Archivio del Tag ‘Asia’
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Perché la Corea unita fa più paura dell’atomica di Kim
L’ipotesi di una Corea unita è temuta non solo dagli Usa, che hanno le basi nel Sud, ma anche dalla Cina, dalla Russia e dal Giappone. Se crolla il muro del 38° parallelo le grandi potenze e quelle regionali dovranno fare i conti con una nazione potente dal punto di vista economico e militare. Soprattutto se non ci sarà una denuclearizzazione della penisola. È più probabile che nel breve termine assisteremo, se va bene, a una riapertura delle zone economiche speciali tra le due Coree, come Kaesong, e la ripresa a pieno ritmo delle relazioni con Mosca e Pechino. Nervosismo asiatico: la Corea unita fa quasi più paura delle bomba di Kim Jong Un. Saranno intanto, oltre al regime nordcoreano, la Cina e la Russia a tentare di approfittare della stretta di mano tra la sorella del dittatore e il presidente della Corea del Sud. Da poco è stata riaperta la linea rossa tra Pyongyang e Seul interrotto a nel febbraio 2016 dalla Corea del Nord per protesta contro la chiusura per volere di Seul del complesso industriale di Kaesong, gestito congiuntamente dai due paesi. Kaesong, sul 38° parallelo, dal 2002 costituisce il principale strumento di cooperazione economica bilaterale: la linea rossa veniva usata per comunicare alle autorità nordcoreane spostamenti che coinvolgevano cittadini sudcoreani in entrata o uscita dal complesso di Kaesong, situato subito a nord della linea di demarcazione di cessate il fuoco.Non dimentichiamo che i due paesi tecnicamente sono ancora in guerra, l’eredità più duratura della guerra fredda: negli anni Cinquanta su questo fronte morirono più di un milione e mezzo di soldati e oltre un milione di civili. Poi ci sono Pechino e Mosca che attendono di cogliere la loro occasione per tenere sotto pressione gli Stati Uniti nella penisola asiatica più bollente. Anche sotto sanzioni, alla Corea del Nord non è mancato il supporto della Cina e della Russia, come dimostra la vicenda delle forniture petrolifere di Pechino nonostante l’embargo deciso all’Onu. Ancora più interessante è la vicenda della zona economica speciale di Rason, meno conosciuta di quella di Kaesong, ma forse ancora più strategica. A Rason, nella punta nordorientale della Corea del Nord, nella regione di Gwanbuk, il paese di Kim Jong-Un incontra i suoi vicini, i giganti Cina e Russia. Questa è una regione alla legislazione economica speciale, il primo esperimento capitalistico nella storia nordcoreana. Creata sul modello cinese, ha il compito di attrarre gli investimenti dei superpotenze confinanti. Le aziende cinesi e russe hanno investito in questa zona franca in cui è consentito l’uso della valuta straniera.Dal punto di vista geografico, Rason impedisce alle fiorenti regioni nordorientali della Cina l’accesso diretto al mare: l’uso del porto di Rajin permette quindi a Pechino di trasportare il carbone nell’area di Shanghai, con risparmio di tempo e risorse. Inoltre a Rason Russia e Corea del Nord hanno mantenuto ottime relazioni per molti anni. La RasonConTrans, filiale della Russian Railways, è controllata al 30% dal porto di Rason e impiega circa 300 nordcoreani e 110 russi. Ecco alcuno motivi economici e strategici perché la stretta di mano tra Kim Yo Jong, la sorella del numero uno nordcoreano con il presidente sudcoreano Moon inquieta gli Stati Uniti e apre una corsa tra Cina e Russia nella penisola coreana. I cinesi, alleati storici di Pyongyang, e i russi non potendo sfidare la superiorità militare degli americani e il predominio del dollaro come moneta di scambio e di riserva mondiale, hanno utilizzato la Corea del Nord per infastidire gli Usa e i loro alleati coreani e giapponesi. Così, tra un passato di guerre sanguinose, un presente da incubo e nuove speranze nate alla diplomazia olimpica, aspettiamo gli eventi, aggrappati alle notizie dal 38° parallelo, in mano agli umori del giovane Dottor Stranamore nordcoreano.(Alberto Negri, “La Corea unita fa più paura della bomba atomica di Kim Jong Un”, da “Tiscali Notizie” del 12 febbraio 2018).L’ipotesi di una Corea unita è temuta non solo dagli Usa, che hanno le basi nel Sud, ma anche dalla Cina, dalla Russia e dal Giappone. Se crolla il muro del 38° parallelo le grandi potenze e quelle regionali dovranno fare i conti con una nazione potente dal punto di vista economico e militare. Soprattutto se non ci sarà una denuclearizzazione della penisola. È più probabile che nel breve termine assisteremo, se va bene, a una riapertura delle zone economiche speciali tra le due Coree, come Kaesong, e la ripresa a pieno ritmo delle relazioni con Mosca e Pechino. Nervosismo asiatico: la Corea unita fa quasi più paura delle bomba di Kim Jong Un. Saranno intanto, oltre al regime nordcoreano, la Cina e la Russia a tentare di approfittare della stretta di mano tra la sorella del dittatore e il presidente della Corea del Sud. Da poco è stata riaperta la linea rossa tra Pyongyang e Seul interrotto a nel febbraio 2016 dalla Corea del Nord per protesta contro la chiusura per volere di Seul del complesso industriale di Kaesong, gestito congiuntamente dai due paesi. Kaesong, sul 38° parallelo, dal 2002 costituisce il principale strumento di cooperazione economica bilaterale: la linea rossa veniva usata per comunicare alle autorità nordcoreane spostamenti che coinvolgevano cittadini sudcoreani in entrata o uscita dal complesso di Kaesong, situato subito a nord della linea di demarcazione di cessate il fuoco.
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Il teletrasporto? Non è più fantascienza: lo insegna la Cina
Addio petrolio e guerre? Fine dell’era delle auto e dei treni, delle navi e degli aerei? Sop all’inquinamento? La promessa – epocale, ai confini della realtà – si chiama teletrasporto. Per la precisione: entro 20 anni sarebbe possibile “teletrasportare” merci e perfino esseri umani. Non è pià fantascienza: «Il teletrasporto umano potrebbe presto diventare realtà», scrive Massimo Fenris su “Blasting News”. «Spostarsi da un punto all’altro del globo in maniera istantanea, poter essere dove si vuole in una manciata di secondi evitando le lunghe code in stazioni e aeroporti, poter lavorare ovunque non essendo costretti ad abbandonare i propri cari e le proprie radici: sarebbero solo alcuni dei vantaggi del teletrasporto». La grande sfida arriva direttamente dal Cremlino, con un progetto che richiederà un investimento miliardario. «Oggi sembra qualcosa di fantascientifico, ma a Standford ci sono riusciti con esperimenti molecolari. Se ci pensiamo, molta della tecnologia che abbiamo oggi a disposizione è stata pensata dalla fantascienza 20 anni fa», afferma Alexander Galitsky, uno dei principali investitori russi in termini di tecnologie all’avanguardia. Ma la sfida coinvolge ovviamente gli Usa e la Cina, che è riuscita a “telatrasportare” fotoni dalla Terra a un satellite in orbita.Il progetto russo costerà oltre 2 trilioni di dollari, spiega “Blasting News”, e applicherà tutte le tecnologie all’avanguardia, come la computazione quantistica e interfacce neurali (il diretto collegamento tra macchina e cervello umano). «Fino ad ora, il teletrasporto umano ha sempre rappresentato qualcosa di impossibile per la complessità di informazioni che una macchina dovrebbe “ricordare” e riuscire a riassemblare esattamente in ogni singolo frammento, nel luogo di destinazione». In realtà, scrive Fenris, qualcosa del genere si è già realizzato, ma con particelle molto semplici. Nel 2014, gli scienziati della Delft University of Technology, nei Paesi Bassi, hanno dimostrato che è possibile “teletrasportare” informazioni codificate in particelle sub-atomiche, a una distanza di tre metri con affidabilità del 100%. «Tra un essere umano e una particella sub-atomica c’è certamente una grande differenza, ma gli scienziati sono ottimisti e credono che presto tutto questo diventerà realtà». Secondo Elena Kovačič di “Sputink News”, gli scienziati dell’Istituto di Fisica e Tecnologia di Mosca (Mfti) hanno capito che «in futuro sarà possibile percorrere lunghe distanze senza l’applicazione di forza fisica ed essere contemporaneamente in due posti. Ad esempio, a Pechino o Mosca o in Siberia e nelle isole della Nuova Zelanda. Non è escluso il teletrasporto per l’esplorazione dello spazio».Il cosiddetto “entanglement quantistico” è la capacità di due o più sistemi quantistici di comportarsi allo stesso modo, rimanendo inseparabili, anche se distanziati l’uno dall’altro. I fisici russi «hanno trovato un modo per preservare l’“entanglement quantistico” nella trasmissione delle informazioni ad una distanza considerevole», spiega uno dei ricercatori, Sergej Filippov. «C’è una correlazione, come nel caso di una bobina: per cui, ciò che succede a una estremità della bobina è collegato a quanto sta succedendo nell’altra. Queste correlazioni possono essere inviate. Anche le persone, spostate in questo modo ad una certa distanza, saranno comunque correlate». I fisici hanno eseguito una “crittografia quatistica” per la trasmissione di un segnale su fibra ottica, trovando un algoritmo per la trasmissione di qualsiasi cosa. «In un certo senso, questo “assemblaggio”, ricorda l’olografia, ossia l’immagine ricostruita di oggetti tridimensionali usando un laser. La differenza è che questo non è solo un particolare tipo di fotografia: qui c’è la riproduzione di “carne e sangue”, con tutte le caratteristiche e abilità specifiche». Per ora, la scienza non ha ancora la capacità di raggiungere questo obiettivo: finora, i fisici hanno “teletrasportato” fotoni. Ma la stessa tecnica, dicono, consentirà di trasportare materia complessa, fino all’uomo. E nel giro di pochi anni.Molto lusinghieri, in questo campo, i risultati ottenuti dalla Cina: la “Bbc” conferma che alcuni ricercatori cinesi sono riusciti a “teletrasportare” fotoni dal deserto del Gobi fino allo spazio, sul satellite “Micius” in orbita a un’altitudine dalla superficie terrestre che varia dai 500 ai 2.000 chilometri. Una vera e propria operazione fantascientifica, resa possibile grazie a quello che la fisica definisce “entanglement quantistico”, un processo in cui due diverse particelle che, pur non essendo in contatto fisico tra loro, reagiscono come una singola unità. «Prende così forma il concetto di “esistenza condivisa”, per cui qualsiasi alterazione sulla prima particella influenza lo stato della seconda. Già nel 1990, infatti, gli scienziati avevano capito che questo legame poteva essere usato per trasferire uno stato quantistico da un punto a un altro dell’universo», racconta “105.Net”. Dal punto di vista pratico, l’esperimento cinese è durato 32 giorni, durante i quali i ricercatori hanno inviato milioni di fotoni dalla Terra al satellite, ottenendo esiti positivi in 911 casi. «Un risultato straordinario, che permette alla Cina di battere il record per la distanza più grande mai coperta. I cinesi si mostrano dunque dominatori in un campo da sempre guidato da europei e statunitensi. Resta solo da capire quale sarà la prima contromossa dell’Occidente».Stati Uniti, Canada e Unione Europea sono già in gara con russi e cinesi, scrive Elena Dusi su “Repubblica”. «Due esperimenti sono stati appena pubblicati su “Nature Photonics”. Descrivono singoli fotoni capaci di “viaggiare” lungo una normale fibra ottica cittadina, per 6 chilometri a Calgary e 12 a Hefei, vicino a Shangai, “trasportando” le loro informazioni come in una linea Internet tradizionale». Altro che chilometri: i collegamenti quantistici precedenti (il primo realizzato nel 1993) non superavano i centimetri di un tavolo di laboratorio. Laddove si arrivò al record di 143 chilometri, aggiunge “Repubblica”, fu necessario allestire una trasmissione in uno spazio vuoto per non disturbare la corsa delle particelle: il mare fra due isole delle Canarie. «Per la prima volta, invece, a Calgary ed Hefei, il teletrasporto quantistico ha seguito le stesse strade che faremmo noi in auto o in motorino». Questo particolare fenomeno, spiega la Dusi, non ha nulla a che fare con la smaterializzazione e il trasferimento di persone od oggetti: «Lo spostamento infatti non riguarda le particelle in sé, ma le loro caratteristiche e coordinate. Più che a “Star Trek”, il teletrasporto quantistico assomiglia alla spedizione di un fax». In realtà si sfrutta il cosiddetto “entaglement quantistico”, cioè il legame tra due particelle nate da una stessa reazione.Le caratteristiche intrinseche di queste particelle sono legate indissolubilmente: se si modificano quelle dell’una, simultaneamente cambieranno anche quelle dell’altra. E la mutazione non dipende dalla distanza che le separa. Così, due fotoni legati da “entanglement” possono essere inviati al mittente e al destinatario di un messaggio criptato su Internet. Il mittente “modifica” il suo fotone e quindi quello in