Archivio del Tag ‘Antonio Di Pietro’
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Foa: Grillo s’è suicidato, Salvini avrà imparato la lezione?
Sto leggendo le analisi degli editorialisti che, ora, ci spiegano con sicurezza e spesso toni saccenti le ragioni per cui Grillo è finito. Sottolineo: ora. Come sempre accade in Italia si è cortigiani con i vincenti e spietati con i perdenti. Quelli che oggi impartiscono lezioni a Grillo sono gli stessi che hanno ignorato e poi sottovalutato la sua strepitosa ascesa. Ma tant’è, non è la prima volta. Veniamo al punto. Le ragioni per cui il “Movimento 5 Stelle” è entrato verosimilmente nella parabola finale del suo percorso politico, con scarsissime possibilità di riscatto, sono legate essenzialmente a errori di comunicazione, il che è paradossale per uno che sulla comunicazione ha costruito la propria carriera artistica e poi quella politica. Quando Grillo volava nei sondaggi mi sono chiesto più volte per quale ragione incontrasse poca resistenza dall’establishment. Sì, certo, per mesi, anzi anni, i media tradizionali lo hanno ignorato, ma la coltre del silenzio non bastò a neutralizzarlo perché Grillo (assieme a Casaleggio) raggiungeva il suo popolo via Internet.Poi c’è stata la fase in cui i media rincorrevano Grillo e ne parlavano male, ma il leader del M5S usò molto abilmente questa popolarità indotta, usando le tv, che erano costrette a trasmettere i suoi interventi, pur continuando a delegittimare e a criticare pesantemente le tv. Il fatto di negarsi ai talk show faceva salire le sue quotazioni mediatiche. Grillo e Casaleggio, come scrissi più volte su questo blog, furono bravissimi nel cavalcare l’onda. Risultato: una copertura mediatica fantastica, in cui alla mobilitazione tramite la Rete si aggiunse l’effetto propagatorio di radio, giornali e soprattutto tv che permise al M5S di raggiungere il 25% alle elezioni di inizio 2013. Ma poi sono iniziati i guai. Un leader accorto deve sapere quando è il momento di togliere il piede dall’acceleratore, quando la capacità di gestione deve prevalere sulla costruzione del successo. Bisogna saper cambiare i toni, mantenendo la tensione ideale tra i militanti della base; occorre perseguire obiettivi di lungo periodo mantenendo alta l’attenzione nel breve, partecipando ai dibattiti d’attualità ma senza farsi travolgere, dunque tenendo sempre ben presente a quale pubblico ci si rivolge e cosa bisogna dire per ampliare il consenso.E’ un’arte quasi scientifica che presuppone self control, un partito ben inquadrato, squadre compatte, capacità di modulare i toni, analisi sociologiche mirate, capacità di programmazione. E invece Grillo ha fatto l’opposto. Ha continuano a gridare come quando non aveva il 25% dei consensi, non ha costruito una classe dirigente capace di assecondarlo; non solo: ha perso chiaramente la testa procedendo a espulsioni che hanno spaventato e definitivamente allontanato la stragrande maggioranza dell’elettorato. Deputati e senatori si sono dimostrati inadeguati, un gruppo eterogeneo e piuttosto modesto; certo non una squadra compatta. Aggiungete gli sbandamenti nella comunicazione, con l’improvviso e mal motivato sdoganamento delle apparizioni in tv, che ha disorientato i suoi sostenitori, o i trattamenti riservati al portavoce Claudio Messora e le giravolte programmatiche, tra cui senz’altro la più clamorosa quella sull’euro, e il quadro è completo.Insomma abbiamo assistito a un processo di auto-distruzione che verosimilmente è irreversibile. Sarei meravigliato se Grillo riuscisse a recuperare il consenso perduto, mentre il rischio che finisca come Di Pietro o Vendola è sempre più concreto. E ora capisco perché l’establishment lo abbia lasciato scorrazzare, anche nei momenti in cui la spinta dei grillino sembrava irresistibile. Evidentemente speculava sull’incapacità di Grillo e Casaleggio di trasformarsi in forza politica consolidata. Sapeva che i due si sarebbero fatti del male da soli. E ha avuto ragione. E’ la stessa strategia – condita da attacchi alla personalità, peraltro iniziati subito dopo la vittoria della Lega in Emilia Romagna – che l’establishment riserverà all’unico politico in grado di raccogliere e raggruppare l’ampio popolo degli scontenti: Matteo Salvini. Chissà se il leader della Lega avrà la forza, il coraggio e soprattutto la saggezza di non commettere gli stessi errori di Grillo.(Marcello Foa, “Grillo s’è suicidato, Salvini avrà imparato la lezione?”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 30 novembre 2014).Sto leggendo le analisi degli editorialisti che, ora, ci spiegano con sicurezza e spesso toni saccenti le ragioni per cui Grillo è finito. Sottolineo: ora. Come sempre accade in Italia si è cortigiani con i vincenti e spietati con i perdenti. Quelli che oggi impartiscono lezioni a Grillo sono gli stessi che hanno ignorato e poi sottovalutato la sua strepitosa ascesa. Ma tant’è, non è la prima volta. Veniamo al punto. Le ragioni per cui il “Movimento 5 Stelle” è entrato verosimilmente nella parabola finale del suo percorso politico, con scarsissime possibilità di riscatto, sono legate essenzialmente a errori di comunicazione, il che è paradossale per uno che sulla comunicazione ha costruito la propria carriera artistica e poi quella politica. Quando Grillo volava nei sondaggi mi sono chiesto più volte per quale ragione incontrasse poca resistenza dall’establishment. Sì, certo, per mesi, anzi anni, i media tradizionali lo hanno ignorato, ma la coltre del silenzio non bastò a neutralizzarlo perché Grillo (assieme a Casaleggio) raggiungeva il suo popolo via Internet.
