anche troppo bene», si limita a scrivere Turano sull’“Espresso”. «Come alla fine dell’Ottocento, è tornato di moda il motto del garibaldino e deputato Felice Cavallotti: “Non tutti i massoni sono delinquenti, ma tutti i delinquenti sono massoni”». Garibaldi, passato alla storia (spesso agiografica) come “l’eroe dei due mondi”, fu il primo gran maestro del Grande Oriente d’Italia. Un altro massone, Cavour, fu il “cervello” del Risorgimento: se non fosse morto prematuramente, sostiene Carpeoro, non avremmo vissuto in modo così drammatico l’Unità d’Italia, con il Sud martizizzato dal militarismo di La Marmora e Cialdini e l’esodo di milioni di migranti. Massoni “delinquenti”? «Erano massoni anche Gandhi, Papa Giovanni XXIII e Nelson Mandela», protesta Magaldi. Problema: la storia ufficiale non ne fa cenno. Risultato: per il potere, il miglior massone resta il massone occulto, segreto. E per la gran parte dell’opinione pubblica italiana, la massoneria resta un mondo opaco e borderline, tra le indagini antimafia e il fantasma di Gelli. Anche per questo, grazie al silenzio dei media, la massoneria mondiale – quella vera – continuerà a stabilire a tavolino cosa deciderà il prossimo G20, che politica farà la Bce, come agirà Macron in Francia e cosa dichiarerà il Fondo Monetario Internazionale sulle pensioni italiane, a prescindere dalle prossime elezioni.«Aboliamo la massoneria», titola “L’Espresso”, di fronte all’offensiva della commissione antimafia guidata da Rosy Bindi, dopo la denuncia di una trentina di massoni calabresi “dissidenti”, usciti allo scoperto in seguito a un’indagine su riciclaggio e narcotraffico. «Un’inchiesta politica e giudiziaria senza precedenti dai tempi della P2 mette sotto scacco il mondo degli incappucciati», scrive il settimanale di De Benedetti. « E la commissione antimafia vuole i nomi degli affiliati: era ora, ma non basta». Il reportage di Gianfrancesco Turano, che documenta l’attività investigativa allora in corso, risale a una anno fa e fotografa alla perfezione il clamore suscitato dalla Bindi, a mezzo stampa: «C’è da sperare che venga rieletta: in politica farebbe comunque meno danni che all’università, dove tornerebbe a insegnare», commenta sarcastico il massone Gianfranco Carpeoro, saggista, già a capo dell’autodisciolta Gran Loggia Serenissima di Piazza del Gesù. Carpeoro (al secolo Gianfranco Pecoraro, avvocato di lungo corso) è uno spietato giudice dei grembiulini nazionali: «Quella italiana è la peggior situazione massonica al mondo: quando va bene, entrare in una loggia oggi significa perdere il proprio tempo». Ancora più caustico un altro massone progressista, Gioele Magaldi, che contesta l’ipocrisia del sistema politico-mediatico: «Se la prendono sempre con le logge provinciali, fingendo di non sapere che i massimi vertici dello Stato militano nelle Ur-Lodges sovranazionali che hanno imposto all’Italia la tragedia dell’austerity».
-
Di Maio: votare Pd o Berlusconi è uguale, finiranno insieme
Non sono d’accordo su niente, tranne che sulle poltrone: per questo si preparano a “sgovernare” insieme ancora una volta, come ai tempi di Mario Monti, dopo aver raccontato solo frottole ai loro elettori. Pd e Forza Italia «si propongono sotto mentite spoglie», solo per tentare di fare il pieno di seggi facendo credere di essere l’un contro l’altro armati. «In questa storia c’è una alleanza alla luce del sole, che però è finta, e una alleanza all’oscuro di tutti, che però è vera», scrive Luigi Di Maio sul “Blog delle Stelle”. «La finta alleanza è quella del centrodestra. Salvini e Berlusconi non hanno nulla in comune nel programma. Berlusconi dice di voler rispettare tutti i vincoli europei a partire da quello del 3%. Salvini invece dice di volerlo sforare e ha candidato il professore no-euro Bagnai. Berlusconi dice di non voler abolire la Fornero e possiamo credergli perché lui, assieme alla Meloni, l’ha votata. Salvini dice di volerla abolire». E l’elenco potrebbe andare avanti all’infinito, perché «non sono d’accordo su nulla». La loro, sostiene il candidato grillino, «non è un’alleanza programmatica, ma poltronistica», cioè tattica, per interpretare a loro vantaggio l’ennesima legge elettorale inguardabile, il Rosatellum, appositamente “fabbricata” per impedire che qualcuno vinca davvero, creando così le condizioni per “l’inciucio” che nessuno ammette.Con questa legge elettorale, scrive Di Maio, «l’unica possibilità che hanno questi partiti di raccattare qualche poltrona in più di quella che gli darebbe la vera percentuale che hanno (ben al di sotto del 20%) è puntare ai collegi uninominali dove si ottiene un parlamentare prendendo anche un solo voto in più rispetto agli altri, soprattutto in Lombardia, in Veneto e da qualche parte al Sud». Visto che, sondaggi alla mano, in molte zone d’Italia il Movimento 5 Stelle da solo è al di sopra delle coalizioni di centrodestra e centrosinistra, «se tutti i partiti si presentassero da soli, nessuno avrebbe possibilità di vincere neppure un collegio uninominale: li prenderebbe tutti il Movimento 5 Stelle». Per questo, «si mettono insieme con decine di partiti dallo zerovirgola, pur non avendo nulla in comune, per fregarsi la poltrona e poi, passata la festa (il voto), gabbato lo santo (l’elettore). Sia Berlusconi sia Salvini hanno tutto l’interesse a portare avanti questo metodo – aggiunge Di Maio – perché in questo momento si stanno spartendo i collegi uninominali che potrebbero vincere con questo metodo fraudolento: uno a te, uno a me. Poi, quando andranno in Parlamento, ognuno di loro si farà i fatti propri come hanno sempre fatto: nessun governo sarà possibile perché non sono d’accordo su nulla e ci rimetterà solo l’elettore».La vera alleanza, insiste Di Maio, è quella di Forza Italia con il Pd. Se ci fate caso, scrive il leader grillino, ogni giorno Berlusconi tesse le lodi di Gentiloni e ogni giorno Gentiloni fa altrettanto con lui. «Non chiamerei Berlusconi un populista», ha detto Gentiloni. Ma allora perché non si alleano fin da subito? Semplice: «Farlo ora non conviene a nessuno. Se il Pd si alleasse con Forza Italia arriverebbe in un attimo al 2%. Se Forza Italia si presentasse al voto con il Pd dovrebbe rinunciare a tutti i collegi uninominali che riuscirebbe a conquistare con la finta alleanza con la Lega. Sarebbe quindi un danno per entrambi: meno soldi e meno poltrone per tutti». Quello che propongono ufficialmente «è falso, è una vera e propria truffa». Gentiloni e Berlusconi? «Sperano di fare “bingo” in questo modo». L’obiettivo «quasi impossibile» del Pd renziano «sarà quello di non sprofondare sotto il 20%», mentre Forza Italia cercherà voti «fregando gli elettori», cioè vendendosi come alternativa a Renzi. E quale sarebbe il programma di Pd e Forza italia uniti? «Quello degli ultimi 20 anni», che li hanno visti governare «alternati o assieme», come nel governo Monti, «la più grande sciagura che ci potesse capitare». L’eventuale Gentiloni-bis sostenuto dal Cavaliere «sarà un nuovo governo Monti, per di più senza una maggioranza stabile». Morale: «Votare centrodestra o centrosinistra è esattamente la stessa cosa».Non sono d’accordo su niente, tranne che sulle poltrone: per questo si preparano a “sgovernare” insieme ancora una volta, come ai tempi di Mario Monti, dopo aver raccontato solo frottole ai loro elettori. Pd e Forza Italia «si propongono sotto mentite spoglie», solo per tentare di fare il pieno di seggi facendo credere di essere l’un contro l’altro armati. «In questa storia c’è una alleanza alla luce del sole, che però è finta, e una alleanza all’oscuro di tutti, che però è vera», scrive Luigi Di Maio sul “Blog delle Stelle”. «La finta alleanza è quella del centrodestra. Salvini e Berlusconi non hanno nulla in comune nel programma. Berlusconi dice di voler rispettare tutti i vincoli europei a partire da quello del 3%. Salvini invece dice di volerlo sforare e ha candidato il professore no-euro Bagnai. Berlusconi dice di non voler abolire la Fornero e possiamo credergli perché lui, assieme alla Meloni, l’ha votata. Salvini dice di volerla abolire». E l’elenco potrebbe andare avanti all’infinito, perché «non sono d’accordo su nulla». La loro, sostiene il candidato grillino, «non è un’alleanza programmatica, ma poltronistica», cioè tattica, per interpretare a loro vantaggio l’ennesima legge elettorale inguardabile, il Rosatellum, appositamente “fabbricata” per impedire che qualcuno vinca davvero, creando così le condizioni per “l’inciucio” che nessuno ammette.