possesso del destinatario, che così potrà essere usato come chiave per decrittare il messaggio. «I vantaggi riguardano soprattutto la sicurezza», sostiene Francesco Marsili, ingegnere in forza alla Nasa. «Il teletrasporto quantistico non è necessariamente più veloce, semplicemente cancella il rischio di essere spiati. Comunicazioni finanziarie o militari sono le sue ovvie applicazioni». Non è un caso che il “teletrasporto”, dal campo della meccanica quantistica si sia trasferito a quello della geopolitica. La Commissione Europea ha lanciato il suo “Quantum Manifesto”, finanziandolo con un miliardo di euro in dieci anni. Washington ha già realizzato una piccola rete su cui testare le trasmissioni. Altrettanto ha fatto la Cina, con una “autostrada quantistica” di un migliaio di chilometri tra Shanghai e Pechino.Il gigante asiatico, in realtà, ha fatto anche di più, ammette “Repubblica”. «Lanciando il suo primo satellite per le trasmissioni quantistiche dallo spazio, a fine agosto, la Cina ha spostato la corsa all’Internet quantistico dalla Terra al cielo». Proprio sicuri che non sarà possibile – entro vent’anni, come dicono i russi – smaterializzare qualcuno e rimaterializzarlo a migliaia di chilometri di distanza? Un sogno che si sta avvicinando sempre di più alla realtà, «grazie a una serie di esperimenti che nel prossimo futuro potrebbero trasformare il teletrasporto in una pratica comune», scrive Daniele Uva sul “Giornale”, citando il recentissimo record cinese. Dal satellite Micius è partito un fascio laser che ha trasmesso le particelle di luce correlate tra loro alle diverse stazioni a terra, dove sono state misurate. «I fotoni, dopo aver viaggiato per lunghe distanze, hanno mantenuto il loro legame pur trovandosi a più di 1.200 chilometri gli uni dagli altri. Un primato senza precedenti». La ricerca, pubblicata sulla prestigiosa rivista specializzata “Science”, ha fatto gridare al miracolo: per la prima volta nella storia, qualcosa di molto simile al “teletrasporto” sembra aver funzionato.Nel 2016, aggiunge il “Giornale”, un gruppo di ricercatori dell’Esa – l’Agenzia Spaziale Europea – ha tentato un esperimento simile a quello cinese: «I due fotoni si trovavano, però, entrambi sulla Terra, e a una distanza di soli 140 chilometri». Sempre nel corso del 2016, ad aprile, alcuni scienziati dell’esercito americano «hanno raccontato di essere riusciti a trasferire un’intera squadra di militari da un centro di ricerca e sviluppo del Massachusetts a una zona di addestramento della Nato in Germania». La notizia è stata addirittura confermata attraverso il “Natick Soldier System Center” dell’esercito statunitense, «nonostante un certo inevitabile scetticismo da parte degli addetti ai lavori». Bisogna andare più indietro nel tempo, al 2004, per trovare un altro tentativo: una squadra americana del National Institute of Standards and Technology e una austriaca dell’università di Innsbruck «riuscirono a spostare, con la tecnica del teletrasporto quantico, alcune proprietà di atomi di berillio e calcio», ricorda Uva sul “Giornale”. Insomma, la ricerca non si ferma. «E la comunità scientifica è convinta che, in assenza di intoppi, entro una decina di anni si potrebbe arrivare a ottenere immagini e filmati quasi in tempo reale da Marte».Addio petrolio e guerre? Fine dell’era delle auto e dei treni, delle navi e degli aerei? Sop all’inquinamento? La promessa – epocale, ai confini della realtà – si chiama teletrasporto. Per la precisione: entro 20 anni sarebbe possibile “teletrasportare” merci e perfino esseri umani. Non è pià fantascienza: «Il teletrasporto umano potrebbe presto diventare realtà», scrive Massimo Fenris su “Blasting News”. «Spostarsi da un punto all’altro del globo in maniera istantanea, poter essere dove si vuole in una manciata di secondi evitando le lunghe code in stazioni e aeroporti, poter lavorare ovunque non essendo costretti ad abbandonare i propri cari e le proprie radici: sarebbero solo alcuni dei vantaggi del teletrasporto». La grande sfida arriva direttamente dal Cremlino, con un progetto che richiederà un investimento miliardario. «Oggi sembra qualcosa di fantascientifico, ma a Standford ci sono riusciti con esperimenti molecolari. Se ci pensiamo, molta della tecnologia che abbiamo oggi a disposizione è stata pensata dalla fantascienza 20 anni fa», afferma Alexander Galitsky, uno dei principali investitori russi in termini di tecnologie all’avanguardia. Ma la sfida coinvolge ovviamente gli Usa e la Cina, che è riuscita a “telatrasportare” fotoni dalla Terra a un satellite in orbita.
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Turismo Cina-Francia. Il nostro guaio? Renzi non è Macron
E mentre il portentoso Matteo ‘l’ammmerigano’ Renzi – in camicia, maniche arrotolate da gggiòvane – vanta in Tv d’aver speso gli spiccioli del verduraio per rilanciare il turismo italiano, il presidente francese Macron si connette coi 963 milioni di cinesi che ogni mese usano il Social (cinese) Wechat e lancia il turismo francese nel futuro. Queste sono le differenze. Ma non solo. Cina chiama Francia, e Parigi risponde subito, no cazzate. In quattro e quattr’otto nasce una piattaforma di scambio francese dedicata alla Cina, si chiama China Connect (nulla a che fare con le imitazioni italiche, vedrete, nda). La dirige una donna, Laure de Carayon da Parigi. Vanno a Pechino, fanno contatti e tornano. Non perdono tempo. Organizzano una mega conferenza di business e Tech interamente dedicata alla Cina per l’8 di marzo (mentre l’Itaglia sarà freneticamente dedita a distribuire mimose).L’evento porterà a Parigi i top delle Start up, dei Mercati digitali e delle Tech cinesi e di tutta l’area Asia-Pacifico. Titolo: “La Cina, la nuova ispirazione del mondo”. Laure de Carayon dice: «L’ordine mondiale digitale si sta spostando da Silicon Valley all’Asia». Gli argomenti che saranno trattati, in questa melting pot di cervelli e aziende sino-francesi, sono: il commercio tradizionale e l’e-commerce, i Social, il Big Data, la Blockchain, la Virtual Reality, e l’Artificial Intelligence. Andrebbe detto a Matteo ‘l’ammmerigano’ Renzi che c’è chi nella vita è veloce, e non perde tempo alla vista del futuro di super Tech & Ai che sta inglobando il pianeta, anche senza aver letto Barnard.Infatti la de Carayon ci avvisa che «queste nuove Tech sono una patata bollente: dobbiamo essere veloci, agili, e molto strategici. La corrente è impetuosa, globale, e debordante in Cina… In Europa tutti vanno dietro alle stesse vecchie cose, siamo come pecore. In Cina c’è fermento, e con esso nasce la complessità dell’oggi». Serve dire altro? No. Sto pensando a quelli che mi hanno detto che le richieste elettorali che vi ho suggerito sono troppo avanti… sticazzi, Macron già le mette in pratica. Il 4 marzo, voi Italians… mimose, sù. Alla de Carayon credo non freghino un cazzo.(Paolo Barnard, “Il dramma è che Renzi non è Macron, Cina chiama Francia”, deal blog di Barnard dell’11 febbraio 2018).E mentre il portentoso Matteo ‘l’ammmerigano’ Renzi – in camicia, maniche arrotolate da gggiòvane – vanta in Tv d’aver speso gli spiccioli del verduraio per rilanciare il turismo italiano, il presidente francese Macron si connette coi 963 milioni di cinesi che ogni mese usano il Social (cinese) Wechat e lancia il turismo francese nel futuro. Queste sono le differenze. Ma non solo. Cina chiama Francia, e Parigi risponde subito, no cazzate. In quattro e quattr’otto nasce una piattaforma di scambio francese dedicata alla Cina, si chiama China Connect (nulla a che fare con le imitazioni italiche, vedrete, nda). La dirige una donna, Laure de Carayon da Parigi. Vanno a Pechino, fanno contatti e tornano. Non perdono tempo. Organizzano una mega conferenza di business e Tech interamente dedicata alla Cina per l’8 di marzo (mentre l’Itaglia sarà freneticamente dedita a distribuire mimose).
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Bomba-maremoto di Putin? Fake. Più atomiche Usa: vero
Dilaga su tutti i media (in primis “Repubblica” e “Corriere”) la bufala dell’“atomica maremoto” che sarebbe stata approntata dai russi per colpire, tramite una esplosione nucleare sottomarina da 100 megatoni, le aree costiere Usa. Si teme «una immensa ondata di acqua radioattiva». Da fermare come? Ovvio: «Già si prospetta un gigantesco potenziamento dell’arsenale atomico Usa», scrive Francesco Santoianni su “L’Antidiplomatico”. «Peccato che nessun giornalista, prima di dar risalto a questa nuova “minaccia dei russi”, si sia degnato di approfondire la sua attendibilità». Che, tanto per cambiare, è pari a zero: non esiste nessun “pericolo maremoto” negli arsenali di Mosca. Esiste solo sui media mainstream, agitato per giustificare la corsa al riarmo degli Usa. Intanto, spiega Santoianni, la paventata esplosione nucleare da 100 megatoni (equivalente a quella di 100 milioni di tonnellate di dinamite), se si verificasse al largo non avrebbe alcuna possibilità di devastare le coste: gli effetti non andrebbero oltre quelli di un maremoto del quarto grado della scala Ambraseys-Sieberg. «Per capirci, il maremoto che il 26 dicembre 2004 ha devastato le coste asiatiche (lasciando sostanzialmente intatti gli edifici in cemento armato) aveva una potenza equivalente a quella di 52.000 megatoni, e cioè 52 miliardi di tonnellate di dinamite».Chiaro? Lo tsunami che colpì la Thailandia – facendo strage per lo più di bagnanti e pescatori – era infinitamente più “potente” della mitica (e inesistente) super-bomba dei russi. «In più – aggiunge Santonianni – va detto che un maremoto oltre alla magnitudo dell’evento che lo scatena, si rapporta con l’andamento dei fondali che, solo in alcuni casi, possono garantire il riversarsi sulla costa di enormi e veloci quantità d’acqua. Questo ha fatto sì, ad esempio, che negli Usa, nonostante il manifestarsi nell’Oceano Pacifico e nell’Atlantico di colossali terremoti, si siano verificati gravi maremoti solo nelle isole Hawaii e in alcune aree dell’Oregon e dell’Alaska». Si dirà: già, ma se l’esplosione nucleare avviene in prossimità della costa? «In tal caso – considerando che gran parte dell’acqua e della sua energia si distribuirà radialmente in mare aperto – non si capisce proprio il perché di un attacco di questo tipo». Per “contaminare le città costiere con acqua radioattiva”? «Ma la distruzione e la contaminazione di una città potrebbero essere mille volte meglio garantite da una delle migliaia di testate nucleari veicolate da missili già puntati direttamente sulle metropoli».Il pericolo viene dalle armi vere, appunto: non dalle fantasie alimentate dalle “fake news” della stampa mainstream. E a proposito di missili: le testate atomiche statunitensi sono più di settemila. «E presto saranno molte di più, più efficienti e, soprattutto, oggi pronte come non mai ad essere utilizzate contro la Corea del Nord e contro la Russia», scrive Santonianni, ricordando che lo ha appena annunciato Trump nel suo messaggio sullo stato dell’Unione, al Congresso Usa. «Siamo preoccupati», ha ammesso il ministro degli esteri di Putin, Sergeij Lavrov: l’aggressività anti-russa degli Stati Uniti, ormai anche sul piano militare, lascia temere qualcosa che assomiglia a un’escalation imminente. E attenzione, aggiunge Santonianni: «Le lancette dell’Orologio Doomsday del “Bulletin of Science and Security” (una struttura di cui fanno parte 17 premi Nobel) sono state spostate a due minuti prima di mezzanotte: un livello d’allarme mai registrato in sessantacinque anni. Ovviamente, nessuno in Tv ve lo ha raccontato».Dilaga su tutti i media (in primis “Repubblica” e “Corriere”) la bufala dell’“atomica maremoto” che sarebbe stata approntata dai russi per colpire, tramite una esplosione nucleare sottomarina da 100 megatoni, le aree costiere Usa. Si teme «una immensa ondata di acqua radioattiva». Da fermare come? Ovvio: «Già si prospetta un gigantesco potenziamento dell’arsenale atomico Usa», scrive Francesco Santoianni su “L’Antidiplomatico”. «Peccato che nessun giornalista, prima di dar risalto a questa nuova “minaccia dei russi”, si sia degnato di approfondire la sua attendibilità». Che, tanto per cambiare, è pari a zero: non esiste nessun “pericolo maremoto” negli arsenali di Mosca. Esiste solo sui media mainstream, agitato per giustificare la corsa al riarmo degli Usa. Intanto, spiega Santoianni, la paventata esplosione nucleare da 100 megatoni (equivalente a quella di 100 milioni di tonnellate di dinamite), se si verificasse al largo non avrebbe alcuna possibilità di devastare le coste: gli effetti non andrebbero oltre quelli di un maremoto del quarto grado della scala Ambraseys-Sieberg. «Per capirci, il maremoto che il 26 dicembre 2004 ha devastato le coste asiatiche (lasciando sostanzialmente intatti gli edifici in cemento armato) aveva una potenza equivalente a quella di 52.000 megatoni, e cioè 52 miliardi di tonnellate di dinamite».
