Archivio del Tag ‘armi chimiche’
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Bugie per scatenare la guerra. Così fan gli Usa, da sempre
Quella dell’11 Settembre non è stata certo la prima volta in cui la nazione americana s’è vista trascinare in guerra da un incidente particolarmente ambiguo. La Costituzione americana non permette agli Stati Uniti di dare inizio a una qualunque guerra di aggressione, e riserva al solo Parlamento il potere di dichiarare guerra ad un’altra nazione, in caso diventi necessario difendersi. Per questo motivo, ogni volta che un presidente americano ha voluto prendere parte a qualche guerra, o iniziarne una nuova, ha dovuto servirsi di un incidente militare, creato o provocato per giustificare in qualche modo l’intervento armato di fronte al Parlamento e alla popolazione. Nel 1898, gli Stati Uniti fecero guerra alla Spagna per sottrarle il controllo di Cuba, indispensabile per il controllo dell’intero Golfo del Messico. Il pretesto di guerra venne dall’affondamento della nave militare “Maine” ancorata al largo di Cuba, di cui furono subito incolpati gli spagnoli, nonostante questi si dichiassero del tutto estranei al fatto.Le immagini della nave semi-affondata e quelle dei funerali dei marinai furono fatte passare nei primi cinegiornali dell’epoca, generando nel paese uno stato di indignazione sufficiente a poter scatenare una guerra, che nel frattempo il futuro presidente Roosevelt, allora ministro della marina, aveva preparato fin nel minimo dettaglio. Solo nel 1980, quasi un secolo dopo, gli americani avrebbero riconosciuto che gli spagnoli non erano responsabili dell’attacco, dicendo però – per non autoaccusarsi – che il “Main” era affondato perché alcuni esplosivi erano stati stipati troppo vicini alle caldaie. Nel frattempo, l’intera armata spagnola era stata distrutta, e così gli americani diventavano la nuova potenza marittima mondiale, con postazioni strategiche che andavano dai Caraibi sino alle Filippine. Nel 1915, fu l’affondamento del “Lusitania”, da parte di un sottomarino tedesco, a dare inizio alla crisi tra Stati Uniti e Germania, che permise ai primi di entrare nel conflitto mondiale.Pare che gli americani abbiano fatto sapere di nascosto ai tedeschi che sul “Lusitania” viaggiava un importante carico di armamenti destinato all’Inghilterra. In questo modo, sarebbero riusciti a provocare l’attacco da parte del sottomarino tedesco che affondò la nave, sulla quale viaggiava anche un centinaio di cittadini americani. Nel 1941, fu il noto attacco a Pearl Harbor a scatenare nella popolazione americana quell’ondata di indignazione che permise a Roosevelt di entrare con decisione nella Seconda Guerra Mondiale, contro Giappone, Italia e Germania. Circa 3.000 marinai furono massacrati in un attacco a sorpresa, del quale si sarebbe saputo in seguito che gli americani erano invece al corrente già da molte ore. Ma in quell’occasione fu fatto di tutto perché queste informazioni non arrivassero in tempo al comando del porto, come ha poi confermato l’ammiraglio Kimmel, che aveva assistito impotente al massacro dei suoi uomini e alla distruzione delle sue navi: «Avevamo bisogno di una cosa, che i nostri mezzi non sono stati in grado di farci avere: di vitale importanza erano le informazioni disponibili a Washington, i messaggi intercettati che dicevano dove e quando il Giappone avrebbe probabilmente attaccato. Io non ho ricevuto queste informazioni».Nel 1964, gli Stati Uniti decidevano di entrare ufficialmente in guerra con il Vietnam del Nord, dopo aver aiutato militarmente per molti anni il Vietnam del Sud, senza mai intervenire direttamente. Il pretesto di guerra venne dal cosiddetto “Incidente del Golfo del Tonchino”, in cui delle motovedette vietnamite furono accusate di aver lanciato siluri contro l’incrociatore americano “Maddox”. Fu il ministro degli esteri, Robert McNamara, a dare alla stampa la notizia della pronta reazione americana all’attacco vietnamita: «Subito dopo l’attacco, rappresentanti americani a Saigon si sono incontrati con rappresentanti del governo sud-vietnamita, e insieme hanno concordato che un’azione punitiva congiunta era necessaria». Ma lo stesso McNamara, 40 anni dopo, avrebbe confessato che l’attacco delle motovedette era stato tutta un’invenzione per creare, appunto, il necessario pretesto per entrare in guerra: «Eventi successivi hanno mostrato che la nostra impressione di esser stati attaccati quel giorno era sbagliata: non era successo». Nel frattempo, erano morti quasi 60.000 soldati americani ed oltre 3 milioni di civili vietnamiti.Nel 1990, la situazione fra gli Stati Uniti e l’Iraq di Saddam Hussein si era fattav tesa, e la squadra di neo-conservatori vicini al presidente Bush convinse quest’ultimo ad un intervento armato contro il dittatore iracheno. Gli americani fecero allora sapere a Saddam che non avevano nulla in contrario se si fosse impadronito dei campi petroliferi del Kuwait, un territorio che da sempre l’Iraq reclamava come proprio. La trappola funzionò. E Saddam invase in Kuwait. Subito dopo, Dick Cheney (che in quel periodo era ministro della difesa) fece avere all’Arabia Saudita delle foto satellitari nelle quali si vedevano 250.000 soldati di Saddam ammassati verso il confine del loro paese. Temendo un’invasione imminente, i saduti concessero agli americani il permesso straordinario di stabilire delle basi militari sul loro territorio, mettendoli così in grado di attaccare comodamente l’Iraq. Contemporaneamente, partiva una massiccia campagna mediatica contro Saddam, che veniva accusato di aver usato contro i suoi connazionali curdi delle armi chimiche, che gli stessi americani gli avevano venduto, per poi coprire con il loro silenzio il genocidio in corso, pur essendone perfettamente al corrente.La campagna mediatica contro il dittatore iracheno culminava con la toccante testimonianza di una giovane infermiera kuwaitiana, che descriveva al mondo le atrocità commesse dai soldati di Saddam negli ospedali del suo paese invaso: «Mentre ero là ho visto i soldati iracheni entrare nell’ospedale armati di mitra, hanno tolto i neonati dalle incubatrici, hanno portato via le incubatrici e hanno lasciato i bimbi a morire sul pavimento freddo». La notizia fece il giro del mondo, e da quel momento nessuno ebbe da ridire sui bombardamenti americani in Iraq. Qualche anno dopo, alcuni giornalisti vennero in possesso di foto satellitari che stano state scattate dai russi sulla stessa zona di deserto e proprio negli stessi giorni. «La cosa più importante era quello che non mostravano. Ti saresti aspettato di vedere dei carri armati lungo il confine, ma non ce n’era nemmeno uno. E non c’era niente, alle spalle della frontiera, che potesse rifornire quella quantità di carri armati e soldati».Le stesse immagini che mostravano distintamente i carri armati iracheni al centro di Kuwait City rivelavano anche che lungo la frontiera con l’Arabia Saudita non c’era assolutamente nulla: non un mezzo, non un uomo, non un carro armato. Anche l’infermiera che aveva commosso il mondo si rivelò essere la figlia dell’ambasciatore del Kuwait a Washington, che aveva recitato ad arte la scena delle incubatrici (del tutto inventata), dopo esser stata allenata professionalmente da una delle più note società di pubbliche relazioni di Washington, la “Hill & Knowlton”. Nel frattempo, gli americani ne avevano approfittato per piazzare delle basi permanenti in Arabia Saudita e per sterminare l’intero esercito iracheno. In uno spietato e vile tiro al bersaglio, in piena violazione di tutti i trattati di guerra mai esistiti, migliaia di soldati iracheni furono massacrati e letteralmente inceneriti dall’aviazione americana, mentre si trovavano del tutto scoperti e impossibilitati a fuggire, sulla via del ritorno verso Baghdad.(Ricostruzione estratta dal documentario “Il nuovo secolo americano”, di Massimo Mazzucco, editato su YouTube).Quella dell’11 Settembre non è stata certo la prima volta in cui la nazione americana s’è vista trascinare in guerra da un incidente particolarmente ambiguo. La Costituzione americana non permette agli Stati Uniti di dare inizio a una qualunque guerra di aggressione, e riserva al solo Parlamento il potere di dichiarare guerra ad un’altra nazione, in caso diventi necessario difendersi. Per questo motivo, ogni volta che un presidente americano ha voluto prendere parte a qualche guerra, o iniziarne una nuova, ha dovuto servirsi di un incidente militare, creato o provocato per giustificare in qualche modo l’intervento armato di fronte al Parlamento e alla popolazione. Nel 1898, gli Stati Uniti fecero guerra alla Spagna per sottrarle il controllo di Cuba, indispensabile per il controllo dell’intero Golfo del Messico. Il pretesto di guerra venne dall’affondamento della nave militare “Maine” ancorata al largo di Cuba, di cui furono subito incolpati gli spagnoli, nonostante questi si dichiarassero del tutto estranei al fatto.
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Ancora menzogne sulla Grande Guerra, odissea nell’orrore
Certo non si può dire che da Marcello Veneziani l’apologia della Grande Guerra non ce la si potesse aspettare. È in fondo un intellettuale della nuova destra, lo stesso che alla vigilia del 70mo anniversario del 25 aprile aveva riaffermato: «Non celebriamo il 25 aprile perché non è una festa», perché – a suo dire – sarebbe considerata una ricorrenza divisiva, che non è stata concepita «all’insegna della veritas e della pietas». Aveva, Veneziani, anche rincarato la dose, sostenendo che sarebbe «cresciuta l’enfasi per i 70 anni della Liberazione parallelamente a una minore attenzione per i 100 anni della Prima Guerra Mondiale». Se si considera però che Veneziani, giornalista e scrittore, autore di saggi storici e filosofici, è oggi anche membro del comitato scientifico che si occupa degli anniversari della storia d’Italia (istituito a Palazzo Chigi e dal 2013 presieduto da Franco Marini), le sue prese di posizione sulla storia del paese – visto il ruolo “istituzionale” che ricopre – non possono lasciare indifferenti. Così come non lascia indifferenti lo spazio che il “Corriere della Sera” del 20 maggio 2015 ha concesso ad un suo intervento-appello a fare del 24 maggio, almeno quello di quest’anno, l’occasione per una celebrazione istituzionale.Nel suo intervento Veneziani rispolvera tutto l’armamentario ideologico che a proposito della Grande Guerra è stato usato nell’ultimo secolo, riadattato ovviamente ad una sensibilità meno incline di una volta a celebrare l’ardimento e l’eroismo, la guerra e l’annientamento del “nemico”. E infatti Veneziani precisa subito che «ricordando l’entrata in guerra dell’Italia non si vuole certo celebrare l’amore per la guerra». E però, insiste, «col 24 maggio si vuole commemorare la nascita di una nazione con una mobilitazione popolare senza precedenti e un rito di sangue che fu un’ecatombe. Ricordare quel centenario significa ripensare l’Italia, riproporre il tema dell’identità nazionale nello scenario presente e proiettarsi a pensare il futuro senza cancellare o smantellare le storie e le culture nazionali. L’intervento nella Prima Guerra Mondiale portò a compimento, come allora si disse, il Risorgimento, non solo perché ricondusse all’Italia Trento e Trieste, quanto perché coinvolse per la prima volta il paese intero, da nord a sud, popolo e borghesia, e lo indusse a sentirsi nazione e comunità di destino, fino a donare alla patria la propria vita».«Quella conquista unitaria, dovuta nel secolo precedente a una minoranza, diventò con la mobilitazione totale e la leva obbligatoria, patrimonio sofferto di un popolo intero. Non mancarono episodi di valore, un’epica popolare che coinvolse le famiglie italiane, i nostri nonni». Ecco, questo è il senso comune che viene ancora una volta dispensato alle nuove come alle vecchie generazioni, condannate a non avere accesso, sui mezzi di comunicazione mainstream, a strumenti che gli consentano di riflettere in maniera critica sulle vicende che hanno caratterizzato, in maniera spesso drammatica, la storia individuale come quella collettiva. Pochi i testi che tentano di contrastare la retorica mistificatoria del “mito” della Grande Guerra, seppure edulcorato e reso più adatto al contesto di generale, quanto spesso ipocrita, esaltazione della pace, che viene sparso a piene mani; e che trova la sua sintesi forse più brillante nelle drammatiche poesie dal fronte di Ungaretti, lette dal poeta stesso in età avanzata e riproposte in questi giorni dalla Rai col sottofondo della marcetta della “Canzone del Piave”.Tra i testi di fresca pubblicazione che possono costituire uno strumento utile per demistificare in maniera documentata e puntuale tale retorica, ce n’è uno particolarmente interessante. Si tratta del libro scritto di recente da Valerio Gigante, Luca Kocci e Sergio Tanzarella, insegnati e redattori dell’agenzia di stampa Adista i primi due, storico del cristianesimo ed ex deputato nelle file degli indipendenti di sinistra il secondo. “La grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sulla Prima Guerra Mondiale” (Dissensi editore) non è certo l’unico volume attualmente in circolazione ad avere un taglio “critico” di assoluto rigore rispetto agli eventi considerati. Esso ha però il pregio di essere specificamente destinato ad un pubblico di non specialisti, cui gli autori propongono una serie di brevi ma documentati saggi (completi di riferimenti storico-critici, bibliografici, documenti e foto) che cercano di indagare aspetti che della Prima Guerra Mondiale sono certamente noti a cultori, specialisti e studiosi di storia contemporanea ma non al grande pubblico. Fatti che sono però di fondamentale rilievo se si vuole restituire alla Grande Guerra il suo volto più tragico e vero.Gli autori spiegano le ragioni dell’incredibile percorso che in pochi mesi porta forze politiche, grandi giornali ed intellettuali a schierarsi dal neutralismo più convinto all’interventismo più acceso. Il ruolo giocato dalle forze industriali e dai poteri finanziari nel periodo che va dalla fine del 1914 al maggio del 1915. Raccontano l’uso di armi terribili durante i combattimenti, quali l’iprite, uno dei gas impiegati nella guerra chimica, o le mazze ferrate utilizzate dai fanti per finire i nemici agonizzanti, in genere proprio in seguito a un attacco con quel gas. Viene inoltre descritta la capillare organizzazione della prostituzione che lo Stato Maggiore dell’esercito offriva ai fanti ed agli ufficiali – in maniera ovviamente diversa, dal momento che tutta la guerra, come ben emerge da questo lavoro, viene combattuta secondo una rigida concezione classista della vita militare. Una sorta di “sfogo risarcitorio” nei confronti della disumanizzante esperienza del fronte, con il conseguente, brutale sfruttamento delle donne e dei loro corpi, sistematicamente ed istituzionalmente perpetrato.Gli autori svelano poi i casi di patologie mentali diffusi nelle trincee, l’uso sistematico della repressione per impedire che si diffondesse tra i soldati il rifiuto o il dissenso nei confronti della prosecuzione della guerra: il francescano padre Agostino Gemelli, medico e psicologo, collaborò con lo Stato Maggiore nell’individuare le strategie più efficaci per mantenere il consenso e la disciplina tra i soldati. E proprio dal punto di vista del ruolo della Chiesa cattolica nel grande massacro, il libro analizza come – al di là della posizione (sostanzialmente isolata e comunque neutralizzata da parte della gerarchia ecclesiastica) di Benedetto XV – sia stato fondamentale il ruolo dei cappellani militari. Quest’ultimi distribuivano nelle trincee materiale devozionale (di cui nel libro vengono pubblicati alcuni esempi) teso ad esaltare l’eroismo di coloro che si erano immolati per la patria, rappresentavano Gesù nell’atto di accogliere in paradiso i caduti o di incitare i soldati ad andare all’assalto; benedicevano i gagliardetti militari e le truppe lanciate contro il nemico, intonando Te Deum di ringraziamento per le stragi compiute.Eppure, anche dentro questo desolante quadro e nel contesto di una martellante ideologia mistificatoria, si faceva largo una coscienza delle reali ragioni della guerra: ecco allora i capitoli dedicati alle lettere (censurate) dei soldati al fronte; gli appelli di donne ed uomini al re affinché fermasse la strage; le canzoni che raccontavano la realtà di classe della guerra, il cinema che già prima della pace di Versailles aveva cominciato a raccontare cosa quella guerra fosse realmente. Come fa questo libro che, scrivono gli autori nella loro introduzione, intende creare “una solida coscienza critica del perché fu orrore quella guerra, come e più di altre guerre. E suscitare ugualmente orrore nei confronti della ‘grande menzogna’ attraverso la quale ancora oggi molti vorrebbero continuare a ricordarla, nonostante devastazioni, lutti, torture, prigionie, ruberie, deportazioni”.(Giovanni Avena, “Oltre la retorica, l’orrore della Grande Guerra”, da “Micromega” del 22 maggio 2015. Il libro: Valerio Gigante, Luca Kocci, Sergio Tanzarella, “La grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sulla Prima Guerra Mondiale”, Dissensi editore, 170 pagiene, euro 13,90).Certo non si può dire che da Marcello Veneziani l’apologia della Grande Guerra non ce la si potesse aspettare. È in fondo un intellettuale della nuova destra, lo stesso che alla vigilia del 70mo anniversario del 25 aprile aveva riaffermato: «Non celebriamo il 25 aprile perché non è una festa», perché – a suo dire – sarebbe considerata una ricorrenza divisiva, che non è stata concepita «all’insegna della veritas e della pietas». Aveva, Veneziani, anche rincarato la dose, sostenendo che sarebbe «cresciuta l’enfasi per i 70 anni della Liberazione parallelamente a una minore attenzione per i 100 anni della Prima Guerra Mondiale». Se si considera però che Veneziani, giornalista e scrittore, autore di saggi storici e filosofici, è oggi anche membro del comitato scientifico che si occupa degli anniversari della storia d’Italia (istituito a Palazzo Chigi e dal 2013 presieduto da Franco Marini), le sue prese di posizione sulla storia del paese – visto il ruolo “istituzionale” che ricopre – non possono lasciare indifferenti. Così come non lascia indifferenti lo spazio che il “Corriere della Sera” del 20 maggio 2015 ha concesso ad un suo intervento-appello a fare del 24 maggio, almeno quello di quest’anno, l’occasione per una celebrazione istituzionale.