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Grillo, Ingroia e Salvini? Non facciano la fine di tutti gli altri
Cari Grillo, Ingroia e Salvini: se avete tempo per leggere tre brevi messaggi “tweet”, eccoveli. Grillo: grazie per tutto quello che hai fatto, ma ora il Movimento 5 Stelle proceda con le sue forze. Ingroia: il tuo riferimento sia Paolo Borsellino, non la “sinistra”. Salvini: archivia il Cavaliere, o fallirai anche tu. Firmato: Simone Santini, già coordinatore di “Alternativa”, laboratorio politico-culturale fondato da Giulietto Chiesa. Un triplice appello, sotto forma di tre brevi lettere aperte, pubblicate da “Megachip”. Santini ben rappresenta l’elettorato italiano sfinito dalle vane contorsioni della politica, presa al laccio dalla Troika del rigore neoliberista che impone il taglio selvaggio del benessere diffuso e la dittatura del “mercato”, cioè dell’oligarchia finanziaria dei “padroni dell’universo”. Nell’Italia che sprofonda nella catastrofe socio-economica, proprio Grillo, Ingroia e Salvini hanno tentato di arginare l’oceano dell’astensionismo, ma senza finora mettere in campo un’alternativa praticabile: Grillo auto-sabotato dalla sua stessa autocrazia, Ingroia usato come paravento presentabile tra le macerie dell’ex “sinistra arcobaleno”. Salvini? Messo in pericolo, oggi, dall’alleanza col vecchio centrodestra.Grillo ha appena nominato uno staff politico, una sorta di segreteria. Era ora, dice Santini, a patto che questo team rappresenti davvero il movimento e quindi si trasformi rapidamente «da nominato in elettivo, altrimenti non cambierebbe nulla». Lo staff politico «non dovrà essere un organo direttivo classico», il suo compito «non sarà quello di “decidere”, ma di facilitare e coordinare i processi decisionali collettivi». Finora, le decisioni stratetgiche «sono state semplicemente enunciate». Esempio: chi ha scelto, e con quali criteri, il programma delle europee e poi la raccolta firme per il referendum consultivo sull’euro? «Al di là che il programma elettorale o il referendum possano essere stati condivisi, a posteriori, dalla maggioranza dei militanti, non dovrà più accadere che tali decisioni di fondamentale importanza vengano calate dall’alto». Altrimenti, continua Santini, «quale sarebbe la differenza tra un Grillo (o uno staff che operasse allo stesso modo) e un Renzi, che almeno deve far finta di confrontarsi con la direzione del Pd?». Quanto alle nuove aperture per possibili alleanze, va bene «un accordo transitorio per eleggere un presidente della Repubblica più decente di un altro». Ma il dialogo, più che coi partiti, va impostato con «spezzoni di società (anche organizzati in movimenti o partiti veri e propri)», che possano «almeno potenzialmente rappresentare una reale alternativa al sistema di potere e al modello socio-economico attualmente imperante».Quanto a Ingroia, “reclutato” da Di Pietro e dai rottami dell’ex “sinistra radicale” per guidare la lista “Rivoluzione Civile” alle politiche 2013, secondo Santini il suo prestigio di magistrato coraggioso sarebbe degno di miglior causa, visto anche che le sue inchieste sono stati «di grande importanza per la crescita morale della nostra nazione». In politica, però, prestazioni meno brillanti: già la prima aggregazione, “Cambiare si può”, prima tappa del percorso fondativo di “Rivoluzione Civile”, era viziato dalla presenza-fantasma «dei partiti tradizionali della sinistra, dietro la patina di alcuni rappresentanti della società civile», cosa che «ne vanificò il potenziale di novità e reale cambiamento». Poi la nascita di “Azione Civile”, senza più partiti “clandestini”, ma senza presa sul pubblico: «Credo che lo spazio politico per quel progetto si sia quasi definitivamente consumato», scrive Santini. «La speranza tra i più fiduciosi che aveva destato la lista “L’Altra Europa con Tsipras” sta partorendo ciò che i meno fiduciosi avevano intravisto fin da subito: un agglomerato dei partitini della sinistra istituzionale che avrà nel suo deprimente orizzonte l’oscillazione tra l’opposizione al renzismo a livello nazionale e la collaborazione col sistema di potere del centrosinistra a livello locale (perfettamente interscambiabile con quello del centrodestra, allo stesso modo irriformabile e cancerogeno)».Qualunque progetto politico di «emancipazione dalla dittatura del presente», secondo Santini non ha alcuna possibilità di successo, in Italia, se non afferma radicalmente il principio della “legalità democratica” largamente inteso. Ovvero: «Debellare le mafie al sud come al nord, scoperchiare il verminaio del terzo e quarto livello» che trasforma il nostro in uno “Stato criminale”, per dirla con Ingroia. E poi, ovviamente, sconfiggere la corruzione. «La tua grande esperienza e credibilità su queste tematiche – scrive Santini nel suo appello a Ingroia – non deve essere messa a disposizione di una sola parte politica, ma di tutte quelle forze sane, da qualunque parte stiano, che volessero davvero intraprendere un percorso rivoluzionario». Aggiunge Santini: «Non ho bisogno di ricordarti che il tuo maestro Paolo Borsellino avesse simpatie politiche di destra, ma egli fu prima di tutto un autentico uomo dello Stato nel senso più alto del termine, un servitore del popolo, di tutto il popolo». E dunque: «Anche se non indossi più la toga, Antonio, sei ancora un uomo del vero Stato, non rinchiuderti negli spazi della sinistra ma poniti al servizio di un progetto il più largo possibile».Quanto al nuovo leader della Lega Nord, è impossibile non riconoscergli una vocazione trasversale, adatta ai tempi d’emergenza che viviamo: «A volte i percorsi politici compiono traiettorie imprevedibili», gli scrive Santini. «Non avrei mai pensato di dirlo, ma sei il politico che ho seguito con più attenzione in questo ultimo periodo. Ho davvero apprezzato un paio di posizioni che tu e il tuo movimento avete assunto. La prima, pressoché solitaria per nettezza nel panorama asfittico italiano, sul tema della pace in Europa, ovvero del colpo di stato in Ucraina, della guerra civile e dell’“aggressione