-
Povera Europa, plaude alle “lezioni” del suo killer: la Merkel
Nell’immane declino europeo non si capisce cosa sia più sinistro, le “lezioni” di un’insegnante di cui tutti faremo a memo (Angela Merkel) o il tappeto rosso che la stampa le stende ai piedi, nel momento in cui l’oligarca di Berlino, donna simbolo delle sofferenze imposte dalla crisi, si mette a bacchettare Donald Trump dal forum di Davos, santuario continentale della globalizzazione più feroce. «Noi crediamo che l’isolazionismo non ci faccia andare avanti», dice la Merkel: «Il protezionismo non è la risposta giusta, dobbiamo cooperare». Il tipo di “cooperazione” di cui è capace il regime finanziario incarnato dalla Merkel lo si è visto in Grecia, con le famiglie sul lastrico e gli ospedali senza più medicine per curare i bambini. Tutto il Sud Europa ha visto crollare il suo tenore di vita, in una spirale sistematicamente devastante: guerra teologica al debito pubblico, e quindi tagli ai salari e alle pensioni, precarizzazione del lavoro, esplosione della tassazione, licenziamenti, aziende fallite a decine di migliaia, disoccupazione alle stelle, crollo del mercato immobiliare, erosione dei risparmi. Il fantasma della povertà minaccia l’Europa: nella sola Italia, dove la crisi indotta dal rigore tedesco è costata 450 miliardi di euro in appena tre anni, sono oltre 10 milioni le persone che secondo Eurostat faticano a consumare un pasto proteico ogni due giorni, a sostenere spese impreviste, a pagare l’affitto e a riscaldare a sufficienza la casa.Una vera festa, la spettacolare crisi italiana, per l’industria tedesca che ha fatto shopping a prezzi di saldo accaparrandosi quote rilevanti dell’eccellenza del “made in Italy”, altro classico esempio di “cooperazione” ordoliberista di stampo teutonico. «La Germania è un problema cronico e fisiologico per l’Europa», sostiene Paolo Barnard, «proprio a causa del suo tipo di economia sbilanciato verso l’export». Il che significa compressione dei salari in patria (gli scandalosi mini-job da 450 euro mensili) e aggressività competitiva verso i paesi confinanti, trattati come colonie a cui rubare fatturato e sottrarre la miglior forza lavoro di formazione universitaria avanzata, dando vita al flagello della “fuga dei cervelli”. «I personaggi come la “sorella” Angela Merkel, esponente della Ur-Lodge reazionaria Golden Eurasia, sono i veri nemici dell’Europa unita, i veri e irriducibili antieuropeisti», sostiene Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere) che svela i retroscena supermassonici del vero potere neoliberista. «Quelli che vengono spacciati per statisti sono in realtà pedine di interessi esclusivamente privati, che traggono i massimi profitti proprio dalla distruzione dell’unità europea: assistiamo infatti a una spietata concorrenza fra Stati, di cui il neo-mercantilismo tedesco è l’espressione più tristemente significativa».Sempre la Germania, racconta l’economista Nino Galloni (vicepresidente del Movimento Roosevelt presieduto da Magaldi) ottenne – dalla Francia di Mitterrand, in cambio della rinuncia al marco – il via libera per la deindustrializzazione progressiva dell’Italia, cioè del massimo antagonista del sistema manifatturiero tedesco. E’ questa la motivazione di fondo – squisitamente industriale e concorrenziale – dietro alle politiche di austerity dell’Ue a trazione tedesca, che hanno tentato ininterrottamente di demolire il sistema economico italiano. E’ il Belpaese il vero bersaglio degli eurocrati tedeschi come Angela Merkel, ai piedi dei quali si sono genuflessi i vari Letta, Renzi e Gentiloni, dopo il “ko tecnico” procurato a Monti e Napolitano, commissari italiani del super-potere che tiene in scacco l’Europa utilizzando Berlino come cane da guardia. Per questo, le affermazioni della cancelleria a Davos suonano sincere quanto le parole del killer al funerale della propria vittima: «Nel mondo c’è tr6oppo egoismo nazionale», scandisce la professoressa. «Fin dai tempi dell’Impero Romano e della Grande Muraglia sappiamo che limitarci a rinchiuderci non aiuta». Viste dalla Grecia ridotta alla fame, queste parole – in una ipotetica, seconda Norimberga – assicurerebbero ad Angela Merkel una fucilazione di prima classe, con tutti gli onori che spettano ai grandi traditori.Nell’immane declino europeo non si capisce cosa sia più sinistro, le “lezioni” di un’insegnante di cui tutti faremmo a meno (Angela Merkel) o il tappeto rosso che la stampa le stende ai piedi, nel momento in cui l’oligarca di Berlino, donna simbolo delle sofferenze imposte dalla crisi, si mette a bacchettare Donald Trump dal forum di Davos, santuario continentale della globalizzazione più feroce. «Noi crediamo che l’isolazionismo non ci faccia andare avanti», dice la Merkel: «Il protezionismo non è la risposta giusta, dobbiamo cooperare». Il tipo di “cooperazione” di cui è capace il regime finanziario incarnato dalla Merkel lo si è visto in Grecia, con le famiglie sul lastrico e gli ospedali senza più medicine per curare i bambini. Tutto il Sud Europa ha assistito al crollo epocale del suo tenore di vita, in una spirale sistematicamente devastante: guerra “teologica” al debito pubblico, e quindi tagli ai salari e alle pensioni, precarizzazione del lavoro, esplosione della tassazione, licenziamenti, aziende fallite a decine di migliaia, disoccupazione alle stelle, crollo del mercato immobiliare, erosione dei risparmi. Il fantasma della povertà minaccia l’Europa: nella sola Italia, dove la crisi indotta dal rigore tedesco è costata 450 miliardi di euro in appena tre anni, sono oltre 10 milioni le persone che secondo Eurostat faticano a consumare un pasto proteico ogni due giorni, a sostenere spese impreviste, a pagare l’affitto e a riscaldare a sufficienza la casa.