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Odiano Putin perché intercettò i missili Nato contro la Siria
Gli americani hanno dichiarato guerra a Putin, ma quello che non vi dicono è decisivo. La crisi in Ucraina è stata scatenata dopo che la flotta russa schierata nel Mediterraneo a difesa di Damasco ha neutralizzato un attacco missilistico segreto, scatenato nel 2013 contro la Siria. Mai accaduta una cosa simile, dal 1945: le armi russe avrebbero “parato” i missili statunensi, facendoli inabissare in mare aperto prima che potessero raggiungere la costa siriana. Lo afferma l’Ossin, osservatorio internazionale indipendente che annovera tra i suoi collaboratori grandi esperti, giornalisti e giuristi anche italiani, attenti osservatori del Maghreb e del Medio Oriente. L’associazione avvalora oggi le prime notizie, mai confemate all’epoca ma diffuse subito da fonti libanesi, che nel 2013 parlarono addirittura di abbattimenti di aerei Nato in prossimità della Siria a opera della contraerea di Mosca. Non di caccia si trattò, ma di missili Tomahawk, scrive Ossin: i missili furono intercettati dal sistema russo anti-missilistico dispiegato al largo delle coste siriane, “assediate” da un vasto contingente aeronavale angloamericano e forse anche francese.Questa, sostiene il centro studi, è la ragione segreta – e forse determinante – che ha spinto Obama e i falchi del Pentagono a premere l’acceleratore sull’Ucraina, facendo esplodere la crisi per rappresaglia contro Putin, il capo del Cremlino che ha osato opporsi con le armi all’attacco illegale scatenato dalla Nato contro la Siria per poi minacciare direttamente l’Iran. Sullo sfondo, un torbido retroterra di depistaggi: dalle accuse false al regime di Assad di aver usato gas tossici contro la popolazione di Damasco, fino all’abbattimento del volo Mh-17 in Ucraina attribuito ai filo-russi, nonostante le evidenze fornite dimostrino che l’aereo di linea fu colpito da un missile aria-aria, scagliato da un jet militare di Kiev tracciato dai radar russi. La “guerra” contro Mosca è ovviamente originata da motivi geopolitici: Washington non sopporta che l’Europa dipenda dalla Russia per l’energia, proprio mentre Putin allaccia relazioni strategiche con la Cina e insieme a Pechino guida i Brics, il gruppo di paesi emergenti (India, Brasile, Sudafrica) impegnati a promuovere un sistema economico mondiale che non dipenda più dal dollaro, cioè dai ricatti politici del Fmi e della Banca Mondiale.«L’elemento scatenante della improvvisa ostilità contro la Russia e Putin», scrive Ossin sul suo sito, si può però individuare «in quasi tutti gli avvenimenti, non resi pubblici, che si sono susseguiti tra la fine di agosto e l’inizio di settembre 2013». Ovvero: «Un attacco a sorpresa della Nato contro la Siria è stato stoppato dalla Russia». Secondo Ossin, «è stata probabilmente la prima volta, dopo la Seconda Guerra Mondiale, che un attacco militare organizzato dall’Occidente si è trovato contro una forza sufficiente a imporre il suo annullamento». Attenzione: «Non lo si è detto alla gente in Occidente». Troppo imbarazzante per Obama e i leader europei. Meglio allora lasciare la presa sulla Siria e optare per il nuovo piano, e cioè «demolire l’Ucraina e impadronirsi della Crimea». Ma anche l’acquisizione della strategica Crimea è fallita, come si sa: la popolazione, attraverso un referendum, ha scelto di tornare alla madrepatria russa, da sempre presente nella penisola con la grande base navale di Sebastopoli che ospita la flotta del Mar Nero, quella che fu impiegata in Siria nel 2013 per sventare l’attacco della Nato.Ossin riferisce che il 31 agosto 2013 un ufficiale statunitense telefonò alla segreteria del presidente francese Hollande per preannunciargli una telefonata di Obama che avrebbe dato il via all’attacco. Così, Hollande dispose che i caccia Rafale fossero armati con missili da crociera Scalp, da lanciare contro la Siria da 400 chilometri di distanza. Poi, invece, Obama chiamò Hollande a fine giornata per annunciargli che l’attacco previsto per l’indomani, 1° settembre, alle 3 di notte, non ci sarebbe stato. Tre giorni dopo, scrive Ossin, alle 6,16 del 3 settembre, «venivano lanciati due missili contro le coste siriane “dalla zona centrale del Mediterraneo”», ma i due missili «si sono inabissati in mare». Secondo Israel Shamir, che cita fonti diplomatiche attraverso la stampa libanese, quei missili sarebbero stati lanciati da una base aerea della Nato in Spagna, e sarebbero stati abbattuti «da un sistema russo di difesa mare-aria, posto a bordo di navi russe». “Asia Times” sostiene che i russi abbiano fatto ricorso ai loro disturbatori di frequenza Gps «per rendere impotenti i costosissimi Tomahawk, disorientandoli e rendendoli inefficaci». Un’altra versione, infine, attribuisce il lancio ai “soliti” israeliani.«Vi è stato l’invio da parte della Russia di una forza navale operativa, messa insieme frettolosamente, ma competente, verso la costa siriana», scrive un accanito oppositore di Obama come il blogger geopolitico “The Saker”. Quella russa «non era una forza tale da poter battere la marina Usa», ma era comunque «in grado di fornire all’esercito siriano una visione completa del cielo, al di sopra e oltre la Siria». In altri termini, aggiunge “The Saker”, «per la prima volta, gli Stati Uniti non hanno potuto realizzare un attacco a sorpresa», né con i missili da crociera, né con la loro potenza aerea. «Peggio: la Russia, l’Iran e Hezbollah si sono impegnati in un programma nascosto ma dichiarato di assistenza materiale e tecnica della Siria, che è riuscito alla fine a battere l’insurrezione wahhabita», lo jihadismo finanziato dagli Usa che poi, come sappiamo, è stato “dirottato” in Iraq sotto la sigla “Isis”. «Ci è difficile conoscere tutte le manovre sotterranee che si sono susseguite tra agosto e settembre 2013», ammette Ossin, «ma il risultato finale è chiaro: dopo anni di tensioni crescenti e di minacce, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno deciso di non attaccare la Siria, così come avevano deciso». A stopparli, è stata la fermezza di Putin.«Ora, dopo il ripiegamento – continua Ossin – possiamo constatare che questo attacco diretto fallito contro la Siria ha dato luogo a un crescente attacco indiretto e alla crescita di quello che viene attualmente conosciuto come Stato Islamico». L’osservatorio sostiene che non ci sono solo cattive notizie, ricordando che il 29 agosto 2013 il Parlamento di Londra tenne conto dell’opinione pubblica, contraria all’attacco, e negò al governo Cameron l’autorizzazione ad aggredire la Siria. Fondamentale, inoltre, la clamorosa iniziativa pubblica di Papa Francesco, con veglia di preghiera contro l’attacco Nato (per inciso, la diplomazia vaticana è in contatto con tutti i paesi del mondo, compresi quelli non rappresentati all’Onu). L’altra ragione della rinuncia all’attacco, aggiunge Ossin, è l’ampiezza della concentrazione di truppe della Siria, della Russia, e anche della Cina: «Russi e cinesi non si sono accontentati di bloccare gli Stati Uniti in ambito di Consiglio di Sicurezza, hanno “votato” anche con la loro forza militare». In quei giorni infatti si parlò di navi da guerra di Pechino dirette verso il Canale di Suez per rinforzare la flotta russa. «Quand’è che i cinesi hanno inviato l’ultima volta loro navi da guerra nel Mediterraneo?».Per Shamir, si è trattato di un punto di svolta epocale: «L’egemonia statunitense è cosa del passato, il bruto è stato messo sotto controllo: abbiamo doppiato il Capo di Buona Speranza, simbolicamente parlando, nel settembre 2013. Con la crisi siriana il mondo si è trovato di fronte ad una biforcazione essenziale della storia moderna. Era un lascia o raddoppia, rischioso quasi come la crisi dei missili cubani del 1962». Secondo l’analista, «ci vorrà un po’ di tempo perché ci si renda pienamente conto di quanto abbiamo vissuto: è normale, per avvenimenti di tale portata». Russia e Cina «hanno semplicemente costretto gli Stati Uniti a ritirarsi e ad annullare i loro piani di guerra». Inoltre, «la gente comune – negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in molti altri paesi – era del tutto contraria all’attacco, quanto lo stesso popolo siriano». Un altro analista internazionale di peso, come Pepe Escobar, è ancora più drastico: «La Cina si è tolta i guanti diplomatici. E’ giunto il momento di costruire “un mondo disamericanizzato”», dotato cioè di «una moneta di riserva internazionale che sostituisca il dollaro».Per Escobar, «invece di adempiere ai propri obblighi come una potenza che esercita una leadership responsabile», una Washington «egocentrica» ha di fatto «abusato della posizione di superpotenza e ha perfino accresciuto il caos mondiale trasferendo i propri rischi finanziari all’estero, provocando tensioni regionali nei conflitti territoriali e impegnandosi in guerre senza senso, giustificate da menzogne». La Cina non starà più a guardare: vuole fermare «le avventure militari degli Stati uniti», poi allargare l’adesione alla Banca Mondiale e al Fmi ai paesi emergenti, e infine preparare una nuova moneta di riserva internazionale, «che sostituisca la dominazione del dollaro». E’ per questa ragione, conclude Ossin, che i leader dell’Occidente non celebrano la guerra che non vi è stata: in Siria, russi e cinesi «hanno costretto l’Occidente a rispettare il diritto internazionale e ad evitare una guerra illegale». Inoltre, i cinesi vedono in questo l’inizio di una nuova era della politica mondiale: Usa, Europa e Giappone «dovranno rassegnarsi al fatto che non potranno più prendere da soli tutte le importanti decisioni del mondo». L’instabilità planetaria dunque si accentuerà, ma almeno ora sappiamo perché la diffidenza verso Putin si è trasformata in scontro senza quartiere: tutta “colpa” di quei missili inabissati in mare, emblema di una superpotenza non più onnipotente.Gli americani hanno dichiarato guerra a Putin, ma quello che non vi dicono è decisivo. La crisi in Ucraina è stata scatenata dopo che la flotta russa schierata nel Mediterraneo a difesa di Damasco ha neutralizzato un attacco missilistico segreto, scatenato nel 2013 contro la Siria. Mai accaduta una cosa simile, dal 1945: le armi russe avrebbero “parato” i missili statunensi, facendoli inabissare in mare aperto prima che potessero raggiungere la costa siriana. Lo afferma l’Ossin, osservatorio internazionale indipendente che annovera tra i suoi collaboratori grandi esperti, giornalisti e giuristi anche italiani, attenti osservatori del Maghreb e del Medio Oriente. L’associazione avvalora oggi le prime notizie, mai confemate all’epoca ma diffuse subito da fonti libanesi, che nel 2013 parlarono addirittura di abbattimenti di aerei Nato in prossimità della Siria a opera della contraerea di Mosca. Non di caccia si trattò, ma di missili Tomahawk, scrive Ossin: i missili furono intercettati dal sistema russo anti-missilistico dispiegato al largo delle coste siriane, “assediate” da un vasto contingente aeronavale angloamericano e forse anche francese.