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Potere, dogma, dominio: noi e i Catari, i “Bogre” del 1200
I càtari? «Erano seguaci di una cupa, feroce, sanguinosa setta di origine asiatica», scrive sul “Corriere” Vittorio Messori, giornalista vicinissimo al Vaticano e autore di libri-intervista su Wojtyla e Ratzinger, fino a “La Chiesa di Francesco”. Sostiene, Messori, che gli eretici cristiano-dualisti annientati dalla Crociata Albigese all’inizio del 1200 fossero appoggiati dai nobili del Midi francese «non per motivi religiosi, ma perché volevano mettere le mani sulle terre della Chiesa», dando così per scontato che il Vaticano fosse una specie di multinazionale del latifondo sorretta dalle rendite economiche, più che un’istituzione dedita alla vita spirituale dei fedeli. L’espressione “le terre della Chiesa” viene infatti pronunciata da Messori con assoluta disinvoltura, peraltro sorvolando sulla storia: centinaia di pagine, nella storiografia per lo più transalpina, documentano l’adesione alla religione càtara da parte della “meglio gioventù” nobiliare occitanica, non certo attratta dagli epigoni di una “cupa, feroce, sanguinosa setta di origine asiatica”, ma da cristiani gnostici che vivevano in religiosa povertà, senza neppure un tempio, e accusavano Roma di aver barato fin dall’inizio sull’identità di Cristo e sul significato delle Scritture.E se la tenebrosa “setta asiatica” (stranamente non citata da Messori, solo evocata) fosse il Manicheismo, è bene sapere che ormai gli storici escludono categoricamente qualsiasi filiazione dottrinaria tra la predicazione del profeta persiano Mani e l’affermazione balcanica dei bogomili, i progenitori dei càtari. Il Padre Celeste adorato dai Buoni Cristiani – ribattezzati “càtari” dai loro sterminatori – era in tutto simile ad Ahura Mazda, la divinità della luce di Zoroastro, ispiratore della religione più diffusa in Medio Oriente fino all’anno zero: sarebbero sacerdoti mazdei i Magi venuti dall’Oriente di cui parla il Vangelo di Matteo, accorsi ai piedi della culla di Betlemme. Se il Cattolicesimo contempla la vita ulteriore, “eterna”, al di là di quella presente, sia il Mazdeismo che il successivo Catarismo danno estrema importanza alla terza fase dell’esistenza, che in realtà è la prima, chiaramente narrata nelle loro teologie. La dimensione materiale? E’ vissuta come passaggio transitorio, una dolorosa “caduta” rispetto allo stadio precedente, quello in cui le anime vivevano in beatitudine “al cospetto di Dio”. Missione del credente càtaro: aiutare l’umanità a “tornare a casa”, adottando il modello evangelico (rifiutare beni e ricchezze) per riconquistare l’accesso alla terra d’origine, l’ancestrale ascendenza “divina” di cui sarebbe rimasta una traccia, una scintilla, in ogni essere vivente.Proprio il mito del ritorno pervade un suggestivo racconto dei Sufi, quello dei costruttori di navi: compito del credente è custodire l’arte del carpentiere, anche se il potere del mondo detesta i “costruttori di navi”, imponendo questo mondo come l’unico possibile. Un ponte diretto collega i mistici “dervisci” a Francesco d’Assisi, che entrò in contatto con loro durante il suo viaggio in Egitto – per poi replicare il modello dei Sufi, asceti “vestiti di lana grezza”, nel futuro ordine francescano, a sua volta poi tacciato di eresia e avvicinato pericolosamente proprio al Catarismo. Sembra un fantasma scomodo, ancora oggi, quello dell’eresia cristiana dualistica del medioevo: se un intellettuale militante come Messori la attacca frontalmente, puntando a screditarla e demonizzarla, un laico come Eugenio Scalfari in un articolo su “Repubblica” arriva a equipararla, sbadatamente, a un altro Cristianesimo alternativo, quello di Pietro Valdo, per il quale invece la divinità era una sola – non esiste Dio Straniero, per i valdesi: il mondo è opera di una sola mano, quella dell’Altissimo.Anche se non lo si vuole ammettere, osserva il regista Fredo Valla, autore dell’atteso documentario “Bogre” (un viaggio tra bogomili e càtari, dalla Bulgaria alla Francia), l’eresia cristiano-dualistica scosse il medioevo europeo come un terremoto. Condannando la materia come frutto di una “creazione dannata”, opera del Demiurgo sfuggito al controllo della divinità celeste (buona, ma non onnipotente), contestava il ruolo sociale e politico dell’istituzione religiosa come garante dello status quo, dell’ordine feudale. In Linguadoca, Acquitania e Guascogna il Catarismo fu tollerato fino a quando, a prendere i voti, non furono i figli dei nobili: disposti a rinunciare ai feudi di famiglia, pur di abbracciare la predicazione dei Buoni Uomini. E’ esplicito l’inutile grido d’allarme lanciato, a Roma, da Bernardo di Chiaravalle, reduce da una missione esplorativa nelle terre occitane: il grande monaco spiegò al pontefice che nel Midi francese la fede càtara accomunava aristocrazia e popolo, di fronte allo spettacolo indecente offerto dal clero cattolico, ricchissimo e corrotto. Il futuro San Bernardo raccomandò la via della persuasione, dopo aver bonificato le diocesi per riconquistare i fedeli. Ma il Papa, Innocenzo III, preferì la via delle armi: alla carneficina della Crociata, che in vent’anni di guerra precipitò l’Occitania nella rovina economica, seguì la catastrofe dell’Inquisizione anti-càtara, durata 70 anni, che inaugurò il terrore come arma politica sistematica.Guardare tra quelle pagine con spirito laico e distaccato non è mai semplice, avverte una studiosa come Lidia Flöss, autrice di importanti ricerche sul Catarismo anche italiano: si rischia di cadere in posizioni preconcette, che non tengono conto dello spirito dei tempi, rinnovando polemiche anacronistiche. Sbagliato fare del Catarismo una sorta di mitologia new age: nel saggio “I Catari, gli eretici del male”, la Flöss si addentra fra le diatribe – prosaiche, umanissime – delle svariate comunità càtare del Lago di Garda, in competizione tra loro per la leadership teologica. Da una parte i “bulgari”, moderati e fiduciosi – come i bogomili (e i mazdei) – nella riconciliazione universale “alla fine dei tempi”, e dall’altra i càtari radicali, come il pope Niketas che evangelizzò Tolosa, convinti dell’irriducibile opposizione tra bene e male. Sul fronte opposto, nella Crociata Albigese, ai baroni francesi del Nord furono promessi i feudi del Sud come preda di guerra, ma i soldati ai loro ordini – quelli che fecero strage della popolazione civile – era stata promessa la remissione dei peccati, cioè il viatico per la vita eterna, in cambio della pulizia etnico-religiosa che avrebbe liberato l’Occitania dalla peste eretica.La stessa Simone Weil, autrice del meraviglioso saggio “I Catari e la civiltà mediterranea”, sottolinea la presenza della “pietas” tra i versi della Canzone della Crociata, opera di autori cattolici: nel poema non viene mai meno la profonda pietà per gli sconfitti. E’ un sentimento che la Weil attribuisce alla temperie socio-culturale della terra dei Trovatori, straordinariamente tollerante, al punto da far riverberare lo spirito democratico dell’Atene di Pericle, con il culto della bellezza opposto a quello della forza. E il “paratge”, il particolare senso dell’onore che anima l’ideale cavalleresco occitanico, ricomparirà sicuramente nel viaggio cinematografico di Fredo Valla, alla ricerca – sulla scorta della lezione di Simone Weil – di una perduta dimensione del vivere, che stranamente fiorì in quella regione, a partire dal 1100, prima che calasse il sipario del sangue e della paura. Molto semplicemente: in modo forse anche ingenuo, il Cristianesimo eretico dei càtari – in pieno medioevo – contesta il fatto che una religione possa indossare i panni del potere. Oggi, nel 2018, il mondo è in mano a un potere laico, fondato solo sul denaro, che però esercita il suo dominio mediante dogmi di tipo religioso, come quello neoliberista. Perché perdere tempo a fare assurdi processi alla storia, quando è possibile guardarci dentro, in quella storia, anche grazie a un documentario, per poi magari scoprire che qualcosa, del nostro presente, può avere un fondamento tra le pagine dell’epopea dei “Bogre”?I càtari? «Erano seguaci di una cupa, feroce, sanguinosa setta di origine asiatica», scrive sul “Corriere” Vittorio Messori, giornalista vicinissimo al Vaticano e autore di libri-intervista su Wojtyla e Ratzinger, fino a “La Chiesa di Francesco”. Sostiene, Messori, che gli eretici cristiano-dualisti annientati dalla Crociata Albigese all’inizio del 1200 fossero appoggiati dai nobili del Midi francese «non per motivi religiosi, ma perché volevano mettere le mani sulle terre della Chiesa», dando così per scontato che il Vaticano fosse una specie di multinazionale del latifondo sorretta dalle rendite economiche, più che un’istituzione dedita alla vita spirituale dei fedeli. L’espressione “le terre della Chiesa” viene infatti pronunciata da Messori con assoluta disinvoltura, peraltro sorvolando sulla storia: centinaia di pagine, nella storiografia per lo più transalpina, documentano l’adesione alla religione càtara da parte della “meglio gioventù” nobiliare occitanica, non certo attratta dagli epigoni di una “cupa, feroce, sanguinosa setta di origine asiatica”, ma da cristiani gnostici che vivevano in religiosa povertà, senza neppure un tempio, e accusavano Roma di aver barato fin dall’inizio sull’identità di Cristo e sul significato delle Scritture.
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Bordin: è la Cina il vero bersaglio della finta rivolta in Iran
Che gli americani sognino di controllare l’Iran lo sanno anche gli eremiti sordi che vivono di pastorizia ai piedi dell’Himalaya. Vicinanza con la Russia, controllo di risorse petrolifere, dominio su turchi e siriani … hiiiii, e quanti motivi ci sono stati nella storia passata e recente per giustificare questo progetto? Troppi per stupirci della finta rivolta in Iran, giunta ormai al sesto giorno senza che vi siano a supporto video e testimonianze convincenti. Da quando il popolo iraniano è riuscito a fare un “cambio di regime” nel ’79, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno aperto le ostilità, con alti e bassi, appoggi esterni e sanzioni, ma da allora non è più finita. Ma alle motivazioni Nato poco sopra citate, se ne è aggiunta in questi mesi una nuova che ritengo quella decisiva: la collaborazione fattiva tra Teheran e Pechino. Pochi sanno, infatti, che è partito un progetto infrastrutturale tra Cina e Iran. Una nuova Via della Seta, come quella che aveva collegato persiani ed estremo oriente nel medioevo. Insomma, il presidente Xi Jinping sta cercando di costruire una rotta commerciale preferenziale per collegare in maniera più efficiente l’Asia all’Europa, come il suo lontanissimo predecessore Qubilai Khan.Gli interessi cinesi. La vecchia Via della Seta aveva il grande vantaggio della stabilità. Le carovane che passavano per Samarcada erano ricche di spezie e di tessuti e viaggiavano tranquille durante la pax mongolica. Poi dopo secoli di sostanziale calma, sono arrivati arabi, Tamerlano e poi gli ottomani e quella via devenne pericolosa, impraticabile e troppo costosa. Insomma, non più conveniente, tanto è vero che gli occidentali preferirono prendere la via del mare per raggiungere l’Oriente senza più passare per la Persia. Oggi, per la Cina, l’Iran è il partner ideale per portare avanti l’ambizioso progetto, bypassando nazioni problematiche come Pakistan e Afghanistan. Per l’Iran, invece, la Cina è importante non solo in quanto primo partner commerciale e generoso importatore di petrolio, ma anche per contrastare l’isolamento cui la comunità internazionale continua a relegarla con la scusa della teocrazia (doppiopesismo con i sauditi fin troppo evidente, qui).Non è certo un caso che il primo capo di Stato straniero che ha visitato l’Iran dopo la cancellazione delle sanzioni voluta da Obama sia stato proprio Xi Jinping, che ha approfittato dell’occasione per impegnarsi a far aumentare l’interscambio commerciale tra le due nazioni. Naturalmente la Cina non fa preferenze e cerca scambi e accordi con tutti, dal Sudan al Perù, ma il Medio Oriente vale doppio, per via della presenza strategica di Israele, Russia e America, come tutti ben sappiamo. Come rovinare il piano sino-iraniano? Ma con una bella instabilità, che diamine! Ed eccoci a queste inaspettate (!) ore di scontri, tra allarmismi, cassonetti della monnezza bruciati e le solite ragazze che si tolgono il velo a favor di Instagram. Fallito al momento il lavoretto ai fianchi della Cina con i colpi andati a vuoto in Corea, ora si tenta un bel gancio al premier Rohani. La prossima scenetta? Si girerà a New York, presso il palazzo di vetro dell’Onu.(Massimo Bordin, “I neocon lavorano la Cina ai fianchi, ora tocca all’Iran”, dal blog “Micidial” del 3 gennaio 2018).Che gli americani sognino di controllare l’Iran lo sanno anche gli eremiti sordi che vivono di pastorizia ai piedi dell’Himalaya. Vicinanza con la Russia, controllo di risorse petrolifere, dominio su turchi e siriani … hiiiii, e quanti motivi ci sono stati nella storia passata e recente per giustificare questo progetto? Troppi per stupirci della finta rivolta in Iran, giunta ormai al sesto giorno senza che vi siano a supporto video e testimonianze convincenti. Da quando il popolo iraniano è riuscito a fare un “cambio di regime” nel ’79, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno aperto le ostilità, con alti e bassi, appoggi esterni e sanzioni, ma da allora non è più finita. Ma alle motivazioni Nato poco sopra citate, se ne è aggiunta in questi mesi una nuova che ritengo quella decisiva: la collaborazione fattiva tra Teheran e Pechino. Pochi sanno, infatti, che è partito un progetto infrastrutturale tra Cina e Iran. Una nuova Via della Seta, come quella che aveva collegato persiani ed estremo oriente nel medioevo. Insomma, il presidente Xi Jinping sta cercando di costruire una rotta commerciale preferenziale per collegare in maniera più efficiente l’Asia all’Europa, come il suo lontanissimo predecessore Qubilai Khan.