occidentale” alla Russia. La seconda è la raccolta firme per cancellare, tramite referendum, la cosiddetta riforma Fornero». Santini mette tra parentesi il tema controverso della lotta all’immigrazione e quello, ancora più scomodo, della crociata contro l’euro. Metafora: «Un uomo (l’Italia) si trova alla deriva su una nave (l’euro) in mezzo all’oceano (il sistema finanziario globalizzato). La nave imbarca acqua pericolosamente, una tempesta minacciosa si avvicina, l’uomo per salvarsi si butta in mare ma si trova pur sempre in mezzo all’oceano e con tempeste minacciose che incombono su di lui».Nella sua sacrosanta battaglia sovranista per ripudiare l’euro, infatti, la Lega rivela una visione fondata sul mercantilismo: vede la rottamazione dell’euro come volano per rilanciare l’export, ma trascura l’enorme potenzialità della moneta sovrana per inaugurare una politica neo-keynesiana fondata sull’investimento pubblico vocato alla piena occupazione. Ad esempio, il programma della Mmt messo a punto da Warren Mosler e Paolo Barnard prevede il taglio del debito non-sovrano e la fine dei titoli di Stato: una rivoluzione democratica, al centro della quale l’istituzione pubblica ridiventa il massimo garante del benessere della cittadinanza, neutralizzando la speculazione finanziaria privata proprio grazie alla libera emissione di moneta, orientata al sostegno della riconversione sociale ed ecologica dell’economia. La Lega di Salvini preferisce annunciare una “rivoluzione fiscale” tranciante, con un’aliquota fissa al 15%, uguale per tutti. Proposta che, per Santini, «coglie un nesso fondamentale: la riduzione delle tasse non può che nascere da uno storico patto fiscale tra istituzioni e popolo», ma in ogni caso «non può essere disgiunta da una rigorosa equità contributiva e sociale, ovvero da una ampia “legalità democratica”».Sfide in ogni caso radicali, quelle impostate da Salvini: l’unico, oggi in Italia, a dichiarare guerra all’establishment tecnocratico che da Bruxelles tiene al guinzaglio il paese, condannandolo all’asfissia. Santini lo riconosce, ma interroga il leader della Lega sul percorso politico da adottare: «Ti chiedo, caro Salvini, al di là della ricerca elettoralistica del consenso, con chi ritieni di poter affrontare queste battaglie epocali? Con il centrodestra? Vuoi fare una rivoluzione di sistema con Berlusconi? Con i Gasparri e le Santanché? Soprattutto con tutto il carrozzone delle cricche affaristico-mafiose su cui quegli ambienti prosperano?». Conclusione: «Se ritieni davvero di determinare una qualche sorta di egemonia culturale su quell’area, ti faccio i migliori auguri. Ti auguro sinceramente di non fare la fine di Bossi». Salvini – alleato di Marine Le Pen contro la gestione autoritaria dell’Ue e solidale con Putin rispetto all’aggressività della Nato – è il politico italiano che oggi si presenta disponibile a scelte di rottura. Santini gli dedica un tweet: «#Salvini, rompi con B. o cadi».Cari Grillo, Ingroia e Salvini: se avete tempo per leggere tre brevi messaggi “tweet”, eccoveli. Grillo: grazie per tutto quello che hai fatto, ma ora il Movimento 5 Stelle proceda con le sue forze. Ingroia: il tuo riferimento sia Paolo Borsellino, non la “sinistra”. Salvini: archivia il Cavaliere, o fallirai anche tu. Firmato: Simone Santini, già coordinatore di “Alternativa”, laboratorio politico-culturale fondato da Giulietto Chiesa. Un triplice appello, sotto forma di tre brevi lettere aperte, pubblicate da “Megachip”. Santini ben rappresenta l’elettorato italiano sfinito dalle vane contorsioni della politica, presa al laccio dalla Troika del rigore neoliberista che impone il taglio selvaggio del benessere diffuso e la dittatura del “mercato”, cioè dell’oligarchia finanziaria dei “padroni dell’universo”. Nell’Italia che sprofonda nella catastrofe socio-economica, proprio Grillo, Ingroia e Salvini hanno tentato di arginare l’oceano dell’astensionismo, ma senza finora mettere in campo un’alternativa praticabile: Grillo auto-sabotato dalla sua stessa autocrazia, Ingroia usato come paravento presentabile tra le macerie dell’ex “sinistra arcobaleno”. Salvini? Messo in pericolo, oggi, dall’alleanza col vecchio centrodestra.
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De Luna: un deserto senza politica a sinistra di Matteo
Il conflitto tra il governo e la Cgil spalanca intere praterie a sinistra del Pd. E’ la conseguenza della scelta di Renzi di puntare sul partito pigliatutto, spostandosi verso il centro, inglobando gli uomini di Alfano ed esercitando una fortissima attrazione verso Forza Italia. Di fatto, il partito a vocazione maggioritaria tende a svuotare di senso il bipolarismo su cui si è fondata la Seconda Repubblica, dilatando gli spazi del “grande centro”, ma favorendo anche una radicalizzazione delle ali estreme del sistema politico. A destra questo è puntualmente avvenuto con il ritorno in campo della Lega; un sussulto difficile da prevedere dopo gli scandali che avevano segnato il tramonto di Bossi. Il partito di Matteo Salvini sembra in grado di intercettare i consensi dei transfughi del centrodestra berlusconiano (e di una composita galassia di ex fascisti) rilanciando l’immagine conflittuale della Lega degli esordi (quando legò le sue fortune alla lotta contro i meridionali, contro il fisco, contro il centralismo statale) nel contesto di una crisi economica che, rispetto agli anni ‘80 del tumultuoso successo del movimento di Bossi, ha accentuato in maniera dirompente le tensioni e lo scontro sociale.A sinistra non è successo niente di tutto questo. Nel 1994 Rifondazione Comunista rappresentava circa il 10% dell’elettorato. Da allora in poi, mentre gli uomini dell’ex Pci intraprendevano la loro lunga marcia verso il centro, scandita dalle sigle Pds, Ds, Pd, quel 10% è andato sgretolandosi fino a configurarsi oggi come una costellazione di piccoli partiti rinchiusi nel ghetto di un’opposizione impotente. E’ il prezzo pagato a una sorta di coazione a ripetere che ha sempre portato a raccogliere le bandiere lasciate cadere dagli altri