-
Gli Usa: con Craxi l’Italia era un paese rispettato e sovrano
A 18 anni dalla morte di Bettino Craxi, ricordare una delle più importanti figure politiche del dopoguerra può essere utile per cogliere la parabola di un paese un tempo protagonista della scena internazionale, e metterlo a confronto con la sua irrilevanza politica nel contesto attuale. Se prima era impensabile che l’Italia craxiana rimanesse fuori dalla porta dei consessi internazionali che contano, oggi purtroppo questo è una amara realtà. Per capire come veniva considerata l’Italia prima del suo declino sulla scena internazionale è interessante vedere cosa ne pensava il suo storico alleato, gli Usa, in un documento – analizzato in passato da ricercatori e storici di Craxi – del Dipartimento di Stato Usa intitolato “Il fattore Craxi nella politica estera italiana”, nel quale Washington si sofferma ad analizzare l’appiglio del tutto peculiare di Bettino Craxi nella conduzione delle relazioni internazionali dell’Italia. Sono i diplomatici americani stessi di stanza all’ambasciata Usa in Italia, a rendersi conto della personalità forte dell’ex segretario socialista. Un atteggiamento che dapprima sorprende gli americani, abituati più ai modi pacati e misurati dei predecessori di Craxi a Palazzo Chigi. Il suo stile, nel documento, viene definito «determinato e diretto», tanto da portarlo occasionalmente «fuori dai margini».Washington guarda con curiosità ma anche con preoccupazione a questo nuovo interlocutore italiano, il quale non sembra temere lo scontro con lo storico alleato. L’amicizia e il rapporto con gli Usa non sono mai in discussione, ma non si respira affatto un’aria di sudditanza nei confronti degli americani. Al contrario Craxi durante la sua esperienza a Palazzo Chigi dal 1983 al 1987, ha delineato chiaramente i confini dei rapporti bilaterali tra i due paesi. In nessun momento, l’amicizia Italia-Usa andava nella direzione di piegare gli interessi nazionali ad esclusivo vantaggio di quelli del partner statunitense. Sigonella è solamente l’apogeo di uno tra i momenti più importanti di Craxi a Palazzo Chigi, e segna un chiaro trionfo geopolitico italiano che non mancò di suscitare un certo scalpore negli ambienti internazionali. Quando il segretario socialista arriva a schierare nella drammatica notte del 10 ottobre 1985 i carabinieri contro i Navy Seals che nella base di Sigonella volevano prendere in custodia i terroristi dell’Achille Lauro, nonostante la competenza giurisdizionale sui loro reati fosse chiaramente italiana, gli americani capiscono che il primo ministro italiano fa sul serio.Lo stesso Dipartimento di Stato Usa nel documento non può fare a meno di riconoscere che in quella circostanza, Craxi uscì chiaramente come pieno «difensore della sovranità nazionale» da quella delicata crisi diplomatica tra i due paesi, tanto che Washington si sofferma a ripensare «l’attività militare nell’area». Gli Usa, più semplicemente, si rendono conto che l’Italia non è una dépendance dove possono prendersi la libertà di intervenire senza consultare i padroni di casa. Ma non è questo l’unico momento di una politica estera tesa, dal principio alla fine, alla difesa della sovranità nazionale. Sigonella non è un episodio estemporaneo frutto di un’esplosione di orgoglio nazionale poi sopito successivamente. Solamente l’anno dopo, l’Italia si trova nel bel mezzo di un’altra crisi diplomatica ancora una volta con il suo alleato di riferimento, gli Usa, e la Libia. Il 14 aprile 1986 gli Stati Uniti bombardano la residenza di Gheddafi, il quale risponde il giorno dopo con un fallito attacco missilistico contro l’isola di Lampedusa. Craxi è furente con il suo alleato per quella decisione unilaterale di attaccare la Libia e non manca di esternarlo pubblicamente agli americani. Anche in questa circostanza, si legge nell’analisi, Washington stessa non può fare altro che prendere atto che l’Italia sotto la conduzione craxiana rivendica il suo spazio di indipendenza e sovranità, e non è disposta a sacrificare i suoi rapporti con altre potenze in nome del rapporto privilegiato con gli Stati Uniti.Il “fattore Craxi” di cui parlano gli americani si può identificare proprio con il principio guida imprescindibile che ha accompagnato tutta l’originale esperienza di Bettino Craxi al governo, ovvero la protezione degli interessi italiani prima di ogni cosa. L’Italia non veniva umiliata dalle potenze estere proprio perché dotata di una classe dirigente che mai avrebbe permesso che il paese avesse subito affronti pari a quelli che sta subendo attualmente nei contesti europei ed internazionali. La rotta della sovranità nazionale è stata smarrita, sostituita da una volontà di asservimento di una mediocre classe dirigente genuflessa ai desiderata delle potenze estere pur di raggiungere i propri scopi personali. L’europeismo era la cifra politica di Craxi in politica estera, ma non era certamente una religione come quella attuale alla quale è impossibile opporsi “perché non c’è alternativa”. Fu proprio lui stesso dall’esilio di Hammamet negli ultimi anni della sua vita ad intuire la deriva che avrebbe portato il cieco rispetto di quei parametri di Maastricht, divenuti un tabù intoccabile che nessun premier osa rimettere in discussione. «L’Italia è un grande paese», disse Craxi, e deve far valere i suoi diritti in Europa. Quanti politici di oggi hanno il suo attaccamento alla patria? La riconquista della sovranità passa per la maturazione di una classe dirigente con una coscienza nazionale e un amor patrio. Bettino Craxi aveva tutto questo. Ecco perché va ricordato.(Cesare Sacchetti, “Il fattore Craxi, Bettino visto dagli americani”, da “La Cruna dell’Ago” del 18 gennaio 2018).A 18 anni dalla morte di Bettino Craxi, ricordare una delle più importanti figure politiche del dopoguerra può essere utile per cogliere la parabola di un paese un tempo protagonista della scena internazionale, e metterlo a confronto con la sua irrilevanza politica nel contesto attuale. Se prima era impensabile che l’Italia craxiana rimanesse fuori dalla porta dei consessi internazionali che contano, oggi purtroppo questo è una amara realtà. Per capire come veniva considerata l’Italia prima del suo declino sulla scena internazionale è interessante vedere cosa ne pensava il suo storico alleato, gli Usa, in un documento – analizzato in passato da ricercatori e storici di Craxi – del Dipartimento di Stato Usa intitolato “Il fattore Craxi nella politica estera italiana”, nel quale Washington si sofferma ad analizzare l’appiglio del tutto peculiare di Bettino Craxi nella conduzione delle relazioni internazionali dell’Italia. Sono i diplomatici americani stessi di stanza all’ambasciata Usa in Italia, a rendersi conto della personalità forte dell’ex segretario socialista. Un atteggiamento che dapprima sorprende gli americani, abituati più ai modi pacati e misurati dei predecessori di Craxi a Palazzo Chigi. Il suo stile, nel documento, viene definito «determinato e diretto», tanto da portarlo occasionalmente «fuori dai margini».