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Pilger: Obama, il fascista bugiardo che uccide sorridendo
Ciò che accomuna il fascismo passato a quello presente sono gli omicidi di massa. L’invasione americana del Vietnam aveva le sue “zone di fuoco libero”, “conteggio dei caduti” e “danni collaterali”. Nella provincia di Quang Ngai, da dove corrispondevo, molte migliaia di civili (“musi gialli”) sono stati assassinati dagli Stati Uniti; eppure si ricorda solo un massacro, quello di My Lai. In Laos e Cambogia, il più grande bombardamento aereo della storia ha prodotto un’epoca di terrore contrassegnato ancora oggi dallo spettacolo di crateri di bombe congiunti che, dal cielo, assomigliano a mostruose collane. Il bombardamento diede alla Cambogia il proprio Isis, guidato da Pol Pot. Oggi, la più grande campagna del terrore al mondo ha come conseguenza l’esecuzione di intere famiglie, di ospiti a matrimoni, di persone in lutto ai funerali. Sono queste le vittime di Obama. Secondo il “New York Times”, ogni martedì, nella Situation Room della Casa Bianca, Obama consulta un “elenco di persone da uccidere” procuratogli dalla Cia. Decide allora, senza uno straccio di giustificazione legale, chi vivrà e chi morirà.La sua arma di esecuzione sono i missili Hellfire portati da un velivolo senza pilota, un drone; questi arrostiscono le loro vittime e deturpano la zona con i loro resti. Ogni “colpo” viene registrato sullo schermo di un lontano computer. «I marciatori al passo dell’oca», scrisse lo storico Norman Pollock, «sostituiscono la militarizzazione apparentemente più innocua della cultura totale. E come loro tronfio capoccia, abbiamo un riformatore mancato, allegramente al lavoro, a pianificare ed eseguire assassinii, sorridendo continuamente». Ciò che accomuna i fascismi vecchio e nuovo è il culto della superiorità. «Credo nell’eccezionalità americana con ogni fibra del mio essere», disse Obama, evocando dichiarazioni da fanatismo nazionale degli anni ‘30. Come lo storico Alfred W. McCoy ha fatto notare, è stato Carl Schmitt, devoto di Hitler, a dire: «Il sovrano è colui che decide l’eccezione». Questo riassume l’americanismo, l’ideologia dominante del mondo. Che non sia riconosciuta come un’ideologia predatrice è merito di un ugualmente riconosciuto lavaggio di cervello. Infida, non dichiarata, presentata spiritosamente come illuminazione in cammino, la sua arroganza permea la cultura occidentale.Sono cresciuto con una dieta cinematografica di gloria americana, quasi tutta fatta di distorsione della realtà. Non avevo idea che fosse stata l’Armata Rossa a distruggere la maggior parte della macchina da guerra nazista, ad un costo di ben 13 milioni di soldati. Per contro, le perdite degli Stati Uniti, quelle nel Pacifico incluse, sono state di 400.000 vittime. Hollywood ha falsificato anche questo. La differenza ora è che gli spettatori sono invitati a contorcersi sui sedili guardando la “tragedia” di psicopatici americani che devono uccidere persone in luoghi lontani – proprio come fa il loro stesso presidente. L’attore e regista Clint Eastwood, incarnazione della violenza di Hollywood, è stato nominato per un Oscar quest’anno per il suo film “American Sniper”, che parla di un assassino pazzoide con licenza di uccidere. Il “New York Times” ha descritto il film come «patriottico e pro-famiglia, che ha battuto tutti i record di presenze già nei primi giorni di apertura».Non ci sono film eroici che descrivono l’abbraccio americano del fascismo. Durante la Seconda Guerra Mondiale, l’America (e la Gran Bretagna) sono scese in guerra contro i greci che avevano combattuto eroicamente contro il nazismo e resistevano all’ascesa del fascismo greco. Nel 1967, la Cia ha contribuito a portare al potere una giunta militare fascista ad Atene – come ha fatto in Brasile e nella maggior parte dell’America Latina. Ai tedeschi ed europei dell’Est collusi con l’aggressore nazista e coinvolti in crimini contro l’umanità è stato dato un rifugio sicuro negli Stati Uniti; molti sono stati elogiati e premiati per il loro talento. Wernher von Braun è stato il “padre” sia della terribile bomba nazista V-2 che del programma spaziale degli Stati Uniti. Nel 1990, come ex repubbliche sovietiche, l’Europa orientale e i Balcani divennero avamposti militari della Nato, e gli eredi di un movimento nazista in Ucraina hanno avuto la loro opportunità. Nonostante fosse responsabile della morte di migliaia di ebrei, polacchi e russi durante l’invasione nazista dell’Unione Sovietica, il fascismo ucraino è stato riabilitato e la sua “new wave”, salutata dai suddetti tutori dell’ordine come “nazionalista”.Il suo apice è stato raggiunto nel 2014, quando l’amministrazione Obama stanziò 5 miliardi di dollari per un colpo di Stato contro il governo eletto. Le truppe d’assalto erano neonaziste, note come “Settore Destro” e “Svoboda”. Tra i loro capi c’è Oleh Tyahnybok, che ha chiesto l’epurazione della «mafia ebrea di Mosca» e di «altra feccia», tra cui gay, femministe e quelli della sinistra politica. Adesso questi fascisti sono integrati nel governo golpista di Kiev. Il primo vice-presidente del parlamento ucraino, Andriy Parubiy, leader del partito di governo, è co-fondatore di “Svoboda”. Il 14 febbraio scorso, Parubiy ha annunciato che sarebbe volato a Washington per ottenere «dagli Stati Uniti armi molto più moderne e precise». Se ci riesce, questo sarà considerato come un atto di guerra dalla Russia. Nessun leader occidentale ha parlato della rinascita del fascismo nel cuore stesso dell’Europa, ad eccezione di Vladimir Putin, il cui popolo ha sacrificato 22 milioni di persone all’invasione nazista avvenuta attraverso il confine dell’Ucraina.Alla recente conferenza sulla sicurezza di Monaco, l’assistente segretario di Stato di Obama per gli affari europei ed eurasiatici, Victoria Nuland, ha urlato abusi ai leader europei che si opponevano all’armamento degli Stati Uniti del regime di Kiev. Ha chiamato il ministro della difesa tedesco «ministro per il disfattismo». Era stata la Nuland a progettare il colpo di Stato a Kiev. È la moglie di Robert D. Kaplan, un’autorità tra i “neo-con” di estrema destra del “Centro per una Nuova Sicurezza Americana”, ed è stata consigliere per la politica estera del fascista Dick Cheney. I piani della Nuland non sono andati a buon fine. Alla Nato è stato impedito di appropriarsi della storica e legittima base navale russa nelle calde acque della Crimea – dove la popolazione, in gran parte russa ma illegalmente accorpata all’Ucraina da Nikita Krusciov nel 1954 – ha votato in massa per tornare alla Russia, come già aveva fatto nel 1990. Il referendum è stato volontario, popolare e controllato a livello internazionale. Non c’era stata alcuna invasione.Nello stesso momento il regime di Kiev si è avventato ad est sulla popolazione di etnia russa con una ferocia da pulizia etnica. Usando milizie neo-naziste alla maniera delle Waffen-SS, hanno bombardato e messo a ferro e fuoco le città. Hanno usato la fame di massa come arma, tagliato l’elettricità, congelato conti bancari, bloccato l’erogazione di assegni sociali e delle pensioni. Più di un milione di profughi sono fuggiti oltre confine, in Russia. Per i media occidentali, erano persone in fuga “dalla violenza” causata dalla “invasione russa”. Il comandante Nato, generale Breedlove – il cui nome e le cui azioni potrebbero essere stati ispirati al “Dottor Stranamore” di Stanley Kubrick – dichiarò che 40.000 soldati russi si stavano «ammassando» ai confini ucraini. Nell’era di prove forensi satellitari, non ne fornì alcuna.È da lungo tempo che le persone di lingua russa e bilingue dell’Ucraina – un terzo della popolazione – stanno cercando di costruirsi una federazione che rifletta le diversità etniche del paese e che sia autonoma e indipendente da Mosca. La maggior parte non è composta da “separatisti”, ma da cittadini che vogliono vivere in sicurezza nella loro patria e che si oppongono alla presa di potere a Kiev. La loro rivolta e la creazione di “Stati” autonomi è la reazione agli attacchi effettuati da Kiev su di loro. Poco di tutto ciò è stato spiegato al pubblico occidentale. Il 2 maggio 2014, a Odessa, 41 persone di etnia russa sono state bruciate vive nel quartier generale del loro sindacato, nonostante la presenza della polizia. Il leader di “Settore Destro”, Dmytro Yarosh, salutò il massacro come «un altro giorno luminoso nella storia del nostro paese». Nei media americani e britannici, l’atrocità venne riportata come una «tragedia poco chiara», derivante da «scontri» tra «nazionalisti» (neonazisti) e «separatisti» (persone che raccoglievano firme per un referendum per un’Ucraina federale).Il “New York Times” seppellì la notizia, ricacciando come propaganda russa gli avvertimenti sulle politiche fasciste e antisemite dei nuovi clienti di Washington. Il “Wall Street Journal” condannò le vittime stesse titolando: “Incendio mortale in Ucraina probabilmente causato dai ribelli, dice il governo”. Obama si congratulò con la giunta per il loro «contegno». Se Putin si lascerà provocare e andrà in loro aiuto, il suo ruolo di “paria” (preconfezionato in Occidente) giustificherà la menzogna che la Russia sta invadendo l’Ucraina. Il 29 gennaio, il comandante supremo ucraino, generale Viktor Muzhenko, quasi involontariamente fece crollare la base su cui le sanzioni degli Stati Uniti e dell’Ue alla Russia sono posate, quando in una conferenza stampa dichiarò con enfasi che «l’esercito ucraino non sta combattendo contro le truppe regolari dell’esercito russo». Si trattava di «singoli cittadini», membri di «gruppi armati illegali», ma non c’era un’invasione russa. Questo però non fece notizia. Il ministro degli esteri di Kiev, Vadym Prystaiko, ha chiesto una «guerra totale» contro la Russia, potenza nucleare.Il senatore statunitense James Inhofe, repubblicano dell’Oklahoma, il 21 febbraio ha proposto un disegno di legge che autorizza l’invio di armi americane al regime di Kiev. Nella sua presentazione al Senato, Inhofe ha usato fotografie a suo dire di truppe russe che entravano in Ucraina, anche se da tempo si sapeva che erano false. Il fatto ricorda le immagini false di un impianto sovietico in Nicaragua presentate da Ronald Reagan, e delle prove false prodotte da Colin Powell alle Nazioni Unite delle armi di distruzione di massa in Iraq. L’intensità della campagna diffamatoria contro la Russia e la rappresentazione del suo presidente come un cattivo da farsa è qualcosa che io non ho mai visto prima come giornalista. Robert Parry, uno dei giornalisti investigativi più rinomati d’America, che svelò lo scandalo Iran-Contras, ha scritto di recente: «Nessun governo europeo, da quello tedesco di Adolf Hitler, ha finora pensato bene di inviare truppe d’assalto naziste a fare la guerra ad una popolazione nazionale, ma il regime di Kiev lo ha fatto, e lo ha fatto consapevolmente. Eppure tra i media e nello spettro politico dell’Occidente, c’è stato uno studiato sforzo di coprire questa realtà fino al punto da ignorare fatti che sono stati ben definiti».«Se vi domandate come il mondo potrebbe incappare nella Terza Guerra Mondiale – come ha fatto nella Prima Guerra Mondiale un secolo fa – tutto quello che dovete fare è guardare alla follia Ucraina che si è dimostrata insensibile a fatti o ragione». Nel 1946, il pubblico ministero del Tribunale di Norimberga disse dei media tedeschi: «L’uso della guerra psicologica fatto dai cospiratori nazisti è ben noto. Prima di ogni aggressione di grande portata, con alcune poche eccezioni basate su ragioni opportunistiche, hanno avviato una campagna di stampa mirata a indebolire le loro vittime e a preparare psicologicamente il popolo tedesco all’attacco. Nel sistema di propaganda di Stato di Hitler erano i quotidiani e le emittenti radio ad essere le armi più importanti». Sul “Guardian” del 2 febbraio scorso, Timothy Garton-Ash ha in effetti auspicato una guerra mondiale. “Putin deve essere fermato”, diceva il titolo. “E a volte solo le armi possono fermare le armi”. Ha ammesso che la minaccia di una guerra potrebbe «alimentare nei russi una paranoia da accerchiamento»; ma che questo andrebbe bene. Dopo aver controllato le attrezzature militari necessarie per il lavoro, ha rassicurato i suoi lettori che «l’America è equipaggiata meglio».Nel 2003, Garton-Ash, professore di Oxford, ribadì la propaganda che portò al massacro in Iraq. «Saddam Hussein», scrisse, «come Colin Powell ha documentato, ha accumulato grandi quantità di spaventose armi chimiche e biologiche, e ora nasconde quel che ne resta. Sta ancora cercando di procurarsi quelle nucleari». Elogiò Blair come «un proselito di Gladstone, un cristiano liberale interventista». E nel 2006, scrisse: «Ora ci troviamo di fronte alla prossima grande prova dell’Occidente dopo l’Iraq: l’Iran». Tali sfoghi – o come preferisce dire Garton-Ash, le sue «tormentate incertezze liberali» – non sono diversi da quelli delle élite liberali transatlantiche che hanno raggiunto un accordo faustiano. Il criminale di guerra Blair è il loro capo perduto. Il “Guardian”, in cui è apparso l’articolo di Garton-Ash, ha pubblicato un’inserzione a pagina intera di un bombardiere stealth americano. Sulla minacciosa immagine del mostro della Lockheed Martin era scritto: “L’F-35, ottimo per la Gran Bretagna”.Questo “gingillo” americano costerà ai contribuenti britannici 1.3 miliardi di sterline, visto che i suoi precursori modelli “F” hanno fatto stragi in tutto il mondo. In sintonia con il suo inserzionista, un editoriale del “Guardian” chiedeva un aumento delle spese militari. Ancora una volta, dietro tutto questo c’è un motivo serio. Non solo i padroni del mondo vogliono l’Ucraina come base missilistica, ma vogliono anche la sua economia. Il nuovo ministro delle finanze di Kiev, Natalie Jaresko, è un ex alto funzionario del Dipartimento di Stato Usa incaricato degli “investimenti” degli Stati Uniti all’estero. Le è stata conferita frettolosamente la cittadinanza ucraina. Vogliono l’Ucraina per le sue riserve di gas. Il figlio del vice presidente Usa Joe Biden è nel consiglio di amministrazione della più grande compagnia petrolifera del gas e fracking dell’Ucraina. I produttori di sementi geneticamente modificate, aziende come la famigerata Monsanto, vogliono il ricco suolo agricolo dell’Ucraina. Soprattutto, vogliono il potente vicino di casa dell’Ucraina, la Russia.Vogliono balcanizzare o smembrare la Russia per poter sfruttare la più grande fonte di gas naturale sulla terra. Visto che il ghiaccio artico si sta sciogliendo, essi vogliono il controllo dell’Oceano Artico e delle sue ricchezze energetiche, e le estese terre di confine artico della Russia. Il loro uomo a Mosca era stato Boris Eltsin, un ubriacone che ha consegnato l’economia del suo paese alll’Occidente. Il suo successore, Putin, ha ristabilito la Russia come nazione sovrana; questo è il suo crimine. La responsabilità di tutti noi è chiara. È quella di scoprire e denunciare le incoscienti menzogne dei guerrafondai e di non colludere con loro. È di risvegliare i grandi movimenti popolari che hanno portato una fragile civiltà a moderni stati imperiali. Ma soprattutto è di prevenire la conquista di noi stessi: delle nostre menti, della nostra umanità, della nostra autostima. Se rimaniamo in silenzio, la vittoria su di noi è certa, e un olocausto ci aspetta.(John Pilger, estratto da “Perché l’avanzata del fascismo è nuovamente il problema”, post scritto il 26 febbraio sul proprio blog e ripreso il 3 marzo 2015 da “Come Don Chisciotte”).Ciò che accomuna il fascismo passato a quello presente sono gli omicidi di massa. L’invasione americana del Vietnam aveva le sue “zone di fuoco libero”, “conteggio dei caduti” e “danni collaterali”. Nella provincia di Quang Ngai, da dove corrispondevo, molte migliaia di civili (“musi gialli”) sono stati assassinati dagli Stati Uniti; eppure si ricorda solo un massacro, quello di My Lai. In Laos e Cambogia, il più grande bombardamento aereo della storia ha prodotto un’epoca di terrore contrassegnato ancora oggi dallo spettacolo di crateri di bombe congiunti che, dal cielo, assomigliano a mostruose collane. Il bombardamento diede alla Cambogia il proprio Isis, guidato da Pol Pot. Oggi, la più grande campagna del terrore al mondo ha come conseguenza l’esecuzione di intere famiglie, di ospiti a matrimoni, di persone in lutto ai funerali. Sono queste le vittime di Obama. Secondo il “New York Times”, ogni martedì, nella Situation Room della Casa Bianca, Obama consulta un “elenco di persone da uccidere” procuratogli dalla Cia. Decide allora, senza uno straccio di giustificazione legale, chi vivrà e chi morirà.