senza mai trovarne di diverse e spesso mutuando dagli altri le derive personalistiche, la frammentazione in correnti, un modo narcisistico e autoriferito di far politica. Per anni è sembrato che il problema fosse quello di trovare una leadership autorevole. Le esperienze in questo senso, da Bertinotti a Vendola, sono sempre naufragate; il loro tentativo non è andato oltre la soglia di una “narrazione” seduttiva, ma incapace di incidere sulla realtà.C’è stata poi la stagione disastrosa dei leader chiesti in prestito alla magistratura: il flirt con Di Pietro, l’abbraccio a De Magistris, gli entusiasmi per Ingroia. Ora tocca a Landini, alla Fiom e al sindacato con un trasporto che ricorda quello per Cofferati e per i tre milioni di manifestanti che affollarono Piazza San Giovanni. Ma ha un senso guardare alla magistratura e al sindacato come ad ambiti in cui si forma oggi una leadership politica? Il sindacato degli anni ‘70 fu quello che allargò la sua sfera di intervento dalla tutela del salario alla contrattazione complessiva di tutte le condizioni del lavoro, estendendo il suo raggio d’azione fino a interagire con il governo sulla scuola, la sanità, i trasporti, la casa. In quegli stessi anni la magistratura, finalmente, spezzò la continuità che aveva legato i suoi apparati ai codici del fascismo, aprendosi all’applicazione della Costituzione e ampliando gli spazi della nostra democrazia.Quel sindacato fu sconfitto nel 1985, con il referendum sulla scala mobile, perdendo da allora in poi rappresentanza e rappresentatività; e la magistratura in questi anni è stata chiamata ad esercitare un ruolo di supplenza nei confronti di una classe politica inadeguata, fino ad assumere un ruolo improprio, con uno straripamento che ha funzionato come un vero e proprio boomerang per la sua credibilità. In questa coazione a ripetere è come se la fine del Novecento abbia provocato un lutto mai elaborato. Il Pd ha semplicemente rimosso quel passato. L’altra sinistra in quel passato è rimasta invischiata, limitandosi a contemplare attonita le macerie dei pilastri (Stato, Partito, Lavoro, tutti con la maiuscola) su cui si era fondata la sua tradizione novecentesca e incapace di trovare alternative alla dissoluzione di quella forma partito. Così, in attesa che si sviluppino le potenzialità intraviste nell’esperienza della lista Tsipras, si prospetta l’eventualità del vecchio gioco delle scissioni e delle fusioni, in un orizzonte che oggi guarda a Civati, domani a Bersani e poi ancora, forse, a D’Alema. Non un presagio rassicurante per il futuro.(Giovanni De Luna, “Un deserto a sinistra di Matteo”, da “La Stampa” del 25 ottobre 2014).Il conflitto tra il governo e la Cgil spalanca intere praterie a sinistra del Pd. E’ la conseguenza della scelta di Renzi di puntare sul partito pigliatutto, spostandosi verso il centro, inglobando gli uomini di Alfano ed esercitando una fortissima attrazione verso Forza Italia. Di fatto, il partito a vocazione maggioritaria tende a svuotare di senso il bipolarismo su cui si è fondata la Seconda Repubblica, dilatando gli spazi del “grande centro”, ma favorendo anche una radicalizzazione delle ali estreme del sistema politico. A destra questo è puntualmente avvenuto con il ritorno in campo della Lega; un sussulto difficile da prevedere dopo gli scandali che avevano segnato il tramonto di Bossi. Il partito di Matteo Salvini sembra in grado di intercettare i consensi dei transfughi del centrodestra berlusconiano (e di una composita galassia di ex fascisti) rilanciando l’immagine conflittuale della Lega degli esordi (quando legò le sue fortune alla lotta contro i meridionali, contro il fisco, contro il centralismo statale) nel contesto di una crisi economica che, rispetto agli anni ‘80 del tumultuoso successo del movimento di Bossi, ha accentuato in maniera dirompente le tensioni e lo scontro sociale.
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De Benedetti scarica Renzi, l’eroe di ieri è già un bidone
Scalfari non è tipo che scriva a caso e, quando usa le parole, le sceglie una per una e le combina affilandole al meglio. Domenica, la sua abituale articolessa di un ettaro si intitolava: “Quanto è bravo il premier, ma chi ripara gli errori che sta facendo?”. Che è un bel “buongiorno!”. Il pezzo si apre con una interminabile disquisizione sulla modernità che parte da Montaigne ed arriva a Nietzsche, per poi planare su Walter Veltroni. Come dire, dall’Imperatore Tiberio e Leonardo da Vinci al pizzicagnolo sotto casa. Ma fin qui, nulla di importante. Il meglio viene dopo, quando Scalfari, intinto il pennino nel cianuro, viene «al nostro vissuto di questi ultimi giorni». Anche qui una lunga introduzione sulle sorti del sogno europeo, per poi iniziare a parlare dell’occasione che hanno gli italiani di avere un leader «di notevole capacità, che è riuscito nel giro di pochi mesi a trasformare in forza le sue qualità e i suoi difetti». Quel che sembra mettere il vento in poppa all’Italia, cosa che però è vera solo in parte.«La sola vera conseguenza è il suo rafforzamento personale a discapito della democrazia, la cui fragilità sta sfiorando il culmine, senza che il cosiddetto popolo sovrano ne abbia alcuna percezione». Come dire che gli concede una caramella per poi rifilargli una frustata sulle costole. Poi parla delle «esibizioni» di Renzi a Ypres e di Bruxelles, di «dazione» degli 80 euro che non ha funzionato, perché i consumi sono fermi (parola scelta con rara perfidia: “dazione” è il termine che Di Pietro usò nel suo celebre saggio per parlare della corruzione, e qui sembra che Scalfari voglia dire che si è trattato di una mancia elettorale, un modo per comprarsi i voti). Infine viene al dunque: Renzi vuole fare i comodi suoi per mandare la Mogherini a fare l’alto rappresentante della politica estera europea, carica che non conta assolutamente nulla, perché vuole fare i fatti suoi all’interno del partito, e in nome di questo fa un danno incalcolabile bocciando Letta ad un incarico ben altrimenti importante.Poi, gli dice che non capisce nulla di Europa, che