-
Magaldi: cara Bonino, più Europa? Non questa, degli zombie
Cosa c’è sotto il turbante di Emma Bonino? Possibile che, nel 2018, ci sia ancora qualcuno – radicale, per giunta – che crede alle favole del più decrepito neoliberismo thatcheriano? «Pensate ad una famiglia già super-indebitata, che continua a indebitarsi sempre più, pagando interessi sempre più onerosi alle banche: arriverà un giorno la bancarotta, che si lascerà ai figli», recita la campagna elettorale di “+Europa”. Parole che sembrano arrivare dall’oltretomba della politica, dalla notte dei morti viventi ravvivata dal fantasma di Mario Monti. «Il vero problema italiano è il debito pubblico al suo massimo storico», nientemeno. E certo: il debito, la famiglia. «Come se la famiglia fosse dotata di sovranità monetaria: per lei, come per l’azienda, il debito è certamente un problema», dice Marco Moiso, coordinatore del Movimento Roosevelt, in chat su YouTube con Gioele Magaldi. Incredulo, di fronte all’uscita della Bonino: com’è possibile, dopo il disastro dell’austerity europea, “bersi” ancora il dogma del neoliberismo che finge di non sapere che lo Stato, dotato di sovranità monetaria, ha una capacità di spesa (e di indebitamento) virtualemente illimitata? «Non è da radicali, appiattirsi su un dogmatismo così desolante, allineato all’ignoranza economica e all’insipienza generale del mainstream, politico e mediatico, affollato di presunti esperti del calibro di Alberto Alesina, in realtà un comico, che insieme a Francesco Giavazzi non ne ha azzeccata una, in tutti questi anni».
-
Promesse elettorali per mascherare la loro servitù alla Ue
Promesse elettorali favolose, con un unico vero obiettivo: mascherare la servitù al regime finanziario neoliberista che domina l’Unione Europea. Lo sostiene Dante Barontini su “Contropiano”, esaminando l’imbarazzante scenario della campagna elettorale in corso. A cosa servono queste elezioni? «Per tutti quelli che concorrono con qualche ambizione a conquistare una poltrona ministeriale il problema è uno solo: ottenere il benestare delle “istanze superiori”». Lo si capisce perfettamente leggendo i maggiori giornali, come “Repubblica” e il “Corriere”. Entrambe le ex “corazzate” della stampa italiana, ormai molto ridimensionate nei loro numeri, «convergono nel bastonate spietatamente la massa di promesse irrealizzabili dei vari protagonisti della campagna elettorale». La mette giù dura l’editoriale di Mario Calabresi, “Incapaci di immaginare il futuro”: «Ascoltiamo soltanto una grottesca cantilena di abolizioni», scrive il direttore di “Repubblica”. «Via l’obbligo di vaccini, via il canone Rai, via il bollo auto, via lo spesometro, via le tasse universitarie, via il redditometro, via la legge Fornero, via il Jobs Act, fino alla mirabolante promessa finale di cancellare migrazioni e migranti».Sullo stesso tono gli immarcescibili neoliberisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, «duo di economisti che non ne ha mai imbroccata una ma che si ripropone ogni volta come se fosse la prima volta», scrive Barontioni, citando il loro “Le favole da evitare sul debito pubblico”. Ma il bersaglio sono i 5 Stelle, a cominciare da Di Maio, «che sfarfalleggia da settimane per accreditarsi presso le “autorità superiori” (pellegrinaggi a Cernobbio e negli Usa, niente più uscita dall’euro, pronti a fare governi anche con altri partiti purché non lo si dica prima, ecc)». Il piano grillino per ridurre il debito è effettivamente un castello di carte, ammette Barontioni, rilevando però che i due teorici della fiaba dell’austerità espansiva, per i quali «se tagli la spesa pubblica il paese riprende a crescere», lo usano come pretesto per ripetere sempre la stessa giaculatoria: o si riducono le spese o si aumentano le tasse, tertium non datur. Sul fronte politico, continua “Contropiano”, il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari «spinge in campo Veltroni e Prodi per “l’unità a sinistra” (Pd e bersaniani) nell’antichissimo schema del “fermare le destre”». Ma guardando più da vicino, sempre grazie a “Repubblica”, «emerge che ci sono solo due movimenti considerati inaffidabili nelle “alte sfere”: grillini e Lega. Tutti gli altri vanno naturalmente benissimo».Chi e perché? Ad essere approvati dal vero potere, l’establishment che conta (soprattutto fuori dall’Italia, al quale obbediscono i terminali nazionali) sono «tutti quelli che hanno da sempre accettato l’Unione Europea come amministratore unico delle faccende economico-finanziarie anche italiane, da cui dipende qualsiasi programma di gestione del paese», scrive Barontini. «Banalmente, se non puoi disporre liberamente delle risorse che vai producendo, non puoi fare nessun’altra politica se non quella prevista dai trattati europei e dalle indicazioni in tempo reale della Commissione Europea (tramite il Six Pack e il Two Pack)».A questo ampio club, continua Barontini, «si è iscritto da tempo anche Berlusconi», e lo ha dimostrato «promettendo (la mattina) di abolire il Jobs Act e garantendo (la sera) di mantenerlo così com’è». E dire che il Jobs Act è un peso per la spesa pubblica (la decontribuzione garantita alle imprese riduce le entrate statali), ma «la centralità degli interessi delle aziende è un dogma intoccabile per la Ue: dunque, su questo fronte si può continuare a spendere».Restano ai margini leghisti e pentastellati, peraltro pesantemente “lavorati ai fianchi”. La rinuncia di Roberto Maroni a un altro mandato da presidente della Lombardia? A prima vista incomprensibile, motivata da vaghe «ragioni personali», secondo Barontini comincia a rivelarsi un legnata a Salvini e «una candidatura per una poltrona di rilevo nell’unico governo a questo punto possibile». Quale? «Se si escludono M5S e (parte della) Lega, non restano molte alternative: un bel “governo del presidente” con dentro Pd, Forza Italia, “Liberi e Uguali” e frattagline varie (Lorenzin, democristiani di varia osservanza, singoli parlamentari che cambiano casacca)». Cosa li terrà insieme? «Il bastone dell’Unione Europea, che quest’anno trasformerà il Fiscal Compact da semplice “trattato intergovernativo” a “legge comunitaria”», ossia «da oggetto di flessibilità contrattata volta per volta a dispositivo automatico affidato a organismi tecnici». Conclude Barontini: «Come si fa a non augurarsi che il potere ritorni al popolo?».Promesse elettorali favolose, con un unico vero obiettivo: mascherare la servitù al regime finanziario neoliberista che domina l’Unione Europea. Lo sostiene Dante Barontini su “Contropiano”, esaminando l’imbarazzante scenario della campagna elettorale in corso. A cosa servono queste elezioni? «Per tutti quelli che concorrono con qualche ambizione a conquistare una poltrona ministeriale il problema è uno solo: ottenere il benestare delle “istanze superiori”». Lo si capisce perfettamente leggendo i maggiori giornali, come “Repubblica” e il “Corriere”. Entrambe le ex “corazzate” della stampa italiana, ormai molto ridimensionate nei loro numeri, «convergono nel bastonate spietatamente la massa di promesse irrealizzabili dei vari protagonisti della campagna elettorale». La mette giù dura l’editoriale di Mario Calabresi, “Incapaci di immaginare il futuro”: «Ascoltiamo soltanto una grottesca cantilena di abolizioni», scrive il direttore di “Repubblica”. «Via l’obbligo di vaccini, via il canone Rai, via il bollo auto, via lo spesometro, via le tasse universitarie, via il redditometro, via la legge Fornero, via il Jobs Act, fino alla mirabolante promessa finale di cancellare migrazioni e migranti».