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Wall Street Journal: le armi della Cia ai tagliagole dell’Isis
Già nel 2012 osservatori indipendenti come Thierry Meyssan l’avevano annunciato: centinaia di jihadisti provenienti dalla Libia erano stati segretamente trasferiti in Siria, attraverso la Turchia, per dare il via all’operazione degli Usa contro il governo Assad, travestita da “rivoluzione democratica”. Ora la partita è persa, ammesso che la Russia – assediata al confine con l’Ucraina – riesca a mantenere la sua assistenza alla Siria. Punto di svolta, la strage di civili del 2013 sterminati dai “ribelli” col gas nervino per tentare di incolpare il governo di Damasco. Il casus belli perfetto per inennescare i bombardamenti della Nato, fermati in extremis nel settembre del 2013 da un’inedita alleanza: i milziani libanesi di Hezbollah e le truppe speciali inviate dall’Iran in Siria, il “no” di Papa Francesco e quello del Parlamento britannico, le navi da guerra dislocate dalla Cina nel Mediterraneo in appoggio alla flotta del Mar Nero schierata da Putin a protezione dei siriani. Adesso che l’operazione è fallita, lo ammette anche il “Wall Street Journal”: sono stati gli Usa ad armare i “ribelli” che, vista la mala parata in Siria, ora combattono in Iraq sotto il nome di Isis.
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La sensazionale notizia della presenza dell’Isis in Libia
Tragico errore o cinica scommessa? E se l’attacco a Gheddafi scatenato da Francia e Gran Bretagna nel 2011 fosse coinciso con il vero atto di fondazione della mostruosa creatura occidentale chiamata Isis? La Libia viene ora presentata come se fosse invasa da un’armata di Gengis Khan arrivata all’improvviso da non si sa dove, attraverso quali frontiere. In realtà, tra gli “shabab” insorti contro Gheddafi prevalse da subito la leadership fondamentalista, appoggiata dalle bombe della Nato. Crollato il regime, e aperto l’immediato e sanguinoso regolamento di conti tra clan, centinaia di guerriglieri libici furono segretamente dirottati in Siria, attraverso la Turchia, per creare il nerbo all’Esercito Siriano Libero, quello che un anno più tardi – con le armi chimiche usate contro i civili nel tentativo di incolpare Assad – portò il mondo a un passo dalla Terza Guerra Mondiale, spingendo anche il Papa (insieme al Parlamento di Londra) a schierarsi vigorosamente contro l’attacco Nato. Svanita la possibilità di “jihadizzare” Damasco, ecco la nascita dell’Isis, guidato tra le macerie dell’Iraq dall’oscuro al-Baghdadi reduce dalla Siria, dov’era assistito e finanziato dagli Usa tramite missioni come quelle coordinate sul campo dal senatore John McCain. Qualcuno dunque riesce ancora a stupirsi della “comparsa” dell’Isis in Libia?Visto il tragico copione degli eventi, Vincenzo Brandi su “Megachip” ricorda che quattro anni fa fu attaccato il paese più prospero dell’Africa, uno Stato che «stava in pace da 42 anni» ed «era riuscito a contenere i contrasti tra le varie tribù». Il Pil di Tripoli era il più alto di tutto il continente: la Libia di Gheddafi «ospitava 2 milioni di lavoratori immigrati, aveva ricontrattato le licenze petrolifere con le compagnie straniere ottenendo il 90% dei proventi per lo Stato libico redistribuendo i profitti tra la popolazione», e inoltre «riconosceva pienamente i diritti delle donne, aveva fornito il paese di acqua potabile riuscendo anche a raggiungere l’autosufficienza alimentare», dopo aver «allontanato tutte le basi militari straniere, acquisendo una piena indipendenza». La campagna militare anglo-francese del 2011, cui si associò l’Italia in extremis per tutelare i terminali petroliferi dell’Eni, fu preceduta dalla consueta disinformazione mirata a creare consenso bellico, con l’invariabile demonizzazione del dittatore, grande amico dell’Italia fino al giorno prima, accusato persino di aver fatto scavare inesistenti fosse comuni, evidentemente per occultare i corpi di altrettanto immaginarie stragi di civili.Sulla Libia, nel 2011 gli Usa si lasciarono ritrarre in posizione più defilata. «La pensavamo come l’Italia: non bisogna intervenire», dice ora a “La7” un super-falco come il politologo Edward Luttwak, che però sui tagliagole mediatici del “Califfato” oggi dice: «Non chiamiamoli Isis, ma Islam: quello è il pericolo da fermare». E’ esattamente la stessa conclusione a cui puntano i macellai parigini di “Charlie Hebdo” e lo stragista solitario danese: il risultato delle loro azioni è la criminalizzazione indiscriminata di tutti i musulmani, verso lo “scontro di civiltà” tanto caro ai signori della guerra, al comando della politica estera Usa a partire dall’11 Settembre. Secondo Gioele Magaldi, autore del libro-denuncia “Massoni”, l’ex presidente francese Sarkozy, che per primo attaccò la Libia bomdardando Bengasi, sarebbe affiliato alla superloggia “Hathor Pentalpha” creata dai Bush, loggia a cui apparterrebbe anche Tony Blair, l’inventore delle “armi di distruzione di massa” di Saddam. Lo stesso filo rosso-sangue collegherebbe Jeb Bush, possibile candidato alle presidenziali 2016, con lo stesso al-Baghdadi, il leader jihadista in apparenza comparso dal nulla – come Bin Laden – per terrorizzare l’opinione pubblica occidentale.Nell’immenso caos nel quale è stato precipitato il mondo dopo il crollo dell’Urss, si susseguono ipotesi di spregiudicati complotti – alcuni chiaramente leggibili subito, altri confermati spesso dai fatti a posteriori, da prove e ammissioni – mentre avanza all’orizzonte l’inevitabile collisione geopolitica con la Cina, sempre più prossima a una Russia sfidata in Siria e ora assediata alla frontiera con l’Ucraina. Oltre alla coltre di nebbia stesa dai media e dai tanti “debunker”, gli incursori anti-complottistici (la Gran Bretagna ha recentemente reclutato centinaia di “troll” da scatenare su Facebook per smentire le accuse più insidiose), restano perfettamente percepibili le trame in corso, soggette poi al vaglio dell’imponderabile, e in particolare le manovre dell’Occidente per incunearsi nella grande faglia che separa i due rami dell’Islam: da Bin Laden in poi, finora l’intelligence atlantica ha puntato sui sunniti, arma letale contro l’Iran sciita e i suoi alleati regionali, come le milizie libanesi di Hezbollah che hanno arginato l’espansione di Israele. Nonostante quasi 15 anni di guerre ininterrotte, rovine, vittime e profughi, paesi devastati, “fallimenti” dietro cui si celano lucrosissimi business di armamenti e ricostruzioni, i signori della guerra restano al riparo: nessuno si domanda perché tutto questo accada, e il mainstream può persino permettersi di inscenare la “sorpresa libica” dell’Isis, col suo spettacolo dell’orrore.Tragico errore o cinica scommessa? E se l’attacco a Gheddafi scatenato da Francia e Gran Bretagna nel 2011 fosse coinciso con il vero atto di fondazione della mostruosa creatura occidentale chiamata Isis? La Libia viene ora presentata come se fosse invasa da un’armata di Gengis Khan arrivata all’improvviso da non si sa dove, attraverso quali frontiere. In realtà, tra gli “shabab” insorti contro Gheddafi prevalse da subito la leadership fondamentalista, appoggiata dalle bombe della Nato. Crollato il regime, e aperto l’immediato e sanguinoso regolamento di conti tra clan, centinaia di guerriglieri libici furono segretamente dirottati in Siria, attraverso la Turchia, per creare il nerbo all’Esercito Siriano Libero, quello che un anno più tardi – con le armi chimiche usate contro i civili nel tentativo di incolpare Assad – portò il mondo a un passo dalla Terza Guerra Mondiale, spingendo anche il Papa (insieme al Parlamento di Londra) a schierarsi vigorosamente contro l’attacco Nato. Svanita la possibilità di “jihadizzare” Damasco, ecco la nascita dell’Isis, guidato tra le macerie dell’Iraq dall’oscuro al-Baghdadi reduce dalla Siria, dov’era assistito e finanziato dagli Usa tramite missioni come quelle coordinate sul campo dal senatore John McCain. Qualcuno dunque riesce ancora a stupirsi della “comparsa” dell’Isis in Libia?