non è vero che ha ottenuto lo spostamento del pareggio di bilancio al 2016, perché di fatto deve farlo al 2015 e che deve prepararsi ad una finanziaria di fuoco e che della riforma elettorale e di quella del Senato, all’Europa ed agli italiani non frega assolutamente nulla. Pesante direi, vi pare? Due giorni prima è uscito l’“Espresso” con la copertina che dice: “5 miliardi di tasse in più. Renzi aveva promesso di abbassare la pressione fiscale, ma ora le famiglie dovranno fare i conti con imposte sulla casa molto più alte che in passato. Vanificando così il bonus di 80 euro”. Direi che non c’è bisogno di commenti. Nel numero non c’è un pezzo che riprenda la cover, ma ce n’è un altro acidissimo dedicato alle “quote rosa” del piano di Renzi: Mogherini in Europa, Pinotti al Colle, ecc, ma solo per fare un po’ di raccolta consensi e liberare qualche poltrona, per i giochi interni. Infine sia “La Repubblica” che l’“Huffinghton Post” presentano le imprese europee di Renzi come un mezzo fiasco.Insomma, tutte le cannoniere della flotta De Benedetti sparano ad alzo zero sul vascello renziano. Come mai? Che si siano improvvisamente accorti che Renzi non è l’astuto stratega di cui parlavano solo un mese fa, ma solo un autentico bidone, che vuol mandare la Mogherini in Europa? Per una volta ci sembra che la scelta di Renzi sia felice, perché la carica di Alto rappresentante ecc ecc non conta assolutamente nulla, la Mogherini è come se non esistesse: sono fatti l’una per l’altra. E allora perché tanto e così repentino astio? Una prima ragione è quella che dice esplicitamente Scalfari: Letta. Probabilmente il giullare di Firenze sottovaluta troppo il suo predecessore, che ha amici molto potenti che già hanno mal digerito il suo siluramento a Palazzo Chigi. Poi il modo della sua esternazione («Letta? Nessuno ha fatto il suo nome») deve essere sembrato a lorsignori un insopportabile effetto di rincaro. «Fassina chi?» lo può dire, appunto, a Fassina, ma quando tocca un membro della nobile schiatta dei Letta, vicepresidente dell’Aspen Italia, certe cose non se le deve permettere. E questo stile un po’ tanghero comincia a dare sui nervi a molti.In secondo luogo, si sa che il tamarro di Firenze vuole spedire la Mogherini in Europa per fare un rimpasto di governo che azzeri la presenza di montiani e alfaniani, in modo da liberare sedie per operazioni interne di partito. Solo che, in questo gioco, non tiene presente che montiani e alfaniani sono un pezzo importante del “partito del Colle” e Napolitano ha fatto capire che la cosa non gli va. Il Presidente sa si essere avviato sulla via dell’uscita, ma vuole pilotare la successione, magari a favore di un suo candidato o, quantomeno, per bloccare la strada a quelli più sgraditi. Gli oltre 150 voti di montiani, casiniani e alfaniani sono un pacchetto troppo importante, che va ad aggiungersi agli alleati lettiani, ai senatori a vita e ai pochi fedelissimi nel Pd. Un blocco che sfiora i 200 voti, che può fare la differenza in un Parlamento-spezzatino come quello attuale. Ma nel frattempo occorre tutelare questi amici; per cui niente rimpasto, che Renzi se lo metta bene in testa.Poi la riforma del Senato sta andando in modo diverso da quello auspicato da Scalfari, che vorrebbe un bel Senato «dei talenti e delle competenze» di nomina regia: docenti universitari, finanzieri, alti burocrati, “tecnici” e specialisti vari. Insomma, una cosa di mezzo fra una specie di “governo Monti” allargato e una commissione di saggi come quelle che il Presidente ama nominare. Qui, invece, si minaccia un Senato di sindaci e consiglieri comunali: gente poco fine. Quindi, questa riforma del Senato non interessa agli italiani. Sarebbe diverso se si trattasse del Senato dei talenti e delle competenze, cui gli italiani si appassionerebbero. Poi Renzi ha aperto agli insopportabili cinquestelle. Beninteso: magari non lo fa per simpatia verso di loro o per scrupolo democratico, ma per una sorta di aggiornamento della politica dei due forni di andreottiana memoria, ma non va affatto bene neanche così, perché l’uomo si sta troppo allargando, cercando di giocare a tutto campo (quell’accenno scalfariano al “suo rafforzamento personale a discapito della democrazia” parla molto chiaro).Insomma, il ragazzo poteva anche andare sino ad un certo punto, anche perché si è rivelato efficace nello sbarrare la strada ai barbari antisistema del M5S, ma ora deve stare al suo posto e occuparsi di flessibilità, che è la vera riforma che “l’Europa ci chiede”. E deve fare bene i compiti a casa. Magari ne ha trascurato qualcuno cui era particolarmente interessato l’ingegner De Benedetti. E non sta bene, torni più preparato la prossima volta. Insomma, mi pare che la luna di miele con i poteri forti stia finendo. Accade a volte che dalla primavera si passi all’autunno di colpo, saltando l’estate. Neanche le stagioni sono più quelle di una volta, signora mia…(Aldo Giannuli, “Ma come mai Renzi è cascato antipatico a De Benedetti & C?”, dal blog di Giannuli del 30 giugno 2014).Scalfari non è tipo che scriva a caso e, quando usa le parole, le sceglie una per una e le combina affilandole al meglio. Domenica, la sua abituale articolessa di un ettaro si intitolava: “Quanto è bravo il premier, ma chi ripara gli errori che sta facendo?”. Che è un bel “buongiorno!”. Il pezzo si apre con una interminabile disquisizione sulla modernità che parte da Montaigne ed arriva a Nietzsche, per poi planare su Walter Veltroni. Come dire, dall’Imperatore Tiberio e Leonardo da Vinci al pizzicagnolo sotto casa. Ma fin qui, nulla di importante. Il meglio viene dopo, quando Scalfari, intinto il pennino nel cianuro, viene «al nostro vissuto di questi ultimi giorni». Anche qui una lunga introduzione sulle sorti del sogno europeo, per poi iniziare a parlare dell’occasione che hanno gli italiani di avere un leader «di notevole capacità, che è riuscito nel giro di pochi mesi a trasformare in forza le sue qualità e i suoi difetti». Quel che sembra mettere il vento in poppa all’Italia, cosa che però è vera solo in parte.