-
Gratteri: una vergogna quelle gabbie per i migranti in Libia
Al magistrato antimafia Nicola Gratteri, uomo simbolo del contrasto alla ‘ndrangheta calabrese, non va giù l’accordo stretto dall’Italia con il governo di Tripoli per fermare i flussi migratori lungo la rotta del Mediterraneo. «La strategia di Minniti non mi è piaciuta», dice il procuratore capo di Catanzaro, intervistato da “La7”, «perché non è da Stato civile e occidentale far costruire delle gabbie sulle coste della Libia per impedire che gli immigrati partano». E’ soltanto «un tappo», degradante e indegno, che non risolve certo il problema dell’esodo di popolazioni in fuga dalla guerra e dalla fame, tutti fenomeni innescati dall’economia occidentale e dalla sua geopolitica neo-coloniale. «Bisognerebbe andare in centro Africa, mandare i servizi segreti per capire chi organizza queste traversate nel deserto, e poi andare lì e costruire aziende agricole, ospedali, scuole e rendere il territorio vivibile», sostiene il giudice, chiarendo che – se si vuol sperare di porre un freno all’oceano dei migranti – è necessario investire in Africa per gli africani, non per gli occidentali. Solo a quel punto, «poi, è ovvio che bisogna creare dei flussi regolamentati per la libera circolazione di tutti gli uomini del mondo».Quello di Gratteri è un pensiero che sembra in via di estinzione, in un’Italia frastornata dal derby che oppone il solidarismo assistenziale delle Ong alla xenofobia elettoralistica degli “impresari della paura”, che speculano sulla criminalità migrante degli sbandati. Ma perché dare per scontato che milioni di persone debbano per forza lasciare le loro case? E’ sacrosanto il diritto di partire per inventarsi una vita diversa dall’altra parte del mondo, «purché però la partenza non sia un atto disperato, indotto dalla miseria o dalla guerra», sottolinea il saggista Gianfranco Carpeoro: difendiamo i diritti dei migranti trascurando però sempre il loro diritto principale, «che è innanzitutto quello di poter vivere una vita dignitosa a casa loro, senza per forza dover dolorosamente rinunciare al proprio paese». In altre parole: «Perché non ci chiediamo come mai questa gente è costretta a scappare? Perché non chiediamo ai nostri governi cosa hanno combinato, in quelle regioni del mondo?». Aiutarli a casa loro? L’Italia sarà in Niger con il proprio esercito, a presidiare un paese tra i 20 più poveri al mondo, ma ricchissimo dell’uranio che è da sempre “proprietà privata” della Francia, destinato ad alimentare le centrali nucleari transalpine.Soccorso occidentale? «No, grazie», rispose Thomas Sankara al vertice panafricano di Addis Abeba, pensando al genere di “aiuti” storicamente ricevuti dall’Africa: finanziamenti interessati e debito eterno, cioè schiavitù. «Teneteveli, i vostri soldi: non li vogliamo più», disse il giovane leader del Burkina Faso, assassinato nel 1987 tre mesi dopo quel coraggioso discorso, in cui chiedeva agli Stati africani di non pagare più il debito estero (la Russia di Putin ha appena condonato il suo, annullando gli oneri a carico dei paesi africani verso Mosca). E mentre la verità ufficiale tuttora nega che a uccidere Sankara sia stato l’attuale presidente del Burkina Faso, Blaise Compaorè, ricevuto all’Eliseo con tutti gli onori da François Mitterrand, l’Unione Europea si appresta a varare un Piano Marshall per l’Africa che, in cambio di infrastrutture, aggraverà il debito del continente nero, quasi sempre retto da dittature filo-occidentali come quella dell’Eritrea, i cui profughi (che sbarcano a Lampedusa) fuggono da un regime a cui l’Italia vende costosi armamenti.L’Africa però resta materia da campagna elettorale: Berlusconi evoca il pugno di ferro contro “mezzo milione di immigrati criminali”, mentre Massimo D’Alema sostiene che proprio ai migranti è affidato il futuro demografico di un paese come l’Italia, dove non ci si sposa più e non si fanno più figli (a causa della crisi economica indotta dall’euro e dal rigore Ue, cosa che D’Alema evita accuratamente di precisare). Nel frattempo restano loro, i sopravissuti alla pericolosa traversata del Canale di Sicilia, a bordo di carrette del mare il più delle volte recuperate in extremis dalla marina militare italiana. Senza una politica degna di questo nome, sottolinea Nicola Gratteri, non ci sarebbe da vantarsi se il flusso dei disperati dovesse calare: «Ogni sera sentiamo ai telegiornali che gli sbarchi sono diminuiti del 3, del 15, del 20%, ma mentre noi parliamo so che ci sono delle donne che vengono violentate o bambini che vengono bastonati a sangue». Le gabbie in Libia per rinchiuderli come animali? «Non sto tranquillo perché ne arrivano duemila in meno», aggiunge il magistrato, per il quale evidentemente la parola “umanità” ha ancora un senso universale, non negoziabile né trasformabile in spazzatura elettolare “di destra” o “di sinistra”.Al magistrato antimafia Nicola Gratteri, uomo simbolo del contrasto alla ‘ndrangheta calabrese, non va giù l’accordo stretto dall’Italia con il governo di Tripoli per fermare i flussi migratori lungo la rotta del Mediterraneo. «La strategia di Minniti non mi è piaciuta», dice il procuratore capo di Catanzaro, intervistato da “La7”, «perché non è da Stato civile e occidentale far costruire delle gabbie sulle coste della Libia per impedire che gli immigrati partano». E’ soltanto «un tappo», degradante e indegno, che non risolve certo il problema dell’esodo di popolazioni in fuga dalla guerra e dalla fame, tutti fenomeni innescati dall’economia occidentale e dalla sua geopolitica neo-coloniale. «Bisognerebbe andare in centro Africa, mandare i servizi segreti per capire chi organizza queste traversate nel deserto, e poi andare lì e costruire aziende agricole, ospedali, scuole e rendere il territorio vivibile», sostiene il giudice, chiarendo che – se si vuol sperare di porre un freno all’oceano dei migranti – è necessario investire in Africa per gli africani, non per gli occidentali. Solo a quel punto, «poi, è ovvio che bisogna creare dei flussi regolamentati per la libera circolazione di tutti gli uomini del mondo».