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Osservate questi 16 animali, a Natale 2018 saranno estinti
Dalla vaquita, mini-cetaceo ridotto ad appena 30 esemplari nel Golfo di California, al favoloso leopardo dell’Amur, un agilissimo felino che sopravvive ancora nelle foreste temperate tra Cina, Mongolia e Russia, regno della tigre siberiana: oggi, i leopardi dell’Amur sono meno di 70. A Sumatra sono a rischio-scomparsa il rinoceronte e la tigre, in Asia è in pericolo l’orango, nella Carolina del Sud sta scomparendo il lupo rosso. In Centramerica è al lumicino il bradipo pigmeo. Stessa sorte per il rarissimo pangolino cinese e per il chiurlottello, piccolo uccello trampoliere. Sono 16 le specie che rischiano di non vedere il Natale 2018 per il numero esiguo a cui sono ridotte le loro popolazioni. Nella mappa presentata per la campagna “Wwf is calling” vengono indicate le specie ridotte «sul baratro dell’estinzione» a causa di attività umane invasive. Secondo l’associazione ambientalista, solo dal 1970 al 2012 l’uomo ha determinato il calo del 58% dell’abbondanza delle popolazioni di vertebrati terrestri e marini. Su questa “Arca di Natale”, osserva l’Ansa, il Wwf fa salire anche il pappagallo amazzonico ara golablu, il cavallo di Przewalski delle steppe mongole e il kouprey, un grosso bovide dell’Asia sud-orientale.Nella mappa c’è anche una specie di corallo, la madrepora oculata, scelta come simbolo della distruzione dei fondali del Mediterraneo: è una specie di profondità (250-800 metri) e la pesca a strascico e il cambiamento climatico sono i suoi nemici. In Italia per l’orso marsicano oggi si parla di poche decine di esemplari, come per la rarissima aquila del Bonelli, appena 40 coppie sulle scogliere mediterranee. Sarebbero poi appena una decina le coppie stabili di gipeto, il grande “avvoltoio degli agnelli” già estinto all’inizio del ‘900 e poi faticosamente reintrodotto. Una specie che resta a rischio, contando su meno di 10.000 esemplari tra Asia, Africa ed Europa. Se il Wwf lancia l’Sos anche per una specie arborea come l’abete dei Nebrodi, presente solo sulle montagne della Sicilia settentrionale, rischia di scomparire – tra i vari rettili – anche la lucertola delle Eolie. Il lupo della Tasmania, lo stambecco dei Pirenei, la tigre caucasica, il rinoceronte nero dell’Africa occidentale, il leopardo di Zanzibar, sono già stati spazzati via da bracconaggio, prelievo intensivo o distruzione del loro habitat, rileva l’associazione ambientalista.«Abbiamo il dovere di accendere i riflettori sul rischio di estinzione di alcune specie preziose e chiamare tutti a raccolta per combattere le minacce che rischiano di cancellare tesori di biodiversità in Italia e nel mondo», avverte la presidente del Wwf Italia, Donatella Bianchi. «Ormai sappiamo che la scomparsa anche di una sola specie determina una perdita immensa di informazioni biologiche, di caratteristiche genetiche e di servizi ecologici per tutta l’umanità: se, con l’impegno di tutti, anche attraverso piccoli gesti quotidiani, contribuiremo a mantenere il nostro pianeta ricco di animali, sarà a beneficio di tutti, soprattutto delle generazioni che ancora devono nascere». La piaga dell’estinzione rende più labili i sistemi naturali che consentono alle foreste di regolare le temperature del pianeta, ai fiumi di alimentare le biomasse marine, alle terre e agli oceani di produrre cibo e sicurezza, aggiunge Isabella Pratesi, direttore conservazione di Wwf Italia: «Trascuriamo inoltre che molte specie prima di noi hanno trovato, attraverso l’evoluzione, soluzioni a condizioni difficili ed estreme. Ogni insetto scomparso, ogni pianta estinta, ogni barriera corallina sbiancata potrebbe custodire le soluzioni e i rimedi ai nostri mali incurabili o ai drammatici cambiamenti che abbiamo generato».A pesare, in molti casi, sono le foreste abbattute per far spazio alle coltivazioni. Il lupo rosso statunitense sopravvive in meno di 150 individui, del bradipo pigmeo resistono alcune centinaia di esemplari su un’isola panamense. Il pangolino cinese? «E’ perseguitato per le sue scaglie ritenute “miracolose” nella medicina tradizionale». Quanto al chiurlottello, è un uccello «ritenuto una vera e propria chimera dagli ornitologi, data la sua estrema rarità in tutta Europa». Pappagalli ricercati per la loro bellezza, come l’ara golablu, hanno «la sfortuna di nidificare proprio nei palmeti pressati dalla deforestazione». Un animale leggendario come il cavallo selvaggio di Przewalski è ridotto, in Mongolia, ad appena 200 esemplari. Le specie su cui si concentra l’attenzione del Wwf sono gli “ambasciatori” di un percorso di estinzione che è arrivato, purtroppo, quasi al capolinea, insiste Donatella Bianchi: «Se, giustamente, mettiamo tanta cura nel custodire le opere dell’ingegno e della creatività umana, perché non impegnarsi per proteggere anche le meraviglie create dalla natura e che rischiano di scomparire per sempre?».Dalla vaquita, mini-cetaceo ridotto ad appena 30 esemplari nel Golfo di California, al favoloso leopardo dell’Amur, un agilissimo felino che sopravvive ancora nelle foreste temperate tra Cina, Mongolia e Russia, regno della tigre siberiana: oggi, i leopardi dell’Amur sono meno di 70. A Sumatra sono a rischio-scomparsa il rinoceronte e la tigre, in Asia è in pericolo l’orango, nella Carolina del Sud sta scomparendo il lupo rosso. In Centramerica è al lumicino il bradipo pigmeo. Stessa sorte per il rarissimo pangolino cinese e per il chiurlottello, piccolo uccello trampoliere. Sono 16 le specie che rischiano di non vedere il Natale 2018 per il numero esiguo a cui sono ridotte le loro popolazioni. Nella mappa presentata per la campagna “Wwf is calling” vengono indicate le specie ridotte «sul baratro dell’estinzione» a causa di attività umane invasive. Secondo l’associazione ambientalista, solo dal 1970 al 2012 l’uomo ha determinato il calo del 58% dell’abbondanza delle popolazioni di vertebrati terrestri e marini. Su questa “Arca di Natale”, il Wwf fa salire anche il pappagallo amazzonico ara golablu, il cavallo di Przewalski delle steppe mongole e il kouprey, un grosso bovide dell’Asia sud-orientale.
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Insetti e Ogm: per l’élite sarà quello il nostro cibo del futuro
«La frutta era l’unico elemento della loro dieta. Quegli esseri del futuro erano vegetariani rigorosi, e per tutto il tempo che rimasi con loro, pur desiderando un pezzo di carne, fui frugivoro anch’io». È l’anno 802.701. Il Viaggiatore del Tempo ha appena incontrato una delle due razze che popolano il futuro della Terra: si tratta degli Eloi, creature bellissime, fragili, pacifiche, piccole di statura come bambini, dalla pelle color porcellana e simili tra loro anche nel sesso. Conducono una vita di puro divertimento e sono dotati di scarsa immaginazione e intelletto. Si tratta di una citazione de “La macchina del tempo”, uno dei racconti più celebri di H.G. Wells, pubblicato per la prima volta nel 1895. Nell’Inghilterra di fine Ottocento, uno scienziato racconta ai suoi più stretti amici di aver trovato il modo di viaggiare nel tempo, ma non viene creduto. Otto giorni dopo, durante una cena a casa sua, il protagonista ricompare in uno stato alterato, i vestiti in disordine e il volto spettrale: racconterà davanti a una platea sbigottita, di aver viaggiato avanti e indietro nel tempo fino a raggiungere l’anno 802.701, periodo in cui l’umanità è divisa in due tronconi differenti: gli Eloi, appunto, e i Morlock, esseri mostruosi che vivono nelle viscere della terra.Costoro escono la notte per cibarsi delle carni degli Eloi, da loro accuditi e allevati come bestie da macello. Se gli Eloi sono fruttariani, i Morlock non solo sono carnivori ma si cibano addirittura della carne dei fragili Eloi. Gli Eloi di Wells prefigurano alcune caratteristiche che ritroveremo nel capolavoro distopico di Aldous Huxley, “Il mondo nuovo”. Gli abitanti del futuro (un futuro remoto in Wells, più vicino a noi in Huxley) sono creature pacifiche che vivono in apparenza in una società perfetta e felice. Gli Eloi però sono il cibo dei Morlock, così come gli abitanti del mondo nuovo di Huxley sono creature create in laboratorio e manipolate fin dalla nascita: sono cioè “cavie” per il potere, distratte dai problemi della vita tramite la saturazione del piacere. Non vengono “mangiati” come gli Eloi, ma è la loro “anima”, la loro capacità intellettiva e artistica a essere stata annullata dai governanti. Viene da citare, seppur impropriamente, Charles Fort quando scrisse «the Earth is a farm. We are someone else’s property».Queste due opere hanno anche prefigurato molte tematiche ora più che mai attuali che ho approfondito ampiamente in altre sedi con Gianluca Marletta (“Governo Globale”, “La fabbrica della manipolazione”, “Unisex”). Tornando alla citazione iniziale, è però interessante notare come l’attuale moda “vegetariana” e “vegana” abbia preso una deriva bizzarra, arrivando ad accettare di introdurre sulle nostre tavole carne e pesce artificiale (in linea con l’orizzonte post-umano del Transumanesimo che si pone come dottrina “spirituale” del mondialismo) oppure una dieta che accolga nei nostri piatti anche gli insetti, ossia l’entomofagia. Premesso che sono vegetariana da 21 anni e che dunque non è mia intenzione “giudicare” regimi dietetici alternativi, mi sembra però che si stia “spingendo” per l’assunzione di alimenti alternativi, quasi si prefigurasse per il nostro futuro una divisione in caste tra i poveri costretti a mangiare insetti, frutta e verdura (che ovviamente saranno Ogm, mica biologici!) e i sempre più ricchi a cui nulla sarà interdetto, tantomeno la carne che sarà appunto un lusso per pochi eletti.Mi sembra che oltre al mantra buonista e politicamente corretto del Love is Love (che dal poliamore arriverà presto a battersi per la legalizzazione della pedofilia), si stia andando di pari passo verso la sponsorizzazione di una moda culturale hippie-chic-newaggiarola che impone come modello per l’uomo del futuro un pacifista a tempo determinato (cioè buono e amorevole solo nei confronti di coloro che sono come lui, per gli altri nessuna pietà), empatico a intermittenza, irrazionale, incapace di pensiero critico (sarà ormai schiavo del bipensiero orwelliano) e di assumersi le proprie responsabilità. Insomma, un bambino o al massimo un perenne adolescente emotivo, vittima delle mode inculcate dalla propaganda e intrappolato nella visione estetico-dongiovannesca dell’esistenza. La teoria della gradualità, declinata nel Principio della Rana Bollita di Noam Chomksy o nella Finestra di Overton, sembra ora voler sdoganare nell’opinione pubblica occidentale anche l’introduzione di insetti sulle nostre tavole. Nascono così start-up che si occupano di creare cibi a base di farina di grilli o di altri insetti commestibili che presto saranno disponibili anche in Italia.La Fao ha lanciato da alcuni anni il programma “Edible insects” per promuovere la diffusione dell’entomofagia, già seguita da circa 2 miliardi di persone nel mondo, principalmente in Asia, Africa e America Centrale. Ciò avviene in base alle stime di sovrappopolazione che vedono la Terra, nell’anno 2050, popolata da circa 9 miliardi di persone. Gli insetti, pertanto, potrebbero diventare una “necessaria” fonte di cibo, sia per la loro ricchezza nutrizionale sia per il minor impatto ambientale del loro allevamento. Per ovviare al problema della sovrappopolazione rientra anche la produzione di carne e pesce artificiali, prodotti cioè in laboratorio. L’obiettivo, in apparenza “legittimo”, sarebbe anche in questo caso, quello di risparmiare al pianeta lo sfruttamento delle risorse ambientali. Ma è proprio questo lo scopo? Il “progresso” legittima tutto ciò che è “sintetico” e dall’altra rimodella la società in due macro caste metaforicamente simili agli Eloi e ai Morloch. Forse i ricchi del futuro non mangeranno fisicamente i più poveri, ma costoro rappresenteranno per loro “carne da macello”, come lo siamo ora per i governanti. E come lo siamo sempre stati. Manodopera da sfruttare, sorvegliare e controllare.Torniamo a “La macchina del tempo” e al “Mondo nuovo”. Si tratta in apparenza di due romanzi, uno fantascientifico, l’altro “distopico”. Eppure hanno molto in comune se non fosse per gli interessi e il legame tra i due romanzieri. Entrambi si inseriscono infatti nell’alveo mondialista britannico di quegli anni, fervidi sostenitori del dogma evoluzionistico, dell’eugenetica e del mondialismo, appassionati critici del problema