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Expo-ladri di partito, poi si lamentano se vince Grillo
Ma come, c’è l’Expo e non rubano? Niente paura: «Oggi sono più tranquillo, adesso i conti tornano: se c’è un appalto c’è una tangente, è tutto perfettamente simmetrico». Soprattutto, per Aldo Giannuli, «consola vedere certi nomi ancora su pista: Greganti, Frigerio». Lo scandalo Expo? «E’ solo all’inizio, vedrete che altro verrà fuori. Ma già si profila uno scenario impressionante». Mani Pulite? Non è servita a niente, o quasi: «I sistemi sono quelli di sempre, l’architettura di potere è la stessa, persino gli uomini sono gli stessi, passati come salamandre attraverso il fuoco di inchieste e condanne. Poi, la cosa è tanto più marcia ove si consideri il fiume di soldi di finanziamento pubblico che i partiti hanno preso in questi anni. Cifre da sei a otto volte superiori a quelle del tempo di Mani Pulite, erogate proprio in nome della lotta alla corruzione, per mettere i partiti in condizione di fare politica senza fare imbrogli: ecco i risultati».Stavolta è peggio, dice Giannuli nel suo blog, perché la storia si intreccia con lo scontro tutto milanese tra il procuratore Edmondo Bruti Liberati e il suo vice Alfredo Robledo. Per di più, «lo scandalo avviene su un palcoscenico che assicura la massima risonanza internazionale». E tutto questo, non negli anni della “Milano da bere”, quando l’Italia (della lira sovrana) «ruggiva dalla posizione di quinta potenza industriale del mondo». Il nuovo bubbone scoppia «nel momento di massima decadenza, di una Italia scivolata all’ottavo posto e con prospettive di uscire a breve dalla “top ten” dell’economia mondiale in pochissimi anni», grazie al regime recessivo imposto dai signori dell’Eurozona, quelli dell’austerity miracolosa. In attesa di accertare le eventuali responsabilità penali degli indagati, Giannuli registra che – in vent’anni, dopo Tangentopoli – non è stato fatto assolutamente nulla per contrastare la piaga della corruzione, del legame politica-affari. Pd e centrodestra assolutamente solidali: poi si lamentano dei voti a Grillo.Greganti e Frigerio sarebbero stati essenzialmente dei mediatori fra aziende e centro decisionale di spesa? Va bene, «ma chi rappresentavano?». Cioè: «Da dove veniva la loro forza di condizionamento delle scelte? Non ci vuole molta fantasia per capirlo». Quando venne arrestato nel 1993, ricorda Giannuli, Greganti si assunse tutta la responsabilità della tangente contestatagli, salvando il suo partito, il Pci-Pds. Poi, quando Di Pietro per l’ennesima volta gli negò la libertà provvisoria dicendogli che sarebbe rimasto dentro sino a quando non avesse parlato, il “Compagno G” rispose: «Dottore, nella Pasqua del Sessantotto venni inviato dal mio partito in Grecia, per una missione di appoggio alla resistenza greca. Venni individuato dalla polizia dei Colonnelli, arrestato e torturato perché rivelassi i miei contatti greci. E non parlai».Come dire che un uomo così «non fa certe cose per lucro personale». Al contrario, «è un professionista che sa quali sono i rischi e li accetta». E, forse, «lo fa anche per profonda adesione ideale: dunque, deve avere un committente». Quindi, «mi volete dire per chi sta lavorando ora?». Domande inevitabili: il Pd non c’entra nulla? «Siamo sicuri che il mondo delle cooperative non c’entri nulla?». Quanto a Forza Italia, lo scivolone di Milano «rischia di essere la pietra tombale sulle speranze di riscossa e l’avvio di una frana irrimediabile», tanto più che va a coincidere con l’arresto di Scajola dopo quello di Dell’Utri: «Tutte le strade portano a Beirut, piove sul bagnato». Certo, conclude Giannuli, «Grillo ha una fortuna sfrontata: l’anno scorso lo scandalo Mps a tre settimane dal voto. E oggi, sempre a tre settimane dal voto, questo scandalo che mette insieme i suoi due maggiori concorrenti».Ma come, c’è l’Expo e non rubano? Niente paura: «Oggi sono più tranquillo, adesso i conti tornano: se c’è un appalto c’è una tangente, è tutto perfettamente simmetrico». Soprattutto, per Aldo Giannuli, «consola vedere certi nomi ancora su pista: Greganti, Frigerio». Lo scandalo Expo? «E’ solo all’inizio, vedrete che altro verrà fuori. Ma già si profila uno scenario impressionante». Mani Pulite? Non è servita a niente, o quasi: «I sistemi sono quelli di sempre, l’architettura di potere è la stessa, persino gli uomini sono gli stessi, passati come salamandre attraverso il fuoco di inchieste e condanne. Poi, la cosa è tanto più marcia ove si consideri il fiume di soldi di finanziamento pubblico che i partiti hanno preso in questi anni. Cifre da sei a otto volte superiori a quelle del tempo di Mani Pulite, erogate proprio in nome della lotta alla corruzione, per mettere i partiti in condizione di fare politica senza fare imbrogli: ecco i risultati».