-
Formica: l’Ue chiede a Silvio l’inciucio col Pd ma senza Renzi
«Renzi finirà asfaltato dai No, poi il successore lo designerà il Vaticano». Una “profezia” firmata Rino Formica, puntualmente esatta: il Rottamatore a casa, sostituito dal nipote dell’uomo di fiducia della Santa Sede, che firmò il Patto Gentiloni per riportare i cattolici in politica dopo l’Unità d’Italia. Oltre un anno dopo, alla vigilia delle politiche, l’ex ministro craxiano rilancia: le “dritte” dell’Ue a Berlusconi prevedono una “grande coalizione”, ma senza Renzi. Lo racconta Formica a Federico Ferraù, che l’ha intervistato per “Il Sussidiario”. Premessa: l’uscita del commissario Ue agli affari economici, Pierre Moscovici, secondo cui «un rischio politico» incombe sull’Europa, visto che «l’Italia si prepara ad elezioni il cui esito è quanto mai indeciso». Quale maggioranza uscirà dal voto? Moscovici critica la proposta di Luigi Di Maio di sfondare il tetto del 3% nel rapporto deficit-Pil e ribadisce il dogma (bugiardo) dell’austerity: «Ridurre il deficit significa combattere il debito, e combattere il debito significa rilanciare la crescita». Secondo Formica, classe 1927, ex ministro delle finanze socialista e attentissimo osservatore della situazione, l’Unione Europea è scesa in campo, e il messaggio di Moscovici risponde a una strategia precisa: imporre a Berlusconi un governo di larghe intese col Pd, che però escluda Renzi.«Lo sfondamento del 3% lo aveva già richiesto Renzi: perché Moscovici a suo tempo non ha sollevato la questione?», si domanda Formica. Nel mirino, evidentemente, ci sono i 5 Stelle. L’establishment europeo ha nuovamente sdoganato Berlusconi per un motivo preciso: nonostante il Jobs Act, l’oligarchia di Bruxelles ritiene che Renzi abbia fallito, sul terreno delle drastiche controriforme neoliberiste sollecitate dall’élite finanziaria. «L’operazione è più sottile», sostiene Formica: «A Bruxelles vogliono ridimensionare il M5S e favorire l’ipotesi di una grande coalizione post-voto». Soprattutto, l’ex ministro immagina che «le coalizioni che entrano in campagna elettorale non saranno le stesse che ne usciranno dopo il 4 marzo». Del resto, se il Movimento 5 Stelle (nonostante il profilo ormai ultra-moderato) è ancora ritenuto un fattore di instabilità, lo è anche nel centrodestra la Lega di Salvini. «Attaccando Di Maio, Moscovici chiude le porte a Renzi, che aveva chiesto pure lui flessibilità, e introduce un fattore di rottura nella coalizione di centrodestra».In questi giorni, da Berlusconi a Grasso passando per i 5 Stelle, si sono sentite tutte le promesse acchiappavoti possibili. Traduzioni pratiche? «Fino a quando non saranno presentate le liste sentiremo solo parole in libertà», assicura Formica. «Dopo, invece, insieme ai candidati dovremmo intravedere qualcosa di più». Ma l’ex ministro non è fiducioso: «Tutti i partiti fanno promesse mirabolanti perché sanno bene che nessuno avrà la maggioranza per governare. E’ come se dicessero: tanto nessuno ci potrà chiedere di onorarle, quelle promesse, perché manca la condizione principale per poterlo fare: i numeri». E se una delle tre forze si ritrovasse con i numeri bastanti per prendere il largo? «Anche se dovesse esserci una maggioranza – dice Formica – questa sarà così contraddittoria al suo interno da avere le mani legate e da giustificare l’inadempienza del progetto. Vale anche per il M5S, che corre da solo. E l’informazione ci mette del suo». Eppure, obietta Ferraù, giornali e tv denunciano all’unisono l’inconsistenza delle promesse. «I media accusano – replica Formica – ma si guardano bene dal chiedere la cosa più semplice: qualora voi, da destra a sinistra, doveste governare in una maggioranza che non è quella dei singoli blocchi, che cosa riterreste qualificante e irrinunciabile? Quale sarebbe la vostra linea del Piave?».Nessuno l’ha ancora fatto, insiste Formica, «e non so se lo faranno». Informazione complice del gioco? «Più che complice, è succube. Tanto, gli elettori non sono in condizione di poter interloquire. Se non con il voto, a suo tempo». Per ora ci sono solo i sondaggi: il centrodestra è davvero favorito, come sembra? «Ha un vantaggio che, dopo il voto, può diventare uno svantaggio», risponde Formica. «Il vantaggio è di essere la coalizione costituita da entità politiche dotate di una propria consistenza». E lo svantaggio? «Quello di essere una sorta di fronte popolare». Grosso limite: «Tutti i fronti popolari stanno in piedi finché c’è un nemico da battere, ma dopo le elezioni tutto diventa più complicato». Fantapolitica e simili: “Liberi e uguali” può fare un accordo post-voto col M5S? Secondo Formica, quella messa insieme da Bersani e D’Alema «è l’unica lista dotata di spessore politico vero, perché ha il radicamento delle vecchie forze di sinistra» e la rappresentanza di Grasso e Boldrini, che l’ex ministro considera «simbolicamente forte». Ma il suo ruolo, aggiunge, «non mi pare tanto quello di allearsi, quanto di fare da detonatore: se avrà successo, potrà risultare esplosiva per i partiti che non vinceranno, scompaginandone le fila: a sinistra il Pd, e in mezzo il M5S». In ogni caso, secondo Formica «molto dipenderà da ciò che succede in Europa». Ovvero: «Se a Berlino la Grosse Koalition riprende in mano la guida dell’unificazione europea, l’Italia o si adegua o sarà penalizzata. E la Germania non lascerà alla Francia la guida dell’opinione pubblica politica europea».«Renzi finirà asfaltato dai No, poi il successore lo designerà il Vaticano». Una “profezia” firmata Rino Formica, puntualmente esatta: il Rottamatore a casa, sostituito dal nipote dell’uomo di fiducia della Santa Sede, che firmò il Patto Gentiloni per riportare i cattolici in politica dopo l’Unità d’Italia. Oltre un anno dopo, alla vigilia delle politiche, l’ex ministro craxiano rilancia: le “dritte” dell’Ue a Berlusconi prevedono una “grande coalizione”, ma senza Renzi. Lo racconta Formica a Federico Ferraù, che l’ha intervistato per “Il Sussidiario”. Premessa: l’uscita del commissario Ue agli affari economici, Pierre Moscovici, secondo cui «un rischio politico» incombe sull’Europa, visto che «l’Italia si prepara ad elezioni il cui esito è quanto mai indeciso». Quale maggioranza uscirà dal voto? Moscovici critica la proposta di Luigi Di Maio di sfondare il tetto del 3% nel rapporto deficit-Pil e ribadisce il dogma (bugiardo) dell’austerity: «Ridurre il deficit significa combattere il debito, e combattere il debito significa rilanciare la crescita». Secondo Formica, classe 1927, ex ministro delle finanze socialista e attentissimo osservatore della situazione, l’Unione Europea è scesa in campo, e il messaggio di Moscovici risponde a una strategia precisa: imporre a Berlusconi un governo di larghe intese col Pd, che però escluda Renzi.
-
Sudditi: la verità che nessuno vuole. E buone elezioni a tutti
Gli slogan elettorali nell’Italia del 2018? Piccoli corvi, che banchettano sui resti di un cadavere. «Voi ora vivete in uno Stato che non esiste più, avete delle leggi che non contano più niente: la vostra sovranità economica non esiste più». La voce sembra quella del vecchio marinaio di Coleridge, che insiste nel raccontare una storia atroce, che nessuno vuole ascoltare: la storia di un naufragio che si trasforma in catastrofe, dove ciascuno tenta disperatamente di sopravvivere a spese degli altri. E’ inaccettabile, il racconto del superstite. Troppo duro da digerire: «Nell’arco di pochi decenni, sono riusciti ad ammazzare la cittadinanza occidentale: eravamo persone capaci di cambiare la propria storia. L’Italia, con un solo partito e una sola televisione, ha fatto divorzio e aborto: eravamo figli del Vaticano ma siamo riusciti a ribaltare il paese». Dov’è finita quell’Italia? Davanti al televisore, ad ascoltare le amenità di Renzi e Grasso, Berlusconi e Di Maio. Di loro si occupano i giornalisti, gli stessi che ignorano l’altro giornalista, quello vero. Il vecchio marinaio. Il folle, l’eretico. L’ostinato reduce che insiste nel raccontare la verità che nessuno vuole sentire. Verità semplice e drammatica: c’è solo una politica in campo, quella del vero potere. E’ il potere antico, quello dei Re. E si è ripreso tutto. Distruggendo cittadini, leggi e Stati.