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Delocalizzazioni e bugie: e gli americani han perso il lavoro
In America il saccheggio non si basa sull’indebitamento perché il dollaro è la valuta di riserva e gli Stati Uniti possono stampare tutto il denaro necessario per pagare i conti e riscattare il debito: in America il depredamento è stato fatto attraverso l’offshoring, cioè la delocalizzazione del lavoro. Grandi aziende americane hanno scoperto − e se non l’avessero fatto sarebbero state invitate da Wall Street a trasferire fuori i conti o a essere rilevate − che avrebbero potuto aumentare i profitti spostando all’estero le loro attività di produzione. Il minor costo del lavoro ha determinato maggiori profitti, valori delle azioni più elevati, enormi bonus manageriali basati su “prestazioni”, guadagni in conto capitale per gli azionisti. Negli Stati Uniti l’offshoring ha notevolmente aumentato la disparità nel reddito e nella ricchezza: il capitale è riuscito a depredare il lavoro. Laddove fossero in grado di trovare lavori sostitutivi, i ben pagati operai manifatturieri che hanno perso il posto lavorerebbero part-time a salario minimo da Walmart e Home Depot.Economisti − ammesso che siano degni di essere chiamati così − come Michael Porter e Matthew Slaughter hanno promesso agli americani che l’immaginaria “new economy” avrebbe prodotto posti di lavoro migliori, con stipendi più alti e più puliti dei lavori dalle “unghie sporche” che fortunatamente le nostre aziende stavano delocalizzando. Come ho definitivamente dimostrato, dopo anni non vi è alcuna traccia di questi posti di lavoro “new economy”. Ciò che abbiamo è invece un forte calo del tasso di partecipazione della forza lavoro, come i disoccupati che non riescono a ricollocarsi. Gli impieghi sostitutivi dei posti in fabbrica sono principalmente lavori part-time per servizi domestici, e la gente deve mantenere due o tre di questi lavori per sbarcare il lunario. Ora che questo fatto − che i polemici ci credano o no − si è dimostrato del tutto vero, gli stessi prezzolati portavoce di chi ha rubato il lavoro e di chi ha distrutto i sindacati sostengono, senza uno straccio di prova, che i posti di lavoro delocalizzati stanno tornando a casa.Secondo questi propagandisti, ora abbiamo quello che viene chiamato “reshoring”, rimpatrio della produzione. Un propagandista del rimpatrio della produzione dichiara che la crescita di “reshoring” nel corso degli ultimi quattro anni è del 1.775%, un aumento pari a 18 volte. Non vi è alcuna traccia di questi presunti posti di lavoro rimpatriati nelle statistiche mensili Bls (“Bank Lending Survey”, indagine sul credito bancario) sugli impieghi regolarmente retribuiti. Il “reshoring” è solo propaganda per compensare la constatazione tardiva che gli accordi di “libero scambio” e delocalizzazione del lavoro non erano vantaggiosi per l’economia americana né per la sua forza lavoro, ma lo erano solo per i super-ricchi. Come è capitato alle persone nel corso della storia, gli americani sono diventati servi e schiavi perché gli sciocchi credono alle bugie che gli si dà in pasto. Si siedono davanti a “Fox News”, “Cnn” e roba del genere, leggono il “New York Times”. Se volete imparare come gli americani sono serviti male dai cosiddetti mezzi d’informazione, leggete “Storia del popolo americano dal 1492 ad oggi” (1980, 2003) dello storico Howard Zinn e guardate la serie di documentari “The Untold History of the United States” (2012) di Oliver Stone e Peter Kuznick.I media aiutano il governo, e gli interessi privati che traggono profitto controllando il governo controllano il lavaggio pubblico del cervello. Dobbiamo invadere l’Afghanistan perché una fazione che lotta per il controllo politico del paese protegge Osama bin Laden, che gli Stati Uniti accusano senza alcuna prova di infastidire i potenti Stati Uniti con l’attacco dell’11 Settembre. Dobbiamo invadere l’Iraq perché Saddam ha “armi di distruzione di massa”, che ha sicuramente nonostante le relazioni contrarie da parte degli ispettori dell’Onu. Dobbiamo rovesciare Gheddafi a causa di una lista di menzogne che è meglio dimenticare. Dobbiamo rovesciare Assad perché ha usato armi chimiche, anche se tutte le prove dicono il contrario. È la Russia la responsabile dei problemi in Ucraina: non perché gli Stati Uniti hanno rovesciato il governo democraticamente eletto ma perché la Russia ha accettato il 97,6% dei voti del referendum per il ricongiungimento della Crimea alla Russia, della quale era stata provincia per centinaia d’anni prima che un leader sovietico ucraino Krusciov unisse la Crimea all’Ucraina, allora parte dell’Urss insieme alla Russia.Guerra, guerra, guerra: questo è tutto ciò che Washington vuole. Arricchisce il connubio esercito/sicurezza, la voce più importante del Pil americano e il maggior contribuente, insieme con Wall Street e la lobby israeliana, delle campagne politiche Usa. Chiunque o qualsiasi organizzazione che opponga la verità alle menzogne è demonizzato. La settimana scorsa il nuovo capo della “Broadcasting Board of Governors” (Bbg, l’agenzia governativa indipendente responsabile per tutti i mezzi di comunicazione non militari), Andrew Lack, ha indicato il servizio Internet-Tv russo “Russia Today” come l’equivalente di Boko Haram e dei gruppi terroristici dell’Isis. Quest’accusa assurda è un preludio alla chiusura di “Rt” negli Stati Uniti proprio mentre il governo britannico, fantoccio di Washington, ha chiuso la rete televisiva iraniana “Press Tv”. In altre parole, gli anglo-americani non consentono notizie diverse da quelle che sono state loro servite dai “loro” governi. Questo è lo stato della “libertà” oggi in Occidente.(Paul Craig Roberts, estratto da “Libertà dove sei? Non in America né in Europa”, pubblicato da “Global Research” e ripreso da “Megachip” il 30 gennaio 2015).In America il saccheggio non si basa sull’indebitamento perché il dollaro è la valuta di riserva e gli Stati Uniti possono stampare tutto il denaro necessario per pagare i conti e riscattare il debito: in America il depredamento è stato fatto attraverso l’offshoring, cioè la delocalizzazione del lavoro. Grandi aziende americane hanno scoperto − e se non l’avessero fatto sarebbero state invitate da Wall Street a trasferire fuori i conti o a essere rilevate − che avrebbero potuto aumentare i profitti spostando all’estero le loro attività di produzione. Il minor costo del lavoro ha determinato maggiori profitti, valori delle azioni più elevati, enormi bonus manageriali basati su “prestazioni”, guadagni in conto capitale per gli azionisti. Negli Stati Uniti l’offshoring ha notevolmente aumentato la disparità nel reddito e nella ricchezza: il capitale è riuscito a depredare il lavoro. Laddove fossero in grado di trovare lavori sostitutivi, i ben pagati operai manifatturieri che hanno perso il posto lavorerebbero part-time a salario minimo da Walmart e Home Depot.
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Stati Uniti e impuniti: eroina afghana, business record
Pochi giorni fa è arrivata la notizia di un ennesimo record della produzione di oppio in Afghanistan. Non è una sorpresa, dato che dal 2002 ogni anno ha segnato un ulteriore incremento della produzione di papavero da oppio in quel paese, casualmente dopo la sua occupazione da parte della Nato. In base ai dati ufficiali, si tratterebbe di un incremento sia in quanto a raccolto che a terreno coltivato. Una notizia un po’ più inattesa è giunta l’anno scorso, quando sono stati pubblicati i dati sulla produzione di cannabis in Afghanistan. Manco a dirlo, anche nella produzione di cannabis si è registrato il solito record. Il dato sulla cannabis è coerente con l’attuale business dell’eroina afghana, che è economica ed abbondante, e quindi destinata non all’ago – come negli anni ‘80 – ma al fumo, per poter conquistare sempre nuovi consumatori. Anche se non esiste alcuna prova scientifica che l’uso di cannabis in se stesso predisponga al consumo di droghe più pesanti, è però frequente che nello spaccio si offrano contemporaneamente vari tipi di “fumo” per favorire la confusione dei consumatori.Oggi un vero scoop sarebbe consistito nel registrare un decremento della produzione di droga in Afghanistan, ma si tratta di un’eventualità che al momento non avrebbe alcuna base realistica. Gli organi di stampa che hanno riportato la notizia hanno insistito sul dettaglio che il governo statunitense avrebbe speso 7,6 miliardi di dollari per contrastare la produzione ed il traffico di oppio, ma senza risultato. La cosa fa sorridere, dato che, da almeno cinque anni, neppure il diretto coinvolgimento della Nato nel business dell’oppio rappresenterebbe più uno scoop. Lo scorso anno qualche barlume di notizia a riguardo è trapelato anche sulla stampa ufficiale, ma riferendosi solo ai casi di soldati della Nato coinvolti nel traffico; casi, peraltro, tutti rigorosamente insabbiati, sia in Italia, che in Canada, che nel Regno Unito. La stampa ha fatto finta di credere che il coinvolgimento riguardasse soltanto dei militari di bassa forza o, al più, dei sottufficiali, oltre che i già ampiamente screditati “contractors”.Il massimo della critica che ci si è concesso è stato quello di fustigare il cinismo o l’ingenuità della Nato, la quale, pur di sconfiggere i cattivissimi Talebani, avrebbe “chiuso gli occhi” sui loschi traffici di personaggi legati al governo filo-occidentale di Karzai. Si tratta della solita fiaba ufficiale sugli “scomodi alleati” degli Usa. Se dalla carta stampata si passa alla “informazione” televisiva, le cose vanno addirittura peggio, poiché lì è obbligatorio far finta di credere che siano i malvagi Talebani ad autofinanziarsi con l’oppio, perciò persino accennare alla “giovane narcodemocrazia” afghana rappresenta ancora un tabù. Eppure si tratta di notizie ufficiali che si riscontrano sui siti delle organizzazioni internazionali. La Banca Mondiale ha recentemente dedicato un rapporto alla situazione in Afghanistan, osservando che il 90% della produzione mondiale di eroina proviene oggi da quel paese. La Banca Mondiale si lancia in solenni ammonimenti al governo afghano circa i rischi di “deragliamento” che la drug-economy potrebbe provocare ad un paese così faticosamente avviato verso la democrazia e lo sviluppo.Lo stesso carosello di ipocrisie lo si riscontra da parte dell’organizzazione gemella della Banca Mondiale, cioè il Fondo Monetario Internazionale. Più di dieci anni fa, addirittura nel 2003, il Fmi già ammoniva il governo afghano circa i rischi di trasformarsi in un narco-stato. La colpevolizzazione anche allora era tutta per il paese colonizzato, mentre non si accennava alle responsabilità dell’occupante Usa-Nato, il quale, se “sbaglia”, lo farebbe solo per troppa bontà. Del resto il Fmi e la Nato sono praticamente la stessa cosa. Quindi si può riscontrare una pseudo-informazione a doppio livello: uno per le masse, le quali devono credere che i Talebani, oltre che fanatici, siano anche narcotrafficanti, e un altro livello per i “cittadini più informati”, ai quali è concesso di sapere che il governo Karzai è coinvolto nel traffico, e per questo ogni tanto è costretto a beccarsi una reprimenda dagli organismi internazionali. Paradossalmente, il maggior grado di infantilizzazione tocca proprio ai “cittadini più informati”, ai quali spetta di credere che il “troppo buono” papà statunitense spenda 7,6 miliardi per redimere dalla droga il figlioletto discolo, ma che questi continua a deluderlo.La realtà è invece che come narcostato e narcodemocrazia, l’Afghanistan di Karzai ha ancora parecchio da imparare dai Narcostati Uniti d’America. Ma legioni di giornalisti e di intellettuali si incaricano di narrare alle masse la storia inversa, secondo la quale i guai del mondo deriverebbero dal parassitismo e dall’indisciplina dei poveri, ritratti come sempre pronti ad estorcere favori da governi troppo generosi e premurosi. L’impunità che gli Usa e la Nato possono ostentare nella vicenda della droga afghana, è davvero totale; nel senso che, grazie all’armatura propagandistica del “troppobuonismo”, riescono a sfuggire persino a sanzioni puramente morali. L’impunità viene addirittura percepita da gran parte dell’opinione pubblica come garanzia di moralità, perciò non vi è nulla di strano nel fatto che agli Usa si riconosca tranquillamente un ruolo internazionale di giudice e di censore nei confronti di altri Stati; cosa che consente agli Usa ogni genere di provocazione e di doppio gioco. Infatti, mentre l’amministrazione Obama dichiara di essere in guerra contro l’Isis, in realtà sta ancora cercando di colpire e isolare la Siria di Assad con insistenti accuse per il presunto uso di armi chimiche.(“I Narcostati Uniti d’America”, da “Comidad” del 30 ottobre 2014).Pochi giorni fa è arrivata la notizia di un ennesimo record della produzione di oppio in Afghanistan. Non è una sorpresa, dato che dal 2002 ogni anno ha segnato un ulteriore incremento della produzione di papavero da oppio in quel paese, casualmente dopo la sua occupazione da parte della Nato. In base ai dati ufficiali, si tratterebbe di un incremento sia in quanto a raccolto che a terreno coltivato. Una notizia un po’ più inattesa è giunta l’anno scorso, quando sono stati pubblicati i dati sulla produzione di cannabis in Afghanistan. Manco a dirlo, anche nella produzione di cannabis si è registrato il solito record. Il dato sulla cannabis è coerente con l’attuale business dell’eroina afghana, che è economica ed abbondante, e quindi destinata non all’ago – come negli anni ‘80 – ma al fumo, per poter conquistare sempre nuovi consumatori. Anche se non esiste alcuna prova scientifica che l’uso di cannabis in se stesso predisponga al consumo di droghe più pesanti, è però frequente che nello spaccio si offrano contemporaneamente vari tipi di “fumo” per favorire la confusione dei consumatori.