della sovrappopolazione e quindi neomalthusiani. H.G. Wells era socio della Fabian Society (come entrambi i fratelli Huxley) e del Coefficent Club, già allievo dello zio di Aldous, il biologo darwinista Thomas Huxley, amico e collega del fratello di Aldous, Julian, con cui aveva collaborato alla stesura nel 1927 di “The Science of Life”. Il saggio proponeva il tema dell’evoluzione come fondamento dell’etica di quello Stato mondiale a cui Wells avrebbe dedicato il lavoro negli ultimi anni della sua vita. Wells, nel 1928 pubblicò, ricorda Enzo Pennetta in “Inchiesta sul darwinismo”, «un libro intitolato “The Open Conspiracy”, in cui manifestò il proprio ideale di un mondo unificato sotto l’egemonia anglosassone e ispirato agli ideali socio economici della Fabian Society».Nella raccolta “Idee per un nuovo umanesimo” (1961), premesso che «la nuova organizzazione del pensiero deve essere globale», Julian Huxley precisava che «la religione del prossimo futuro potrebbe essere una buona cosa. Crederà nella conoscenza», conciliando così il neodarwinismo e la filosofia positiva di Comte. Infatti, concludeva, «la religione può essere utilmente considerata ecologia spirituale applicata». L’umanesimo promosso infatti da pensatori come Wells e i fratelli Huxley ha dato vita a un’ideologia ibrida che unisce eugenetica, malthusianesimo, denatalismo, socialismo e una spiccata attenzione per le scienze e il controllo sociale. Da lì a pochi anni il nazismo avrebbe mostrato al mondo quali rischi implicava l’eugenetica, ma i suoi princìpi base sarebbero sopravvissuti al crollo del Terzo Reich e sarebbero confluiti in organizzazioni di stampo mondialista come l’Unesco, fondata nel novembre del 1945. Julian Huxley, sostenitore di svariati metodi di “selezione” della specie, ne sarebbe stato nominato primo direttore. Il cerchio così si chiude, lasciando intravedere il “filo conduttore” che anima ideologicamente molte fra le scelte sociali, culturali e politiche degli anni che stiamo vivendo. E su cui forse dovremmo riflettere… per non fare la fine degli Eloi.(Enrica Perucchietti, “Insetti e Ogm: il cibo del futuro secondo i padroni del mondo”, dal blog “Interesse Nazionale”, novembre 2017).«La frutta era l’unico elemento della loro dieta. Quegli esseri del futuro erano vegetariani rigorosi, e per tutto il tempo che rimasi con loro, pur desiderando un pezzo di carne, fui frugivoro anch’io». È l’anno 802.701. Il Viaggiatore del Tempo ha appena incontrato una delle due razze che popolano il futuro della Terra: si tratta degli Eloi, creature bellissime, fragili, pacifiche, piccole di statura come bambini, dalla pelle color porcellana e simili tra loro anche nel sesso. Conducono una vita di puro divertimento e sono dotati di scarsa immaginazione e intelletto. Si tratta di una citazione de “La macchina del tempo”, uno dei racconti più celebri di H.G. Wells, pubblicato per la prima volta nel 1895. Nell’Inghilterra di fine Ottocento, uno scienziato racconta ai suoi più stretti amici di aver trovato il modo di viaggiare nel tempo, ma non viene creduto. Otto giorni dopo, durante una cena a casa sua, il protagonista ricompare in uno stato alterato, i vestiti in disordine e il volto spettrale: racconterà davanti a una platea sbigottita, di aver viaggiato avanti e indietro nel tempo fino a raggiungere l’anno 802.701, periodo in cui l’umanità è divisa in due tronconi differenti: gli Eloi, appunto, e i Morlock, esseri mostruosi che vivono nelle viscere della terra.
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Globalizzati e sempre più poveri: come nell’Impero Romano
I banchieri centrali non hanno mai fatto tanti danni all’economia mondiale quanti ne hanno fatti in questi ultimi dieci anni. Possiamo anche dire che finora non hanno mai avuto tanto potere per farlo. Se i loro predecessori avessero avuto questo potere… chissà? Comunque, l’economia globale non è mai stata più interconnessa come lo è oggi, soprattutto per effetto dell’avanzamento del globalismo, del neoliberismo e forse anche della tecnologia. Ironia della sorte, tutti e tre questi fattori vengono continuamente magnificati come forze del bene. Ma gli standard di vita per molti milioni di persone in Occidente sono scesi – o sono pieni di incertezze – mentre milioni di cinesi ora hanno un livello di vita migliore. Alle persone in Occidente hanno detto di guardare a questo come ad uno sviluppo positivo; dopo tutto, permette di comprare prodotti che costano meno di quelli che produrrebbero le industrie nazionali. Ma insieme al loro posto di lavoro nella produzione, è sparito anche tutta la loro way of life, il loro modello di vita. O, piuttosto, si è nascosto dietro un velo di debiti, tanto da non poter credibilmente negare che circa tre quarti degli americani hanno difficoltà a pagare le bollette. Cosa che sicuramente non succedeva dagli anni ’50 e ’60.In Europa occidentale questo è un po’ meno evidente, o forse è solo in ritardo, ma con il globalismo e il neoliberismo, che sono ancora le religioni economiche dominanti, non ci sarà via d’uscita. Che è successo? Beh, noi non facciamo più le cose. Ecco tutto. Dobbiamo comprare da altri tutte le cose che ci servono: sempre di più. E di conseguenza non abbiamo nemmeno le competenze per fare altre cose. Siamo diventati dipendenti, per la nostra sopravvivenza, da nazioni che stanno dall’altra parte del pianeta. Dipendenti da nazioni che sono interessate solo a venderci le loro cose, se le possiamo pagare. Nazioni che vedono le richieste di salario interno salire e che – dovranno – farci pagare i loro prodotti a prezzi sempre più alti. E noi non avremo altra scelta che pagare. Ma possiamo pagare solo con quello che possiamo prendere in prestito – come nazioni, come imprese e come individui. Dobbiamo prendere in prestito perché, come nazioni, come società e come individui noi non facciamo più le cose. È un circolo vizioso con cui la globalizzazione ci ha benedetto. E da cui – ci viene detto – potremo uscire solo se riusciremo a crescere ancora. Cosa che non possiamo fare, perché noi non facciamo nulla.Quindi ci affidiamo ai banchieri centrali per gestire la crisi. Perché ci viene detto che loro sanno come gestirla. Non lo sanno, ma fingono di saperlo. Però, a leggere bene tra le righe, ammettono la loro ignoranza. A Janet Yellen, poche settimane fa, è scappato di dire che non ha idea del motivo per cui l’inflazione è debole. Mario Draghi ha detto più o meno la stessa cosa. Perché non lo sanno? Perché conoscono solo i modelli attuali, che non vanno più bene, perché non si adattano. E i modelli sono tutti quelli che hanno. Nel settore bancario centrale i modelli economici sono più importanti del buon senso. La Fed ha almeno un migliaio di dottorati PhDs sotto contratto. Ma la Yellen, il loro capo, continua a sostenere che “forse” sono sbagliati i modelli che dicono che se cresce l’inflazione aumentano i salari. Non hanno idea del perché i salari non crescano. Perché i modelli dicono che invece dovrebbero crescere. Perché loro hanno tutti un lavoro – i 1000 dottoroni ben pagati. E questo è tutto quello che hanno da dire. Dicono che il fatto che i salari non aumentano è un mistero.Io dico che quelli per cui questo è un mistero non sono le persone giuste per fare il lavoro che fanno. Se si esportano milioni di posti di lavoro in Asia, si sposta anche il potere negoziale dei lavoratori e li si spinge a fare dei lavori di merda e senza nessun benefit, allora c’è solo un risultato possibile. E questo risultato non include né inflazione, né crescita dei salari. L’unico risultato possibile, invece, è una erosione continua delle economie. Il mantra globalista afferma che riempiremo lo spazio che perdono le nostre economie offrendo posti di lavoro migliori, nel settore dei servizi e nel settore della conoscenza. Ma la realtà non segue il mantra. La maggior parte dei nuovi posti di lavoro non sono sicuramente “migliori”. E mentre aspettiamo di vedere questi posti di lavoro migliori, salutiamo i clienti di Wal-Mart, vediamo che i robot cominciano a prendersi cura di quel poco che ci rimane della nostra capacità produttiva e i servizi pronta consegna eliminano dagli scaffali anche quello che restava nei nostri magazzini di mattoni e di calce. Sì, questo significa che stiamo perdendo anche i lavori “di minor qualità”.Nel frattempo i cinesi, che ora fanno i nostri vecchi lavori, sono stati capaci di farli grazie ad una folle quantità di inquinamento prodotto. E come se non fosse abbastanza, recentemente, solo per mantenere in vita il loro nuovo magico paradiso produttivo, sono stati costretti a prendere in prestito tanto quanto abbiamo preso in prestito noi – a livello statale, a livello di governo locale e ora anche a livello individuale. In Cina, le funzioni del credito sono come gli oppiacei in America. Milioni di persone che non erano mai entrate in contatto con le cose – e avrebbero continuato a viver bene anche se non ci fossero mai entrate in contatto – ora sono state agganciate. Ma sono stati agganciati anche i governi locali, che hanno creato un sistema bancario ombra che minaccerà presto Pechino; ma per i cittadini, questo, è un fenomeno relativamente nuovo. E si vede gente che dice cose come: “Se non compri un appartamento oggi, non te lo potrai mai più permettere”; oppure: “Una persona senza un appartamento non ha futuro a Shenzhen”.Sappiamo tutti che è sbagliato, ma i cinesi sono gente che ha visto solo che i prezzi dei beni salgono, e che non ha mai pensato che esistono delle città fantasma, e che ha pochi altri modi per parcheggiare i soldi che si guadagna, grazie al lavoro importato dagli Stati Uniti e dall’Europa. Pensano, senza avere mai dubbi, che i loro salari continueranno a crescere, proprio come il “valore” degli appartamenti. E’ gente che non ha mai visto i prezzi scendere. Ma se noi dobbiamo prendere soldi in prestito per permetterci di comprare i prodotti che (i cinesi) fanno per ripagare i soldi che hanno preso in prestito per comprare i loro appartamenti, allora siamo tutti in difficoltà, siamo tutti in mezzo ai guai. E allora è la stessa globalizzazione ad essere in difficoltà. I beneficiari assoluti, i proprietari della globalizzazione saranno in mezzo ai guai. Anche se lo saranno non prima di essersi pappati la maggior parte dei frutti del nostro lavoro. Che cosa ci farete, poi, con tutti i vostri miliardi, quando il tipo di società che avevate conosciuto quando siete cresciuti saranno state sradicate dal processo stesso che vi ha permesso di fare quei miliardi? Da qualche parte però, quei miliardi dovranno andare!Se quei 1000 dottoroni vogliono studiare un nuovo modello, potrebbero cominciare da qui. La globalizzazione provoca molti problemi. Il fatto che il lavoro scompaia dalle società – in modo che i cittadini di queste società possano però acquistare gli stessi prodotti per pochi centesimi di meno, se vengono in Cina – è un grande problema. Ma il problema principale della globalizzazione è quello finanziario: i soldi svaniscono continuamente dalle società, che devono indebitarsi sempre più per non regredire. La globalizzazione, come qualsiasi tipo di centralizzazione, fa questo: chiede soldi lontano, li chiede alle “periferie”. Il modello di Wal-Mart, McDonald’s, Starbucks ha già portato via lavoro, negozi e soldi incalcolabili dalle nostre società, ma non abbiamo ancora visto nulla. L’avvento di Internet farà prendere gli steroidi a quel modello; ma perché bisogna lasciare che un gruppo di capitalisti-avventurieri di Silicon Valley gestisca certi affari, come Uber o Airbnb, anche nel posto in cui viviamo noi, quando noi potemmo farlo benissimo e utilizzare i profitti di questi affari per migliorare la nostra comunità, invece di lasciarla diventare più povera?Vedo che, nel Regno Unito, Jeremy Corbyn ci aveva già pensato, e aveva fatto bene. La Gran Bretagna può diventare la prima grande vittima del lato oscuro della centralizzazione e, dopo essere uscita dall’organizzazione che l’appoggia – l’Unione Europea – l’idea di Corbyn di creare una cooperativa locale per sostituire Uber è proprio il modo di pensare di cui avrà bisogno. Ma perché devi accentrare tanti soldi e tanta capacità produttiva e poi lasciare tutto nel posto in cui si vive? Non si riuscirà mai a correre abbastanza velocemente, e non si deve farlo. Questo è il succo del dibattito sulla centralizzazione dell’Impero Romano. Anche se i Romani non spingevano mai le loro periferie a smettere di produrre i beni essenziali, però chiedevano di versare a Roma una parte. Il loro problema era che, verso la fine dell’Impero, la quota-parte che richiedevano (con la forza) divenne sempre più grande. Fino a che le periferie non si ribellarono – anche loro con forza.Il club delle banche centrali del mondo presto avrà delle nuove leadership. La Yellen potrebbe andar via, così come Kuroda in Giappone e Zhou in Cina; la Bce e Mario Draghi – della Goldman – cambieranno un po’ più tardi. Ma non c’è nessun segnale che le religioni economiche a cui aderiscono tutti saranno sostituite; così si andrà avanti con la centralizzazione. E se non dovesse funzionare, imporranno ancora più centralizzazione. Come finiranno i giochi in questo processo è dolorosamente ovvio già dall’inizio. La centralizzazione alimenta forze centrali, siano esse governative, militari o commerciali, pagate con i frutti del lavoro delle popolazioni locali, delle periferie. Questo è un processo che, sempre e inevitabilmente, andrà a sbattere contro un muro, perché sono troppi i frutti di quel lavoro che vengono tolti. Troppo è il peso di quei frutti che continuano a scorrere verso il centro, sia verso la Silicon Valley, sia verso Wall Street o sia verso Roma Antica. Non c’è nessuna differenza. Ci sono cose che si possono tranquillamente centralizzare (come le trattative di pace), ma non si possono centralizzare beni essenziali come il cibo, la casa, i trasporti, l’acqua, l’abbigliamento. Hanno un costo troppo alto a livello locale per essere centralizzati. Oppure tutti e ovunque finiremo per romperci l’osso del collo solo per sopravvivere. E’ molto facile, forse perché nessuno ci fa caso.