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Stragi e segreti, Renzi e lo strano amico americano
Mentre il premier Matteo Renzi lancia l’ennesimo annuncio spot (via il segreto di Stato dai dossier sulle stragi), Paolo Guzzanti precisa: in Italia non c’è nessun “segreto di Stato”, ma solo i faldoni dei servizi già visionati dagli inquirenti e rimasti protetti dal vincolo di segretezza («per desecretare quelli ci vorranno almeno tre anni – dice Guzzanti – perché occorreranno apposite leggi»). Nessun “segreto”, in ogni caso, da portare per la prima volta alla luce. In compenso, “Il Giornale” mette a fuoco lo strano “amico americano” di Renzi, Michael Ledeen, definito «un nome sorprendente e inquietante, certamente non “nuovo”», che Massimo Malpica inserisce nel “cerchio magico” del neo-premier, in qualità di consulente per la politica estera. Oggi esponente dell’influente think-tank neocon “American Enterprise Institute”, già collaboratore delle amministrazioni Reagan e Bush, il 72enne Ledeen sarebbe legato a filo doppio all’Italia dei misteri: dal sequestro Moro al rapimento del generale Dozier, dalla strage di Bologna alla crisi di Sigonella, dall’attentato al Papa al “Nigergate”.Nel lontano 1975, «mentre Renzi nasceva», in Italia Ledeen «ha esordito come intellettuale», in veste di autore delle domande della celebre “Intervista sul fascismo” di Renzo De Felice. Da lì in poi, scrive Malpica, il nome di Ledeen «è finito, di riffa o di raffa, in mezzo a gran parte dei misteri e dei gialli del Bel Paese». L’interessato «talvolta si è chiamato fuori, negando ruoli riferiti da altri, spesso a colpi di querele. Soprattutto, è sempre rimasto in piedi. Tanto in piedi che ora il suo nome viene accostato al nuovo premier italiano». Il tramite, scrive il “Giornale”, sarebbe lo stratega economico della carriera politica di Renzi, Marco Carrai, ma i rapporti risalirebbero al 2007, quando il super-falco della destra Usa dedicò un articolo allo chardonnay siciliano, raccontando di aver scoperto quel vino un paio d’anni prima, a pranzo «col mio amico Matteo Renzi».Un renziano della prima ora, Ledeen, i cui rapporti con politici e intelligence nostrani sono ben più datati. Nel 1984 l’allora capo del Sismi Fulvio Martini raccontò ai membri del Copaco di aver detto all’ambasciatore americano a Roma, Maxwell Raab, che Ledeen «non deve più tornare in Italia», dandogli di fatto dell’«indesiderabile». Ledeen annunciò querele contro lo 007. Martini confermerà tutto 15 anni dopo, di fronte alla commissione Stragi: «Avevo chiesto all’ambasciata americana di non far entrare Mike Ledeen in Italia: era un tizio che lavorava ai margini della Cia». E perché Ledeen non era gradito? Ancora Martini: «Intanto quando Ledeen veniva in Italia andava direttamente dal presidente della Repubblica, che aveva conosciuto quando era ministro dell’interno. E la cosa non mi piaceva. Secondo, perché Ledeen aveva avuto da uno dei miei predecessori 100mila dollari per fare conferenze sul terrorismo, che erano assolutamente rubati. E poi lavorava a margine della Cia, e la cosa non mi piaceva».Il presidente “amico” era Francesco Cossiga, che per la verità al Colle sarebbe arrivato solo nel 1985, un anno dopo lo “sgradimento” di Ledeen espresso da Martini. Ma durante il sequestro Moro, secondo il consulente di Cossiga nei giorni del rapimento, Stefano Silvestri, Ledeen, definito «un pataccaro d’alto bordo», propose «a Cossiga e ai servizi» di «effettuare simulazioni, usando materiali preparati dall’esperto di terrorismo Walter Laqueur». «Detti parere negativo – spiega Silvestri – ma seppi in seguito che era riuscito a piazzare qualcuno dei suoi giochi». Forse, aggiunge il “Giornale”, si trattava dei corsi antiterrorismo organizzati per la nostra intelligence tra ‘80 e ‘81, per i quali Ledeen sostiene di non essere mai stato pagato. «Secondo il faccendiere Francesco Pazienza – continua Malpica – Ledeen più che un consulente era organico al Sismi guidato da Giuseppe Santovito, e il suo nome in codice sarebbe stato “Z3”, un dettaglio che l’interessato nega».Di certo il neocon che ora sussurra consigli a Matteo (al “Sole 24 Ore”, Ledeen ha spiegato che a Renzi parla «delle cose che forse mi illudo di conoscere, Medio Oriente, Russia, chi sale e chi scende nella politica Usa»), negli anni ‘80 era in buoni rapporti anche con Craxi. La notte della crisi di Sigonella, ricorda il “Giornale”, fu proprio lui a fare da interprete («manipolando qualche risposta, confesserà lui stesso nel 1994») al telefono tra Reagan alla Casa Bianca e il premier socialista all’Hotel Raphael, mentre i terroristi della Achille Lauro erano contesi tra Delta Force e carabinieri. Amicizia, quella con Bettino, che non impedirà a Ledeen di invitare negli Usa, nel 1995, proprio Antonio Di Pietro, per tenere un discorso all’“American Enterprise Institute”: «Venne a cena da me», confermò Ledeen al “Corriere della Sera” nel 2010.A metà anni 2000, Mike Ledeen è di nuovo nella bufera per il Nigergate: secondo i giornalisti Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo, della “Repubblica”, l’intelligence militare italiana avrebbe consegnato alla Cia falsi documenti per “dimostrare” l’importazione di uranio dal Niger da parte dell’Iraq di Saddam Hussein. Documenti che sarebbero stati utilizzati dal presidente George W. Bush come prova dei tentativi del dittatore iracheno di procurarsi armamenti nucleari, causa scatenante la seconda Guerra del Golfo. Michael Ledeen ha negato di avere avuto un ruolo nell’operazione. A sua volta, l’allora presidente del Copaco, Enzo Bianco, negò l’esistenza di rapporti dei servizi italiani con il politologo americano, anche se a proposito dei suoi rapporti con politici italiani aggiunse: «Se fossi ministro, non lo inviterei a pranzo». Conclude Malpica: «Renzi, già da presidente della Provincia di Firenze, non ha seguito il consiglio».Mentre il premier Matteo Renzi lancia l’ennesimo annuncio spot (via il segreto di Stato dai dossier sulle stragi), Paolo Guzzanti precisa: in Italia non c’è nessun “segreto di Stato”, ma solo i faldoni dei servizi già visionati dagli inquirenti e rimasti protetti dal vincolo di segretezza («per desecretare quelli ci vorranno almeno tre anni – dice Guzzanti – perché occorreranno apposite leggi»). Nessun “segreto”, in ogni caso, da portare per la prima volta alla luce. In compenso, “Il Giornale” mette a fuoco lo strano “amico americano” di Renzi, Michael Ledeen, definito «un nome sorprendente e inquietante, certamente non “nuovo”», che Massimo Malpica inserisce nel “cerchio magico” del neo-premier, in qualità di consulente per la politica estera. Oggi esponente dell’influente think-tank neocon “American Enterprise Institute”, già collaboratore delle amministrazioni Reagan e Bush, il 72enne Ledeen sarebbe legato a filo doppio all’Italia dei misteri: dal sequestro Moro al rapimento del generale Dozier, dalla strage di Bologna alla crisi di Sigonella, dall’attentato al Papa al “Nigergate”.