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Gaglianone, film: val Susa, la strana guerra contro tutti noi
Non possiamo non dirci NoTav? E’ la domanda che aleggia attorno all’indagine cinematografica che Daniele Gaglianone conduce in valle di Susa, tra la popolazione che da oltre vent’anni si oppone al progetto di una grande opera come la Torino-Lione, considerata devastante, costosissima e completamente inutile. In due ore, il regista de “I nostri anni”, “Ruggine” e “Rata Nece Biti” interroga l’umanità della “valle che resiste” – ieri al progetto Tav in quanto tale, oggi anche e soprattutto al sistema di potere, percepito come oligarchico e repressivo, post-democratico, che vorrebbe imporre ad ogni costo i maxi-cantieri, ai quali ormai persino l’Ue e la Francia sembrano aver voltato le spalle. Nel documentario “Qui” (Torino Film Festival 2014), emergono le voci di un popolo, fatto di italiani che si sentono abbandonati e traditi dalle istituzioni politiche, dopo anni di vani appelli al dialogo, sempre respinti. In controluce, una tacita rivelazione: siamo ormai in tempo di guerra, e i primi a scoprirlo sono stati proprio loro, i NoTav della valle di Susa.Travolti dal loro problema – il conflitto fisiologico tra grande opera e benessere del territorio – si sono comportati da cittadini democratici, appellandosi ai diritti previsti dalla Costituzione. Tutto inutile: sono convinti che il potere non abbia lasciato loro altra scelta che vedersela coi reparti della polizia antisommossa. La vertenza NoTav ha origini ormai lontane anni luce dall’attualità odierna, risale infatti a prima del Duemila. Nel documentario di Gaglianone, il primo grande scontro – quello del 2005 – è rievocato dal sindaco di Venaus, Nilo Durbiano, che fece suonare le campane a distesa per far accorrere la popolazione a sostegno degli inermi manifestanti, manganellati a freddo in piena notte. La rottura istituzionale è già perfettamente leggibile: Durbiano racconta di come, in quanto primo cittadino, fu convocato alle tre di notte alla Prefettura di Torino. Un colloquio gelido, evidentemente per sondare il sindaco alla vigilia del pestaggio destinato a sgomberare i NoTav dall’area di Venaus, dove allora doveva sorgere il cantiere della galleria preliminare esplorativa, oggi trasferito a Chiomonte.Assenza di dialogo: come se fosse già in corso una sorta di guerra, non dichiarata, contro la popolazione. L’unico precedente, all’epoca, era stato il trauma del G8 di Genova, la Diaz e Bolzaneto, che stroncò il movimento no-global, di cui le multinazionali globaliste avevano paura. Subito dopo, l’infarto mondiale dell’11 Settembre e la “guerra infinita” da esso originata: Afghanistan, Iraq, Gaza, Libia, Siria, Ucraina. E poi ancora Iraq, seguendo le eroiche imprese dell’Isis guidato dal “califfo” Al-Baghdadi. Un avventuriero che, secondo varie fonti – ultimo, il massone Gioele Magaldi col suo libro sulle super-logge del potere occulto – fu liberato proprio perché mettesse in piedi l’armata jihadista. Quanto è lontana la valle di Susa dalle “armi chimiche” siriane e dalla manipolazione dello spread per imporre Monti a Palazzo Chigi? Molto meno di quanto si pensi, stando ai resoconti disarmati degli interlocutori di Gaglianone, praticamente smarriti di fronte alla dissoluzione di ogni solido punto di riferimento: la solitudine siderale del cittadino trova parziale conforto solo nella democrazia spontanea che la stessa cittadinanza alimenta, sotto forma di movimento civile.Servono risposte, e non arrivano mai. Così, dopo un po’ ci si arrende all’evidenza. Magari pregando, come fanno gli attivisti cattolici, il gruppo di Gabriella Tittonel che accompagna la troupe lungo i reticolati di Chiomonte, filo spinato di fabbricazione israeliana. O cercando di dialogare coi reparti antisommossa, come fa l’infermiera Cinzia Dalle Pezze, esasperata dall’abuso di lacrimogeni e gas tossici. Il documentario propone la voce di antagonisti come Aurelio Loprevite di “Radio Blackout”, in diretta telefonica con Luca Abbà quando l’attivista precipitò dal traliccio sul quale si era arrampicato per protesta, e militanti dal passato sorprendente come Alessandro Lupi, carabiniere in congedo e convinto NoTav, gravemente ferito al volto da un lacrimogeno. La telecamera raccoglie parole e silenzi di persone finite in carcere, pensionati decisi ad ammanettarsi alle recinzioni militarizzate, famiglie disposte a tutto per difendere la loro casa, minacciata dalla nuova arteria ferroviaria.Sullo sfondo, i fantasmi di ogni realizzazione faraonica – devastazione ambientale, crisi idrogeologica, dissesto urbanistico, impatto insostenibile dei cantieri, rischi concreti per la salute e l’incolumità della popolazione – e in più, in questo caso, la sordità autistica ed esasperante dell’élite di potere di fronte alle più argomentate osservazioni tecniche, sciorinate dai migliori esperti dell’università italiana: la linea Tav Torino-Lione non è solo l’ennesimo attentato alle dissanguate finanze pubbliche del paese, non è solo l’ennesimo invito a nozze per l’imprenditorialità mafiosa, ma è anche e soprattutto uno spreco totalmente folle, visto che l’attuale linea ferroviaria internazionale che già attraversa la valle di Susa è praticamente deserta. Nonostante il recente e costoso ammodernamento del traforo del Fréjus, non esiste più traffico merci tra Italia e Francia: secondo l’osservatorio europeo per i trasporti alpini, affidato alla Svizzera, l’attuale linea valsusina italo-francese potrebbe tranquillamente incrementare del 900% il volume dei transiti. Perché allora incancrenire lo scontro sociale rincorrendo il miraggio di un super-treno miliardario da imporre a mano armata?Perché non siamo più in tempo di pace, e da parecchi anni, sembrano suggerire i valsusini ascoltati da Gaglianone, i primi a constatare sulla loro pelle l’avvento del cambio d’epoca: loro erano già sulle barricate molto prima di Occupy Wall Street, prima degli “attentati” all’articolo 18, prima della guerra di Marchionne contro la Fiom. Erano in campo, i cittadini italiani della valle di Susa, ben prima della riforma Fornero, o delle recenti “rivelazioni” di Geithner sul “golpe dello spread”. La Merkel, Draghi, la “dittatura bancaria” dell’euro, la privatizzazione globale. E poi il Ttip, le torture inflitte alla Grecia, la teologia disonesta dell’austerity, la fine del welfare europeo. Ormai il capolinea lo vedono tutti: l’abisso precario della disoccupazione, la sparizione del futuro. Loro, i valsusini, l’hanno avvistato in anticipo. Se c’è una parola che può riassumerli tutti, probabilmente questa parola è “democrazia”. Se ne avverte la dolorosa assenza, la nostalgia. «Se qualcuno mi parla ancora di Tav», scrisse Giorgio Bocca all’indomani dell’insurrezione popolare della valle del 2005, «tiro fuori il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo seppellito nel ‘45».Vedeva lungo, il giornalista-partigiano. E oggi, la causa NoTav vanta autorevolissimi sostenitori, nel mondo culturale italiano: ormai le istanze democratiche della popolazione hanno trovato piena cittadinanza, nell’Italia tramortita dalla cosiddetta crisi. Malgrado il costante depistaggio dalla disinformazione “mainstream”, ognuno percepisce la minaccia concreta di un declino che pare inesorabile. Finalmente, con Gaglianone, protagonisti e testimoni della remota trincea valsusina ora affiorano in superficie, mostrando le loro voci e i loro volti, in una quotidianità che si sforza di restare ordinaria, benché terremotata dagli eventi. E’ un’umanità che si esprime con gesti semplici e rivela una natura mite, costretta a misurarsi con la violenza dell’imposizione, nel vuoto cosmico della politica. Anni fa, espressioni come “destra” e “sinistra” avevano ancora maschere rappresentative. Puro teatro, ormai, come sperimentato nella valle alpina che unisce Torino alla Francia. Dove però la grande calamità collettiva ha cementato una comunità plurale, di italiani che resistono e sperano. E che, nel film di Gaglianone, parlano una lingua immediatamente riconoscibile e universale.(Il film: “Qui”, di Daniele Gaglianone, Italia 2014, 120′, prodotto da Gianluca Arcopinto e Domenico Procacci – produzione “Axelotil Film”, “Fandango”, in collaborazione con Babydoc Film – distribuito da “Pablo”).Non possiamo non dirci NoTav? E’ la domanda che aleggia attorno all’indagine cinematografica che Daniele Gaglianone conduce in valle di Susa, tra la popolazione che da oltre vent’anni si oppone al progetto di una grande opera come la Torino-Lione, considerata devastante, costosissima e completamente inutile. In due ore, il regista de “I nostri anni”, “Ruggine” e “Rata Nece Biti” interroga l’umanità della “valle che resiste” – ieri al progetto Tav in quanto tale, oggi anche e soprattutto al sistema di potere, percepito come oligarchico e repressivo, post-democratico, che vorrebbe imporre ad ogni costo i maxi-cantieri, ai quali ormai persino l’Ue e la Francia sembrano aver voltato le spalle. Nel documentario “Qui” (Torino Film Festival 2014), emergono le voci di un popolo, fatto di italiani che si sentono abbandonati e traditi dalle istituzioni politiche, dopo anni di vani appelli al dialogo, sempre respinti. In controluce, una tacita rivelazione: siamo ormai in tempo di guerra, e i primi a scoprirlo sono stati proprio loro, i NoTav della valle di Susa.
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Putin: americani fermatevi, il mondo non vuole più guerre
La rettitudine e la durezza nel formulare delle valutazioni servono oggi non per punzecchiarci reciprocamente, ma per cercare di comprendere che cosa veramente sta accadendo nel mondo, perché diventa sempre meno sicuro e meno prevedibile, perché ovunque aumentano i rischi. Nuove regole del gioco oppure gioco senza regole? Formulato così, il concetto descrive puntualmente quel bivio storico in cui ci troviamo, la scelta che dovrà essere compiuta da tutti noi. L’idea che il mondo contemporaneo cambi precipitosamente non è nuova. Infatti, rimane difficile non notare le trasformazioni nella politica globale, nell’economia, nella vita sociale, nell’ambito delle tecnologie industriali, informatiche e sociali. Ma nell’analizzare la situazione attuale non dobbiamo dimenticare le lezioni della storia. In primo luogo, il cambio dell’ordine mondiale (e i fenomeni che osserviamo oggi appartengono proprio a questa scala), veniva accompagnato, di solito, se non da una guerra globale, da intensi conflitti locali. In secondo luogo, parlare di politica mondiale significa affrontare i temi della leadership economica, della pace e della sfera umanitaria, compresi i diritti dell’uomo.Nel mondo si è accumulata una moltitudine di contrasti. E bisogna chiedersi in tutta franchezza se abbiamo una rete di protezione sicura. Purtroppo, la certezza che il sistema di sicurezza globale e regionale sia capace di proteggerci dai cataclismi non c’è. Questo sistema risulta seriamente indebolito, frantumato e deformato. Vivono tempi difficili le istituzioni, internazionali e regionali, di interazione politica, economica e culturale. Molti meccanismi atti ad assicurare l’ordine mondiale si sono formati in tempi lontani, influenzati soprattutto dall’esito della Seconda Guerra Mondiale. La solidità di questo sistema non si basava esclusivamente sul bilanciamento delle forze e sul diritto dei vincitori, ma anche sul fatto che i “padri fondatori” di questo sistema di sicurezza si trattavano con rispetto, non cercavano di “spremere fino all’ultimo” ma cercavano di mettersi d’accordo. Il sistema continuava ad evolversi e, nonostante tutti i suoi difetti, era efficace per – se non una soluzione – almeno per un contenimento dei problemi mondiali, per una regolazione dell’asprezza della concorrenza naturale tra gli Stati.Sono convinto che questo meccanismo di controbilanciamenti non potesse essere distrutto senza creare qualcosa in cambio, altrimenti non ci sarebbero davvero rimasti altri strumenti se non la rozza forza. Tuttavia gli Stati Uniti, dichiarandosi i vincitori della “guerra fredda”, hanno pensato – e credo che l’abbiano fatto con presunzione – che di tutto questo non v’è alcun bisogno. Dunque, invece di raggiungere un nuovo bilanciamento delle forze, che rappresenta una condizione indispensabile per l’ordine e la stabilità, hanno intrapreso, al contrario, i passi che hanno portato a un peggioramento repentino dello squilibrio. La “guerra fredda” è finita. Però non si è conclusa con un raggiungimento di “pace”, con degli accordi comprensibili e trasparenti sul rispetto delle regole e degli standard oppure sulle loro elaborazione. Par di capire che i cosiddetti vincitori della “guerra fredda” abbiano deciso di “sfruttare” fino in fondo la situazione per ritagliare il mondo intero a misura dei propri interessi. E se il sistema assestato delle relazioni e del diritto internazionali, il sistema del contenimento e dei controbilanciamenti impediva il raggiungimento di questo scopo, veniva da loro immediatamente dichiarato inutile, obsoleto e soggetto ad abbattimento istantaneo.Il concetto stesso della “sovranità nazionale” per la maggioranza degli Stati è diventato un valore relativo. In sostanza, è stata proposta la formula seguente: più forte è la lealtà a un unico centro di influenza nel mondo, più alta è la legittimità del regime governante. Le misure per esercitare pressione sui disubbidienti sono ben note e collaudate: azioni di forza, pressioni di natura economica, propaganda, intromissione negli affari interni, rimandi a una certa legittimità di “infra-diritto”. Recentemente siamo venuti a conoscenza di testimonianze di ricatti non velati nei confronti di una serie di leader. Non è un caso che il cosiddetto “grande fratello” spenda miliardi di dollari per lo spionaggio in tutto il mondo, compresi i suoi stretti alleati. Allora facciamoci la domanda se tutti noi troviamo la nostra vita confortevole e sicura in questo mondo, chiediamoci quanto sia giusto e razionale il mondo. Forse il modo in cui gli Usa detengono la leadership è davvero un bene per tutti? Le loro onnipresenti interferenze negli affari altrui implicano pace, benessere, progresso, prosperità, democrazia? Bisogna semplicemente rilassarsi e godersela? Mi permetto di dire che non è così. Non è assolutamente così.Il diktat unilaterale e l’imposizione dei propri stereotipi producono un risultato opposto: al posto di una soluzione dei conflitti, l’escalation; al posto degli Stati sovrani, stabili, l’espansione del caos; al posto della democrazia, il sostegno a gruppi ambigui, dai neonazisti dichiarati agli islamisti radicali. Continuo a stupirmi di fronte agli errori ripetuti, una volta dopo l’altra, dei nostri partner che si danno da soli la zappa sui piedi. A suo tempo, nella lotta contro l’Unione Sovietica, avevano sponsorizzato i movimenti estremisti islamici che si erano rinvigoriti in Afghanistan, fino a generare sia i talebani sia Al-Qaeda. L’Occidente, pur senza ammettere il suo sostegno, chiudeva un occhio. Anzi, in realtà sosteneva l’irruzione dei terroristi internazionali in Russia e nei paesi dell’Asia Centrale attraverso le informazioni, la politica e la finanza. Non l’abbiamo dimenticato. Solo dopo i terribili atti terroristici compiuti nel territorio degli stessi Usa siamo arrivati alla comprensione della minaccia comune del terrorismo. Vorrei ricordare che allora siamo stati i primi a esprimere il nostro sostegno al popolo degli Stati Uniti d’America e abbiamo agito come