-
Magaldi: Italia da rifare, ma non con questi politici venduti
«Magari fosse un pericolo per l’establishment, quel damerino di Di Maio», che invece ha tutta l’aria del bravo ragazzo innocuo. Renzi e Berlusconi concentrano su di lui i loro strali? Ovvio: fabbricando un nemico apparente, tentano di accreditarsi come politici autorevoli, in grado di cambiare il paese. Peccato che, «mentre i 5 Stelle al massimo hanno malgovernato Roma», il Pd e il centrodestra hanno a lungo “sgovernato” l’Italia: «Perché mai, in tutti questi anni, non hanno fatto nemmeno una delle strabilianti cose che adesso promettono, in campagna elettorale? Lo spettacolo che offrono è patetico». Ma c’è poco da ridere, avverte Gioele Magaldi a “Colors Radio”: la scontata non-vittoria di nessuno dei tre blocchi maggiori «è esattamente il risultato atteso e auspicato dalla supermassoneria reazionaria, interessata ad avere in Italia l’ennesimo governo debole e precario, sorretto da una maggioranza parlamentare friabile e quindi ancora più manipolabile e sottomesso ai grandi interessi economici sovranazionali, quelli che tengono in scacco l’intera Europa». Il peggiore degli scenari? Una replica del pessimo governo Letta, «creatura di quel “magnifico” oligarca che è stato Giorgio Napolitano». La risposta? «Popolare: di fronte all’inciucio di primavera, gli italiani faranno bene a chiedere nuove elezioni subito, per smascherare questa classe politica giunta al capolinea».
-
De Benedetti, Repubblica e l’equivoco della diversità morale
Scalfari che sdogana il Cavaliere e la “Repubblica” che tace sui contatti affaristici tra Renzi e De Benedetti? E’ la fine di un’epoca, o perlomeno di un equivoco. Negli ultimi vent’anni Marco Travaglio ha attribuito i guai del paese essenzialmente a Berlusconi, non alla potentissima super-casta eurocratica che di Berlusconi si è poi sbarazzata, per poter infliggere il ko finale all’Italia. Stefano Feltri, vicedirettore del “Fatto”, ora si volge verso gli antiberlusconiani storici, quelli del gruppo Espresso, denunciando la fine della loro presunta, lungamente sbandierata “diversità morale”. «Se mettiamo in fila gli eventi di questi ultimi due anni – scrive – capiamo che è davvero finita un’epoca. Il Gruppo Espresso si è fuso con l’Itedi, la società editoriale degli Agnelli che pubblica la “Stampa”, Carlo De Benedetti ha lasciato la presidenza, l’“Espresso” è diventato un allegato di “Repubblica”, molti editorialisti hanno lasciato il giornale (alcuni proprio per il “Fatto”)». E in una delle più accese battaglie politiche di questi anni, il referendum 2016 sulla riforma costituzionale, “Repubblica” non ha preso posizione: «Il suo direttore Mario Calabresi ha dedicato più editoriali critici al sindaco di Roma Virginia Raggi che all’ex premier Matteo Renzi o a Silvio Berlusconi. Il fondatore, Eugenio Scalfari, ha detto che, dovendo scegliere tra Silvio Berlusconi e Luigi Di Maio, preferisce Berlusconi, ridimensionando vent’anni di leggi ad personam e di politiche economiche contrarie a tutto quello che “Repubblica” e Scalfari hanno sempre professato».In più continua Feltri, De Benedetti ha attaccato Scalfari in una intervista sul “Corriere della Sera”, definendo le sue posizioni «un pugno nello stomaco per gran parte dei lettori di “Repubblica”, me compreso». Scalfari, che ha troncato ogni rapporto, gli ha risposto RaiTre a “Cartabianca”, il salotto di Bianca Berlinguer, dicendo che uno arrivato a 94 anni «se ne fotte» di quello che pensa De Benedetti. Ultima, ma solo in ordine di tempo, la vicenda della speculazione di Carlo De Benedetti grazie alle informazioni avute da Matteo Renzi e dalla Banca d’Italia. Questa, come ha detto l’ex commissario Consob, Salvatore Bragantini, è come minimo «sconveniente», a prescindere dal fatto che sia o meno un reato. Intanto, premette Stefano Feltri, De Benedetti «ha accesso a Renzi e alla Banca d’Italia non tanto perché è (stato) un finanziere di successo – l’impero economico l’ha passato da tempo ai figli – ma in quanto editore di giornali rilevanti. Il non detto di questi rapporti è che il politico o l’uomo delle istituzioni coltiva le simpatie dell’editore convinto di ottenere, per questa via, un trattamento di favore dai giornalisti. E quando poi il giornale dovesse invece dimostrarsi completamente autonomo, si genera la spiacevole telefonata del tipo “Ma come, pensavo fossimo in buoni rapporti…”».In questo, conclude Feltri, si vede che Renzi «non è diverso dagli altri politici che voleva rottamare», se infatti «corteggia gli editori nella speranza di avere trattamenti di favore dai giornali». E De Benedetti, per contro, «non ritiene che invitare a cena ministri e presidenti del Consiglio possa complicare la vita ai suoi direttori ed editorialisti». Secondo: Carlo De Benedetti, che ha consolidato la sua carriera da finanziere «in un’Italia in cui l’uso di informazioni privilegiate per fare operazioni di Borsa non era neppure reato», rivendica la correttezza del proprio operato con questa argomentazione: se avessi saputo davvero qualcosa di specifico, non avrei investito solo 5 milioni ma almeno 20. «Autodifesa che diventa ammissione dell’assenza di ogni vincolo etico». Renzi, da parte sua, «ha dimostrato di non avere alcun filtro, alcuna prudenza nel gestire provvedimenti e informazioni con un impatto sui mercati». Negli anni 2014-2015, ricorda Stefano Feltri, «a Palazzo Chigi c’era un vorticoso ricambio di consulenti, amici del premier, collaboratori più o meno ufficiali che discutevano di Telecom, Eni, Banca Etruria, riforma delle Popolari e delle banche di credito cooperativo. Ora abbiamo chiaro con quale prudenza e quale riservatezza. Chissà quanti “casi De Benedetti” ci sono stati di cui non sappiamo».Terzo profilo sconveniente, nella vicenda Renzi-De Benedetti, «quello più rilevante: la reazione del sistema a tutela del potere costituito». Renzi e De Benedetti «fanno qualcosa, a gennaio 2015, che può essere reato o non esserlo, che può portare a sanzioni o meno». Tutto dipende dalla valutazione che ne viene fatta. La Consob indaga e decide, nel collegio dei commissari, di non sanzionare. La Procura di Roma, a quanto emerge, praticamente non indaga affatto ma chiede subito l’archiviazione dell’unico indagato, il povero broker che esegue l’ordine d’acquisto di azioni di banche popolari arrivato da De Benedetti. La vicenda esce una prima volta sui giornali dopo gli attacchi di Renzi alla Consob di Giuseppe Vegas, e riesplode ora che, con grande fatica, i parlamentari della commissione d’inchiesta sulle banche sono riusciti ad avere una parte dei documenti dalla Procura di Roma. I punti critici sono vari, riassume Feltri: per quasi