(Raul Ilargi Meijer, “La globalizzazione è povertà”, da “The Automatic Earth” del 16 ottobre 2017, post ripreso da “Come Con Chisciotte” con traduzione di Bosque Primario).I banchieri centrali non hanno mai fatto tanti danni all’economia mondiale quanti ne hanno fatti in questi ultimi dieci anni. Possiamo anche dire che finora non hanno mai avuto tanto potere per farlo. Se i loro predecessori avessero avuto questo potere… chissà? Comunque, l’economia globale non è mai stata più interconnessa come lo è oggi, soprattutto per effetto dell’avanzamento del globalismo, del neoliberismo e forse anche della tecnologia. Ironia della sorte, tutti e tre questi fattori vengono continuamente magnificati come forze del bene. Ma gli standard di vita per molti milioni di persone in Occidente sono scesi – o sono pieni di incertezze – mentre milioni di cinesi ora hanno un livello di vita migliore. Alle persone in Occidente hanno detto di guardare a questo come ad uno sviluppo positivo; dopo tutto, permette di comprare prodotti che costano meno di quelli che produrrebbero le industrie nazionali. Ma insieme al loro posto di lavoro nella produzione, è sparito anche tutta la loro way of life, il loro modello di vita. O, piuttosto, si è nascosto dietro un velo di debiti, tanto da non poter credibilmente negare che circa tre quarti degli americani hanno difficoltà a pagare le bollette. Cosa che sicuramente non succedeva dagli anni ’50 e ’60.
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Droga Nato: viene dall’Afghanistan e ha salvato Wall Street
L’eroina è tornata a uccidere nelle nostre città: 266 morti per overdose l’anno scorso, soprattutto tra i giovanissimi. L’allarme è rimbalzato su tv e giornali, che hanno parlato di droga spacciata dai nigeriani. Non un cenno all’origine di questa nuova epidemia: l’Afghanistan sotto occupazione occidentale, fonte dell’80% dell’eroina globale, che raggiunge l’Europa non più solo attraverso la rotta balcanica, ma soprattutto attraverso l’Africa, con la Nigeria come snodo principale. La produzione afghana di oppio, iniziata negli anni ‘80 nelle zona controllate dai mujaheddin sostenuti dalla Cia e cresciuta negli anni ‘90 durante la guerra civile, era stata bandita dai Talebani nel 2000. Sotto l’occupazione alleata, con il ritorno al potere dei mujaheddin, la produzione è ripartita e nel giro di pochi anni ha superato ogni record storico: oggi in Afghanistan ci sono 200 mila ettari di piantagioni di papavero contro le 80-90 mila di epoca talebana, con una produzione annua di 5-6 mila tonnellate contro le 3 mila di fine anni ‘90. Un boom produttivo che, dice l’Onu, riguarda le regioni settentrionali del paese (+324% nel 2016) controllate dal governo, mentre nel sud sotto controllo talebano la produzione è stabile.A gestire il business afghano della droga non sono i guerriglieri islamici, bensì i signori della droga legati al governo sostenuto dall’Occidente. «Gli insorti afgani intascano mediamente non più del 2,5%-5% del valore di esportazione dell’eroina afghana», spiegavano nel 2006 Onu e Banca Mondiale e poi di nuovo l’Onu nel 2009, sottolineando che «i 25-30 più grossi narcotrafficanti afghani controllano le principali transazioni e spedizioni lavorando a stretto contatto con complici che ricoprono alte cariche governative». A volte sono essi stessi parte del governo, come nel caso del defunto Ahmend Wali Karzai, boss di Kandahar e fratello dell’allora presidente, o di Sher Mohammed Akhundzada, ex governatore della provincia di Helmand, o di Mohammed Fahim, vicepresidente della repubblica e ministro della difesa, o del generale Abdul Rashid Dostum, vicepresidente e capo di stato maggiore delle forze armate, o di Mohammed Daud Daud, viceministro dell’interno con delega all’antidroga. Boss del narcotraffico ma intoccabili per il loro ruolo politico-militare o perché informatori della Cia o alleati della Nato.Afghanistan, Stati Uniti e Nato hanno deciso di sacrificare la lotta alla droga in nome di quella al terrorismo. La stessa scelta fatta in Europa, Asia e America Latina in nome della lotta al comunismo. Per mantenere il controllo, gli americani si sono alleati con potenti criminali e signori della guerra locali, chiudendo un occhio su tutta l’industria della droga afghana risorta dopo il 2001. Una strategia che ha garantito non solo la tenuta del protettorato Usa/Nato in Afghanistan, ma anche quella delle grandi banche di Wall Street dopo la crisi del 2008 grazie all’enorme massa di narcodollari riciclati e immessi nel circuito finanziario: unica quanto vitale liquidità disponibile all’epoca, come denunciato dall’ex direttore generale del dipartimento antidroga e anticrimine dell’Onu, Antonio Maria Costa.(Enrico Piovesana, “Afghanistan, un protettorato fondato su tonnellate di oppio” dal “Fatto Quotidiano” del 9 ottobre 2017).L’eroina è tornata a uccidere nelle nostre città: 266 morti per overdose l’anno scorso, soprattutto tra i giovanissimi. L’allarme è rimbalzato su tv e giornali, che hanno parlato di droga spacciata dai nigeriani. Non un cenno all’origine di questa nuova epidemia: l’Afghanistan sotto occupazione occidentale, fonte dell’80% dell’eroina globale, che raggiunge l’Europa non più solo attraverso la rotta balcanica, ma soprattutto attraverso l’Africa, con la Nigeria come snodo principale. La produzione afghana di oppio, iniziata negli anni ‘80 nelle zona controllate dai mujaheddin sostenuti dalla Cia e cresciuta negli anni ‘90 durante la guerra civile, era stata bandita dai Talebani nel 2000. Sotto l’occupazione alleata, con il ritorno al potere dei mujaheddin, la produzione è ripartita e nel giro di pochi anni ha superato ogni record storico: oggi in Afghanistan ci sono 200 mila ettari di piantagioni di papavero contro le 80-90 mila di epoca talebana, con una produzione annua di 5-6 mila tonnellate contro le 3 mila di fine anni ‘90. Un boom produttivo che, dice l’Onu, riguarda le regioni settentrionali del paese (+324% nel 2016) controllate dal governo, mentre nel sud sotto controllo talebano la produzione è stabile.
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Cangiani: odiano la democrazia, e la chiamano socialismo
Un italiano vide prima di ogni altro, in Europa, il pericolo del neoliberismo: si chiamava Federico Caffè, e scomparve nel nulla – come un altro grande connazionale, Ettore Majorana. Il professor Caffè, insigne economista keynesiano, sparì di colpo la mattina del 15 aprile 1987. L’ultimo a vederlo fu l’edicolante sotto casa, da cui era passato a prendere i quotidiani. Tra gli allevi di Caffè si segnalano l’economista progressista Nino Galloni, il professor Bruno Amoroso (a lungo impegnato in Danimarca) e un certo Mario Draghi, laureatosi con una tesi sorprendente: titolo, “l’insostenibilità di una moneta unica per l’Europa”. Poi, come sappiamo – e non solo per Draghi – le cose sono andate in modo diverso. Chi però aveva intuito su quale pericolosa china si stesse sporgendo, la nostra società occidentale, fu proprio Federico Caffè, scrive l’economista e sociologo Michele Cangiani, docente universitario a Bologna e Venezia, nel volume “Stato sociale, politica economica, democrazia”, appena uscito per Asterios. Trent’anni fa, riconosce Cangiani, proprio Caffè «individuò le tendenze della trasformazione neoliberale», anche se allora «non poteva immaginare quanto oltre, nel tempo e in profondità, essa sarebbe andata».Solo in seguito, continua Cangiani nell’anticipazione del suo saggio, pubblicata su “Sbilanciamoci”, si è dovuto prendere atto che il “pensiero unico”, denunciato dallo scrittore spagnolo Ignacio Ramonet nel 1995, aveva tolto l’ossigeno vitale all’interesse pubblico, alle nostre comunità nazionali. La finanza, privata e pubblica («dalle manovre sui tassi d’interesse ai debiti spesso contratti per favorire affari privati o soccorrere banche in difficoltà») ha continuato a «provocare cambiamenti reali della struttura economica e sociale fino ai nostri giorni, approfittando anche della crisi, iniziata nel 2007 proprio come crisi finanziaria». Anziché un metodo efficiente di finanziamento delle imprese, Caffè considerava le “sovrastrutture finanziarie”, Borsa compresa, come causa di “inquinamento finanziario” e di costi sociali, fino a denunciare il dominio della grande finanza internazionale nell’epoca neoliberista. Caffè «sottolinea il problema dell’aumento dell’attività finanziaria, del rischio insito nelle sue distorsioni e anche semplicemente nel gonfiarsi del credito». Le rendite – che a suo parere, ricalcando Keynes, sono la prova di una «inefficienza sociale» – gli appaiono connaturate con «la struttura oligopolistica del sistema creditizio-finanziario».Spiega Cangiani: «I paesi periferici non petroliferi, indotti a indebitarsi rovinosamente, hanno subito una crisi senza precedenti, come effetto delle misure di “aggiustamento strutturale” imposte dal Fmi negli anni Ottanta e, in generale, di un’economia “usuraia”». La stessa politica, cioè «la cosiddetta austerità e le cosiddette riforme strutturali», è continuata negli anni Novanta, con gli stessi disastrosi risultati. Intanto gli Usa, con il presidente Clinton, continuavano a indicare la stessa rotta, «riducendo la spesa per il welfare e portando a termine la deregolamentazione delle attività finanziarie». Il piano per salvare il Messico dal fallimento alla fine del 1994, ricorda Cangiani, fu elaborato da Fmi e Usa «per proteggere gli investitori stranieri, in maggioranza nordamericani, ma comportò la limitazione della sovranità del Messico, con il controllo del suo bilancio e un’ipoteca sull’esportazione del suo petrolio». I paesi del Sudest asiatico e la Corea furono colpiti dalla crisi finanziaria del 1997 e dalla conseguente recessione, mentre la pressione del debito estero (insieme con la decisione di stabilire un cambio alla pari tra peso e dollaro) portarono alla rovina l’economia dell’Argentina, «predisponendo la svalutazione e il saccheggio delle sue risorse, in particolare delle attività possedute dallo Stato».Il debito e il cambio alla pari fra le rispettive monete, aggiunge Cangiani, erano stati fattori decisivi nel processo di riunificazione del 1990 delle due Germanie – ovvero di annessione dell’una da parte dell’altra – e per la ex Ddr ebbero conseguenze simili a quelle subite in seguito dall’Argentina. «Questi precedenti avrebbero dovuto suscitare almeno qualche dubbio sul progetto di unificazione europea e in particolare sulla moneta unica», osserva Cangiani. In un articolo del 1985, Federico Caffè aveva indicato alcuni punti critici, fondamentali e sottovalutati. A suo avviso, l’integrazione europea avrebbe dovuto adottare «idonee e coordinate misure di politica economica» contro la disoccupazione e la disuguaglianza. La futura Ue avrebbe dovuto controllare la domanda globale e amministrare l’offerta complessiva, disciplinare i prezzi e i consumi energetici. Inoltre, aggiungeva Caffè, se ogni paese aderente alla zona di libero