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Dietro alle “lacrime napolitane”, i boss del vero potere
Il governo Letta è andato a gambe all’aria. L’annuncio, con le dimissioni dei ministri Pdl, è arrivato un sabato di settembre e subito è partito il coro greco degli italiani, abituati al pianto a comando. Un governo sciapo, inconsistente, immobile. Perché piangere? Guardi Letta, imbronciato come un bimbo cui sia stato rotto il trenino e pensi, quest’uomo conosce la coerenza? Il 24 giugno 2012, intervistato da Arturo Celletti di “Avvenire”, s’era scagliato contro Berlusconi e Di Pietro parlandone come di «un male per l’Italia» e, della crisi, come «ossigeno per le forze antisistema», tanto da augurarsi un «grande progetto per il paese» sotto forma di «offerta politica capace di attrarre e convincere: noi, Casini e Vendola. Funzionerebbe. Avrebbe appeal europeo. Avrebbe forza». Sappiamo com’è andata a finire. E ancora, il 26 giugno, intervistato da Teresa Bartoli del quotidiano “Il Mattino” di Napoli, eccitato dall’idea di un patto per arginare il populismo incarnato da Berlusconi, Di Pietro e Grillo: «La questione chiave è l’esclusione del populismo.
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Mafia, misteri e affari: quelle strane amnesie sulla val Susa
Prendersela coi giornalisti italiani non è cosa di cui si possa andare fieri: prima di tutto perché è come sparare sulla croce rossa, poi perché si è in (assai) cattiva compagnia: da Cicchitto a Bondi alla Santanché ma passando per D’Alema che lo fanno un giorno sì e uno anche, tranne che nei confronti dei loro “biografi quotidiani” profumatamente pagati tramite finanziamento pubblico. Del resto non è colpa mia se in Italia non esistono gli “editori puri”, tranne poche lodevoli e circoscritte situazioni. Né posso farmi carico del percorso che ha portato ad approdi generalmente più confortevoli anche la maggior parte di coloro che nei primi anni aspiravano a dare attraverso il giornalismo il proprio personale contributo alla rivoluzione – che evidentemente ritenevano imminente. Nel caso di questi ultimi, alla perdita dell’indipendenza di giudizio va aggiunta anche una ulteriore tara che appesantisce non poco le loro cronache: il doversi rapportare con persone che per caso o per determinazione sono rimaste per quanto possibile più coerenti verso le idee che un tempo li accomunavano: persone spesso conosciute o addirittura frequentate negli anni della meglio gioventù.
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Se gli Usa aiutassero Grillo a salvare il paese dei cialtroni
B. prometteva rivoluzione liberale, Stato di diritto, riforma della giustizia, efficientamento del paese, e ha mancato in tutto. Del resto, un paese pervaso storicamente da mentalità non liberali (marxismo, fascismo, cattolicesimo), come poteva divenire liberale? Vediamo che, invece, la partecipazione politica tende a scadere in forme di irrazionalità più rozze, cioè dall’ideologismo al tribalismo incentrato su capi carismatici e affiliazioni identitarie. Un paese storicamente assuefatto a che la legge sia usata dal potere, anche giudiziario, secondo la convenienza di chi ha il potere, ed elusa quando possibile da chi non lo ha, come potrebbe divenire legalitario in virtù di qualche riforma? Un paese storicamente abituato a un potere che si compera il consenso col clientelismo nella spesa pubblica e nel pubblico impiego, come potrebbe divenire efficiente in qualche anno e per azione di forze interne ad esso?
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Foa: la verità del web spiazza i media e gli spin doctor
Era il 2003 – esattamente dieci anni fa – e un grande libro, completamente ignorato dai media, raggiunse in pochi giorni la vetta delle classifiche, senza neppure una recensione sui giornali. “La guerra infinita”, di Giulietto Chiesa, “spiegava” per la prima volta quello che sarebbe successo da lì in poi, a partire dall’occupazione dell’Iraq col falso pretesto delle inesistenti armi nucleari di Saddam. La menzogna elevata a sistema, su scala mondiale, come vera e propria arma di distruzione di massa. Motivazioni elementari: il declino di un impero, messo alle corde dalla penuria energetica e dal boom demografico del pianeta, ma con ancora un vantaggio formidabile: la supremazia tecnologico-militare. Uso della forza reso accettabile soltanto dall’arma vera: la manipolazione sistematica della verità. In un post visitatissimo su “Byoblu”, Marcello Foa denuncia il ruolo-chiave degli spin doctor nel condizionare il sistema dei media, e cita il caso-Grillo: finalmente, un fenomeno di massa che esplode, nonostante la congiura del silenzio organizzata da giornali e televisioni.
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Padoa Schioppa: servono riforme che vi facciano soffrire
«I giovani italiani sono bamboccioni», «le tasse sono bellissime». Queste amenità, pronunciate durante il secondo governo Prodi, di cui Tommaso Padoa Schioppa era ministro dell’economia, sono probabilmente l’unico lascito alla memoria collettiva di uno degli ideatori della moneta unica. Oltre a questo, poco rimane; qualche convegno alla memoria tra economisti iniziati, e l’impressione che il personaggio fosse una brava persona colpita da un’avversa sorte (è morto all’improvviso alla fine del 2010). Eppure, scrive Claudio Martini su “Mainstream”, Padoa Schioppa era ben altro. Era l’uomo che, nel 2003, sul “Corriere della Sera” scriveva: «Non restavano che le riforme strutturali, eterno ritornello di quelle che Luigi Einaudi chiamava le sue prediche inutili: lasciar funzionare le leggi del mercato, limitando l’intervento pubblico a quanto strettamente richiesto dal loro funzionamento e dalla pubblica compassione».
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Revelli: partiti al tramonto, è finita la politica del ‘900
I tedeschi, che la filosofia della storia l’hanno inventata, le chiamano “epoche assiali”: un tempo in cui il mondo ruota sul suo asse, e ogni cosa si rovescia. «E noi ci siamo dentro fino al collo: basta dare un’occhiata a Roma, mai come oggi caput mundi nel simbolismo del vuoto che ostenta», dice Marco Revelli. «Vuoto tutto. Vuoto il Sacro Soglio, con un papa arreso al disordine spirituale del mondo e al disordine morale della curia romana. Vuoto il Parlamento, capace forse di rappresentare il mosaico infranto della nostra società ma impossibilitato comunque a produrre uno straccio di sintesi. Vuoto, tra poco, il Colle dove è vissuto l’ultimo Sovrano tentato di governare lo stato d’eccezione permanente in cui siamo caduti. Vuota persino la poltrona del capo della polizia».