amici e partner dopo la spaventosa tragedia dell’11 Settembre.Nel corso dei miei incontri con i leader statunitensi ed europei ho costantemente ribadito la necessità di lottare congiuntamente contro il terrorismo, che rappresenta una minaccia su scala mondiale. Non possiamo rassegnarci di fronte a questa sfida. Una volta la nostra visione era condivisa, ma è passato poco tempo e tutto è tornato come prima. Si sono verificati in seguito gli interventi sia in Iraq sia in Libia. Quest’ultimo paese, tra l’altro, ora è diventato un poligono per i terroristi. E soltanto la volontà e la saggezza delle autorità attuali dell’Egitto hanno permesso di evitare il caos e lo scatenarsi violento degli estremisti anche in questo paese-chiave del mondo arabo. In Siria, come in passato, gli Usa e i loro alleati hanno cominciato a finanziare apertamente e a fornire le armi ai ribelli, favorendo il loro rinforzo con gli arrivi dei mercenari di vari paesi. Permettetemi di chiedere dove i ribelli trovano denaro, armi, esperti militari? Com’è potuto accadere che il famigerato Isis si sia trasformato praticamente in un esercito?Si tratta non solo dei proventi dal traffico di droga, ma la sovvenzione finanziaria proviene anche dalle vendite del petrolio, la cui estrazione è stata organizzata nei territori sotto il controllo dei terroristi. Lo vendono a prezzi stracciati, lo estraggono, lo trasportano. Qualcuno lo compra, lo rivende e ci guadagna, senza pensare al fatto che così sta finanziando i terroristi, gli stessi che prima o poi colpiranno anche nella sua terra. Da dove provengono le nuove reclute? Sempre in Iraq, dopo il rovesciamento di Saddam Hussein sono state distrutte le istituzioni dello Stato, compreso l’esercito. Già allora abbiamo detto: siate prudenti e cauti. Con quale risultato? Decine di migliaia di soldati e ufficiali, ex militanti del partito Baath, buttati sulla strada, oggi si sono uniti ai guerriglieri. A proposito, non sarà nascosta qui la capacità di azione dell’Isis? Le loro azioni sono molto efficaci dal punto di vista militare, sono oggettivamente dei professionisti. La Russia aveva avvertito più volte del pericolo che comportano le azioni di forza unilaterali, delle interferenze negli affari degli Stati sovrani, delle avance agli estremisti e ai radicali, insistendo sull’inclusione dei raggruppamenti che lottavano contro il governo centrale siriano, in primo luogo dell’Isis, nelle liste dei terroristi. Tutto inutile.L’accrescimento del dominio di un unico centro di forza non conduce alla crescita del controllo dei processi globali. Al contrario, è inefficace contro le vere minacce costituite dai conflitti regionali, terrorismo, traffico di droga, fanatismo religioso, sciovinismo e neonazismo. Allo stesso tempo ha largamente spianato la strada ai nazionalismi e alla rude soppressione dei più deboli. Il mondo unipolare è la celebrazione apologetica della dittatura sia sulle persone sia sui paesi. Ed è un mondo insostenibile e difficile da gestire anche per il cosiddetto leader autoproclamatosi. Da qui nascono i tentativi odierni di ricreare un simulacro del mondo bipolare, più “comodo” per la leadership americana. Poco importa chi occuperà, nella loro propaganda, il posto del “centro del male” che spettava una volta all’Urss: l’Iran, la Cina oppure ancora la Russia. Adesso assistiamo di nuovo a un tentativo di frantumare il mondo, fabbricare delle coalizioni non secondo il principio “a sostegno di”, ma “contro”; serve l’immagine di un nemico, come ai tempi della “guerra fredda”, per legittimare la leadership e ottenere un diritto di diktat.Durante la “guerra fredda”, agli alleati si diceva continuamente: «Abbiamo un nemico comune, è spaventoso, è lui il centro del male; noi vi difendiamo, dunque abbiamo il diritto di comandarvi, di costringervi a sacrificare i propri interessi politici e economici, a sostenere le spese per la difesa collettiva; ma a gestire questa difesa saremo, naturalmente, noi». Oggi traspare evidente l’aspirazione a trarre dividendi politici ed economici tramite la riproposizione dei consueti schemi di gestione globale. Tuttavia il mondo è cambiato. Le sanzioni hanno già cominciato a intaccare le fondamenta del commercio internazionale e le normative del Wto, i principi della proprietà privata, il modello liberale della globalizzazione, basato sul mercato, sulla libertà e sulla concorrenza. Un modello i cui beneficiari, lo voglio rilevare, sono soprattutto i paesi occidentali. A mio parere, i nostri amici americani stanno tagliando il ramo su cui sono seduti. Non si può mescolare politica ed economia, ma è proprio questo che sta accadendo.Ho sempre ritenuto e ritengo ancora che le sanzioni politicamente motivate siano state un errore che danneggia tutti quanti. Comprendiamo bene in che modo e sotto quale pressione siano state adottate. Ma ciò nonostante la Russia non intende, e lo voglio mettere ben in chiaro, impuntarsi, portare rancore contro qualcuno o chiedere qualcosa a qualcuno. La Russia è un paese autosufficiente. Lavoreremo nelle condizioni di economia esterna che si sono create, sviluppando la nostra industria tecnologica. La pressione esterna non fa altro che consolidare la nostra società, ci obbliga a concentrarci sulle tendenze principali di sviluppo. Beninteso, le sanzioni ci ostacolano: stanno cercando di danneggiarci, di arrestare il nostro sviluppo, di ridurci all’auto-isolamento e all’arretratezza. Ma il mondo è cambiato radicalmente. Non abbiamo alcuna intenzione di chiuderci nell’autarchia; siamo sempre aperti al dialogo, compreso quello sulla normalizzazione delle relazioni economiche, nonché quelle politiche. In questo contiamo sulla visione pragmatica e sullo schieramento delle comunità imprenditoriali dei paesi leader. Affermano che la Russia avrebbe voltato le spalle all’Europa, cercando partner economici in Asia. Non è così. La nostra politica in Asia e nel Pacifico risale ad anni fa e non è affatto legata alle sanzioni. L’Oriente occupa un posto sempre più importante nel mondo e nell’economia e non possiamo trascurarlo. Lo stanno facendo tutti e noi continueremo a farlo, anche perché una parte notevole del nostro territorio si trova in Asia.Se non sapremo creare un sistema di obblighi e accordi reciproci e non elaboriamo i meccanismi per gestire le situazioni di crisi, rischiamo l’anarchia mondiale. Già oggi è aumentata repentinamente la probabilità di una serie di conflitti violenti con il coinvolgimento, se non diretto, ma indiretto, delle grandi potenze. Il fattore di rischio viene amplificato dall’instabilità interna dei singoli Stati, in particolar modo quando si parla dei paesi cardine degli interessi geopolitici e si trovano ai confini dei “continenti” storici, economici e culturali. L’Ucraina è un esempio – ma non l’unico – di questo genere di conflitti che dividono le forze mondiali. Da qui scaturisce la prospettiva reale della demolizione del sistema attuale degli accordi sulle restrizioni e il controllo degli armamenti. Il via a questo pericoloso processo è stato dato proprio dagli Usa quando, nel 2002, sono usciti unilateralmente dal Trattato sulla limitazione dei sistemi di difesa antimissilistica per avviare la creazione di un proprio sistema globale di difesa.Non siamo stati noi a iniziare tutto questo. Stiamo di nuovo scivolando verso tempi in cui i paesi si trattengono dagli scontri diretti non in virtù di interessi, equilibri e garanzie, ma solo per il timore dell’annientamento reciproco. È estremamente pericoloso. Noi insistiamo sui negoziati per la riduzione degli arsenali e siamo aperti alla discussione sul disarmo nucleare, ma deve essere seria, senza “doppi standard”. Che cosa intendo dire? Oggi le armi di precisione si sono avvicinate alle armi di distruzione di massa. Nel caso di rinuncia assoluta o diminuzione del potenziale nucleare, i paesi che si sono guadagnati la leadership nella produzione dei sistemi di alta precisione otterranno un netto dominio militare. Sarà spezzata la parità strategica, comportando così il rischi di una destabilizzazione: affiora così la tentazione di ricorrere al cosiddetto “primo colpo disarmante globale”. In breve, i rischi non diminuiscono ma aumentano.Un’altra minaccia evidente è l’ulteriore proliferazione dei conflitti di origine etnica, religiosa e sociale, che creano zone di vuoto di potere, illegalità e caos, in cui trovano conforto terroristi, delinquenti comuni, pirati, scafisti e narcotrafficanti. I nostri “colleghi” hanno continuato i tentativi, nel loro esclusivo interesse, di sfruttare i conflitti regionali: hanno progettato le “rivoluzioni colorate”, ma la situazione è sfuggita a loro di mano, alla faccia del “caos controllato”. E il caos globale aumenta. Nelle condizioni attuali sarebbe ora di cominciare ad accordarsi sulle questioni di principio. È decisamente meglio che non rifugiarsi nei propri angoli, soprattutto perché ci scontriamo con i problemi comuni, siamo sulla stessa barca. La via logica è quella della cooperazione tra i paesi e la gestione congiunta dei rischi, sebbene alcuni dei nostri partner si ricordino di questo solo quando risponde al loro interesse. Certo, le risposte congiunte alle sfide non sono una panacea e nella maggioranza dei casi sono difficilmente realizzabili: non è per niente semplice superare le diversità degli interessi nazionali, la parzialità delle visioni, soprattutto se si parla dei paesi di diverse tradizioni storico-culturali. Eppure ci sono stati casi in cui, guidati dagli obiettivi comuni, abbiamo raggiunto successi reali.Vorrei ricordare la soluzione del problema delle armi chimiche siriane, il dialogo sul programma nucleare iraniano e il nostro soddisfacente lavoro svolto in Corea del Nord. Perché allora non attingere a questa esperienza anche in futuro, per la soluzioni dei problemi sia locali sia globali? Non ci sono ricette già pronte. Sarà necessario un lavoro lungo, con la partecipazione di una larga cerchia di Stati, del business mondiale e della società civile. Bisogna definire in modo nitido dove si trovano i limiti delle azioni unilaterali e dove nasce l’esigenza di meccanismi multilaterali. Bisogna trovare la soluzione, nel contesto del perfezionamento del diritto internazionale, al dilemma tra le azioni della comunità mondiale volte a garantire la sicurezza e i diritti dell’uomo e il principio della sovranità nazionale e non intromissione negli affari interni degli Stati. Non c’è bisogno di ripartire da zero, le istituzioni create subito dopo la Seconda Guerra Mondiale sono abbastanza universali e possono essere riempite di contenuti più moderni. Sullo sfondo dei cambiamenti fondamentali nell’ambito internazionale, della crescente ingovernabilità e dell’aumento delle più svariate minacce abbiamo bisogno di un nuovo consenso delle forze responsabili per dare stabilità e della sicurezza alla politica e all’economia.Vorrei ricordarvi gli eventi dell’anno passato. Allora dicevamo ai nostri partner, sia americani che europei, che le decisioni frettolose, come ad esempio quella sull’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea, erano pregne di seri rischi. Simili passi clandestini ledevano gli interessi di molti terzi paesi, tra cui la Russia, in quanto partner commerciale principale dell’Ucraina. Abbiamo ribadito la necessità di avviare una larga discussione. Una volta realizzato il progetto dell’associazione dell’Ucraina, si presentano da noi attraverso le porte di servizio i nostri partner con le loro merci e i loro servizi, ma noi non lo abbiamo concordato, nessuno ha chiesto il nostro parere a riguardo. Abbiamo dibattuto su tutte le problematiche inerenti all’Ucraina in Europa in modo assolutamente civile, ma nessuno ci ha dato ascolto. Ci hanno semplicemente detto che non era affar nostro, finito il dibattito e la faccenda è deteriorata fino al colpo di Stato e alla guerra civile. Tutti allargano le braccia: è andata così. Ma non era inevitabile.Io lo dicevo: l’ex presidente ucraino Yanukovich aveva sottoscritto tutto quanto, aveva approvato tutto. Perché allora bisognava insistere? Sarebbe questo il modo civile per risolvere le questioni? Evidentemente coloro che “producono a macchia” una rivoluzione colorata dopo l’altra si ritengono degli artisti geniali e non ce la fanno proprio a fermarsi. Voglio aggiungere che avremmo gradito l’inizio di un dialogo concreto tra L’Unione Eurasiatica e l’Unione Europea. A proposito, fino a oggi ci è stato praticamente sempre negato: e di nuovo è poco chiaro per quale motivo; cosa c’è di spaventoso? Ne ho parlato spesso in precedenza trovando l’appoggio dei molti nostri partner occidentali, almeno quelli europei: è necessario formare uno spazio comune di cooperazione economica e umanitaria, lo spazio che si stenda dall’Atlantico al Pacifico. La Russia ha fatto la sua scelta. Le nostre priorità sono costituite dall’ulteriore perfezionamento degli istituti di democrazia e di economia aperta, l’accelerazione dello sviluppo interno tenendo conto di tutte le tendenze positive nel mondo, il consolidamento della società sulla base dei valori tradizionale e del patriottismo.La nostra agenda è orientata all’integrazione, è positiva, pacifica. La Russia non vuole ricostituire un impero, compromettendo la sovranità dei vicini, e non esige un posto esclusivo nel mondo. Rispettando gli interessi altrui vogliamo che si tenga contro anche dei nostri interessi, che anche la nostra posizione sia rispettata. Abbiamo bisogno di un grado particolare di prudenza, di evitare passi sconsiderati. Dopo la “guerra fredda” i protagonisti della politica mondiale hanno perduto in certo senso queste qualità. È giunto il momento di ricordarle. In caso contrario, le speranze per uno sviluppo pacifico, sostenibile, si riveleranno una nociva illusione, mentre i cataclismi di oggi significheranno la vigilia del collasso dell’ordine mondiale. Siamo riusciti a elaborare le regole di interazione dopo la Seconda Guerra Mondiale, siamo riusciti a trovare un accordo negli anni ‘70 a Helsinki. Il nostro obbligo comune è trovare un soluzione per questo obiettivo fondamentale anche nel contesto di una nuova fase di sviluppo.(Vladimir Putin, estratti dal discorso pronunciato il 24 ottobre 2014 al Forum internazionale del “Club Valdai” a Sochi, tradotto e ripreso da “Il Giornale”).La rettitudine e la durezza nel formulare delle valutazioni servono oggi non per punzecchiarci reciprocamente, ma per cercare di comprendere che cosa veramente sta accadendo nel mondo, perché diventa sempre meno sicuro e meno prevedibile, perché ovunque aumentano i rischi. Nuove regole del gioco oppure gioco senza regole? Formulato così, il concetto descrive puntualmente quel bivio storico in cui ci troviamo, la scelta che dovrà essere compiuta da tutti noi. L’idea che il mondo contemporaneo cambi precipitosamente non è nuova. Infatti, rimane difficile non notare le trasformazioni nella politica globale, nell’economia, nella vita sociale, nell’ambito delle tecnologie industriali, informatiche e sociali. Ma nell’analizzare la situazione attuale non dobbiamo dimenticare le lezioni della storia. In primo luogo, il cambio dell’ordine mondiale (e i fenomeni che osserviamo oggi appartengono proprio a questa scala), veniva accompagnato, di solito, se non da una guerra globale, da intensi conflitti locali. In secondo luogo, parlare di politica mondiale significa affrontare i temi della leadership economica, della pace e della sfera umanitaria, compresi i diritti dell’uomo.