scambio potesse decidere la propria tariffa nei confronti di paesi terzi, sarebbe più facile limitare il dominio di uno degli Stati membri sugli altri. Il problema, diceva, è se si realizzerà «un’intesa tra uguali o un rapporto tra potenze egemoni e potenze soggette». Ora, rileva Cangiani, «sappiamo che anche l’unione monetaria, con le norme che la regolano, ha contribuito al prevalere della seconda fra queste due ipotesi».Caffè denunciava la tendenza verso un’Europa «strumentalizzata in funzione di remora all’introduzione di riforme essenziali alle strutture differenziali dei paesi membri», contraria al permanere di «settori pubblici dell’economia», soggetta al modello neoliberista e incapace di assumere «un atteggiamento coerente rispetto alle società multinazionali», le quali, anzi, contano di rafforzare il proprio potere monopolistico, anche rispetto ai governi. La tendenza dalla quale Caffè metteva in guardia è divenuta più forte e incontrastata, scrive Cangiani. La sinergia tra le imposizioni Ue e la trasformazione neoliberista si è fatta profonda ed efficace, e la moneta è stata resa autonoma dallo Stato. Ecco «una conferma delle antiche radici dell’odierno neoliberismo», commentava Caffè, segnalando l’impronta “ottocentesca” del pensiero economico neo-feudale dell’ultraliberista austriaco Friedrich Von Hayek. Un analista come Claus Thomasberger oggi dimostra che la situazione attuale corrisponde a quella disegnata dal reazionario Hayek nel 1937, «che prevedeva un’unione monetaria e dunque una moneta immune da interferenze dei governi nazionali». Secondo quel progetto, ricorda Cangiani, «i governi avrebbero dovuto ridurre drasticamente gl’interventi a tutela dei lavoratori e dell’ambiente naturale, le politiche sociali, le barriere doganali, i controlli sui movimenti dei capitali e sui prezzi».Il libero mercato e la concorrenza fra paesi sarebbero stati sia l’effetto sia la causa di tale riduzione. Per Hajek, infatti, le istituzioni democratiche devono avere semplicemente la funzione di mettere in pratica i principi liberisti, e l’Unione Europea quella di impedire l’interferenza dei singoli Stati nell’attività economica. Le idee di Hayek e quelle dell’inglese Lionel Robbins hanno avuto infine successo. L’ideologia liberista si spiega con il vincolo del profitto, «caratteristica essenziale dell’organizzazione della società moderna e fattore che determina la sua dinamica», e la sua persistenza secolare deriva da «fattori storici, quali le difficoltà periodiche dell’accumulazione capitalistica, le diverse forme da essa assunte e i rapporti di forza tra le classi sociali». Inoltre, continua Cangiani, il neoliberismo rappresenta «un successo paradossale», perché predica «l’autoregolazione di un mercato che si suppone concorrenziale, e una più ampia e robusta libertà degli individui», i quali invece «restano esclusi, anzi rovesciati nel contrario».Ne è uno specchio l’Ue, dove è stata imposta la libera circolazione di merci, attività finanziarie e movimenti dei capitali, mentre «le politiche dei singoli Stati rimangono non solo frammentate, ma concorrenziali riguardo al livello dei salari, alle norme sul lavoro, all’occupazione, all’imposizione fiscale, alle strategie industriali e alla spesa sociale». Anzi: «Si consente che singoli paesi pratichino il dumping fiscale, normativo e salariale per attirare capitali e addirittura fungano da “paradisi fiscali”». Capita che persino la stesura di rapporti sui “beni comuni” sia affidata a grandi società private, «per la buona ragione che se ne intendono, essendo stakeholders – cioè interessate al business». In Europa oggi «viene raccomandata la privatizzazione delle aziende statali, attuata con zelo in Italia specialmente negli anni Novanta, e tuttora in corso». La privatizzazione investe anche attività vitali: acqua e altri beni comuni, le “public utilities”, la formazione, la sanità e l’assistenza sociale. Si tagliano le pensioni, crescono tasse e imposte mentre cala la loro progressività rispetto ai redditi delle famiglie. «Il principio dell’universalismo riguardo a servizi come la sanità e l’istruzione, che ovviamente presuppone la loro gestione pubblica, è stato messo in questione».E i numeri parlano da soli: nel 2014, la spesa sanitaria (pubblica) è stata, in Francia, equivalente a 4.950 dollari pro capite, mentre negli Usa (sanità privatizzata) si è speso il doppio, 9.403 dollari. «La spesa totale corrisponde rispettivamente all’11,5% e al 17,1% del Pil dei due paesi», annota Cangiani. «La quota della spesa governativa sul totale è del 78,2% in Francia e del 48,3% negli Stati Uniti. La speranza di vita alla nascita risulta di 82,4 anni in Francia e di 79,3 negli Usa», secondo dati Oms aggiornati al 2016. «Dunque, negli Usa, rispetto alla Francia, profitti e rendite di privati che operano a vario titolo nel settore sanitario assorbono una quota molto maggiore del Pil, mentre l’assistenza sanitaria non è migliore nel suo complesso e, soprattutto, esiste una grande disuguaglianza fra i cittadini ben assicurati e i circa 80 milioni di persone non assicurate o sotto-assicurate. I tre anni di speranza di vita in meno rispetto alla Francia gravano soprattutto su queste ultime, e per loro devono essere ovviamente più di tre».Quanto alla disoccupazione, che è «un problema sistemico» che riguarda «almeno 30 milioni di persone nell’Ue», tende a venir affrontata con politiche di “attivazione” e di “workfare” rivolte ai singoli individui, in concorrenza l’uno con l’altro, osserva Cangiani. «La contrattazione collettiva va scomparendo. La “flessibilizzazione” del mercato del lavoro – che vuol dire precarietà, paghe più basse, dequalificazione, aumento dell’intensità del lavoro più che della sua produttività, diminuzione dei diritti e della sicurezza dei lavoratori – viene presentata, contro ogni evidenza empirica, come la soluzione per aumentare gli occupati e uscire dalla crisi». Tutto ciò, aggiunge l’analista, corrisponde al credo neoliberale, «cioè, di fatto, alla convenienza del potere economico e soprattutto delle grandi istituzioni finanziarie in cui esso tende a concentrarsi». L’esito è sotto i nostri occhi: tendenza depressiva e aumento delle disuguaglianze, smantellamento delle riforme sociali conquistate dai lavoratori e crescita della struttura gerarchica sia del mercato sia fra gli Stati membri dell’Unione. «Le politiche neoliberali finiscono per erodere i diritti di cittadinanza, non solo quelli economici e sociali, ma anche quelli politici e civili: e con i diritti, la libertà degli individui».La sovranità popolare attraverso il Parlamento, conquistata dalle rivoluzioni borghesi, «viene seriamente compromessa, sia dai governi “tecnici” e di “grande coalizione” sia dalle burocrazie nazionali e internazionali, che rispondono ai grandi interessi economici e finanziari piuttosto che agli elettori, denuncia Cangiani. «Il Fiscal Compact concordato il 30 gennaio 2012, e in particolare l’inserimento nella Costituzione dell’obbligo del bilancio in pareggio, riducono la sovranità popolare, oltre allo spazio di manovra della politica economica, che i paesi esterni all’area dell’euro mantengono». Di fatto, questa dinamica (spacciata per tecnico-ecomomica) è invece squisitamente ideologica, politica, egemonica: di fronte alla crisi iniziata negli anni Settanta, «il neoliberismo è stato il modo in cui la classe dominante ha cercato una soluzione corrispondente ai propri interessi», scrive Cangiani. «Ha riconquistato tutto il potere, a scapito della democrazia», e poi «ha risolto, per un’élite ristretta, le difficoltà dovute alla sovra-accumulazione, le quali, però, tendono di per sé a ripresentarsi, e ad aggravarsi a causa delle politiche adottate». La nuova economia imposta all’Occidente, specie in Europa, «si basa sulla svalutazione della forza lavoro e l’intensificazione del suo sfruttamento, e su costi sociali crescenti a carico dell’ambiente naturale e umano».A questo si aggiunge la ricerca di nuovi campi d’investimento: accanto a quelli storicamente sottratti alla gestione pubblica ci sono «l’immane sviluppo dell’attività finanziaria e l’accaparramento di territori e di risorse naturali». Investimenti di questo tipo consentono a una frazione del capitale di mantenere un livello soddisfacente di accumulazione, ma contrastano la sovra-accumulazione solo in parte o provvisoriamente, «dato che producono piuttosto rendita che profitto, nella misura in cui occupano posizioni di monopolio o si limitano a prendere possesso di risorse esistenti o, come la speculazione finanziaria, si appropriano di valore che è prodotto da altre attività». Come scrive David Harvey, il principale risultato del neoliberismo è stato di «trasferire, più che creare reddito e ricchezza». In altre parole, è stata «un’accumulazione mediante espropriazione». Rimedi? L’indebitamento (pubblico e privato) serve a sostenere la domanda e un certo livello di attività, «ma questa soluzione si rivela vana o almeno provvisoria», secondo Cangiani, visto che genera «rendita finanziaria ed esigenza di “austerità”, origine a loro volta di sovrabbondanza di capitale».Nel 2015, un economista come Wolfram Elsner ha dimostrato che, inserendo nel computo il “capitale fittizio” – cioè il capitale monetario, spesso creato dal credito, in cerca di interessi e guadagni speculativi piuttosto che di impieghi produttivi – il saggio di profitto resta basso, almeno cinque volte inferiore a quel 20-25% che pretenderebbero le grandi società finanziarie. «Queste ultime, comunque, incamerano la maggior parte dell’aumento della massa del profitto ottenuto con le politiche neoliberali (privatizzazioni delle attività pubbliche e del welfare, saccheggio di risorse, crescente disuguaglianza della distribuzione del reddito e della ricchezza)». Anche per questo, secondo Cangiani, sono politiche «controproducenti rispetto al problema della sovraccumulazione, per risolvere il quale erano state predisposte». Per Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, la crescita patologica dell’attività finanziaria e dell’indebitamento pubblico e privato sono sintomi di una crisi sistemica, che rivela l’obsolescenza del capitalismo. «Quando l’investimento finanziario, cioè il fare denaro direttamente dal denaro, diviene dominante rispetto all’investimento per produrre ricchezza reale, si rivela il rovesciamento paradossale del rapporto tra fini e mezzi», dal momento che, con il capitalismo, le “attività pecuniarie” divengono il “fattore di controllo” del sistema economico.Inoltre, osservano Lohoff e Trenkle, la posta necessaria per sostenere una simile scommessa sul futuro dev’essere sempre aumentata, ma non può esserlo all’infinito: prima o poi «deve avvenire una gigantesca svalutazione del capitale fittizio». James O’Connor ritiene che la crescita del sistema economico venga sostenuta a spese del suo ambiente, nella misura in cui quest’ultimo è sfruttato in modo eccessivo e guastato senza rimedio. «Questo modo di procedere porta all’aumento dei costi per l’attività economica stessa e quindi al tentativo di trasferirli in misura crescente nell’ambiente. Si ha dunque un processo cumulativo, di cui si rischia di perdere il controllo». In effetti, continua Cangiani, questa tendenza a spese dell’ambiente si è rafforzata dopo la Seconda Guerra Mondiale a causa dello sviluppo e della diffusione dell’attività industriale. «La questione delle risorse naturali e dei “limiti dello sviluppo” si presenta, in generale, come fattore della crisi strutturale dell’accumulazione». Esiste una via d’uscita? Nel 2013, Colin Crouch ha immaginato una possibile socialdemocrazia, vista come «la forma più alta del liberalismo», mediante la quale il capitalismo verrebbe reso «adatto alla società». Ma c’è un problema politico, che si chiama élite: «La minoranza che trae vantaggio dalla situazione attuale ha il potere di indirizzare il cambiamento economico e politico nel verso opposto a quello auspicato da Crouch».Il sociologo Luciano Gallino la chiamava “lotta di classe dei ricchi contro i poveri”, e finora è risultata vincente. Per Elsner, lo smantellamento progressivo della democrazia è “necessario”, nell’ambito delle politiche neoliberiste, ai fini dell’aumento del profitto. Il capitalismo ha bisogno di nuove strutture regolative, ha spiegato nel 2014 Wolfgang Streek: bloccando e invertendo la tendenza all’assoluta mercificazione del lavoro, della terra e della moneta, le nuove strutture di controllo consentirebbero di combattere i «cinque disordini sistemici dell’attuale capitalismo