tre anni, in troppi hanno saputo che incombeva questa bomba su Renzi (incombe ancora, visto che l’inchiesta non è stata archiviata). «Non è mai una cosa sana quando un politico sa di essere potenzialmente ricattabile». Ma perché la Procura di Roma ha mantenuto tanta riservatezza? «Perché il procuratore Pignatone considera grave che il contenuto delle carte sia filtrato dalla commissione banche? Non lo ha mai spiegato».E quando Vegas è andato allo scontro con il governo, dopo la sua mancata riconferma al vertice della Consob, rivelando gli interessamenti di Maria Elena Boschi su Etruria, «sapeva di avere nel cassetto l’arma segreta: tutte le carte di quello che i suoi uffici avevano classificato come insider trading, prima che la commissione lo archiviasse». Vegas “sapeva”, come lo stesso Renzi: «Chi doveva sapere sapeva, e tutti si sono comportati di conseguenza». E i grandi giornali? Sono «parte non irrilevante di questa storia», scrive Feltri. Il giorno in cui esce la trascrizione della telefonata di De Benedetti con il suo broker, “Repubblica” non ha la notizia. «Diciamo che è stato uno scoop della concorrenza, anche se di questa fanno parte praticamente tutti i giornali italiani incluso “La Stampa”, testata dello stesso gruppo editoriale». Il giorno dopo viene dato conto solo del “caso politico” intorno alla telefonata. Poi il “Sole 24 Ore” pubblica sul proprio sito web in modo quasi integrale il verbale di De Benedetti in Consob, dove l’editore di “Repubblica” si difende e rivela i suoi rapporti con Renzi, Boschi, Padoan, Visco, e rivendica perfino di essere stato il primo ispiratore del Jobs Act. «Non una riga esce oggi su “Repubblica” di tutto questo. E, cosa ancora più singolare, solo un francobollo sul “Sole 24 Ore” cartaceo, che invece spesso ha ospitato gli editoriali di De Benedetti. Scelta bizzarra, questa di regalare lo scoop on line ma di non valorizzarlo nell’edizione a pagamento».Gli imprenditori della Confindustria, «che ricevono ogni mattina la copia del giornale che hanno portato vicino al disastro», non hanno così potuto leggere – su quelle pagine – il verbale del loro collega De Benedetti. Lo stesso “Corriere della Sera” dedica al caso un semplice colonnino. Ma non è sempre stato così, annota Stefano Feltri: negli archivi del “Corriere” si trovano ampi e completi articoli, per esempio, su quando alcuni familiari di De Benedetti sono stati sanzionati dalla Consob per 3,5 milioni per un insider trading su Cdb Web Tech, all’epoca uno dei veicoli finanziari dell’Ingegnere. Nel libro “Il desiderio di essere come tutti” (Einaudi, ripubblicato in allegato a “Repubblica”), Francesco Piccolo racconta la storia di una conversione politica, «quella di preferire una sinistra del compromesso, pragmatica e disposta a sporcarsi nella pratica quotidiana del potere rispetto a quella che invece rivendica la superiorità morale, una diversità antropologica, che considera chi vota Berlusconi moralmente disprezzabile». E’ la storia di come Francesco Piccolo ha scelto l’Enrico Berlinguer del compromesso storico al posto di quello della “questione morale” e della diversità comunista. E di come ha accettato di essere italiano, nel bene e nel male, invece che considerarsi sempre diverso, una persona un po’ migliore degli italiani raccontati dalla tv, quelli che votavano prima Democrazia Cristiana e poi Forza Italia.«Scalfari, De Benedetti e “Repubblica” – continua Feltri – sono stati per quarant’anni gli alfieri e la voce di un’Italia che si riteneva migliore della media, che rivendicava il diritto a fare una gerarchia di valori, a inseguire qualche ideale invece che rassegnarsi al “così fan tutti”, che guardava Silvio Berlusconi e il suo stile di vita e poteva permettersi di criticarlo». Illusioni? «Non esiste una Italia migliore e una peggiore», scrive Stefano Feltri: «Gli uomini, visti da molto vicino, sono tutti uguali», o in ogni caso «nessuno ha titolo di giudicare il suo prossimo». Però, aggiunge Feltri, quell’illusione qualcuno è servita: «Ha dato alla politica (soprattutto alla sinistra), agli elettori e soprattutto ai lettori una tensione etica, ha trasmesso il messaggio che poteva esistere un paese migliore». Un paese «magari un po’ tromboneggiante e moralista, talvolta noioso, spesso più conformista di quello che era disposto ad ammettere, ma migliore». E invece, per citare Francesco Piccolo, Scalfari, De Benedetti e “Repubblica” hanno realizzato il loro inconfessato e inconfessabile “desiderio di essere come tutti”, quindi non criticabili da nessuno. «Hanno dissipato ogni illusione di alterità. E se sono tutti uguali, allora non c’è differenza tra De Benedetti e Berlusconi, tra Renzi e D’Alema, tra Salvini e Di Maio. Senza illusioni e senza questione morale restano soltanto il cinismo e l’antipolitica», sostiene Feltri. «Quando, dopo le elezioni di marzo, commentatori e politologi vorranno spiegare il tracollo del Pd e l’inspiegabile tenuta del Movimento Cinque Stelle nonostante le mille prove di dilettantismo, sarà bene considerare tra le variabili rilevanti il crepuscolo della galassia Espresso-Repubblica».Scalfari che sdogana il Cavaliere e la “Repubblica” che tace sui contatti affaristici tra Renzi e De Benedetti? E’ la fine di un’epoca, o perlomeno di un equivoco. Negli ultimi vent’anni Marco Travaglio ha attribuito i guai del paese essenzialmente a Berlusconi, non alla potentissima super-casta eurocratica che di Berlusconi si è poi sbarazzata, per poter infliggere il ko finale all’Italia. Stefano Feltri, vicedirettore del “Fatto”, ora si volge verso gli antiberlusconiani storici, quelli del gruppo Espresso, denunciando la fine della loro presunta, lungamente sbandierata “diversità morale”. «Se mettiamo in fila gli eventi di questi ultimi due anni – scrive – capiamo che è davvero finita un’epoca. Il Gruppo Espresso si è fuso con l’Itedi, la società editoriale degli Agnelli che pubblica la “Stampa”, Carlo De Benedetti ha lasciato la presidenza, l’“Espresso” è diventato un allegato di “Repubblica”, molti editorialisti hanno lasciato il giornale (alcuni proprio per il “Fatto”)». E in una delle più accese battaglie politiche di questi anni, il referendum 2016 sulla riforma costituzionale, “Repubblica” non ha preso posizione: «Il suo direttore Mario Calabresi ha dedicato più editoriali critici al sindaco di Roma Virginia Raggi che all’ex premier Matteo Renzi o a Silvio Berlusconi. Il fondatore, Eugenio Scalfari, ha detto che, dovendo scegliere tra Silvio Berlusconi e Luigi Di Maio, preferisce Berlusconi, ridimensionando vent’anni di leggi ad personam e di politiche economiche contrarie a tutto quello che “Repubblica” e Scalfari hanno sempre professato».