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Isis, finto nemico. Obiettivo: negare il petrolio alla Cina
Trasformare la regione petrolifera in un teatro permanente di guerra, per sabotare il business del petrolio. Europa, Cina e India avranno sempre più bisogno di oro nero, mentre l’America potrebbe rendersi autonoma dal greggio nel giro di 6-7 anni. Lo sostiene Marcello Foa, che ritiene credibili i ripetuti annunci, di tono quasi trionfalistico, che accreditano gli Stati Uniti di riserve sterminate di “shale oil”, il petrolio che si ottiene con la frantumazione idraulica di rocce bituminose. Proprio questo calcolo motiverebbe la politica apparentemente folle di Obama, disposto a una lunga guerra in Medio Oriente contro l’ultima “creatura” della Cia, il Califfato dell’Isis. «La lotta al terrorismo è diventata una guerra perpetua al terrorismo», e la crescente instabilità dei paesi arabi, dal Golfo Persico al Nordafrica, comporta «conseguenze pesantissime per noi europei, che viviamo non lontano da quelle zone, e per tutti coloro – europei ma anche cinesi e indiani – che del petrolio mediorientale hanno bisogno». Se va in fiamme il business del greggio, coi prezzi alle stelle, e l’America resta immune dal contagio, ne otterrà un immenso vantaggio geopolitico. «Capito l’arcano?».Quando, oltre dieci anni da, Giulietto Chiesa dava alle stampe “La guerra infinita” (Feltrinelli), prima coraggiosa indagine sulle menzogne ufficiali dell’11 Settembre funzionali all’imposizione imperialista del “Nuovo Secolo Americano”, i media mainstream si guardavano bene anche solo dal riportarne le tesi. Oggi, dopo anni di crisi catastrofica e focolai di guerra accesi praticamente ovunque, un editorialista in doppiopetto come Foa può permettersi si far sentire la sua voce indipendente dalle pagine del “Giornale”, attraverso il suo blog. «Sieti sicuri di aver capito cosa sta accadendo in Iraq e perché Obama abbia dichiarato guerra all’Isis?». Siamo seri: «L’Isis non esce dal nulla ma è un “mostro” religioso e militare che proprio gli Usa e alcuni alleati strategici come il Qatar e l’Arabia Saudita negli ultimi due anni hanno incoraggiato e sostenuto». E’ l’erede di Al-Qaeda, il nemico di ieri. «Poi è venuto il tempo delle rivoluzioni colorate», a carattere popolare in Tunisia e in Egitto, deflagrate in guerra civile prima in Libia e poi in Siria. «Guerra durissima, spietata e sporca. Combattuta da chi? Da eroici rivoltosi sunniti siriani? Solo in parte».In Siria, a scendere in campo contro Assad sono stati «soprattutto guerriglieri provenienti da altri paesi, motivati dal denaro, dalla disperazione e dall’esaltazione religiosa». Una forza opaca, «composta dalle milizie che avevano combattuto in Iraq e che avevano contribuito a rovesciare Gheddafi». Fanatici ultra-religiosi, ammiratori di Al-Qaeda. «Ovvero, quell’estremismo terrorista che l’Occidente in teoria combatte dal 2001. Ma, si sa, le regole della politica internazionale non corrispondono a quelle della morale e le alleanze possono essere molto flessibili. Certi nemici, all’occorrenza, possono diventare amici. E così è stato. Arabia Saudita e soprattutto Qatar hanno fornito aiuti finanziari, gli americani e verosimilmente i turchi assistenza militare e fornitura d’armi. A posteriori – continua Foa – Hilllay Clinton si è addirittura rammaricata che l’aiuto fosse stato troppo timido. E nel frattempo l’America era stata sul punto di attaccare la Siria che era stata accusata da tutti di aver usato armi chimiche contro i ribelli, un attacco a cui si oppose con successo Putin con ottime ragioni: oggi sappiamo che a usare le armi chimiche furono proprio i ribelli che l’Occidente smaniava di soccorrere. Quali ribelli? Quelli dell’Isis».La guerra civile si è prolungata, Assad non è caduto e nella primavera del 2014 i guerriglieri dell’Isis, ben armati e ben finanziati, hanno cercato nuovi sbocchi: «Hanno girato i cannoni e i blindati e hanno iniziato a scorazzare verso sud-ovest, puntando l’Iraq filoamericano, spingendosi fino alle porte di Baghdad e di Mosul, mentre l’America lasciava fare». Fino a ieri, «Obama snobbava l’Isis, o più verosimilmente faceva finta». Come dire: sono giovani teste calde, non ci preoccupano. «Per lunghe settimane Washington ha lasciato fare, decidendosi tardivamente a sostenere il governo iracheno e decisamente controvoglia, ovvero con pochi raid. Intanto Qatar e sauditi continuavano a finanziare l’Isis». Poi, nelle ultime settimane, l’accelerazione: i media hanno iniziato a occuparsi quotidianamente dell’Isis, diffondendo storie umane agghiaccianti, racconti di stupri, violenze, brutalità, fino a quando sono state diffuse le drammatiche immagini della decapitazione dei due giornalisti americani. Così, «l’Isis è diventato improvvisamente il problema numero uno». L’opinione pubblica occidentale? «Scioccata, di fronte a immagini terribili». E indotta, ovviamente, «a invocare una reazione forte contro i fanatici». Si sa: «La gente comune non segue le sottigliezze geostrategiche, non conosce gli antefatti, ma reagisce emotivamente a immagini “che parlano da sole”».Obama, seguendo uno schema classico dello “spin”, ha risposto all’accorato appello di centinaia di milioni di americani giustamente preoccupati, «annunciando una guerra che sarà naturalmente “lunga”» e capace di coinvolgere, nello sforzo finanziario, «proprio quei paesi, Qatar e sauditi, che fino a ieri avevano finanziato l’Isis». Sicché, «nuovo ribaltamento di fronte: gli ex nemici, poi diventati amici, ora tornano ad essere nemici; anzi molto nemici. Gente da annientare». Risultato: Golfo Persico, Medio Oriente e Nordafrica sono in fiamme, «a oltre 11 anni dalla “guerra lampo” che avrebbe dovuto liberare l’Iraq». Disordine, violenza e morte divampano ovunque: dalla Libia a Gaza, passando per l’Egitto, la Siria, l’Iraq. E gli americani, guardacaso, «si trovano “costretti” ancora una volta a portare la liberazione, impiegando, in quello che appare un moto ormai perpetuo, la loro forza militare». Nel lontano 2002, Giulietto Chiesa l’aveva annunciata, col nome di “guerra infinita”. Oggi, il mainstream continua a evitare di collegare tra loro i singoli fotogrammi. E Foa aggiunge una possibile chiave di lettura: gli Usa infiammano il petrolio del Medio Oriente per toglierlo ai cinesi. E’ il piano per il “Nuovo Secolo Americano”: dall’attentato alle Torri Gemelle, di strada ne ha fatta parecchia.Trasformare la regione petrolifera in un teatro permanente di guerra, per sabotare il business del petrolio. Europa, Cina e India avranno sempre più bisogno di oro nero, mentre l’America potrebbe rendersi autonoma dal greggio nel giro di 6-7 anni. Lo sostiene Marcello Foa, che ritiene credibili i ripetuti annunci, di tono quasi trionfalistico, che accreditano gli Stati Uniti di riserve sterminate di “shale oil”, il petrolio che si ottiene con la frantumazione idraulica di rocce bituminose. Proprio questo calcolo motiverebbe la politica apparentemente folle di Obama, disposto a una lunga guerra in Medio Oriente contro l’ultima “creatura” della Cia, il Califfato dell’Isis. «La lotta al terrorismo è diventata una guerra perpetua al terrorismo», e la crescente instabilità dei paesi arabi, dal Golfo Persico al Nordafrica, comporta «conseguenze pesantissime per noi europei, che viviamo non lontano da quelle zone, e per tutti coloro – europei ma anche cinesi e indiani – che del petrolio mediorientale hanno bisogno». Se va in fiamme il business del greggio, coi prezzi alle stelle, e l’America resta immune dal contagio, ne otterrà un immenso vantaggio geopolitico. «Capito l’arcano?».
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Sempre e solo menzogne, e grazie a noi la fanno franca
Come pensavano di farla franca sostenendo che in Iraq ce n’erano grandi quantità di armi chimiche, biologiche e perfino nucleari? I disertori avevano chiaramente affermato che le armi chimiche e quelle biologiche (alcune fornite dagli stessi Usa) erano state distrutte. Gli ispettori avevano ispezionato quasi ogni centimetro dell’Iraq e avevano detto che mancavano ancora solo pochi centimetri, se gli avessero dato qualche giorno in più. L’Iraq stava urlando che non era in possesso di tali armi. Molte nazioni nel mondo gli davano ragione. Lo stesso staff di Colin Powell lo avvertiva che le sue affermazioni non sarebbero state considerate plausibili. Eppure, l’hanno fatta franca. Al punto che ancora oggi molta gente di buone intenzioni negli Stati Uniti sostiene che nessuno può essere certo che Bush, Cheney e gli altri sapessero che le loro dichiarazioni erano false al momento che le facevano.«Tutto ciò – scrisse Adolf Hitler – è ispirato dal principio che nella grande bugia esiste sempre una certa forza di credibilità; perché le vaste masse di una nazione sono sempre facilmente corruttibili nel profondo della loro natura emotiva piuttosto che coscientemente o volontariamente; e così nella primitiva semplicità delle loro menti cadono più facilmente vittime di una grande bugia anziché di una piccola, in quanto essi stessi dicono spesso delle piccole bugie su piccole cose ma si vergognerebbero di ricorrere a delle falsità su larga scala». I media americani hanno sostenuto ripetutamente che la Russia ha invaso l’Ucraina. Lo sostengono per un po’, poi si scopre che non c’è stata nessuna invasione, così fanno una pausa. Dopo lo sostengono ancora una volta. Oppure sostengono che un convoglio di aiuti costituisce un’invasione. Eppure questi convogli di aiuti sembrano proprio dei convogli di aiuti in tutte le fotografie, e nessuno è stato capace di produrre fotografie simili di un’invasione.Quando i mezzi corazzati ucraini entrarono nell’est del paese e vennero circondati dai civili, abbiamo visto le fotografie e i video. Ora esiste soltanto una foto satellitare della serie “reperti Colin-Powell”, fornita dalla Nato e che si suppone indichi artiglieria russa in Ucraina. L’invasione principale russa che apparentemente è in offerta speciale con un repellente per giornalisti, si dice consista di 1.000 soldati – ossia lo stesso numero di truppe che gli Usa hanno mandato ancora una volta in Iraq, della cui invasione evidentemente non ci dobbiamo preoccupare. Ma dove sono questi 1.000 soldati russi che invadono l’Ucraina? L’Ucraina sostiene di aver catturato 10 di questi, anche se questi 10 non sembrano concordare con questa versione. Che cosa è successo agli altri 990? Come è stato possibile per qualcuno avvicinarsi tanto da fare 10 prigionieri ma non aver potuto fare una fotografia degli altri 990?Nel frattempo la Russia smentisce tutto e sollecita pubblicamente gli Stati Uniti a impegnarsi diplomaticamente con l’Ucraina e il governo di quest’ultima di smettere di bombardare i propri cittadini e di elaborare un sistema federalista che rappresenti ognuno nelle proprie frontiere. Ma la Nato non ha tempo, è impegnata ad annunciare una contro-invasione per far fronte all’invisibile invasione russa. Come pensano che la faranno franca con questo? Vediamo. Nemmeno uno dei responsabili per le menzogne che causarono la distruzione dell’Iraq e la morte di alcune milioni di persone, insieme al prevedibile e previsto caos che ora tormenta il paese e tutta la regione, è stato mai ed in nessun modo chiamato a rispondere. La menzogna che Gheddafi stesse per massacrare degli innocenti, la bugia che ha facilitato l’attacco in Libia e l’inferno che sta regnando ora in quel paese: nessuno è stato chiamato a rispondere in qualsiasi modo. La menzogna che la Casa Bianca avesse le prove che Assad aveva usato armi biologiche? Nessuno è stato chiamato a rispondere. Addirittura nessuno si è sentito obbligato a giustificarsi quando hanno cambiato obbiettivo e proposto di bombardare i nemici di Assad.E la menzogna secondo cui gli attacchi dei droni non uccidono innocenti e non uccidono quelli che, invece, potrebbero essere arrestati facilmente? Nessuno è stato chiamato a rispondere. La menzogna che gli Stati Uniti avessero la prova che ad abbattere l’aereo sopra l’Ucraina fosse stata la Russia? Nessuno è stato chiamato a rispondere, e gli Usa si oppongono a una indagine indipendente. La menzogna che la tortura ci garantisce la sicurezza, una menzogna che ha portato gli Usa a torturare della gente? Nessuno, ai livelli degli uffici ad aria condizionata, è stato mai chiamato a rispondere. Perché pensano di poter farla franca? Perché tu glielo permetti. Perché non vuoi credere che commettono tali atrocità. Perché non vuoi credere che sono tanto bugiardi. Sai una cosa? Co sono persone che si sentono come degli idioti perché hanno creduto alle menzogne sull’Iraq. Immagina come si sentiranno quando scopriranno che avevano creduto all’invasione di una nazione che non era mai stata invasa.(David Swanson, “Sempre e solo menzogne, perché tu glielo permetti”, da “Information Clearing House” del 3 agosto 2014, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Come pensavano di farla franca sostenendo che in Iraq ce n’erano grandi quantità di armi chimiche, biologiche e perfino nucleari? I disertori avevano chiaramente affermato che le armi chimiche e quelle biologiche (alcune fornite dagli stessi Usa) erano state distrutte. Gli ispettori avevano ispezionato quasi ogni centimetro dell’Iraq e avevano detto che mancavano ancora solo pochi centimetri, se gli avessero dato qualche giorno in più. L’Iraq stava urlando che non era in possesso di tali armi. Molte nazioni nel mondo gli davano ragione. Lo stesso staff di Colin Powell lo avvertiva che le sue affermazioni non sarebbero state considerate plausibili. Eppure, l’hanno fatta franca. Al punto che ancora oggi molta gente di buone intenzioni negli Stati Uniti sostiene che nessuno può essere certo che Bush, Cheney e gli altri sapessero che le loro dichiarazioni erano false al momento che le facevano.