avanzato», e cioè «la stagnazione, la redistribuzione oligarchica, il saccheggio dei beni e delle attività pubbliche, la corruzione e l’anarchia globale». E se la domanda iniziale di Streek è se il capitalismo sia giunto alla fine dei suoi giorni, la sua conclusione è che, comunque, si prospetta «un lungo e doloroso periodo di degrado cumulativo». Il problema, riassume Cangiani, è che riforme tipicamente keynesiane – il finanziamento in deficit di investimenti pubblici e l’aumento della domanda mediante redistribuzione del reddito – sono, attualmente, «non semplicemente invise all’ideologia dominante, ma praticamente irrealizzabili».O meglio, riforme classicamente keynesiane, sociali e proggresiste non sono realizzabili «nel quadro di un capitalismo che riesce a sopravvivere solo aumentando lo sfruttamento del lavoro, risucchiando i risparmi delle classi medie, contenendo al massimo la regolazione pubblica e il welfare state, favorendo i grandi evasori ed elusori fiscali e condannando interi paesi al fallimento». Sono ormai cadute le passate illusioni di un’economia “mista” o di una “terza via”, a metà strada tra capitalismo e socialismo, conclude Cangiani: «Le istituzioni politiche sono occupate dal potere economico, che non solo le indirizza, ma le deforma». E in più, «mancano forze politiche capaci di imporre, oltre che di concepire, riforme incisive». Che direbbe oggi del sistema finanziario il professor Federico Caffè? Di fronte a una situazione «incomparabilmente meno ingombrante, complessa, problematica e fraudolenta», Caffè osservava che «l’ingegnosità giuridica non è ancora riuscita a imbrigliare la complessità destabilizzante delle strutture finanziarie del capitalismo maturo», strutture «spesso favorite in ossequio alla salvaguardia dei diritti proprietari di tipo paleocapitalistico».Paleocapitalismo da età della pietra: neoliberismo. Nelle osservazioni di Caffè traspariva già «l’immagine di una classe dominante che oscilla tra egoismo e panico», con «paesi dominanti che tendono alla prepotenza», in mezzo a «una politica segnata da servilismo e inefficienza». E dagli economisti «una ricerca teorica conformista, orgogliosa della sua pochezza». Secondo Cangiani, servirebbe il coraggio di una ricerca indipendente, insieme a «un titanico lavoro di organizzazione politica», per capire cosa potrebbe «salvare il capitalismo da se stesso e l’umanità da una deriva entropica». Ma poi – era il cruccio di Caffè – il riformista autentico viene lasciato in solitudine, per quanto le sue proposte possano essere fattibili e convenienti anche per migliorare e allungare la vita del capitalismo. Benché sia chiaro che ci troviamo «a un punto di svolta globale», come scrivono John Bellamy Foster e Fred Magdoff, riforme efficaci risultano, almeno in pratica, inagibili. La dura realtà è che «un’organizzazione sociale più razionale» implicherebbe «una vera democrazia politica ed economica: ciò che gli attuali padroni del mondo chiamano “socialismo” e massimamente temono e denigrano».(Il libro: Michele Cangiani, “Stato sociale, politica economica e democrazia. Riflessioni sullo spazio e il ruolo dell’intervento pubblico oggi”, Asterios editore, 288 pagine, 29 euro).Un italiano vide prima di ogni altro, in Europa, il pericolo del neoliberismo: si chiamava Federico Caffè, e scomparve nel nulla – come un altro grande connazionale, Ettore Majorana. Il professor Caffè, insigne economista keynesiano, sparì di colpo la mattina del 15 aprile 1987. L’ultimo a vederlo fu l’edicolante sotto casa, da cui era passato a prendere i quotidiani. Tra gli allevi di Caffè si segnalano l’economista progressista Nino Galloni, il professor Bruno Amoroso (a lungo impegnato in Danimarca) e un certo Mario Draghi, laureatosi con una tesi sorprendente: titolo, “l’insostenibilità di una moneta unica per l’Europa”. Poi, come sappiamo – e non solo per Draghi – le cose sono andate in modo diverso. Chi però aveva intuito su quale pericolosa china si stesse sporgendo, la nostra società occidentale, fu proprio Federico Caffè, scrive l’economista e sociologo Michele Cangiani, docente universitario a Bologna e Venezia, nel volume “Stato sociale, politica economica, democrazia”, appena uscito per Asterios. Trent’anni fa, riconosce Cangiani, proprio Caffè «individuò le tendenze della trasformazione neoliberale», anche se allora «non poteva immaginare quanto oltre, nel tempo e in profondità, essa sarebbe andata».
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Magaldi: oligarchi, da Pechino all’Ue. Tutto il resto è teatro
«Arricchirsi è glorioso», proclamò l’anziano Deng Xiaoping, aprendo alla Cina l’autostrada mondiale dei tassi di crescita a due zeri che ne hanno fatto oggi la prima potenza commerciale del pianeta, al punto da spaventare gli Usa. In particolare i neocon, ancora prima del duemila, avevano avvertito che il gigante asiatico sarebbe diventato il principale avversario strategico degli Stati Uniti entro il 2017. «Perciò non stupitevi dell’escalation teatrale inscenata dalla Corea del Nord», avverte Gioele Magaldi: «Il regime di Pyongyang è solo il cane da guardia di Pechino: i suoi missili sono semplici avvertimenti che la Cina, per interposta persona, sta lanciando a Donald Trump», dopo che la Casa Bianca ha manifestato insofferenza per la “concorrenza sleale” rappresentata dal turbo-capitalismo del regime cinese, senza diritti per i lavoratori. Lo stesso Trump nel frattempo sconta «stucchevoli e pretestuosi attengiamenti di protesta, che ricordano la delegittimazione a priori riservata in Italia a Berlusconi», ma intanto i veri giochi sono ben altri: la Cina fa “abbaiare” la Corea del Nord per dissuadere gli Usa dal cambiare le regole del gioco mettendo fine alla cuccagna. Regole però progettate proprio da quell’Occidente che oggi svuota la sua stessa democrazia, distraendo l’opinione pubblica anche attraverso la demonizzazione di Putin.«Non importa che il gatto sia bianco o nero, l’importante è che prenda il topo», disse Deng, il rifondatore della Cina capital-comunista. Ai microfoni di “Colors Radio”, Magaldi sintetizza: non contano le bandiere, ma le azioni. Americani ed europei, russi e cinesi: non è questione di frontiere, ma di democrazia. Tutti d’accordo, finora, su questa globalizzazione dal volto disumano: gli oligarchi di Pechino sono perfettamente in linea con quelli occidentali che permisero alla Cina di entrare nel Wto scatenando la loro potenza industriale priva di protezioni sociali e diritti sindacali. Non a caso Trump si lamenta, denunciando il “dumping” cinese: già in campagna elettorale aveva puntato il doto contro la deindustrializzazione degli Usa, accelerata dalle delocalizzazioni delle multinazionali, attratte dal lavoro a basso costo garantito dall’Asia. «La Cina è uno dei pilastri di questa globalizzazione, e non per caso è in polemica con Trump», dice Magaldi, autore del bestseller “Massoni”, nel quale rivela la sottoscrizione del patto segreto “United freemasons for globalization” in base al quale, all’inizio degli anni Ottanta, le 36 superlogge internazionali del massimo potere mondiale progettarono esattamente questo tipo di mondializzazione, cinicamente affaristica.«Se la globalizzazione non è stata democratica – ragiona Magaldi – è dovuto anche al fatto che un grande attore delle reti commerciali globali, la Cina, si è rivelato un cattivo esempio anche per l’Occidente, dove ormai si tende a “cinesizzare” i rapporti di lavoro, instaurando una sorta di neo-schiavitù e di gioco al ribasso nell’impiego della manodopera». A questo corrisponde una crescente “cinesizzazione” delle nostre strutture di governance: «Sempre di più assistiamo al prepotere di strutture oligarchiche, sempre più simili alle strutture di potere e di governo della Cina». Il gigante asiatico resta gestito da «un regime fascio-comunista, dirigista», pur avendo una sua specificità, con «sacche di libertà crescente e di apertura modernizzante». Ma il problema, aggiunge Magaldi, non è della Cina, quanto «di chi l’ha ammessa nel Wto senza richiedere garanzie di natura democratica e liberale», diritti economici, tutele del lavoro, reale libertà del mercato interno: «Gran parte degli oligarchi di partito sono diventati grandi magnati, grandi imprenditori privati, con un piede nelle leve del potere pubblico e l’altro piede nel privato, dove si costruiscono fortune».Attenzione: «Non ne usciamo, se non ci diciamo che questa globalizzazione non è nemmeno imperniata sulla tanto sbandierata libertà del mercato, ma è viziata in Europa dal mercantilismo della Germania e altrove dalle carte truccate della Cina», distribuite sul tavolo da gioco grazie alla totale complicità del super-potere economico occidentale. Di questo passo, continua Magaldi, non si aiuta nemmeno la Cina ad evolvere, «il giorno in cui un tale colosso economico e sociale si trovasse di fronte al bivio: doversi adeguare, abbracciando democrazia e libertà interna, o rinunciare all’accesso dei mercati internazionali». Qualcosa sta per cambiare? «Credo che oggi i tempi siamo maturi perché la Cina ripensi se stessa», sostiene Magaldi. «Ma dipende da noi, dall’Occidente, da chi ha costruito culturalmente la democrazia e oggi pare essersi dimenticato di come dovrebbe funzionare – e anzi, la erode anche all’interno delle nostre stesse società». In altre parole: oligarchi al potere, all’Est come all’Ovest, dove l’Europa è finita sotto le grinfie di banchieri e tecnocrati, e anche per questo forse non rinuncia a distrarre l’opinione pubblica attaccando a testa bassa il capo del Cremlino.«Devo dire che Putin comincia a starmi simpatico», ammette Magaldi, che pure si definisce solidamente atlantista. Certo il regime di Mosca non risponde agli standard della democrazia liberale. Ma è al centro di una ignobile campagna mediatica, alimentata da una martellante propaganda faziosa: «Dov’erano, i media occidentali oggi così severi con Putin, quando la Russia era in sfacelo sotto il regno corrotto di Eltsin?». Quella post-sovietica era «una società comunque spietata, spesso gangsteristica, egemonizzata dai famosi oligarchi, stuprata da privatizzazioni selvagge». Creazione di miseria, risorse pubbliche destinate all’arricchimento personale improvviso di personaggi corrotti: in quegli anni «penetravano in Russia interessi sovranazionali che hanno fatto carne di porco, della società russa». Ma dall’Occidente, aggiunge Magaldi, «non venivano gli stessi atteggiamenti di malevolenza che invece sono costanti nei confronti di Putin». Un consiglio? La video-intervista di Oliver Stone all’uomo del Cremlino: emerge un ritratto complesso, da valutare con attenzione. Forse Putin «sta cambiando, si sta muovendo su una nuova prospettiva: potrebbe recitare un ruolo costruttivo e interessante, negli svolgimenti globali dei prossimi anni». Sbaglia, chi lo vede come alternativa all’involuzione oligarchica dell’Occidente: «O lo si odia o lo si ama, Putin, come fosse il messia di chissà quale nuovo sistema». Non è un messia, ma merita rispetto, in un mondo di missili veri e peresunti, democrazie apparenti e oligarchie reali: «La storia di Putin va riconsiderata con serenità, perché quell’uomo ha reso la Russia un paese migliore».«Arricchirsi è glorioso», proclamò l’anziano Deng Xiaoping, aprendo alla Cina l’autostrada mondiale dei tassi di crescita a due zeri che ne hanno fatto oggi la prima potenza commerciale del pianeta, al punto da spaventare gli Usa. In particolare i neocon, ancora prima del duemila, avevano avvertito che il gigante asiatico sarebbe diventato il principale avversario strategico degli Stati Uniti entro il 2017. «Perciò non stupitevi dell’escalation teatrale inscenata dalla Corea del Nord», avverte Gioele Magaldi: «Il regime di Pyongyang è solo il cane da guardia di Pechino: i suoi missili sono semplici avvertimenti che la Cina, per interposta persona, sta lanciando a Donald Trump», dopo che la Casa Bianca ha manifestato insofferenza per la “concorrenza sleale” rappresentata dal turbo-capitalismo del regime cinese, senza diritti per i lavoratori. Lo stesso Trump nel frattempo sconta «stucchevoli e pretestuosi attengiamenti di protesta, che ricordano la delegittimazione a priori riservata in Italia a Berlusconi», ma intanto i veri giochi sono ben altri: la Cina fa “abbaiare” la Corea del Nord per dissuadere gli Usa dal cambiare le regole del gioco mettendo fine alla cuccagna. Regole però progettate proprio da quell’Occidente che oggi svuota la sua stessa democrazia, distraendo l’opinione pubblica anche attraverso la demonizzazione di Putin.